bad moms – mamme molto cattive
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bad moms – mamme molto cattive
Gli uomini e i demoni di José Molina di Federico Poni – Dalla fisiognomica alla psicoanalisi: i lavori di Jose Molina, esposti a cura di Chiara Gatti alla galleria Deodato Arte fino al 26 novembre (divisi in nove serie, realizzate tra il 2004 e il 2016), offrono una gamma amplissima di percorsi e suggestioni. Con le sue matite, gli olii, i legni e le cere, usate singolarmente o contemporaneamente, Josè elabora opere di natura molto diversa e si cimenta nella rappresentazione dell’interiorità umana, tema chiave nella storia dell’arte del Novecento, ma qui rielaborato con immagini originali e spiazzanti: l’umanità di Molina à bestiale, violenta, come le mascelle di un animale primitivo incastrate nel volto angosciato di un essere umano, ma anche eterea ed evanescente come le ali di una fata che annuncia il nuovo giorno. Bosch e Goya sono i riferimenti, i “maestri” di Molina, nella determinazione del segno, nella ricerca instancabile della metafora apocalittica che meglio renda l’angosciante abisso della coscienza umana. Fedele al principio che il sonno della ragione genera mostri, l’artista ha, per Molina, il dovere morale di vigilare, di riflettere e far riflettere il pubblico, con la violenza perturbante delle sue immagini. In Molina diventano via via più evidenti i riferimenti alla pittura surrealista, nell’effetto onirico di molte immagini, e alle opere di Escher, nella nettezza e precisione del segno che non perdona i palati fini e delicati. Ne emerge indiscutibilmente che per il pittore l’uomo è un demone sociale, un mostro quotidiano: l’arte di Josè è un grande racconto sul declino dell’umanità, di ogni individuo e dell’intero consorzio umano. In un’epoca in cui molta arte è affidata alla tecnologia, Molina sceglie procedimenti classici, tecniche tradizionali, per continuare a interrogarsi e a interrogarci sull’enigma dell’esistenza. Questo slideshow richiede JavaScript. José Molina. Uomini e altri demoni fino al 26 novembre 2016 DEODATO ARTE | Milano | via Santa Marta 6 Info sull’artista www.josemolina.com “JACK REACHER – PUNTO DI NON RITORNO”: CAPOLAVORO D'AZIONE E D’INDAGINE di Elisa Pedini – Arriva nelle sale, dal 20 ottobre, l’attesissimo sequel del duro Jack Reacher, col titolo “JACK REACHER – PUNTO DI NON RITORNO”, per la regia di Edward Zwick. Pellicola, semplicemente, straordinaria. Un connubio degno di nota tra l’“action movie” e il “crime thriller”. Un film coinvolgente, avvincente, emozionante, scandito da un ritmo incalzante, che cattura l’attenzione dalla prima all’ultima scena. Nella sua indubbia spettacolarità, il film scorre solido e coerente, coinvolgendo lo spettatore in un intrigo ben strutturato, che, in certi passaggi, richiama la figura dell’hysteron proteron applicata alla cinematografia, che si attua nell’inversione dell’ordine naturale d’un evento, mostrandone prima l’effetto e poi la causa. Questa struttura, non solo consente di tenere sempre alta l’attenzione dello spettatore, ma anche di creare un forte senso di suspense. “Jack Reacher – Punto di non ritorno” è tratto dal libro “Never go back”, diciottesimo volume della fortunatissima saga di Jack Reacher, eroe letterario nato, nel 1997, dalla penna di Lee Child e giunto ormai a ben venti romanzi. Com’è noto, questo personaggio, affascinò talmente Tom Cruise, che, nel 2012, decise di produrre e interpretare il primo film: “Jack Reacher – la prova decisiva”, basandolo su “One Shot”, in realtà, il nono libro della saga. Notevole caratteristica, infatti, dei romanzi su questo eroe, è che non seguono un ordine cronologico, non c’è una continuità con cui familiarizzare per apprezzare il protagonista e le sue gesta. Di fatto, gli unici punti fermi sono Jack e il suo spazzolino da denti. Non per altro, la figura di questo personaggio è proprio quella dello “straniero misterioso”, una sorta di “cavaliere errante” dei nostri tempi. La sua vita nomade, scevra da ogni attaccamento, ha, però, una struttura rigida, basata su regole morali e senso di giustizia. Jack si sposta in autostop, non si ferma mai a lungo in nessun luogo ed è un ex maggiore dell’esercito americano. Il film inizia mostrandoci quattro uomini stesi a terra e ridotti proprio male, sul selciato, fuori da una stazione di servizio. Ecco, appunto, l’“effetto” di cui parlavo prima. Arriva la polizia. I testimoni riportano che, a metterli tutti e quattro ko, è stato un solo uomo, lo stesso che se ne sta, pacifico, seduto al bancone del locale. Quell’uomo è Jack. Ancora s’ignora la “causa”. Forte il contrasto che viene trasmesso allo spettatore: fuori, la notte, i lamenti dei malmenati, il vociare dei testimoni e la sbruffoneria dello sceriffo; dentro, una forte luce al neon, un bianco accecante e un uomo solo, seduto di spalle alla porta, calmo. La spiegazione di tutto, la “causa”, arriva, puntuale e in modo a dir poco spettacolare. Si tratta di traffico di clandestini e Jack li fa arrestare tutti. Quindi, il nostro “giustiziere nomade” se ne va, di nuovo, in autostop. Scopriamo che ad aiutarlo è stato il Maggiore Susan Turner, che gli è succeduta quando lui ha lasciato l’esercito. Quando Jack va a Washington per conoscerla, scopre che è stata arrestata con l’accusa di spionaggio. È subito evidente, per il nostro eroe, che c’è qualcosa di molto strano e inizia a indagare. Qualcuno lo pedina. Jack va a parlare con l’avvocato del Maggiore Turner e così, scopre che Susan aveva inviato due sue unità in Afghanistan, per indagare su una questione poco chiara relativa alle armi. I due inviati vengono ammazzati in pieno stile esecuzione e guarda caso, un giorno dopo, il Maggiore Turner viene arrestata. L’avvocato di Susan viene assassinato e le accuse ricadono su Jack. Con un espediente viene arrestato come militare. Riesce a evadere e a far scappare anche il Maggiore Turner con lui. Da questo punto, non vi dico altro perché la trama si fa sempre più intrigante in un coerente climax di tensione e conduce lo spettatore dentro a una storia di indagini fitte e avvincenti, fra pedinamenti, ricerche, testimoni e rapidi spostamenti per non essere presi, fino a dare spiegazione e soluzione a ogni enigma. A complicare ancora di più la situazione, c’è la figlia di Jack, che va tutelata, perché è un facile bersaglio per colpire lui. Vi rammento, però, quanto detto al principio sulle caratteristiche di questo personaggio: un samurai del nuovo millennio, solitario, nomade, senza legami e scevro da attaccamenti. Appare strano che abbia, al dunque, una figlia. Chi sia questa fanciulla, lo lascio scoprire a voi. “Jack Reacher – Punto di non ritorno” è un film che va seguito e che si fa seguire, con grande attenzione. Di azione ce n’è davvero tanta, ma tutto è calibrato e realistico, evitando così i più classici, abominevoli, cliché degli action movie americani: primo fra tutti, i tipici inseguimenti eterni con dilatazioni spazio-temporali tanto improbabili, quanto ridicole. I personaggi sono ben costruiti e le loro personalità risultano solide e credibili. I dialoghi sono sottili, acuti e vanno ascoltati, apprezzati, perché, persino quelli che possono sembrare più personali e meno utili alla trama, in realtà, sono portatori di messaggi molto importanti su tematiche molto attuali. Mi piace concludere, ponendo l’accento sulla figura del Maggiore Susan Turner, interpretata in modo squisitamente naturale e intenso da una straordinaria Cobie Smulders: una donna molto bella, intelligente, attiva, dotata di profondità e sensibilità, ma anche di grande forza e coraggio. Finalmente, una protagonista femminile realistica. Infine, molto apprezzabile è la totale mancanza d’una futile love story tra i due protagonisti, che non avrebbe dato valore aggiunto alcuno ad un film d’azione e d’indagine qual è “Jack Reacher – Punto di non ritorno.” Al Museo del 900: BOOM 60! ERA ARTE MODERNA È stata inaugurata oggi al Museo del Novecento “BOOM 60! Era arte moderna” una mostra promossa dal Comune di Milano, dedicata all’arte tra i primi anni Cinquanta e i primi Sessanta e alla sua restituzione mediatica, tramite i popolarissimi canali di comunicazione di massa. La mostra al Museo del Novecento, curata da Mariella Milan e Desdemona Ventroni con Maria Grazia Messina e Antonello Negri, inaugura i nuovi spazi espositivi con un percorso articolato tra Arengario e Piazzetta Reale in un allestimento firmato dall’Atelier Mendini. Un’ampia rassegna che persegue l’obiettivo di approfondire i temi dell’arte italiana del ‘900 arricchendo il percorso permanente museale, anche grazie all’estensione del percorso in nuove sale espositive. Nell’ideazione e nella scelta delle opere, oltre a prestiti di Musei e raccolte pubbliche e private, è stato possibile attingere alla ricca collezione del Museo del Novecento: dipinti e sculture del patrimonio civico a partire dalla collezione Boschi di Stefano che, non essendo esposti in modo permanente, risultano in questo modo una affascinante riscoperta. La mostra esplora l’arte moderna com’era raccontata dai settimanali e dai mensili di attualità illustrata, i cosiddetti rotocalchi. Sono gli anni del “boom”, non solo quello dell’economia e dei consumi, ma anche quello delle riviste – Epoca, Tempo, Le Ore, Oggi, Gente, L’Europeo, Abc, L’Espresso, Vie Nuove, La Domenica del Corriere, La Tribuna Illustrata, Successo, Panorama, L’Illustrazione Italiana, Settimana Incom Illustrata, Lo Specchio, Settimo Giorno – che in questi anni raggiungono le loro massime tirature, con una diffusione di gran lunga superiore a quella dei quotidiani, diventando così un importante strumento di intrattenimento, nonché uno specchio fedele della mentalità e delle aspirazioni collettive. Quella che emerge dalle pagine di queste riviste popolari è un’immagine dell’arte moderna e dei suoi protagonisti alternativa rispetto a quella della critica colta. Le novità artistiche si scontrano con le attese di un grande pubblico molto diffidente nei loro confronti, che le riviste a tratti assecondano nei suoi pregiudizi, a tratti “educano” calando il mondo dell’arte nelle forme della cultura di massa. La mostra, nell’allestimento di Atelier Mendini, restituisce questi diversi aspetti della cultura visiva italiana in un suo momento decisivo, facendo principalmente perno sul contesto di Milano, centro al tempo stesso della grande editoria commerciale e di una buona parte della ricerca artistica più avanzata. Circa centoquaranta opere di pittura, scultura e grafica, scelte in relazione al particolare successo nella comunicazione di massa, dialogano in quattro sezioni – “Grandi mostre e polemiche”, “Artisti in rotocalco”, “Artisti e divi”, “Mercato e collezionismo” – con le più diffuse illustrazioni fotografiche e televisive delle opere stesse e dei loro autori. Una ricca sezione documentaria, come una grande “edicola” d’altri tempi, presenterà invece al pubblico, nella sala Archivi del Museo, le riviste e i loro diversi modi di raccontare l’arte moderna, dalle copertine alle inchieste, dalle rubriche di critica alla pubblicità, dall’illustrazione all’uso dell’immagine fotogiornalistica, insieme a una selezione di opere tra cui Piazza del Duomo di Milano di Dino Buzzati. Museo del Novecento, via Marconi 1, Milano BOOM 60! Era arte moderna 18 ottobre 2016 – 12 marzo 2017 ORARI lunedì 14.30 – 19.30 martedì, mercoledì, venerdì e domenica 9.30 – 19.30 giovedì e sabato 9.30 – 22.30 BIGLIETTO (l’ingresso alla mostra comprende anche la visita al museo) – intero 10 € – ridotto 8 € Persone che abbiano compiuto i 65 anni d’età Studenti universitari ed accademie di Belle Arti Dipendenti dell’amministrazione comunale – ridotto speciale 6 € Ragazzi tra i 13 e i 25 anni Possessori biglietto cumulativo (ingresso ai musei civici per 3 giorni) Funzionari delle sopraintendenze statali e regionali Iscritti ad associazioni riconosciute a livello locale e nazionale Insegnanti con scolaresca (max 4 per classe) Studiosi accreditati con permesso della direzione del museo Tutti i visitatori in occasione dell’iniziativa ∆domenicalmuseo, ogni martedì dalle ore 14.00 e ogni giorno a partire da due ore prima della chiusura del museo. – gratuito Ragazzi sotto i 12 anni Portatori di handicap Possessori Card OttoNoveCento Possessori Abbonamento Musei Lombardia Giornalisti Guide e interpreti turistici accompagnatori di gruppi (con licenza) Membri dell’ICOM Audioguide mostra e museo: 3 € INFO Tel. 02.88444061 www.museodelnovecento.org VISITE GUIDATE Ad Artem Info e prenotazioni Tel. 02.6597728 [email protected] Gallerie d'Italia ospitano Bellotto e Canaletto Un grande evento si prepara a conquistare Milano. Dal 25 novembre al 5 marzo 2017 le Gallerie d’Italia di Intesa Sanpaolo, nella sede milanese in Piazza Scala, ospiteranno la mostra “Bellotto e Canaletto. Lo stupore e la luce“. Si tratta del primo progetto espositivo che Milano dedica al genio pittorico e all’intelligenza creativa di due artisti di spicco del Settecento europeo: Antonio Canal, detto “il Canaletto” (Venezia 1697-1768) e suo nipote Bernardo Bellotto (Venezia 1722 – Varsavia 1780). Curata da Bożena Anna Kowalczyk, l’esposizione è organizzata da Intesa Sanpaolo in partnership con alcuni tra i più importanti musei europei che conservano le opere dei due artisti. Con circa 100 opere, tra dipinti, disegni e incisioni, un terzo delle quali mai prima d’oggi esposto in Italia, il percorso espositivo intende illustrare uno dei più affascinanti episodi della pittura europea, il vedutismo veneziano, attraverso l’opera dei due artisti che, legati da vincolo di sangue (Canaletto e Bellotto erano rispettivamente zio e nipote), seppero trasformare questo peculiare genere nella corrente d’avanguardia che tanto caratterizzò il Settecento. Mentre Canaletto si impose sul teatro europeo grazie ai particolari procedimenti compositivi, risultato del razionalismo di matrice illuminista e delle più moderne ricerche sull’ottica (sarà in mostra anche la “camera ottica” che egli mise a punto e utilizzò per le sue creazioni), Bellotto, ne comprese i segreti della tecnica per poi sviluppare secondo una personale chiave interpretativa il proprio originale contributo. Il confronto tra le loro soluzioni pittoriche offre l’occasione per cogliere un eloquente panorama sulla colta Europa del tempo e sulla sua classe dirigente, che fece a gara per commissionare i dipinti ai due grandi veneziani: il viaggio artistico parte da Venezia per toccare Roma, Firenze, Verona, Torino, Milano e il suo territorio, con Vaprio e Gazzada – dove Bellotto mette a frutto l’insegnamento di Canaletto nelle sue vedute e paesaggi di stupefacente modernità – e prosegue quindi alla volta dell’Europa, con i ritratti di Londra, Dresda, Varsavia o Wilanòw, fino a raggiungere luoghi fantastici e immaginari, immortalati nei memorabili “capricci”. Inoltre la recente riscoperta dell’inventario della casa di Bellotto a Dresda, distrutta dal bombardamento prussiano del 1760, ha permesso di conoscere la biblioteca gettando una nuova luce sulla personalità e l’indipendenza intellettuale dell’artista, sulle sue passioni, la letteratura, il teatro, il collezionismo. L’eccezionale documento (cui viene dedicato un saggio nel catalogo) è esposto assieme a una selezione dei libri più sorprendenti che appartenevano alla sua ampia biblioteca, la più straordinaria tra quelle finora note formate da un artista. Il catalogo della mostra, realizzato da Silvana Editoriale, contiene saggi su ambedue gli artisti e la loro opera, presenta la nuova ricerca storica e archivistica e illustra i risultati delle analisi tecniche più innovative che hanno permesso di confrontare per la prima volta in modo esaustivo i dipinti e i disegni dei due artisti. Questo slideshow richiede JavaScript. Bellotto e Canaletto Lo stupore e la luce Gallerie d’Italia – Piazza della Scala, 6 Sede museale di Intesa Sanpaolo a Milano 25 novembre 2016 – 5 marzo 2017 Mostra a cura di Bożena Anna Kowalczyk Apertura dal martedì alla domenica ore 9.30 – 19.30 (ultimo ingresso ore 18.30) giovedì ore 9.30 – 22.30 (ultimo ingresso ore 21.30) chiuso lunedì Informazioni numero verde 800.167619; [email protected]; www.gallerieditalia.com Biglietto Biglietto: intero 10 euro, ridotto 8 euro, ridottissimo 5 euro Gratuito per meno di 18 anni e scuole e la prima domenica del mese Bittersweet symphony, l’arte incontra la “Red Passion” di Federico Poni – Campari torna alle origini ristrutturando la propria fabbrica originale a Sesto San Giovanni. Il risultato è un nuovo concept, presentato con un’esposizione all’insegna della grafica, del design e dell’audiovisivo, ripercorrendo gli anni del più famoso bitter. BitterSweet Symphony, questo è il titolo della mostra, che vuole presentare le due anime del Campari: Dolcezza e Amarezza. Il percorso allestito nella Galleria Campari è un itinerario sensoriale. Si apre con la visione delle varie rèclame che hanno segnato la televisione italiana, seguite dalle opere dei vari artisti internazionali che hanno collaborato con l’azienda. Nomi importanti e che hanno dato volto al bitter più famoso del mondo: da Ugo Mochi a Nicolay Diulgheroff, da Marcello Dudovich al celebre Fortunato Depero, artisti tutti coinvolti nel pubblicizzare il Liquore Finissimo Purissimo. Immersi in una scenografia accurata, si può accedere anche a un altro piano dell’esposizione, concentrato su serie di gadget e design: carte da gioco, calendari, stoviglie, posacenere, termometri, modellini di automobili e orologi sono solo alcuni degli oggetti che regnano sovrani in questo secondo livello della mostra. Oltre ai classici artisti si dà spazio ai designer contemporanei, come Matteo Ragni e Matteo Thun, senza dimenticare la fortunata collaborazione con l’azienda italiana Kartel. La mostra termina con un attentissimo percorso sensoriale, un tunnel con diverse porte. Solo la vostra sensibilità e i vostri sensi vi faranno procedere: la pelle diventerà uno strumento per conoscere il mondo: per percepire la musica, i vari profumi d’èlite, le emozioni del cinema d’autore, ma anche il sapore del cioccolato piemontese e del caffè. Ogni stanza attraversata andrà scrupolosamente annotata su un apposito cartoncino, dopodiché si tirerà una somma con le cifre trovate. Cosa significa il risultato? Scopritelo voi. Al vernissage si è potuto assaggiare un cocktail d’autore: la base di questa delizia era composta ovviamente dal Campari, poi dal Velveth Cinzano, dalla soda Rosemary, dal Cynar e un tocco di Pepperminth. Decisamente un insolito insieme per un sapore nuovo ma che, nello stesso tempo, si può definire tradizionale. L’autrice di questa prelibatezza è la vincitrice del premio come miglior Barman Campari 2016, Luana Bosello. Luana si è lasciata ispirare dalla tradizione italiana del Campari, come base ha usato, infatti, spezie e sapori che ricordano Roma: “Un Americano a Roma” è il nome del cocktail. Questo slideshow richiede JavaScript. La Galleria si trova in Via Sacchetti, 20, Sesto S.Giovanni Sarà aperta al pubblico gratuitamente dal 13 ottobre sino al 22 dicembre di quest’anno, con i seguenti orari: Martedì, Giovedì e Venerdì alle ore 14.00, 15.30, 17.00 con visita guidata, più ogni secondo sabato del mese alle ore 10.00, 11.30, 14.00, 15.30, 17.00 sempre con visita guidata. E’ possibile prenotare le visite per gruppi su appuntamento anche in altri giorni e orari. "MUNDUS OTHER" seconda tappa della personale itinerante del pittore Daniele Bongiovanni Dal 17 al 30 ottobre verrà aperta al pubblico, all’interno del Centro Svizzero di Milano la mostra personale Mundus – Other di Daniele Bongiovanni, pittore italiano molto attivo anche in Svizzera. L’evento, patrocinato dal Consolato generale Svizzero a Milano e dalla Camera di Commercio svizzera in Italia, curato dallo storico dell’arte Gregorio Rossi, verrà lanciato come secondo capitolo di Mundus (2006 – 2016), mostra tenutasi precedentemente a Lugano presso gli spazi della CD Arts Consulting. Questa nuova esposizione prevede anche dei momenti multimediali, con proiezioni video dedicati all’artista e permetterà di scoprire il seguito di un percorso espositivo già consolidato. Nella capitale meneghina verrà posta in risalto una selezione di dipinti incentrati sul volto umano, soggetto molto amato, studiato e rappresentato dall’artista. ‘’L’intelligenza esige costanti confronti perché il sapere deve essere ancorato alla memoria permettendo però di trovare percorsi innovativi al proprio pensiero – scrive lo storico dell’arte Gregorio Rossi – Se Daniele Bongiovanni è stato influenzato dall’Espressionismo bisogna affermare che da questo non è stato condizionato ma, avendone appresa la lezione, ha trovato il suo personale stilema. La sua arte ci colpisce e spesso ci sorprende, dirada la nebbia dell’abitudine, non permette contaminazioni di categorie e luoghi comuni. Proprio nella successione dei quadri in questa antologica, possiamo coltivare la fantasia e quella visione interiore che potremmo riferire alle facoltà dell’occhio della mente, sul quale intervengono interferenze quando ci esprimiamo con le parole. Un pittore come questo ha lacerato lo schermo delle convenzioni teso tra i sui occhi e le cose; se posto davanti agli elementi ed ai metodi della conoscenza come a loro tempo fecero Cézanne davanti alla mela oppure Van Gogh davanti ad un campo di grano. Non ha escluso fatti ed aspetti della realtà, oltrepassando però frontiere fissate da teorie in uso comune.’’ Recentemente, in concomitanza con eventi espositivi in Italia, in Inghilterra e negli Usa, l’artista è stato impegnato in un progetto di ricerca negli studi di arte e design del centro RTR4C in California ed è stato presente nel padiglione dedicato all’arte contemporanea, all’evento Tattoo Forever curato da Marco Manzo, al Macro Testaccio di Roma, e al Fuorisalone – Milano Design Week, con un progetto personale dal titolo: La pittura di Daniele Bongiovanni incontra il Design, De Morphology – Natural. Nel 2016 per la sua attività fuori dai confini nazionali, è stato omaggiato dalla Camera di Commercio italiana per la Svizzera con una grande personale a Lugano. Le sue opere sono presenti in musei e fondazioni, in Italia e all’estero. “BAD MOMS – MAMME MOLTO CATTIVE”: QUANDO L'IMPERFEZIONE È LA VERA PERFEZIONE di Elisa Pedini – Arriva al cinema dal 13 ottobre “BAD MOMS – MAMME MOLTO CATTIVE”, scaturito dalla testa geniale e perversa dei registi di “Una notte da leoni” e “21&Over”: Jon Lucas e Scott Moore. Una pellicola esilarante, eccessiva, surreale, dissacrante, assolutamente psicopatica, insomma, da non perdere. Preparatevi a ridere fino alle lacrime dopo nemmeno dieci minuti dall’inizio del film. La trama è riassumibile in poche parole: Amy Mitchell è una donna bellissima, s’è sposata con Mike a vent’anni, ha due bambini: Jane e Dylan e lavora in un’azienda di caffè. Tutto sembra perfetto, se non fosse che: dovrebbe lavorare in part-time verticale e invece è sempre in ufficio, dovrebbe poter contare sul marito per la gestione della famiglia, mentre si ritrova al fianco una specie d’ameba, pantofolaia e indolente, vorrebbe avere una famiglia comunicativa e invece ha cresciuto due figli viziati, ansiosi e nevrotici. A tutto questo, si aggiungono le riunioni e gli impegni dell’Associazione Insegnanti-Genitori dell’idilliaca scuola elementare William McKinley, la di cui presidentessa, la perfettissima Gwendolyn James, supportata dalle sue amiche: Vicky e Stacy, tiranneggia tutte le altre madri, facendo un po’ il bello e il cattivo tempo come le pare. Tuttavia, proprio per il suo potere e il suo spirito altamente vendicativo, viene ubbidita e assecondata da tutte. Amy è sull’orlo di una crisi di nervi, ma non realizza quanto sia fasullo tutto quello che sta vivendo. Poi, nel giro di poche ore, si succedono una serie di, diciamo così, sfortunati eventi, sia interni alla famiglia, che esterni, culminanti in una magnifica riunione scolastica. Finalmente, Amy, trova il coraggio di dire “no”. Stringe amicizia con altre due mamme, Kiki e Carla e insieme, danno inizio alla loro rivoluzione di “mamme cattive”, riappropriandosi della loro identità e dei loro spazi. Ovviamente, la decisione, non sarà senza conseguenze e vedrà la triade delle “mamme cattive” contrapporsi a quella delle “mamme perfette”. Detto questo, va precisato che, “Bad moms” nasce dalle migliori intenzioni dei registi d’esaltare le loro mogli e tutto l’immenso, infaticabile, lavoro che, quotidianamente, svolgono. Pertanto, ci sono dei contenuti seri, sotto il paradossale aspetto del film. Primo fra tutti, il dilemma lacerante di qualsiasi genitore: “starò facendo bene?”; qui, parafraso una battuta proprio di “Bad moms” e dico: solo i figli potranno dirlo e quando saranno in grado di giudicare, sarà pure troppo tardi. Questa è una realtà, dura, forse spietata, ma fa parte del “contratto genitore” che si firma nel momento in cui si decide di mettere al mondo un figlio. Altra riflessione importante del film, è che lasciare i figli un po’ a se stessi, non significa abbandonarli, o amarli meno e anzi, non può far loro che bene. Spesso, nel tentativo di sentirsi “genitori perfetti”, si perde totalmente di vista il fatto che “crescere” significa, anche: tentare, sbagliare, migliorarsi e ritentare. Iper-proteggere, o, peggio ancora, risolvere costantemente i problemi ai figli, comporta, di fatto, non farli crescere mai. Questi sono i messaggi più importanti del film, per il resto, si muove su un sostrato di luoghi comuni: mamme iper-impegnate e padri indolenti o schiavisti. Tuttavia, essi sono necessari per costruire la solida, geniale, struttura su cui si basa questa spassosa commedia. Una maggiore aderenza al realismo, non avrebbe consentito le iperboli paradossali che rendono “Bad Moms” una commedia esilarante, che regala 80 minuti di sane, grasse, risate. Seguendo il più squisito e complesso metodo di “burlesco cinematografico”, i registi introducono “fratture” ben definite tra status del personaggio e il suo modo d’esprimersi, o tra modo di essere e modo di fare, o tra realtà percepita dal personaggio e realtà mostrata allo spettatore. Da qui, ne scaturisce un prodotto solido, sapiente e coerente, sia come regia, che come sceneggiatura. La commedia, di fatto, procede in modo, incredibilmente, compatto in un climax di “follia pura” e tale effetto è dato, proprio, dalle situazioni completamente surreali e da queste “fratture” operate ad arte. Ve ne descrivo una per tutte: il trio delle “mamme perfette” è davanti all’ingresso della scuola per distribuire i volantini della riunione. Sono ricche, ben vestite, impeccabilmente truccate e pettinate, quando, arriva lui, il papà dei sogni: bello, sexi, vedovo e dal sorriso smagliante. Bene, che le tre donne restino tutte compite e compunte, è abbastanza naturale, direi, che commentino tra loro, lo è altrettanto; ma, che lo facciano esprimendosi con un gergo che farebbe impallidire il Sergente Hartman, ecco, questo, è del tutto inatteso e crea una “frattura”. Oltre che risate a crepapelle, ovviamente. Questa particolare struttura del film, è supportata da un cast, semplicemente, superlativo: Mila Kunis (Il Cigno Nero), Kristen Bell (Frozen), Kathryn Hahn (Transparent), Christina Applegate (Anchorman), Annie Mumolo (Le amiche della sposa), Jada Pinkett Smith (Magic Mike XXL), Jay Hernandez (Siucide Squad), Clark Duke (Un tuffo nel passato), Emjay Anthony (Il libro della giungla), Oona Laurence (Il Drago invisibile) e David Walton (About a Boy). Questo slideshow richiede JavaScript. “BIANCONERI – JUVENTUS STORY”: LA PASSIONE DIVENTA UN FILM di Elisa Pedini – Nelle sale cinematografiche italiane, solo nelle date: 10, 11 e 12 OTTOBRE, arriva “BIANCONERI – JUVENTUS STORY”, l’atteso film su una delle squadre più antiche e forti d’Italia, per la regia di Marco e Mauro La Villa. Sul sito: www.juvestory.it, potrete trovare le sale che lo avranno in programmazione. “Bianconeri-Juventus story” è stato ardentemente desiderato dai registi, non solo per il personale piacere di tifosi di raccontare la storia d’una squadra che ha vinto tutto quello che si potesse desiderare di vincere; ma anche, per onorare la memoria del loro padre, Rosindo, juventino sfegatato. La pellicola, dunque, nasce da una profonda, generazionale, passione calcistica, che spinge i due fratelli a contattare Lapo Elkann, proponendogli un film indipendente sulla Juventus. L’intento iniziale, però, si trasforma in qualcosa di più profondo, che si fonde con la storia stessa del calcio italiano e con quella della famiglia Agnelli, il cui legame con questa squadra risulta essere unico al mondo, anche in ambito sportivo. Un’unione forte e unica, dunque, nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia, FINO ALLA FINE! Si, la formula non dice, esattamente, così; ma, l’idea che si ha di questo legame, è proprio quella d’un matrimonio indissolubile, che nulla ha potuto scalfire. I registi hanno lavorato, per cinque anni, direttamente con la società, i giocatori e la famiglia Agnelli, andando così a raccontare la storia del Club, in quello che è un viaggio dalla sua nascita, fino alla conquista della terza stella. Vengono rievocati i momenti più emozionanti, intensi, drammatici e trionfali, ma «con un punto di vista nuovo, umano, familiare», come sottolinea Ginevra Elkann. È indubbio che, questo tipo di taglio, che i registi hanno cercato, sia stato pienamente raggiunto: l’emotività viene, decisamente, sollecitata. Sono passata dal sorriso, al groppo in gola, fino a sentire i brividi per l’emozione. Tutto questo diviene ancor più lodevole se pensiamo che stiamo parlando d’un film su una squadra di calcio. Ritengo che, questa carica emotiva, veicolata dal documentario, sia possibile solo grazie alla reale, fortissima, passione, che c’è, alla base di questo lavoro e non solo da parte dei registi, ma anche dei protagonisti del film. “Bianconeri-Juventus story” si mostra come un sapiente e solido montaggio di immagini esclusive, video di repertorio, materiali inediti e bellissime interviste a illustri nomi del calcio mondiale, tipo: Buffon, Del Piero, Pirlo, Nedvěd, Chiellini e solo per citarne alcuni; oltre, naturalmente, ai racconti di Andrea Agnelli e di John, Lapo e Ginevra Elkann. La voce calda fuoricampo di Giancarlo Giannini, ci accompagna in questo viaggio nella storia affascinante della Juventus F.C. La squadra fu fondata nel 1897 a Torino, per opera d’un gruppo di amici appassionati di Football, sport che era stato appena importato dall’Inghilterra. Nel 1923, la famiglia Agnelli acquista la Juventus e inizia, così, una lunga storia storia d’amore che, a tutt’oggi, continua. Ci tengo a sottolineare, di nuovo, quest’aspetto, perché il legame umano, fortissimo e tangibile nelle interviste stesse, è alla base della forza di questa squadra, che non è arrivata a vincere tutto per caso, ma proprio grazie a questa unità, a questo fortissimo senso d’appartenenza, che ha permesso di superare, anche, i momenti più tristi e buî. Concludo, mettendo l’accento su alcuni aspetti che mi sono piaciuti molto. Ho già accennato all’inizio che, attraverso la storia della Juventus, si va, ovviamente, a toccare la storia dello stesso calcio italiano e per me, è stato molto interessante scoprire, ad esempio, come e quando è cambiato il mercato del calcio in Italia. Ai tempi ero una ragazzina e non m’interessavo di queste cose, pertanto, mi ha fatto piacere imparare qualcosa di nuovo. Inoltre, ho trovato molto intrigante la storia dell’arrivo di Platini in squadra: Gianni Agnelli vede in lui un potenziale enorme e decide di prenderlo, ne seguono: la trattativa segreta, gli imprevisti, i dialoghi, l’ingresso in squadra, fino alla consacrazione del mito di “Le roi”. Preciso che, ai tempi, il regolamento per le squadre di serie A, imponeva la presenza di massimo due stranieri e la Juventus aveva appena acquistato Boniek, ne derivò la pesante scelta dell’Avvocato, di doversi privare d’un altro campione per scommettere sul giovane Michel. Un altro aspetto che ho molto apprezzato è che l‘affaire “Calciopoli” è trattato in modo fedele, quasi cronachistico, da parte dei registi, mentre la visione interna e l’impatto emotivo sono lasciati, esclusivamente, alla viva voce degli intervistati, ovvero, di coloro che l’hanno vissuta dal “di dentro”. Decisamente, un film ben fatto e molto interessante. Ovviamente, nasce come tributo ai tifosi juventini; ma non mi sento d’escludere che, anche chi fosse tifoso di altre squadre o, addirittura, chi fosse indifferente al calcio, non possa trovarvi spunti di riflessione profondi, che vanno ben oltre lo sport stesso. Infine, è importante ricordare che “Bianconeri – Juventus story” è anche un libro, già in vendita dal 6 ottobre, dove la storia della “Vecchia Signora” è narrata in maniera emozionante e di grande impatto visivo, naturalmente, aggiornata fino all’ultima straordinaria stagione. Questo slideshow richiede JavaScript. RIVUS ALTUS: frammenti visivi per ricostruire Venezia 11.354 foto-tasselli, 264 ore di appostamento, 15.963 persone ritratte. Non sono numeri a caso ma quelli di RIVUS ALTUS, 10.000 frammenti visivi dal ponte di Rialto a Venezia, la grande mostra fotografica ospitata presso il suggestivo Centro Culturale Don Orione Artigianelli, un antico convento ristrutturato ed attrezzato con le più moderne tecnologie, situato nel centro storico di Venezia, dall’8 Ottobre al 27 Novembre 2016. La mostra propone una inedita e originale ricostruzione fotografica del panorama veneziano così come appare da suo punto più celebre, ovvero dal Ponte di Rialto. Gli elementi presenti nell’installazione trovano un valore aggiunto nella partecipazione di The Boga Foundation: la serie di sculture Homini, infatti, dialoga con gli elementi della mostra, mettendo così in relazione i visitatori e le persone ritratte. Il progetto fotografico si ispira al testo di Georges Perec “Tentativo di esaurimento di un luogo parigino” (Parigi, 1975), in cui l’autore descrive una piazza parigina da differenti punti di vista e in diversi momenti, annotando ogni variazione. L’architetto e fotografo milanese Massimiliano Farina indaga il concetto di stereotipo in quanto visione semplificata e largamente condivisa di un luogo, registrando con la macchina fotografica tutto ciò che accade (o non accade) durante i suoi lunghi appostamenti al centro del ponte. Nel luogo dove lo stereotipo della città veneziana si perpetua, grazie alla smania collettiva di fotografare il panorama sul Canal Grande e assicurarsi una foto ricordo, c’è però anche chi si abbandona alla visione suggestiva. In questo progetto fotografico, Massimiliano Farina riesce a cogliere questa eterogenea dimensione sensibile, catturando gli sguardi e le azioni delle persone che circondano la sua postazione privilegiata. Il progetto Rivus Altus si compone così di due elementi distinti, in continuo dialogo tra loro: il panorama e i suoi osservatori. La vista sul canal Grande è composta da un mosaico fotografico di 78 frammenti, frutto di una selezione delle 11.354 immagini raccolte dall’autore, in grado di cogliere nel dettaglio la mutevole natura del soggetto ritratto. Grazie alle innumerevoli combinazioni possibili, il frantumato stereotipo di Venezia viene così ricostruito con esiti di volta in volta inattesi e sorprendenti. L’approccio utilizzato dall’autore per ritrarre gli osservatori, gli “abitanti di Rialto”, ricalca quello utilizzato per restituire un’immagine complessa del panorama. Grazie alla scatto quasi simultaneo di due fotocamere unite da un braccio meccanico è stato possibile catturare gli sguardi dei passanti in una veloce sequenza di immagini. Questi ritratti doppi che differiscono tra loro per tecnica, tempi di posa, zoom e movimenti, sono stati successivamente riuniti in dittici fotografici e proposti in bianco e nero. La scelta cromatica è un vero e proprio escamotage simbolico-figurativo grazie al quale l’autore distingue il proprio punto di vista, il panorama, dalla rappresentazione di quello degli osservatori, conservandone l’aspetto dialogico. Come tributo al 50esimo della scomparsa di Alberto Giacometti e in ricordo della sua partecipazione alla Biennale del 1956 con la Femme de Venise, saranno presenti due sue opere appartenenti alla collezione di The Boga Foundation: Donna che cammina e Nudo in piedi. L’eclettica creativa dei Boga, attraverso le loro visioni post-moderne e surreali, trova infatti preziosa fonte di ispirazione dall’opera di Giacometti. Attraverso le sculture della linea Homini by Boga presenti in mostra, gli osservatori ritratti nei dittici di Massimiliano Farina trovano una parallela rappresentazione materica, proiezione silenziosa dell’essere umano. La duplicità espressiva di Rivus Altus rivela così un’eccezionale interconnessione con l’arte forgiata dai Boga, parte integrante dell’installazione. L’Homino dei Boga è l’essenza dell’essere umano e con il suo contorno sottile, impreciso, fallibile e grezzo osserva l’orizzonte. L’Homino è “abitante di Rialto”, guarda lo scorrere del tempo muovendosi attraverso l’idea progettuale e prende vita con un segno libero che ne determina i confini, trascendendoli. In occasione della mostra sarà presentata la nuova collezione Homini – The Last Supper e l’opera Il Gelataio. RIVUS ALTUS | 10.000 frammenti visivi dal ponte di Rialto a Venezia con il contributo artistico di The Boga Foundation, il patrocinio del Comune di Venezia e dell’Università IUAV 8 Ottobre – 27 novembre 2016 Centro Culturale Don Orione Artigianelli | Zattere Dorsoduro 909/A – 30123 Venezia 7 ottobre h.12.30 press preview – h.18.30 inaugurazione ORARI: Tutti i giorni dalle 10 alle 13 e dalle 14 alle 20 | INGRESSO GRATUITO SOCIAL MEDIA: Facebook: https://www.facebook.com/ilpontedirialto Instagram: https://www.instagram.com/maxfarina hashtag ufficiali: #rivusaltus #pleasemyfriendgivemethemoney THE BOGA FOUNDATION: http://thebogafoundation.it/ Facebook: https://www.facebook.com/quandoilpensierosuperailgesto SONORIZZAZIONE: Sursumcorda MEDIA PARTNER: Hestetika PARTNERS: AimOne – ArT – Za SPONSORED BY: NOVACOLOR – Habitare – Idee Culturali – Mllo Architects CONCEPT, SET UP AND COMMUNICATION: Farina Zerozero “LETTERE DA BERLINO”: UN CAPOLAVORO DI REGIA E INTEPRETAZIONE di Elisa Pedini – Dal 13 ottobre al cinema, “LETTERE DA BERLINO”, il toccante film dell’attore e regista svizzero Vincent Pérez. La pellicola è tratta dal libro “Ognuno muore solo”, di Hans Fallada, che, a sua volta, nasce da una storia vera: da un dossier della Gestapo su una coppia di coniugi come tanti, due operai, Otto ed Elise Hampel, giustiziati nel 1942 per aver diffuso materiale anti-nazista. Una regia, magistrale e sapiente, trasla in linguaggio cinematografico, la vita di questa famiglia berlinese e tutto quello che consegue dalle loro azioni. “Lettere da Berlino” è un film profondo, coinvolgente, intelligente, da non perdere e da gustare sin dalla prima inquadratura. La trama, purtroppo, è storia e sappiamo già come va a finire, inutile illudersi che dentro un regime ci sia spazio per le idee, per l’individuo, per il dolore. Tuttavia, tanto per il libro quanto per il film, è come il materiale viene trasmesso al pubblico che conta. Qui, la regia, gioca un ruolo fondamentale. Si prende sulle spalle la pesante responsabilità di farsi muta relatrice d’un nazismo, che non è quello dei lager e delle stragi di massa, ma è quello dello stillicidio quotidiano, giocato tra terrore, delatori, umanità e vita di tutti i giorni della gente comune. Caratteristica primaria e geniale di “Lettere da Berlino”, è che la telecamera è sempre l’occhio dello spettatore, sempre. Le emozioni inconsce, che si provano, guardando questo film, sono, esattamente, le stesse, che si provano di fronte alla Storia: dolore, rabbia e soprattutto, impotenza. Quello che sta davanti ai nostri occhi è già accaduto, in un passato, che non è remoto, ma, che, è comunque “stato” e come tale, è immutabile. La telecamera è l’occhio impotente di chi guarda. Sfruttando tutta la gamma delle inquadrature, il regista relega lo spettatore, lì, sulla sua poltroncina. Essere umano e testimone, muto, della stessa violenza umana, senza scampo e senza diritto di replica. Persino nei dialoghi tra i personaggi, il punto di vista è sempre quello dello spettatore. Un occhio che indaga, che scende nello sguardo dei protagonisti e da lì nell’anima, disperata e disperante, di chi ha perso il bene più caro; ma, proprio in questa perdita, ritrova la sua dignità, la sua identità d’individuo, la sua libertà. Tuttavia e qui subentra il tocco del genio, quella telecamera, rapida entra in soggettiva nei momenti cruciali, nei momenti interiori, quelli che, la Storia, non può raccontarci, ma l’anima, si. Ora, vi prendo per mano e vi porto nel film, proprio dal punto di vista tecnico, solo l’inizio, lo spazio non mi concede d’indulgere oltre, né posso stressare la vostra pazienza; ma, mi piace che, davanti al grande schermo, voi ritroviate queste parole e prestiate attenzione alle emozioni interiori e al lavoro della telecamera. Il film si apre con un bosco dalla vegetazione lussureggiante, d’un verde brillante. Una brezza, leggera e calma, accarezza gli arbusti. Quiete e un dolce stormir di fronde. Un sorriso affiora sulle labbra, perché è una sensazione di pace profonda, quella che il nostro cervello registra. Ma i tempi sono ben calibrati: nell’esatto istante in cui, questa emozione viene realizzata, la corsa disperata d’un soldato, giovane e bellissimo, squarcia quel silenzio, devasta quella quiete. Poi, uno sparo e un altro e quella vita, si spezza. Cade rivolto al cielo. Mentre la battaglia impazza, l’inquadratura “muore” sullo sguardo d’una giovane vita che finisce e che vola fra le cime degli alberi, che non sono più quiete, ma agitate e sbattute da un vento forte. È il vento della guerra, che si combatte ai loro piedi. Quegli alberi sono come noi: testimoni impotenti. Intanto, a Berlino, gli strilloni gridano alla vittoria. La Francia è stata battuta e il Reich impera. Festa per le strade. Euforia. Non per tutti. La postina Kluge sta andando a recapitare una lettera della posta militare, battuta a macchina. È per la famiglia Quangel. Lo spettatore è sempre lì, a fare da censore muto del dolore, che trascina la postina sulla sua bicicletta, verso la casa dei Quangel, persone che lei conosce e cui deve recapitare la peggiore delle notizie. Per lo spettatore è chiaro che ha a che fare con quel ragazzo morto. È qui, che si comincia a deglutire a fatica. Anna Quangel va ad aprire e ritira la lettera. Trema, ha già capito. Come noi, del resto. Noi, spettatori, che alla morte del figlio abbiamo assistito. Noi, che c’eravamo. Va in cucina, una stanza illuminata, ma i colori sono freddi. Non il maglione di lei, non il cuore d’una madre. Dal buio dell’altra stanza, arriva Otto, il marito. Dal buio alla luce. Dal silenzio al grido. La telecamera entra in soggettiva e diventa gli occhi di Anna, sulle sue mani tremanti di madre, che straccia la busta e legge. Hans, il loro unico figlio, è morto. Da eroe, dice la missiva, per il Führer. Ma questo, non può dare conforto a due genitori. Anna e Otto, non sono iscritti al partito, ma, come tutti, devono convivere col regime. Otto è capo officina in una fabbrica di bare, dove troneggia il poster propagandistico all’arruolamento. Il primo piano americano ci mostra un Otto, attonito e devastato, di fronte a quella scritta: «Auch du» (anche tu). Come la Fenice rinasce dalle sue ceneri, così, Otto e Anna, dalla morte interiore, riaffermano il loro diritto alla vita, alla libertà. Per Otto e Anna, è giunto il tempo della verità. La trasformazione interiore di quest’uomo è scandita magistralmente. Le soggettive, che v’invito a notare con particolare cura, come, per esempio, quella di Otto sul libro del figlio e sulla cartolina del Führer, che diventa «Der Lügner» (il bugiardo), servono proprio a portarci dentro l’anima dei due protagonisti, ad andare oltre la Storia. Otto e Anna cominciano la loro rivoluzione silenziosa. La rivoluzione più temuta da qualsiasi regime: quella delle idee. In due anni, dal 1940 al 1942, scrivono 285 cartoline, la loro «Freie Presse» (stampa libera), che disseminano per Berlino, dapprima negli uffici e poi, ovunque nella città. Quasi tutte, però, finiscono nelle mani dell’ispettore Escherich. Non vi dico altro, ma ci sarebbe tantissimo da dire su questo film. “Lettere da Berlino” è un capolavoro che va visto. Il finale simbolico, ci passa un messaggio forte e preciso: le idee non muoiono mai e scavano solchi profondi. Il pensiero è l’unica caratteristica, squisitamente umana, che può volare. Infatti, proprio come gabbiani, le idee turbinano nel loro volo libero. La fotografia, affidata al maestro Christophe Beaucarne (Tournée, Coco avant Chanel-l’amore prima del mito, Dio esiste e vive a Bruxelles), incanta come sempre. Semplicemente impeccabile e non avrebbe potuto essere diversamente, l’interpretazione d’un grande cast: Emma Thompson nel ruolo di Anna Quangel, Brendan Gleeson in quello di Otto Quangel e Daniel Brühl nella parte dell’ispettore Escherich. Questo slideshow richiede JavaScript.