Due indiani si giocano l` Ilva a dadi e il governo si gira dall` altra parte

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Due indiani si giocano l` Ilva a dadi e il governo si gira dall` altra parte
22/02/2017
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Due indiani si giocano l' Ilva a dadi e il governo si gira dall'
altra parte
GIORGIO MELETTI
Forse un giorno, con il senno di poi, ci
diranno che la vendita dell' Ilva di
Taranto è stata fatta a capocchia.
Magari gli stessi che la stanno facendo,
come
nel
caso
osceno
della
privatizzazione di Telecom Italia. Ma
oggi lo stesso governo che si dispera per
Mediaset "azienda strategica" lascia che
il maggior stabilimento siderurgico
venga messo all' asta dai tre commissari
governativi
Piero
Gnudi,
Corrado
Carrubba ed Enrico Laghi, e che se lo
giochino in una partita a dadi due
signori indiani, Lakshmi Mittal e Sajjan
Jindal, che il premier Paolo Gentiloni
non ha mai visto in faccia. Vendono l'
Ilva come una pizzeria. Mittal e Jindal
hanno due idee opposte sul futuro del
centro siderugico di Taranto. I dettagli
dei loro piani il governo non li sa: li
stanno infilando nelle buste sigillate che
dovranno consegnare entro il 3 marzo ai
commissari. Da qualche giorno però i
due gruppi stanno facendo campagna elettorale a mezzo stampa, raccontando le
meraviglie del proprio progetto e ridicolizzando quello avversario. Chi ha ragione?
Non si sa. Vincenzo Boccia, presidente della Confindustria, cioè dell' associazione
dei clienti dell' Ilva, si è dichiarato "equidistante". Il governo non ritiene di
occuparsi del problema. Ci penserà Piero Gnudi, il commercialista della ex ministra
Federica Guidi che lo nominò. A futura memoria facciamo un breve elenco delle
scelte decisive che il governo ha delegato al disciplinare di gara e agli
aggiudicatori, come se fosse all' asta un quadro di Van Gogh. Le due cordate in
corsa sono molto diverse. La Am Investco Italy è formata dal gigante europeo
ArcelorMittal (85 per cento) e dall' italiana Marcegaglia (15 per cento).
ArcelorMittal, di cui il magnate indiano è primo azionista, è il leader mondiale con
97 milioni di tonnellate di acciaio prodotto. È nato dieci anni fa dalla fusione del
colosso francese Arcelor con pezzi pregiati delle siderurgie belga e spagnola.
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AcciaItalia vede in campo Jindal, produttore attivo solo in India che sforna ogni
anno 18 milioni di tonnellate, con l' italiano Giovanni Arvedi e due partner che con
l' acciaio non c' entrano niente: la Delfin, cassaforte personale del re degli occhiali
Leonardo Del Vecchio, e la Cassa Depositi e Prestiti, cioè il governo italiano, che
partecipa a un' asta indetta dal governo italiano e magari la perde. A meno che l'
esito non sia già deciso, ma sarebbe illegale. La tecnologia. Jindal vuole riportare la
produzione di Taranto dagli attuali 6 milioni di tonnellate ai 10-11 milioni originari
affiancando agli altoforni attualmente funzionanti nuovi forni alimentati dal
cosiddetto pre-ridotto, un semilavorato che consente di colare acciaio senza
bruciare il carbone ma utilizzando il gas. È la cosiddetta decarbonizzazione cara al
governatore della Puglia Michele Emiliano. Per ArcelorMittal questa tecnologia non
consente di ottenere prodotti di qualità sufficiente, soprattutto per il mercato di
fascia alta, quello dell' auto, fetta decisiva del business siderurgico in cui Taranto
un tempo primeggiava. Anche il presidente della Federacciai Antonio Gozzi boccia i
piani di Jindal dicendo che si tratta di tecnologie ancora sperimentali. L'
imprenditore indiano replica che ArcelorMittal teme la sua iniziativa perché
dimostrerebbe che si può fare l' acciaio pulito e metterebbe in fuorigioco le
acciaierie tradizionali e inquinanti. Dunque dare Taranto a Jindal potrebbe essere
un' idea vincente o un errore irreparabile per il futuro dell' industria italiana. Chi
decide? Un commercialista e due avvocati. Il mercato. Negli ultimi dieci anni lo
sfruttamento degli impianti siderurgici europei è sceso dall' 89 al 72 per cento. Si
chiama sovraccapacità produttiva. Nell' estate 2012, quando l' Ilva è stata travolta
dalla magistratura, che ha colpito il recidivo inquinamento perpetrato per vent'
anni dalla famiglia Riva, i difensori dell' industria hanno accusato le "toghe rosse"
di fare il gioco dei concorrenti europei, che ne avrebbero approfittato per
ammazzare l' Ilva e togliere di mezzo quei 10 milioni di tonnellate di capacità
produttiva. ArcelorMittal è un concorrente dell' Ilva e ha già detto che a Taranto
non vuole aumentare la produzione di acciaio grezzo ma quella di prodotti finiti,
portando all' Ilva lingotti da laminare (in gergo bramme) dallo stabilimento di Fos,
vicino a Marsiglia, gemello e storico rivale di Taranto. Rosario Rappa, responsabile
nazionale dell' acciaio per la Fiom, ha accusato ArcelorMittal di voler comprare l'
Ilva per chiuderla. L' Italia rimarrebbe senza acciaio, dovrebbe importarlo tutto. Gli
uomini di Mittal hanno replicato stizziti che l' ipotesi è "priva di fondamento", e che
solo loro hanno la capacità di rilanciare Taranto, integrandola in un grande gruppo
mondiale. Jindal non ha mai messo il naso fuori dall' India, dicono, e l' Ilva isolata in
un mercato rabbiosamente competitivo rimarrebbe schiacciata. La morale è
semplice. L' Italia deve prendere una decisione difficile e dalle conseguenze
importantissime per il futuro della sua industria, oltre che per gli 11 mila lavoratori
del centro siderurgico di Taranto. Ma nessuno si assume la responsabilità politica
di una scelta. Hanno saputo organizzare solo una lotteria gestita da un
commercialista e due avvocati.
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