Numero Speciale

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Numero Speciale
Bimestrale della Comunità Protetta Psichiatrica “Elio Zino”
Capo redattore: Alberto Cagna; Vice redattore e giornalista: Stefano Ventura
L'editoriale dott. Michele Vanetti
Il recente Piano Socio-Sanitario 2007/2010 della
nostra Regione – nella parte dedicata ai temi della
Salute Mentale – attribuisce un importante
significato ai "progetti di sostegno abitativo",
intesi come "adeguato supporto riabilitativo ed
assistenziale
alla
convivenza"
e
alla
socializzazione, di persone portatrici di malattie
mentali severe.
Nel precedente Piano, l'argomento assumeva la
dizione di "gruppo appartamento" dedicato a
persone nella fase conclusiva del proprio percorso
riabilitativo.
Quella dell'attuale Piano è una precisazione
importante nella scelta delle parole, poiché
focalizza meglio gli obiettivi del vivere in
"appartamento"; cioè, l'essere sostenuti a:
consolidare le abilità di base che consentano
un'esistenza personale e sociale; sperimentarsi
nella relazione di convivenza tra ospiti;
incrementare le possibilità di esperienze nella
realtà quotidiana, per qualcuno anche lavorativa.
E' sulla base di questo indirizzo, ritenuto
prioritario, che la Regione è intervenuta, nel 2008,
finanziando presso la Azienda Sanitaria Locale
di Novara la ristrutturazione dei nuclei abitativi
assistiti
proposti
in Colazza per il
Dipartimento Nord ed in Galliate per il
Dipartimento Sud.
Questo orientamento Regionale riveste una
fondamentale importanza per la realizzazione dei
percorsi curativi assistenziali verso i disturbi
severi.
La residenzialità protetta intensiva rappresenta,
infatti - secondo i criteri moderni della psichiatria
- un momento di passaggio solo temporaneo,
determinante per la stabilizzazione clinica del
paziente, per l'avvio e il consolidamento del
processo riabilitativo.
Occorre, però, che, alla conclusione del percorso
in comunità protetta, siano presenti altre
opportunità "sostenute" che consentano alla
persona lo sperimentarsi nella vita reale.
I progetti di sostegno abitativo rappresentano, in
tal senso, una soluzione importante e ricca di
potenzialità risocializzanti.
La rete degli alloggi assistiti presente in ogni
Dipartimento, sulla base di valutazioni
epidemiologiche, dovrà essere numericamente
consistente.
Per esempio: il numero di trenta/trentacinque posti
ospite previsti per il Dipartimento Nord, compresi
i nuclei di Colazza, appaiono, all' attuale, adeguati
per permettere il turnover dalla comunità di
Oleggio o l'inserimento diretto da parte dei Centri
di Salute Mentale di Arona e di Borgomanero.
Ma è preventivabile che, nei prossimi anni, detta
rete debba essere ampliata sempre con livelli di
sostegno differenziati.
Del resto, i progetti di sostegno abitativo
consentono alla persona, al di là degli aspetti
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sanitari, una dimensione di qualità di vita, una
possibilità di occasioni esistenziali, un essere nei
diritti di cittadinanza, che appaiono irrinunciabili.
A questo riguardo, trapela dall'attuale Piano
Socio-Sanitario la preoccupazione di un eccessivo
ricorso alla residenzialità protetta, intesa come
soluzione conclusiva per molte, forse troppe,
persone.
Quindi, la raccomandazione di evitare "scelte che
portino all'istituzionalizzazione" dei pazienti.
Da qui, inoltre, l'obiettivo posto alle Aziende
Sanitarie Locali circa il monitoraggio degli
ingressi/ dimissioni nelle comunità protette.
L'argomento della residenzialità protetta – tema
assai complesso – è attualmente oggetto di
riflessione presso la Regione per una sua possibile
riorganizzazione.
La complessità dell'argomento deriva da come si
voglia intendere la residenzialità protetta.
Occorre ricordare che il Progetto Obiettivo
Nazionale Tutela della Salute Mentale del 1994
prevedeva un tasso di 1 posto in residenzialità
protetta per 10.000 abitanti, portato poi a 2 nella
evenienza della chiusura degli ospedali
psichiatrici, nel biennio 1997/1998.
Sono tassi che potrebbero essere riconsiderati
stante il notevole passare degli anni; ma che,
peraltro, sono stati decisamente ed ampiamente
superati, in quasi tutte le Regioni.
Il che traduce , per molte persone, la realtà di una
ospitalità protetta per lunghissimi periodi, se non a
" vita". In una dimensione in cui le istanze
curative e riabilitative, la progettualità del "dopo",
cedono il passo ad un mero assistenzialismo senza
prospettive.
Che in questo si ravvisino aspetti di neoistituzionalizzazione, credo si possa concordare.
Certo, esistono pazienti che, per un sommarsi di
svariati motivi fortemente negativi nel corso
pluridecennale della malattia, propongono
disabilità psicosociali così gravi da abbisognare di
un supporto protetto residenziale per tempi molto
prolungati.
Ma si tratta di gruppi di pazienti numericamente
limitati; per i quali, tuttavia, caso per caso,
occorrerebbe, comunque, valutare la possibilità di
compatibili, diverse, soluzioni.
Viceversa, per la più parte delle persone, spesso
giovani o giovani adulti, portatrici di malattie
severe, se - nel loro percorso assistenziale - si
concretizza l'indicazione ad un soggiorno in
comunità protetta, deve essere estremamente
chiaro: al paziente stesso, ai suoi familiari, agli
operatori del dipartimento, che tale soggiorno ha
tempi limitati al raggiungimento degli obiettivi
curativi e riabilitativi concordati.
Solo così una comunità protetta soddisfa la
propria missione e lungi da essere un luogo di
neo-istituzionalizzazione, si propone come
fondamentale strumento per fronteggiare le
disabilità psicosociali e funzionali, che la malattia
inevitabilmente causa.
Una comunità deve accogliere ma anche dimettere
e il territorio deve farsi carico del proseguimento
del percorso del paziente con progetti
personalizzati assistiti e sostenuti.
E' la progettualità del "dopo" l'obiettivo
determinante: nella vita della reale quotidianità.
Quando si parla di "territorio", si parla anche delle
associazioni dei familiari e dei volontari.
Estremamente significative, al riguardo di questo
argomento, sono le iniziative assunte nel tempo da
ISPam di Borgomanero, con la organizzazione di
un nucleo di abitabilità sostenuta a Bolzano
Novarese e da Aiutapsiche di Arona nel lungo
percorso che ha portato al finanziamento
Regionale di Colazza.
Quest'ultima associazione ha provveduto, inoltre,
nell'attesa della disponibilità di Colazza, a
predisporre un nucleo assistito in Oleggio che ha
visto il 2 di febbraio l'inizio della ospitalità di
cinque persone che hanno concluso il loro
percorso intensivo presso la comunità protetta.
Si tratta, in queste iniziative, di una importante
condivisione, tra associazioni e dipartimento, di
un disegno comune il cui fine è quello, seguendo
le indicazioni attuali della Regione, di consentire
alla persona il possibile raggiungimento di una
capacità di esistenza, di esperienze relazionali nel
reale, di un reinserimento nel sociale.
Credo che non si possa che, davvero, ringraziare
le citate associazioni per l'importante contributo e
sostegno, che esse danno al dipartimento.
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Elementi per pensare il lavoro in comunità psichiatrica protetta
Dott. Bruno Ragni
La storia della malattia mentale è, da sempre,
caratterizzata da due aspetti specifici di
significato diverso.
Il primo è rappresentato dalla percezione della
follia come malattia assolutamente peculiare:
non esistente, come tutte le altre, in forma
oggettiva e descrivibile, bensì come forma
specifica di vita, assunta dal soggetto malato
nel contesto e in rapporto con la società e la
cultura in cui esso si trova inserito.
Nel secondo si denota che mentre i modelli
eziopatogenetici e i percorsi terapeutici di
tutte
le
forme
morbose
seguono
semplicemente la cultura medico-fisica del
tempo, nel caso della malattia mentale
coesistono due percorsi paralleli, ma ben
distinti.
Un percorso assimilabile a quello della
medicina generale di cui segue l'evoluzione;
un altro invece assai più sottile, ed è quello
che si fonda specificatamente sull'idea di
qualche differenza tra le malattie mentali e le
malattie di ogni altra specie, contraddistinto
da tre aspetti distinti, che sono:
A)la malattia mentale scaturisce da una
intersezione tra alterazioni somatiche e
rotture, lacerazioni (eventi di vita stressanti)
nelle trame dell'esperienza biografica;
B) la rilevanza, nella genesi della malattia,
delle le relazioni con i singoli altri (la
famiglia soprattutto) e con la società nel suo
complesso;
C) l'attitudine pragmatica ad impiegare,
accanto a strumenti di cura legati alla fisicità
del corpo, strumenti legati alla vita di
relazione ed all'essere sociale della persona.
E' in quest 'ultimo punto, specifico ambito
che si contestualizza il tema dell' “abitare dei
folli”, pensato come continuamente oscillante
tra separazione e prossimità, tra comunanza e
segregazione, tra libertà e reclusione. Le
alternanze
saranno
costantemente
tra
segregazione istituzionale e reintegrazione
sociale.
Uniche costanti, tra molte declinazioni, l'idea
che il folle, per guarire, dovesse lasciare la
propria famiglia per non farvi ritorno (se non
dopo molti anni) e quella che il suo
stare,abitare, vivere quotidiano dovesse essere
vigilato e presidiato ( come facente parte della
cura).
La necessità è quella di stare dentro ad
un'altra famiglia, che "sa tenere" il malato,
una" famiglia" diversa ma evocante quella
originaria.
In tale concezione si installa l'origine
dell'abitare come metodo di cura per la follia.
La comunità non è quindi una conseguenza nè
dell'esistere del manicomio, nè della sua
dissoluzione; e questo rimane vero anche se in
Italia l'esperienza basagliana ha fatto della
contrapposizione tra spazi istituzionali e spazi
comunitari di vita il fulcro più importante
della sua teoresi.
Nella realtà italiana, negli ultimi anni, il
divenire
storico
della
residenzialità
psichiatrica ha comportato il proporsi di
diversi percorsi di approfondimento, centrati
sul concetto di valore prossemico degli
spazi, della quotidianità come elemento
strutturante l'appropriazione simbolica degli
oggetti, della collocazione intrasistemica
della struttura residenziale all'interno del
complesso dispositivo sociale e sanitario che
la sottende.
Primo tema caratterizzante questo ambito di
residenzialità
riabilitativa
è
quello
dell'esplicitazione del valore prossemico, e
cioè dei valori comunicativi, simbolici e
antropologici degli spazi. E' specifico e
proprio di queste strutture e dei loro operatori,
almeno a partire dall'ultimo decennio, il
proporsi della riflessione, tecnica e etica
insieme, attraverso una discussione sui luoghi
dell'"abitare" e del lavoro di comunità.
Secondo elemento fondante altre categorie
possibili di residenzialità riabilitativa, è la vita
quotidiana
come
possibilità
di
riappropriazione di tutte le capacità
fondamentali, degli affetti e dei modi di
comportamento, all'interno della quale
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prendono particolare significato e valore
terapeutico:
1) la spazialità, per l'opportunità che essa
offre ai pazienti di avere un luogo di
movimenti affettivi e di riacquisizione del
valore simbolico, emotivo e relazionale
dell'esperienza dell'abitare;
2) la temporalità e le sue scansioni, che
restituiscono al paziente la padronanza
cognitiva, operazionale ed esistenziale del
tempo;
3) il "clima emotivo-affettivo", come
esperienza di sfondo alle attività riabilitative,
peculiarmente fondante la riacquisizione non
delle abilità, ma delle motivazioni ad
esercitarle, verificabile come tale solo in un
contesto
residenziale
ed
inclusivo
dell'esperienza della condivisione, di un constare con altri in una dimensione emotiva
sucessivamente elaborabile come "calda"
"vitale" "accogliente", ma soprattutto stabile;
4) la domesticità, che rappresenta la
caratteristica fondamentale di una struttura
residenziale ed è essenziale per consentire la
riappropriazione, da parte del paziente, dello
spazio e del tempo vissuti, la cui interazione,
operata fondamentalmente a livello affettivo,
permette al malato di recuperare non solo
identità , ma anche compattezza egoica,
ridisegnando e saldandone i confini.
Il lavoro che giorno dopo giorno viene portato
avanti dagli operatori insieme ai pazienti, in
una dimensione che allude quella della casa,
dando alla residenzialità una connotazione
domestica,
emotivamente
pregnante,
contribuisce a riaggregare lo spazio vissuto (il
mondo interno), sconvolto dall'esperienza
psicotica.
La limitazione in estensione e in numero di
utenti, che è propria della struttura
comunitaria, impedisce quella dispersione
nello spazio e nel tempo dei propri vissuti
interni, favorendo modelli comportamentali
adattativi, facendo appello alle possibilità di
responsabilizzazione.
Così, in questa dimensione domestica, si da
luogo alla riproposizione di funzioni affettive
e codici di comunicazione familiare, che
possono poi, al termine dell'esperienza
comunitaria,
essere
(auspicabilmente)
"esportabili".
Silvano Arieti, nel suo Manuale di Psichiatria,
diceva: "La follia non è essere fuori di sè ma
essere completamente dentro di sè".
Sappiamo infatti che il problema centrale
dello psicotico è la percezione intrapsichica di
un mondo interno estraneo, caotico e
soprattutto sentito come pericoloso, sempre
sul punto di diventare intrusivo. Per tal
motivo, non potendo contare su un solido
confine di sè, sul sentimento stabile di una
propria identità, lo psicotico non riesce a
usare gli scambi verbali per relazionarsi
proficuamente con l'ambiente.
Da qui la sua inconfondibile chiusura
autistica.
Da questa breve premessa, ponendoci il
problema di come lavorare sui pazienti
psicotici e sulla riacquisizione di funzioni
perdute con la malattia, si comprende che è
innanzi tutto indispensabile creare luoghi
dove sono possibili potenti investimenti
affettivi e cognitivi, in grado di aprire finestre
comunicative con essere umani in varia
misura chiusi dentro di sè.
Infatti, nessun apprendimento o riacquisizione
di capacità perdute è possibile per lo psicotico
se egli non riesce, in via prioritaria, a
reinvestire affettivamente con l'ambiente che
lo circonda.
Tale re-investimento è possibile se si riesce ad
agire su due fronti:
il primo consistente nella bonifica di un
mondo interno invaso da affetti non collegati
con rappresentazioni adeguate(sul piano di
realtà), e abitato perciò da fantasmi terrifici,
paralizzanti e carichi d'aspettative magiche,
pronti ad essere proiettati fuori nell'ambiente
sotto forma di deliri e allucinazioni.
Il secondo è rappresentato dall‘ azione sulla
realtà ambientale (la struttura residenziale),
volta anche a proteggere il paziente dalle
reazioni espulsive da lui stesso innescate.
Si tratta di azioni tese a semplificare il
rapporto tra i bisogni e la loro realizzazione,
attraverso forme di sostegno, tendenti a
promuovere "bagliori di fiducia", in grado di
disconfermare l'ineluttabilità della soluzione
psicotica.
Questa duplicità di intervento caratterizza
l'accompagnamento (Rinaldi), funzione
operativa che tende a realizzare una sorta di
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"unità di intenti", ad indicare una possibile via
di uscita dall'esperienza psicotica, attraverso
la concreta presenza, al proprio fianco di un
compagno "vivo" ( o di un gruppo vivo), che
condividendo intere sequenze di vita
quotidiana, sia in grado di coglierne il vissuto,
di "provare per due", assumendo su di sè
quella emozione che il paziente sembra non
poter provare e darle un nome.
La realizzazione di tali esperienze
vitalizzanti ed potenzialmente evolutive
avviene con l'immersione del paziente in
gruppi (di comunità) affettivamente investiti,
in cui si attuano legittimamente situazioni di
dipendenza da un entità potente ed affidabile
in grado di accettare l'immaturità del paziente,
senza imporgli quella autonomia accelerata (
che ha portato alla formazione di tratti egoici
prematuri e dissociati, falsi sè), esaudendo il
bisogno fondamentale di stare insieme,
quando ancora manca la capacità di stare in
rapporto, usando il gruppo come oggetto
privilegiato.
Il rischio di questi percorsi gruppali in
struttura residenziale (e non solo) è quello di
cadere
in
derive
assistenzialistiche,
paternalistiche, che determinano una sorta di
ulteriore infantilizzazione del paziente.
Gli atteggiamenti pedagogizzanti dell'equipe
curante, che tendono a privilegiare solo ciò
che accade nel comportamento esterno
dell'individuo (saper rispondere alle domande,
essere attivi, avere rapporti sociali, ecc.) a
scapito della dovuta attenzione ai processi di
soggettivizzazione dell'esperienza, tendono
ad indurre negli ospiti della comunità una
specie di falso sè, adattato alle richieste della
comunità, ma che perpetua le proprie scissioni
difensive e la sofferenza soggettiva.
La soggettivizzazione
del percorso
riabilitativo, segna quindi una ricerca di
mediazione continua fra il percorso
riabilitativo proposto dal gruppo curante e
quello comunque"proposto" del paziente per
giungere alla formulazione di un programma
individualizzato. Sappiamo, infatti, che il
senso di irrealtà della vita che accompagna il
vissuto del paziente psicotico e che sembra
derivare
da
ripetute
esperienze
di
assoggettamento, condiscendnza e colpa,
richiede come antidoto la concreta possibilità
di trovare un'alternativa all'adeguarsi in modo
solo passivo alle richieste della realtà esterna.
Da qui la necessità di offrire al paziente la
possibilità di esprimere le sue scelte e di
riformularle in forma contrattuale, la
possibilità di sperimentare che le sue
posizioni personali possono essere comprese e
almeno in parte condivise.
Insieme, nel villaggio del villaggio psichico lungo i percorsi diagnostico
terapeutici
Dott.ssa Sara Marchisio
Dottorato di Ricerca in Epidemiologia
Sociologia delle Disuguaglianze di Salute
e
Università Politecnica delle Marche
L'incontro con la persona portatrice di disturbi
schizofrenici è spesso apparso agli operatori
sanitari come “… un viaggio in un paese
straniero, in un paese in cui lingua e cultura sono
sconosciute, un paese che non è possibile
assaporare se non abbandonando le proprie
tradizioni”.
In passato l’assenza di strumenti per tracciare la
rotta faceva emergere l’imprevedibilità quale
caratteristica dominante del viaggio e l’esperienza
del terapeuta quale unico mezzo per contrastare i
rallentamenti, i guasti, i pericoli, lungo il tragitto.
Si trattava di un viaggio “in solitaria”: paziente in
un
vagone,
psichiatra
in
mongolfiera
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all’inseguimento e nessun altro compagno lungo
la strada.
Nel migliore dei casi, infatti, la gestione integrata
dei pazienti tra più professionisti è stata finora
affidata alla collaborazione spontanea dei singoli
operatori che scambiano informazioni per
allineare
il
proprio
comportamento
e
massimizzare il risultato di salute.
Tale sforzo, sebbene proficuo, si applica solo ai
pazienti seguiti da un terapeuta che fa
dell’integrazione con i colleghi una modalità
routinaria di lavoro.
analoghe: questa è la direzione che segue il
percorso diagnostico terapeutico con il paziente
psicotico.
Il percorso diagnostico terapeutico rappresenta il
modo di trattare la psicosi schizofrenica
all’interno dell’azienda sanitaria, non come
obbligo, ma come binario di sviluppo operativo
degli interventi clinici e assistenziali che possono
essere misurati sulle caratteristiche specifiche di
ogni singolo caso, consentendo ai professionisti di
impegnare il tempo nella gestione dei casi più
complessi, invece che nella routine operativa.
Non è automatico, tuttavia, che i comportamenti
prescelti siano realmente efficaci, a meno che non
si ispirino chiaramente alle raccomandazioni della
comunità scientifica. Per di più, in tali circostanze,
lo sforzo organizzativo dell’integrazione grava sui
singoli professionisti, che ne sopportano tutti i
costi (uso di internet, telefonate, fax, ecc.).
Il percorso fornisce agli operatori le indicazioni
cliniche e organizzative per gestire una particolare
patologia. Ad esempio, parlando di psicosi:
Oggi abbiamo a disposizione nuovi mezzi per
affrontare il viaggio del disagio psichico: farmaci
di ultima generazione, strutture di cura e
riabilitazione,
accertamenti
diagnostici
e
interventi d’équipe codificati con infermieri,
psicologi, educatori, assistenti sociali… Ma,
soprattutto, ci si è accordati sulla modalità per far
fruttare pienamente le potenzialità di queste nuove
tecnologie sanitarie.
• precisa le informazioni sulla malattia e sul
trattamento che devono essere fornite al paziente e
ai familiari;
Si tratta di definire a priori, tutti insieme, quali
sono le tappe della cura, a chi devono essere
rivolte, quando è opportuno proporle. Si tratta, in
breve, di programmare il viaggio prima che inizi,
facendo partecipare alla programmazione tutti gli
operatori sanitari, il paziente, i familiari per
condividere un’ipotesi di destinazione e,
soprattutto, le tappe del viaggio che, come
sempre, sono ciò che rendono significativa e
memorabile un’esperienza.
Ciò che oggi risulta realmente efficace per
raggiungere e consolidare dei progressi di salute
consiste, in pratica, nel definire il cosiddetto
“percorso diagnostico terapeutico” per una
specifica malattia.
Il percorso diagnostico terapeutico consente non
solo di integrare i professionisti e di condividere il
progetto di cura con l’utente, ma permette di tener
conto dell’organizzazione dei servizi aziendali e
dei vincoli presenti (economici, informativi…).
Comprendere il paziente, condividere una
strategia di cura, partecipare ai miglioramenti,
sostenere la persona nei momenti di stallo,
razionalizzare il consumo di risorse, ridurre la
disomogeneità di trattamento in situazioni
• specifica i sintomi in relazione a cui è opportuno
proporre all’utente un percorso di diagnosi e cura;
• individua come e dove si sviluppa il ciclo di cura
e riabilitazione;
• stabilisce la tempistica degli accertamenti, delle
terapie, delle rivalutazioni cliniche.
Nella definizione del percorso diagnostico
terapeutico lo stato dell’arte sul trattamento della
patologia selezionata viene confrontato con le
indicazioni di ortodossia clinica presenti in
letteratura (tecnicamente definita “Evidence Based
Medicine”): il percorso aziendale rappresenta,
quindi, una mediazione tra «ciò che è» e «ciò che
dovrebbe essere».
L’aver definito un preciso percorso diagnostico
terapeutico prevede che si definisca un
programma di cambiamento dei comportamenti
d’azienda, condiviso e negoziato con tutte le
professionalità coinvolte, allo scopo di portare
l’intera organizzazione ad adottare gli standard di
qualità clinico assistenziale proposti dalla
letteratura scientifica.
Nel Dipartimento di Salute Mentale Nord
dell’ASL di Novara, le finalità che hanno spinto
all’avvio del percorso per la gestione dei pazienti
portatori di schizofrenia sono nate dall’esigenza
degli operatori di migliorare il servizio:
• sviluppando meccanismi di integrazione tra gli
operatori del Dipartimento;
• riducendo la variabilità di trattamento a fronte
della medesima situazione clinica, senza
rinunciare alla personalizzazione delle cure;
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• migliorando la tracciabilità dei risultati
conseguiti, in termini di progressi clinici e
miglioramenti organizzativi.
Tornando alla visione della malattia come
percorso nell’essere e nell’organizzazione, la
metafora del viaggio è significativa per il fatto che
rimanda alla reciprocità dell'esperienza: paziente e
operatore sanitario lungo il percorso si
trasformeranno entrambi.
Per l’operatore sanitario, la trasformazione
culturale è già iniziata nel momento in cui ha
scelto di lavorare applicando la metodologia del
percorso diagnostico terapeutico.
Nel percorso, infatti - differentemente dalla prassi
che veniva adottata in psichiatria e in altre
branche della medicina - il professionista sanitario
si mette in discussione, confrontandosi con le
esperienze più efficaci; modifica le proprie azioni
sulla base di dati per migliorare l’esito delle cure;
misura la gravità dei sintomi per evidenziare
l’entità dei progressi o del benessere ritrovato;
ricerca il consenso del paziente per modulare le
tappe di questo percorso di crescita, affinché siano
accettabili e giustamente proporzionate ai bisogni
della persona.
Il percorso, in conclusione, è un modo per rendere
più certe, scientifiche e condivise le coordinate
dell'approdo mantenendo sempre vivida una
consapevolezza di fondo: la consapevolezza che,
come accade nella vita, gli imprevisti possano
verificarsi, le esigenze cambiare o il viaggio possa
anche interrompersi, senza che per questo il valore
del percorso venga meno.
Le mie prime due settimane in gruppo appartamento
Il giorno 2 febbraio 2009, cinque ospiti della
Comunità Elio Zino si sono trasferiti dalla
Comunità stessa nel Gruppo Appartamento,
situato anch’esso ad Oleggio. La casa è una villa e
si trova nella zona Sud-Ovest di Oleggio, vicino
alla ferrovia, in via Alzate n° 78.
Il gruppo appartamento è composto da: Benito,
Stefano, Domenico, Federico ed io.
I bagagli sono stati preparati due o tre giorni
prima. Il pulmino NISSAN era vicino alla porta di
entrata e si sono fatti due o tre viaggi con il
furgone pieno per fare il trasloco completo delle
cinque persone sopra elencate.
Il giorno del trasloco nevicava molto. Il pulmino
stesso pattinava sulla neve. A me è capitato
all’arrivo in villa, nel primo viaggio, di aprire il
portellone dietro ed è caduto il radio-registratore
di Benito nella neve. Diciamo che lui lo aveva
messo nella sua scatola, ma non lo aveva chiuso
con il nastro adesivo. Una volta caduta la scatola
nella neve, anche il radio-registratore è uscito ed è
finito nella neve. Mi sono preoccupato molto, mi
sono scusato e gli ho suggerito di metterlo vicino
al termosifone per asciugarlo. Dopo averlo
asciugato, Benito ha provato a farlo funzionare.
Tutto a posto, funzionava ancora. Sono contento
per lui. Gli apparecchi elettronici a volte sono
delicati ed è un peccato guastarli in questo modo.
Mi sono molto preoccupato e scusato.
Il motivo per cui sono caduti il radio-registratore
di Benito ed altre due valigie è questo: i ho aperto
il portellone per primo all’arrivo, ma non avendo
caricato i bagagli alla partenza, non sapevo come
erano stati disposti nel bagagliaio. La colpa è mia;
sarebbe stato meglio che il portellone lo avesse
aperto qualcun altro. A me sembra che le valigie
potevano essere stivate meglio.
Bisogna dire, che avevo avvisato i miei genitori
qualche giorno prima, di aiutarmi nel trasloco,
venendo in Comunità con la loro automobile. Il
giorno del trasloco però, ha nevicato tantissimo. I
miei genitori non potevano comunque raggiungere
Oleggio. Lo stesso Camillo fece molta fatica ad
arrivare con l’automobile fino ad Oleggio. Lui
abita a Milano ed ha percorso l’autostrada dei
Laghi con code e bufere di neve. Sull’autostrada
si viaggiava a fatica e lo stesso nei dintorni di
Cameri, Novara, Bellinzago Novarese, Oleggio.
Molte automobili viaggiavano con le catene.
Dopo aver fatto una parte del trasloco, le persone
che lo hanno fatto, hanno mangiato alle 12:30 in
Comunità. Nel pomeriggio il trasloco è stato
completato. Nella settimana precedente il 2
febbraio, i cinque pazienti del gruppo
appartamento hanno pranzato nella casa stessa,
per ambientarsi un po’. Il pranzo è stato preparato
da Camillo. Dopo aver riposto i bagagli negli
armadi e nei cassetti, il giorno dopo abbiamo
cominciato a fare i mestieri di casa.
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l’antenna propria (il baffo), che con l’antenna
centralizzata. Questo ci fa capire che c’è molta
difficoltà nel ricevere i canali con l’antenna
centralizzata del gruppo appartamento, la quale
normalmente è sempre migliore del baffo. La
causa potrebbe essere: l’antenna è rotta o orientata
male, oppure la via Alzate è un luogo dove ci
sono problemi di ricezione.
A me piacerebbe che si potesse comperare un
decoder per il Digitale Terrestre. A quel punto i
Quando scrivo sono passate due settimane
dall’insediamento nella villa di via Alzate. Potrei
scrivere sulle sensazioni e sul mio stato d’animo,
tirando un piccolo bilancio dell’esperienza nella
villa. La mia sensazione è quella che in Comunità
avevo meno cose da fare. Qui in villa ne ho
troppe. Non riesco a fare tutto. Sono affaticato.
canali normali si vedrebbero meglio, con la
possibilità di vedere alcuni canali aggiuntivi molto
interessanti. Ad esempio quelli gratuiti sono: IRIS
per i film; SPORTITALIA per lo sport; BBC
WORLD per i notiziari di politica estera, in lingua
inglese; RAI 4 per l’intrattenimento e la cultura;
BOING per i cartoni animati.
Gli altri fanno i mestieri di casa e la cura della
persona (doccia e barba). Io, oltre a questo, devo
fare il Giornalino e vorrei leggere più che posso
perché mi piace leggere. Loro hanno due attività,
io quattro. Non ci riesco. Sono anche un po’
stanco della tensione e del nervosismo che si
respira nel gruppo appartamento. Non sono una
marionetta che risponde a comando. Faccio quello
che posso.
Alcuni canali del digitale terrestre a pagamento
(pay per view) sono: MEDIASET PREMIUM per
vedere le partite di serie A. 1 partita costa 6 €uro.
Il costo viene scalato dalla tessera; LA 7 CARTA
SI per vedere le partite di serie A. 1 partita non so
quanto costa. Il costo viene scalato dalla tessera.
Con questi canali si paga quello che si vede (pay
per view). Non c’è da fare nessun abbonamento
mensile o annuale come per SKY.
Tutto sommato adesso sono domiciliato in un
ambiente teso, dove purtroppo non posso fare la
mia attività preferita (leggere) nella quantità che
voglio (cioè tanto), ma devo farla in maniera
ridotta per tutte le altre attività in programma. Il
Dottor Ragni mi aveva detto che in gruppo
appartamento avrei avuto più tempo libero rispetto
alla Comunità, invece è il contrario. Direi che le
prime due settimane in gruppo appartamento sono
state positive per alcuni aspetti, negative per altri.
I mestieri di casa comprendono: pulire il bagno,
aspirare e lavare i pavimenti, pulire il divano,
spolverare i mobili, rifare i letti, mettere ordine in
stanza, cucinare, apparecchiare e sparecchiare,
lavare i piatti, fare lavori di giardinaggio, pulire il
piazzale, lavare i vestiti nella lavatrice, mettere i
vestiti ad asciugare sullo stendi biancheria, pulire
le finestre ed i vetri, ecc.
Questi canali del digitale terrestre li conosco
meglio, perché li ho utilizzati, a casa mia o in
Comunità. Ce ne sono anche altri che non
conosco, ma che potrebbero essere interessanti.
Ovviamente ci sono anche i canali normali come:
RAI 1, CANALE 5, LA 7, MTV, ecc., che con il
digitale terrestre si vedono molto meglio rispetto
all’analogico.
La televisione non funziona bene. Abbiamo
tentato di sintonizzare i canali: Camillo,
l’infermiere Paolo, mio papà ed io. Dipende
dall’antenna. Mio padre è riuscito a sintonizzare i
canali meglio di noi. Mio papà mi ha anche
portato la TV piccola da casa. Sulla mia piccola
TV addirittura i canali si vedono meglio con
Bisogna dire che forse ho esagerato e sono stato
pessimista tirando un bilancio dei primi venti
giorni in gruppo appartamento. Devo ambientarmi
e forse tra qualche giorno riuscirò a fare tutto.
Comunque è vero che in Comunità avevo meno
cose da fare.
Per i caffè, tutti i componenti del gruppo
appartamento bevono il caffè della Bialetti. Lo
prepara Benito. Per me è troppo concentrato, in
una tazzina c’è troppa caffeina. Così bevo il
nescafè; è meno concentrato. Non è neanche male
come gusto. Prima in Comunità andavamo al bar a
bere il caffè. Adesso siamo troppo lontani dal
centro di Oleggio e quindi il caffè ce lo
prepariamo in casa.
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Per il Computer, l’operatore Alberto mi ha dato
un computer uguale come marca e modello a
quello che avevo in Comunità. Solamente non è lo
stesso. Con i floppy-disk ho copiato la mia
cartella in Comunità e l’ho trasferita sul computer
che uso adesso. Purtroppo su questi Computer non
funziona la chiavetta USB e così devo arrangiarmi
con i floppy-disk. Probabilmente la causa è dovuta
ad un sistema operativo vecchio oppure al
computer vecchio (non ha neanche il
masterizzatore).
Il quartiere di via Alzate è un po’ strano.
L’ambiente e l’atmosfera che si respira è diverso
da via Giaggiolo e anche dal centro di Oleggio.
Non saprei dire se è meglio o peggio. È un
ambiente un po’ riservato. In via Giaggiolo ero
abituato ad un’altra situazione; lo stesso per il
centro di Oleggio.
Forse scriverò un altro articolo fra qualche mese,
per aggiornarvi sulla vita del gruppo appartamento
e sul mio ambientamento in esso. Spero di
ambientarmi entro il 2 marzo, quando sarò in
gruppo appartamento da un mese.
Nel frattempo vi saluto e vi auguro buona lettura.
Ciao Ciao.
La visita di Giuseppe Bergomi in Comunità
Il 17 febbraio era in programma la visita di
Giuseppe Bergomi alla Comunità Elio Zino di
Oleggio. Giuseppe Bergomi è stato giocatore di
calcio dell’Inter per circa 20 anni; una bandiera
della squadra nerazzurra.
L’ospite della
Comunità, Mauro (interista), conosce Bergomi.
Nella stanza di Mauro c’è anche una fotografia in
cui vengono ritratti insieme. Pertanto l’ex
giocatore ha voluto fare visita al suo amico in
Comunità.
Avendo saputo la notizia, l’operatrice Rossana
(anche lei interista) ha voluto portare in Comunità
ad accogliere Bergomi anche gli ospiti del gruppo
appartamento di via Alzate. Verso le 10:00, tre
pazienti del gruppo appartamento partono da via
Alzate per andare in via Giaggiolo (Comunità
Psichiatrica). Li accompagnano gli operatori in
automobile. I tre pazienti sono: Benito, Domenico
ed io. Gli altri due del gruppo appartamento non
possono venire perché sono al lavoro: Stefano alla
Standa e Federico alla “Pasqualina”.
Per la cronaca: il sottoscritto è interista, Benito è
juventino e Domenico non si intende di football.
Dopo poco, io, Benito e Domenico siamo in
Comunità e cominciamo con il salutare gli altri
Ritrovo volentieri il mio ex compagno di stanza
Roberto; non si tinge più i capelli ed ha il pizzo.
La capigliatura ed il pizzo sono bianchi e gli
stanno bene; anche i suoi nuovi occhiali gli stanno
bene. Ha un look più da uomo maturo, più
misterioso e affascinante.
Tra i volti nuovi c’è una signora che non conosco.
C’è anche Giuseppe, che come Roberto è stato un
po’ in Comunità, è tornato a casa sua ed è
ritornato ancora in Comunità. Conosco anche lui,
perché siamo stati assieme in Comunità per
diversi mesi.
Dopo esserci salutati tutti quanti, stiamo a
chiacchierare seduti un po’ nell’atrio, un po’
davanti all’uscio, un po’ sotto il gazebo. Nel
frattempo aspettiamo l’ospite famoso (Giuseppe
Bergomi). La giornata è soleggiata e non fa molto
freddo.
Verso le 10:30 arriva una Fiat Stilo targata Como.
Sulla automobile c’è Bergomi e due signori che, si
scoprirà più tardi, sono conoscenti di Mauro.
Bergomi non è al volante, ma è passeggero sul
sedile davanti.
ospiti della Elio Zino. C’è qualche paziente
nuovo; è normale, il 2 febbraio siamo andati via
dalla Comunità in cinque, per andare in gruppo
appartamento; cinque persone sono un quarto
della Comunità (circa 20 ospiti in totale); c’è
qualcuno che ha preso il nostro posto.
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A questo punto i lettori del Giornalino e Bergomi
si chiederanno: ma perché invece di Bergomi non
hanno chiamato in Comunità Beccalossi? In realtà
ho detto a Bergomi, che se lo stressavo, avrebbe
potuto dirmelo e mi sarei comportato di
conseguenza.
Quando scendono dall’automobile ci rendiamo
conto che Bergomi è molto alto, forse più
dell’operatore Dino, il quale ha una statura
notevole anche lui. Oltre ad essere alto ha anche
un fisico asciutto, slanciato, potente, muscoloso e
magro allo stesso tempo. Non assomiglia né ad un
body builder, né ad un anemico. È vestito in
maniera elegante, con giacca e cravatta; porta gli
occhiali. Insomma ha un bel aspetto; un tipo
affascinante.
Sono emozionato ed ho paura di fare brutta figura
nel rivolgergli la parola. Cerco di tenermi lontano
da lui. Intanto Bergomi sosta un po’ in camera di
Mauro (suo amico), un po’ in ufficio operatori, un
po’ in corridoio, un po’ in sala TV. Il suo intento è
quello di osservare tutti gli ambienti, i locali della
Comunità, escluso le stanze dei pazienti.
Essendo un tifoso nerazzurro ed un ammiratore di
Evaristo Beccalossi, dopo un po’ gli rivolgo la
seguente domanda: “Bergomi, hai fatto in tempo a
giocare assieme al Becca qualche anno?” Infatti
ho l’impressione che, quando Bergomi cominciò a
giocare nell’Inter, Beccalossi stava per finire la
sua carriera all’Inter. La risposta dell’ex-difensore
è stata che è riuscito a giocare assieme al Becca
per circa due anni. Inoltre mi ha detto che la sua
carriera nell’Inter è durata circa 20 anni, quella di
Beccalossi circa 6 anni.
Dopo gli rivolgerò ancora una domanda su
Beccalossi. La domanda è la seguente: “Si trovano
in commercio le magliette nerazzurre con dietro il
numero 10 e la scritta Evaristo Beccalossi?” La
sua risposta è la seguente: “Bisogna farsele fare su
misura. Il Becca giocò tanti anni fa e in quel
periodo le magliette dei giocatori di calcio non
riportavano il nome e il cognome del giocatore
stesso”.
L’argomento Beccalossi, l’ho creato perché gioco
più o meno nello stesso ruolo: mezza-punta,
trequartista, fantasista, una via di mezzo tra
centrocampista e attaccante. Siccome non riesco a
correre tantissimo e sono in soprappeso,
assomiglio un pochino a Beccalossi come modo di
giocare. Soltanto che lui aveva due piedi d’oro, io
mi arrangio. Ovviamente non posso paragonarmi
ad un campione come lui, però lo imito. Bergomi
era un terzino destro: un ruolo diverso da quello
che occupo io. Da ragazzino spesso mi facevano
giocare da Stopper (difensore centrale) con
risultati pessimi. Dino vedendomi giocare, mi ha
detto che il mio ruolo, secondo lui è mezzala,
mezza-punta, un trequartista di qualità, perché non
corro tanto, ma ho due piedi buoni.
Dopo aver visitato la Comunità, lo zio Bergomi
sosta un po’ nell’ufficio a parlare con gli
operatori, oppure nel locale dietro la sala TV,
dove spesso si fanno riunioni alle quali
partecipano di solito dottori e operatori. Sia
nell’ufficio che nella sala riunioni c’è un dialogo
tra Bergomi e operatori, dottori, Mauro.
Dopo le due domande sul Becca sono un po’
emozionato. D’altronde Bergomi è una bandiera
dell’Inter ed ha vinto il Mondiale con la Nazionale
Italiana nel 1982 a soli 18 anni. Anche se è una
persona tranquilla, mi incute timore.
Verso le 12:00, Bergomi sale in auto assieme alle
altre due persone che lo accompagnano e vanno
via dalla Comunità. Anche noi del gruppo
appartamento ritorniamo in via Alzate.
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L’operatore Dino dice che lui non è tifoso
dell’Inter (è tifoso del TORINO), ma che ha
ammirato molto Bergomi. Secondo lui, Bergomi è
una persone molto gentile, disponibile, mite,
intelligente, anche bello fisicamente.
Qualche giorno più tardi, dopo la sua visita alla
Comunità, Bergomi ci recapitò dei gadgets
attinenti al calcio. Si tratta di: DVD dei goals di
Juventus e Milan ed Inter, libri di Diabolik, dei
cappellini con scritte delle squadre di calcio.
Qualche DVD ce lo siamo portato in gruppo
appartamento. Non li abbiamo ancora visti, anche
se il Dino ci ha già installato il lettore DVD.
In conclusione vorrei dire che ero molto
emozionato nel vedere un campione di calcio
come Giuseppe Bergomi. La maggior parte degli
altri pazienti della Comunità non erano intimoriti
e si trovavano a loro agio. Spero che la prossima
volta venga in Comunità con il mio idolo
calcistico: Evaristo Beccalossi.
Tanti Saluti e Buona Lettura.
Il carnevale oleggese
Come tutti gli anni, anche quest’anno ad Oleggio
si festeggia in modo sontuoso e soprattutto
rumoroso il carnevale.
Le sfilate si svolgono nella piazza della stazione
nelle domeniche di febbraio (8, 15 e 22).
dall’ambiente festoso e goliardico che ci si trova
di fronte.
Gli organizzatori, tutti gli anni, fanno le cose in
grande. Anche quest’anno sono stati invitati
personaggi del mondo della TV che hanno dato il
loro contributo per ravvivare la gente presente.
Abbiamo partecipato alla seconda domenica di
festeggiamenti, ci siamo goduti la sfilata e lo
spettacolo in sé.
È stato molto divertente vedere tutte queste strane
maschere girare per le vie del paese.
I gruppi che sfilano sono molto colorati e
pittoreschi; i carri allegorici fanno bella mostra di
sé seguiti da gruppetti di persone in maschera che
ballano e cantano.
Ogni gruppo ha un suo tema: c’è il gruppo di
ballerine di flamenco, il gruppo dei pirati e di
Minnie, una banda musicale che effettua
coreografie mentre sfila e ovviamente suona ed
un’altra banda in costume molto appariscente ed
ironico.
Per Oleggio il carnevale è un evento molto
importante e sentito. Vengono attirati molti
visitatori
che
rimangono
impressionati
Lunedì 20 la maschera di Oleggio (il Pirin) ci ha
portato i dei dolci e ci ha fatto compagnia per
qualche minuto in comunità.
Come ha detto anche lui: “Buon carnevale a tutti!”
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Di Mauro “Titus”
“Se”
Se questa società e vita ti rattrista e ti abbatte, non
cedere!
Se certe persone ti deludono e ti mortificano,
anche se provi rispetto e un certo affetto o
simpatia per loro, non cedere!
Se certi amici ti tradiscono per altri interessi di
vario genere, non cedere!
Ma se pure l’amicizia e l’amore ti viene precluso
o a mancare, non cedere!
Se anche la dimora più o meno provvisoria, ti dà
solitudine e malinconia, resisti e non cedere!
Tu sai che sei discreto, corretto e sin troppo
sincero, e allora difendi la tua idea e le tue ragioni
e quindi, non cedere le armi ma continua più che
mai a lottare.
È solo acqua
L’acqua scorre per montagne, colline e pianure.
L’acqua scorre per ruscelli, torrenti e fiumi.
L’acqua riempie laghi, mari ed oceani.
Ma non bisogna scordare che l’acqua è pure
l’unica cosa “morta”, che dà la “vita”.
Mi piacerebbe sorseggiare un po’ d’acqua in un
ruscello di alta montagna e poi lanciare
un rametto immaginando il percorso che può fare,
attraversando vallate e varie intemperie,
dighe e tanti altri ostacoli.
E magari qualcuno quando proprio sta arrivando
alla meta, lo prende e lo getta su un prato;
che peccato! Quel ramoscello non arriverà mai al
mare.
E comunque mentre scrivo tutto questo “l’acqua
scorre e tutto se ne va”,
e intanto: “scorre l’acqua!”
Stiamo raccogliendo libri per la nostra libreria in comunità! Chiunque fosse interessato a donare libri in
buono stato può contattare direttamente la comunità al nr. 0321-94599. Grazie!
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