il punto - Centro Studi Calamandrei

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il punto - Centro Studi Calamandrei
IL PUNTO
Le notizie di
LiberaUscita
Aprile 2008 - N° 45
SOMMARIO
LE LETTERE DI AUGIAS
746 - Quando il feto non si poteva battezzare
747 - L’idea del male nei rapporti sessuali
748 - L’applicazione della legge 194
ARTICOLI E INTERVISTE
749 - Quando il medico rifiuta la pillola del giorno dopo – di Miriam Mafai
750 - Obiezione di coscienza o di prepotenza? – di Giampietro Sestini
751 - Testamento biologico: basta un euro - di Edoardo Semola
752 - Testamento biologico: e se lo porto dal notaio? di Marco Bazzichi
753 - Quanto è cristiana la destra - di Barbara Spinelli
754 – I due Benedetto contro l’illuminismo - di Mario Pirani
755 - Ai confini della laicità - di Gad Lerner
756 - Zapatero inventa la morte dignitosa - di Claudio Siniscalchi
757 - Lezioni di democrazia - di Nello Ajello
758 - La sinistra succube della destra - di Fabrizio Rondolino
DALLA ASSOCIAZIONE
759 - Nuovi servizi di cittadinanza
760 - Amsterdam: la morte assistita in Europa – di Maria Elinda Giusti
761 - Firenze - convegno su testamento biologico ed eutanasia
762 - Giancarlo Fornari scrive a Maria Antonietta Coscioni
PER SORRIDERE…
763 – Le vignette di Giuliano – Berlusconi e Malpensa
LiberaUscita
Associazione nazionale di promozione sociale, laica e
apartitica, per la promozione dei diritti fondamentali della
persona, per il testamento biologico e l’eutanasia
Sede: via Genova 24, 00184 Roma - Telefono e fax: 0647823807
Sito web: www.liberauscita.it - email: [email protected]
746 - QUANDO IL FETO NON SI POTEVA BATTEZZARE – DI CORRADO AUGIAS
da: la Repubblica di giovedì 3 aprile 2008
Caro Augias,
nel rinnovato dibattito su aborto e legge 194, si torna ad ascoltare l’argomento dell’embrione
come essere umano, «terzo» da salvaguardare. Mi colpisce l’assenza di un’argomentazione
che i laici a mio parere dovrebbero adottare: finché l’embrione non ha possibilità dì
sopravvivere al di fuori del corpo della madre non può essere considerato terzo soggetto. E’
una situazione unica fra quelle date in natura, un sistema temporaneamente più complesso
del normale nel quale non c’è una chiara separazione fra la madre e l’embrione/feto. E’
previsto dalla nostra natura di mammiferi che ci sia un passaggio nel quale la madre non è
un mero contenitore di un essere che si sviluppa da sé, ma al contrario una fattrice
onnipotente senza la presenza della quale l’embrione non sarebbe nulla.
Almeno nelle prime 22/24 settimane, l’embrione è totalmente integrato nell’organismo
materno, al di fuori del quale non sopravvivrebbe. Fa tristezza vedere invece quante donne
facciano proprio il punto di vista maschile, secondo il quale il proprio ruolo femminile non
avrebbe alcuna preminenza rispetto a quello maschile: l’asimmetria fra i sessi è quanto di
più naturale esista, così come l’enorme potenza creatrice affidata a femmine e donne, dalla
quale noi maschi umani continuiamo evidentemente a essere terrorizzati,
Gianluca Barbaro - Milano [email protected]
Risponde Augias
In una visione puramente naturalistica, il feto alle primissime settimane di vita è stato
descritto come un parassita della madre. Infatti la definizione biologica di parassita è:
Organismo animale o vegetale che vive parzialmente o totalmente a spese di un altro
individuo detto ‘ospite’. Dal punto di vista tecnico è esattamente la situazione del feto. Ovvio
peraltro che applicare questa definizione a un grumo di cellule che racchiudono un
organismo umano in potenza è ripugnante, infatti il parallelo va respinto poiché ci sono in
quel ‘grumo’ componenti che la crudezza materialistica dei termini esclude. La lettera del
signor Barbaro richiama però una circostanza storica analoga che merita di essere ricordata.
Nel suo libro ‘Battesimi forzati’ (Viella editore), la prof Marina Caffiero ha ricostruito sulla
base di documenti inoppugnabili che nella Roma dei papi (cioè fino al 1870) poteva
accadere che un ebreo, forzato o convinto a passare al cristianesimo, chiedesse di
aggiungere al numero dei familiari convertiti, oltre a sua moglie, anche il bambino in
gestazione. La moglie veniva senz’altro accolta mentre la risposta per il feto era negativa in
quanto un embrione non aveva uno status giuridico che permettesse di considerarlo come
persona autonoma, indipendente dal corpo della madre che lo teneva in vita.
Può darsi che la chiesa sbagliasse allora e che la sua posizione attuale, che considera il
concepito essere umano ben definito fin dalla prima suddivisione cellulare, sia la teoria
giusta.
Resta però il radicale mutamento di opinione; stabilire che quella posizione fosse sbagliata e
che la presente sia quella giusta è anch’essa un’opinione.
747 - L’ IDEA DEL MALE NEI RAPPORTI SESSUALI – DI CORRADO AUGIAS
da: la Repubblica di venerdì 11 aprile 2008
Gentile Augias, ho letto su la Repubblica l’articolo «No alla pillola del giorno dopo. Pisa, la
Procura apre un’inchiesta» e sono riuscita a dare voce a un interrogativo che mi girava nella
mente da tempo. Se le leggi servono a regolare i rapporti fra gli individui in modo che non
prevalga il diritto dell’uno su quello dell’altro (ovvero, il sopruso), com’è possibile che esista,
soprattutto nel caso della pillola del giorno dopo, la possibilità dell’obiezione di coscienza?
Come si può opporre la propria coscienza a una scelta che riguarda un’altra persona ed è
tutelata da una legge dello Stato? La Procura infatti ha aperto un’inchiesta ma anche il
ministro della salute Livia Turco non è stata chiara. Ribadisce, sì, che la pillola del giorno
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dopo non è una pillola abortiva, però non afferma che allora non esiste diritto all’obiezione di
coscienza; dice solo che dovrebbe essere garantita la presenza di personale e medici non
obiettori nei pronto soccorso e nelle guardie mediche. Il ragionamento dovrebbe comunque
estendersi anche al diritto all’aborto, perché il riconoscimento dell’obiezione di coscienza
nelle strutture pubbliche va sempre a detrimento del singolo che si vede negato un diritto
tutelato dalla legge. Come mai è così esteso il diritto di obiezione solo nel caso di leggi che
riguardano una scelta delle donne?
Susanna SinigagIia - [email protected]
Risponde Augias
Ogni giorno ricevo lettere di donne costrette all’umiliante serie dei rifiuti, di medico in medico,
di ospedale in ospedale, per ottenere la prescrizione ad un medicinale che in Europa,
ricordo, viene spesso distribuito nei dispensari delle scuole. La pillola del giorno dopo è un
contraccettivo non un abortivo, tecnicamente non è diverso dalla pillola presa ogni giorno
che impedisce l’ovulazione o da un qualsiasi contraccettivo meccanico maschile o femminile
che blocca il cammino dello spermatozoo verso l’ovulo. A questo dunque si oppongono gli
obiettori: la scelta consapevole di una donna che non desidera trasformare un rapporto in
gravidanza.
Una materia nella quale nessuno ha diritto di interferire. A meno di non voler tirare in ballo la
dottrina che vieta i rapporti sessuali non finalizzati alla procreazione. Ma questa (ammesso
che sia ancora in vigore) è materia di fede. Era il motto ricamato sulle camice da notte delle
bisnonne che recitava «Non lo fo per piacer mio ma per dare un figlio a Dio».
Uno degli aspetti vergognosi di questa trafila è la sua ipocrisia. Non si ha coraggio di
affrontare frontalmente il problema perché tutti sanno che uno scontro diretto sarebbe
respinto dalla maggioranza degli italiani. Allora si lavora sui fianchi, si cerca il logoramento
lento, la malizia trasversale, il diniego motivato dalle ragioni più varie non escluse quelle
della convenienza spicciola, oppure della battaglia ideologica. Dimentichi che è in ballo
l’applicazione di una legge la quale solo nei paesi islamici non ha la precedenza sulla
valutazione del possibile ‘peccato’.
748 - L’APPLICAZIONE DELLA LEGGE 194 – DI CORRADO AUGIAS
da: la Repubblica di domenica 20 aprile 2008
Caro Augias, mia moglie era incinta alla 19-sima settimana. Alla bimba viene diagnosticata
una malformazione cardiaca che le avrebbe dato morte certa ma in tempi da definire.
All’ospedale cattolico ci fanno intendere che l’aborto terapeutico è la soluzione più
caritatevole. Il ginecologo di mia moglie ci dà gli indirizzi delle cliniche londinesi «a 20 minuti
dall’aeroporto». Io m’incaponisco nell’esigere un diritto di legge in Italia.
In estate in tutta Roma ci sono solo 2 ospedali che fanno questo intervento: nei primo l’unico
ginecologo non obiettore è in ferie, nell’altro il dottore sarà di turno notturno di lì a 4 giorni.
Dopo una settimana riusciamo a essere presi in carico. Lo psichiatra chiede a mia moglie se
«dopo pensa di stare male»; nel dubbio le prescrive tranquillanti e antidepressivi perché
dopo non ci saranno altre visite.
In camerata, un’attivista di movimenti Pro-life avvicina mia moglie senza che il suo parere
fosse richiesto.
Il giorno prima dell’induzione del parto naturale, un dottore compassionevole ci suggerisce
sottobanco di fare richiesta di non accanimento terapeutico, come per i malati terminali.
Lara, nostra figlia, muore naturalmente poche ore prima dell’inizio del travaglio. Il travaglio e
la rottura delle acque avvengono in una camerata da 8 durante l’ora di ricevimento parenti. Il
travaglio non avviene in sala parto perché «lì nascono i bimbi sani e sua moglie potrebbe
averne delle ripercussioni psicologiche».
Valuti lei cosa c’è da rivedere nell’applicazione della 194.
Angelo Pugliese
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Risponde Augias
A questa rubrica arrivano spesso lettere di pazienti che tengono a esprimere la loro
riconoscenza verso la struttura sanitaria che li ha accolti e guariti con competenza e
umanità. Premetto questo perché non si pensi che è la sanità in generale a non funzionare.
E’ vero il contrario, la sanità italiana resta tra le migliori. Poi però ci sono i casi come quello
raccontati dal signor Pugliese che mi chiede che cosa ci sia da rivedere nella legge 194
sull’aborto. Probabilmente la rete dei consultori, mi pare che su questo siano tutti d’accordo
anche se i consultori costano e i soldi scarseggiano. Ma i cambiamenti veri credo che
vadano fatti sulla mentalità più che sulle norme.
Chi ha autorizzato l’attivista Pro-life ad aggirarsi nelle corsie? A dare il suo messaggio non
richiesto in un momento così delicato? Perché la signora Pugliese ha dovuto affrontare il
travaglio in quella camerata dove le altre pazienti ricevevano amici e congiunti?
E’ quando si insinua il tarlo dell’ideologia che la sanità comincia a funzionare peggio. Il tarlo
si annida cioè nel presupposto che si sta cercando di spacciare secondo il quale chi predica
contro l’aborto sta dalla parte del bene e chi all’aborto vuole ricorrere per sue insindacabili
ragioni ha invece torto comunque.
Se fosse solo questione di migliorare una legge sarebbe forse (tre volte forse) più facile.
Introdurre una mentalità che tuteli meglio i diritti degli individui con tradizioni come le nostre
è molto più difficile.
749 - QUANDO IL MEDICO RIFIUTA LA PILLOLA DEL GIORNO DOPO – DI M. MAFAI
Da: la Repubblica di mercoledì 2 aprile2008
Un medico non può rifiutarsi di prescrivere la cosiddetta “pillola del giorno dopo” a una
donna che ne faccia richiesta. Né un farmacista può rifiutarsi di venderla. Né il medico né il
farmacista possono in questo caso fare ricorso alla obiezione di coscienza. Al contrario
rischiano una sanzione disciplinare dell’azienda sanitaria dalla quale dipendono e una
denuncia alla magistratura.
E’ quanto è accaduto recentemente a Pisa dove la guardia medica e il pronto soccorso
hanno rifiutato a due ragazze l’anticoncezionale di cui avevano bisogno.
“Il personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie non è tenuto a prendere parte agli
interventi per l’interruzione della gravidanza quando sollevi obiezione di coscienza, con
preventiva dichiarazione”: così recita l’articolo 9 della legge 194. E’ in questo caso e solo in
questo caso, esplicitamente previsto dalla legge, che un medico può rifiutarsi di dare
assistenza a una paziente. E’ impensabile che questa facoltà venga estesa, quale che ne
sia la giustificazione, alla prescrizione e alla vendita di un anticoncezionale.
Ma a Pisa, nei giorni scorsi, questo è accaduto. Può darsi, naturalmente, che si tratti di un
caso isolato. Di un medico o di un farmacista che forse immagina di vivere nello Stato
Pontificio anziché nella nostra Repubblica. Qualcuno, spero, lo convincerà che si è sbagliato
e che anche in quel di Pisa valgono le nostre leggi.
Ma non vorremmo, invece, che questo episodio fosse il segnale, da parte cattolica, di
qualcosa di diverso, di una nuova campagna (culturale? politica? ideologica?) contro le
donne e il loro pieno diritto di servirsi di tutti gli anticoncezionali autorizzati dalla legge (dalla
spirale alle pillola del giorno prima a quella del giorno dopo). Il cui uso, tra l’altro, andrebbe
largamente promosso, quale che sia in materia la posizione della Chiesa, anche per evitare
gravidanze indesiderate e l’eventuale ricorso all’aborto.
Un caso analogo a quello di Pisa si verificò, a quanto ricordiamo, nell’ormai lontanissimo
1994 quando un farmacista e una dottoressa cattolica si rifiutarono di prescrivere e di
vendere contraccettivi appellandosi alle proprie convinzioni religiose. All’epoca il ministro
della Sanità, la democristiana Maria Pia Garavaglia, richiamò immediatamente il farmacista
e la dottoressa al rispetto delle leggi dello Stato italiano che consentivano la vendita dei
contraccettivi (e ne ebbe per questo un duro richiamo dell’Osservatore Romano).
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Nessun dubbio che un analogo richiamo alle leggi dello Stato italiano verrà espresso
dall’attuale ministro della Sanità, dall’Azienda Sanitaria da cui dipendono il medico e il
farmacista di Pisa, e dal Consiglio Regionale della Toscana che aveva già avvertito che
sarebbero stati responsabili di interruzione di pubblico servizio i medici che avessero rifiutato
di prescrivere la “pillola del giorno dopo”.
E tuttavia non possiamo fare a meno di valutare l’episodio di Pisa come allarmante non solo
per quanto si riferisce alla condizione delle donne, alla loro libertà e al loro diritto alla
contraccezione, ma anche per quanto si riferisce al principio di laicità del nostro paese. In
particolare quando, come oggi accade, la Chiesa cattolica rivendica una maggiore presenza
nello spazio pubblico. Ma questa maggiore presenza nello spazio pubblico non può
comportare la imposizione di una serie di scelte etiche di matrice cattolica a tutta la nostra
società, ormai largamente secolarizzata. Né, tantomeno, la possibilità o il diritto per i
cattolici, di sottrarsi alle leggi dello Stato quando queste sembrino loro in contrasto con le
proprie convinzioni religiose.
Nella sfera privata questa possibilità è certamente garantita. Il cattolico potrà certamente
non fare ricorso né al divorzio né all’aborto (per citare due leggi dello Stato nei confronti
delle quali la Chiesa conferma legittimamente la sua intransigenza), ma una analoga scelta
non è possibile né pensabile quando il cattolico opera nella sfera pubblica (come nel caso
del farmacista o del medico di Pisa). Nella sfera pubblica infatti valgono per tutti, quali che
siano le scelte etiche o religiose, le leggi dello Stato.
Ed è bene che sia così. A nessuno di noi, penso piacerebbe vivere in una società nella
quale dovessimo chiedere al medico o al farmacista cui ci rivolgiamo quotidianamente quali
sono le sue profonde convinzioni religiose. Faccio un esempio classico a proposito della
necessaria neutralità di coloro che operano nello spazio pubblico, I Testimoni di Geova,
come noto, sono contrari alle trasfusioni di sangue e la loro richiesta, per quello che so,
viene rispettata nei nostri ospedali quando avanzata da un adulto cosciente. Ma un medico
testimone di Geova che operi in un ospedale non potrà rifiutare, per quello che so, una
trasfusione di sangue a un paziente che ne abbia bisogno. O dovrò chiedere al medico che
mi opera, prima di entrare in sala operatoria, quali sono le sue convinzioni religiose?
750 - OBIEZIONE DI COSCIENZA O DI PREPOTENZA? – DI GIAMPIETRO SESTINI
Abbiamo avuto modo di esprimerci sul tema della “obiezione di coscienza” in proposito
allorché la federazione nazionale degli infermieri stava approvando un nuovo codice
deontologico che prevedeva, tra l'altro, che in presenza di richieste dei pazienti "in contrasto
con i principi etici della professione e con i propri valori, l'infermiere si avvale dell’obiezione
di coscienza" (vedi: IL PUNTO n° 43). Sostenemmo in quella occasione che un codice
professionale di categoria non può essere contrario alla legge, alla quale – come
giustamente osserva Miriam Mafai – tutti debbono attenersi, quali che siano le scelte etiche
o religiose individuali. Di conseguenza, se un dottore o un farmacista si rifiutano di
prescrivere o di vendere un prodotto farmaceutico consentito dalla legge, commettono un
reato. O cambiano il loro comportamento o vanno sostituiti. Ci saremmo atteso che l’on.
Gasparri, che aveva proposto il licenziamento di 67 professori soltanto perché avevano
esercitato il loro diritto democratico di scrivere una lettera al Magnifico (?) Rettore
dell’Università “La Sapienza” di Roma, si sarebbe scagliato ancora più drasticamente contro
coloro (il medico e il farmacista di Pisa) che impedivano ad altri cittadini di esercitare il loro
diritto democratico, ma nulla ha detto in proposito. Con l’occasione ricordo che il codice
deontologico degli infermieri allargava a dismisura il concetto di “obiezione di coscienza”, in
quanto lo legava non soltanto ai” principi etici della professione” ma anche ai “valori” del
singolo infermiere. Non soltanto, dunque, un infermiere testimone di Geova potrebbe
rifiutarsi di prelevare il sangue ad un malato che ne ha bisogno, ma addirittura un infermiere
razzista potrebbe rifiutarsi di curare un negro perché “in contrasto con i propri valori”. E’
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triste dover costatare che mentre i gravissimi problemi del pianeta dovrebbero essere
affrontati con il massimo di solidarietà da tutti gli esseri umani, il nostro Paese si distingue
per le divisioni, la rissosità, l’egoismo individuale e di corporazione, l’inosservanza delle
leggi, la criminalità diffusa, il razzismo, la mancanza di un senso unitario dello Stato e ora
anche di laicità delle istituzioni.
Risponde Giuliano degli Esposti
Inviato: sabato 5 aprile 2008 10.10.23
Dinnanzi ai dissennati attacchi alla 194, al concetto di vita, alla insindacabile volontà e scelta
delle donne, ai vari Ruini/Ferrara, l'uno giustificato dalla logica della sua tuta rossa, l'altro
non si sa bene da cosa; forse dal fatto che dopo aver attraversato l'intero arco costituzionale
gli mancava questa posizione che chiamare teocons sarebbe nobilitarla di molto.
Dinnanzi a queste cose, dicevo, che fondamentalmente vogliono imporre la visione di
un'etica cattolica quand'anche in contrapposizione con l'etica comune, più diffusa, ed anche
contro le leggi dello stato, non resta che "sguainare la spada" ed accettare la sfida. senza
dimenticare la legge 40 sulla fecondazione assistita, che oltre a stabilire il numero degli
embrioni da impiantare, proibisce la diagnosi preimpianto con una visione di parte, logica
nella sua consequenzialità, ma terribile nei confronti delle coppie che cercano la
fecondazione artificiale, lasciandole nell'atroce dubbio del risultato dell'impianto,non resta
che essere massimamente solidali con le donne che non vogliono essere escluse da una
decisione che la natura ha riposto solo in loro; le donne che ricorrono all'IVG possono
essere sposate ma anche nubili; possono essere donne adulte e consapevoli,ma anche
giovani inesperte; la 194 prevede oltre ad un periodo preciso entro il quale si può effettuare
l'IVG,anche una serie di colloqui con operatori e psicologi che hanno il compito di esaminare
con serietà e senza preconcetti i motivi che portano la donna a quella decisione; si pensi che
la legge è talmente ben fatta che qualora la persona che vuole affrontare l'IVG sia minore di
età prevede la figura del giudice tutelare che ,senza informare i genitori della ragazza, dia lui
il permesso a procedere.
In un primo tempo i teocons hanno chiesto(non più tardi di ieri ferrara ha chiesto in TV
l’applicazione della 194 in toto chiaramente riferendosi a questo aspetto) che all'interno dei
consultori pubblici e nei reparti di ginecologia ci fossero dei volontari, chiaramente del
movimento per la vita, che approfondissero le tematiche individuali, chiaramente con il fine
della dissuasione: pensatevi quale violenza indicibile nei confronti di persone, anche giovani,
che non solo soffrono quella lacerante decisione, ma si trovano davanti personaggi,anche
un pò esaltati, che, magari offrendo quattro palanche come soluzione del problema, non
fanno altro che cercare di far tornare sulle loro decisioni le donne, aggravando soltanto i
sensi di colpa che già le lacerano.
Detto questo, che mi pare renda comprensibilissima la mia posizione, devo dire due parole
sull'obiezione di coscienza.
L'obiezione di coscienza è quella cosa che, dichiarata formalmente dall'individuo, gli
permette di essere esentato da alcuni specifici impegni: mi viene a mente che, quando ho
fatto io il militare, l'obiezione era considerata un reato ed alcuni precursori della libertà
individuale si sono fatti dei begli anni di processi/galera-militare. l'anno scorso ho
partecipato, spinto da un carissimo amico inglese, col quale avevo fatto il liceo a Venezia, ad
un movimento internazionale per ottenere la libertà di un soldato turco omosessuale che si
era dichiarato obiettore e non voleva andare ad ammazzare gente, nè in Iraq nè al confine
con i Curdi. Questo, imprigionato, rischiava la vita quotidianamente tra violenze e pestaggi.
sono riusciti a farlo rilasciare. tutto questo per dire che considero l'obiezione di coscienza
uno dei segnali di alta civiltà. chiaramente l'obiezione non si deve limitare a qualche
categoria, ma comprende la cittadinanza intera, a prescindere dai mestieri e dalle
professioni, quando si trova a dover affrontare per legge un incarico che contraddice la
coscienza.
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Ma adesso cerchiamo di mettere assieme i pezzi e di venire a bomba. In linea teorica non
ho nulla contro l'obiezione dei medici: fino a prova contraria sono anche loro uomini
appartenenti alla ns stessa nazione e godono di uguali diritti-doveri. Mi vorticano
velocemente gli attributi quando quest'obiezione mette in difficoltà struttura pubbliche
nell'espletare le proprie funzioni. mi spiego: nessun ginecologo è obbligato a "sbarcare il
lunario" in un Ospedale pubblico: in Italia ci sono migliaia di cliniche della"Madonna", "del
sangue....", "delle figlie di..." ecc. possono tranquillamente andare a lavorare là dove
senz'altro sarebbe molto apprezzata la loro posizione. L'ostinarsi a lavorare in un posto dove
l'insieme delle prestazioni da offrire all'utenza prevede anche situazioni di contrasto con le
proprie idee, mi sembra un posizione massimamente utilitaristica: sono come le case di cura
privata che accettano soltanto malati che siano economicamente produttivi, case di cura che
non hanno il pronto soccorso perchè economicamente passivo. sono come coloro che si
prendono i pazienti dalle strutture pubbliche e o li visitano privatamente o li dirottano verso
strutture convenzionate (sono private); sono come quei medici che lavorando nel pubblico
acquisiscono un'esperienza notevole che poi monetarizzano col lavoro nelle strutture
private. Senza arrivare ai casi di tragica comicità italica dove si assiste a medici che fanno il
giro degli ospedali per attuare quelle IVG che i loro colleghi si rifiutano di fare; secondo me
basterebbe arrivare a :
1) abolizione dell'ordine dei medici. e di tutti gli ordini professionali:strutture di origine
fascista luogo maxime di interessi corporativi.
2) stipula del contratto di lavoro con previsione della sottoscrizione del singolo ove venga
precisato l'obbligo di svolgere ogni, tutte, le mansioni (ovviamente compatibili con la figura
professionale)che vengono attuate nella struttura ove si lavora.
Per concludere, almeno qui, cito, non ricordo più da dove,: "...l’obiezione implica che non vi
siano altri modi per rispettare le proprie convinzioni etiche, morali, religiose o ideologiche se
non infrangendo volontariamente e consapevolmente (da qui l’espressione “di coscienza”) la
norma cui ci si oppone, e assumendosene la responsabilità in prima persona, senza
coinvolgere altri soggetti”.
Per questo motivo è arbitrario usare l’espressione “obiezione di coscienza” in riferimento ad
alcuni fatti realmente accaduti (spesso ricorrenti e attuali) come, per esempio, il rifiuto di un
architetto di dar corso a un progetto difforme dalla sua visione ideologica della società, del
diniego di alcuni farmacisti di vendere prodotti anticoncezionali quali pillola o profilattico, alla
mancata disponibilità di molti medici ginecologi di strutture sanitarie pubbliche a praticare
l’operazione di aborto. Ciò perché in nessuno dei casi citati il c.d. “obiettore” affronta alcuna
conseguenza penale o civile, non esistendo alcun obbligo - precostituito per legge - di
svolgere le azioni che egli rifiuta di compiere. Tale c.d. “obiezione” è, nei fatti, un’azione
priva di qualsivoglia responsabilità personale e le cui conseguenze vanno a carico di
soggetto terzo (nel caso di mancata prestazione sanitaria, l’utente richiedente il servizio al
sistema sanitario nazionale), ovvero l’esatto contrario dei requisiti necessari per poter
parlare di obiezione di coscienza.
Quindi basterebbe secondo me una norma che, compresa nel contratto nazionale di lavoro,
prevedesse l'"obiezione" come rottura contrattuale con immediata risoluzione del rapporto di
lavoro. A questo punto, quanto meno sarebbe possibile "contare" sul serio i veri obiettori
dagli "obiettori comodi" che magari continuano a praticare nei loro studi, dietro lauto
compenso, quello che la "coscienza" impedisce loro di compiere nel servizio pubblico.
Saluti.
giuliano
751 - TESTAMENTO BIOLOGICO: BASTA UN EURO - DI EDOARDO SEMOLA
Da: il Corriere della Sera di sabato 5 aprile 2008
Un atto di disobbedienza civile, un prezzo politico: un euro soltanto.
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E’ la battaglia personale del notaio Luigi Aricò, che nel suo studio certifica i testamenti
biologici anche se non potrebbe: in 80 si sono già rivolti a lui.
Diritti civili? Disobbedienza civile. Mentre in campagna elettorale i temi cosiddetti “etici”
faticano a trovare spazi di discussione, a Firenze c’è un notaio si dà da fare con la sua
personale battaglia per il testamento biologico. Anzi, di più: li redige direttamente i
“testamenti biologici”. Ne ha già certificati ottanta. E tutti al prezzo simbolico, o politico, di un
euro.
Luigi Aricò è un “disobbediente”. Ha un lussuoso ed austero studio notarile in piazza Strozzi
numero uno. Si entra, accomodandosi in una delle due “savonarola” in legno del suo studio,
e si comincia: «Buongiorno notaio, vorrei dettare le mie condizioni di fine vita». Linguaggio
formale, come si richiede in uno studio notarile. «Dopo poco però – racconta Aricò –
passano alle parole che conosciamo tutti: testamento biologico, eutanasia».
Eutanasia? Ma è illegale. «E’ quello che vogliono. In un modo o nell’altro, pensano tutti
all’eutanasia».
«Un anno fa, quando ancora si pensava che i diritti civili avrebbero trovato uno sbocco
parlamentare – continua – il Consiglio Nazionale del Notariato si rese disponibile a redigere
testamenti biologici e a istituire un registro nazionale, e questa disponibilità non è mai stata
ritirata». Aricò non ha fatto altro che passare dalla teoria alla pratica. «Perché non è
permesso ma neppure proibito».
E perché «ci sono margini d’azione, a cominciare dall’immagine di un notaio che si espone
in prima persona». Come oggi, quando il notaio Aricò parteciperà ad un dibattito sul tema
nei locali della Chiesa Valdese di via Manzoni numero uno a Firenze, alle 17, insieme a
Mario Riccio, l’anestesista di Piergiorgio Welby, e Giancarlo Fornari, Presidente di
«LiberaUscita».
L’unico problema ad oggi insormontabile è la forza cogente di questi atti: «bisognerà arrivare
a rendere “normale” che un medico segua queste disposizioni di fine vita. Senza una legge
non lo si può costringere».
L’importante è dare un segnale forte: un euro per ogni «living will». «Gratis non potevo, per
una questione di dignità professionale, ma era giusto che il prezzo fosse soltanto simbolico».
Certo, se poi si vuole registrare l’ultima bio-volontà nel registro nazionale «con l’imposta si
passa a 168 euro».
Ma chi sono gli avventori dello studio di Aricò che con tanto anticipo pensano a quando la
vita porrà loro difficili e dolorose scelte? La voce si è sparsa principalmente attraverso il
passaparola: «le persone che vengono da me sono generalmente di medio-alta estrazione
sociale, dai 5° anni in su, anche se è venuta anche una ragazza di 30 anni a cui hanno dato
6 mesi di vita. Sono tutti consapevoli, leggono i giornali e spesso hanno anche buone
conoscenze scientifiche».
Dalle parole ai fatti, dunque. Perché Firenze è un campo di battaglia, di resistenza, civile:
«Non conosco i nomi dei medici, ma so che anche a Firenze l’eutanasia clandestina si
pratica».
E la giustizia? «Nel tribunale di Firenze ci sono magistrati illuminati e all’avanguardia su
questi temi – sostiene il notaio Aricò – magistrati che se fossero coinvolti potrebbero e
saprebbero motivare bene certe scelte coraggiose».
752 -TESTAMENTO BIOLOGICO: E SE LO PORTO DAL NOTAIO? DI MARCO BAZZICHI
Da: Radio radicale – 11.4.2008
Il paziente agonizzante chiede pietà e vuole farla finita, un altro è in coma da 5 anni, in stato
vegetativo. Ma i medici impediscono di staccare la spina. "Non è in grado di intendere e di
volere" spiegano i ben pensanti, "nel dubbio lasciamo tutto così". Poi salta fuori un amico o
un parente con una dichiarazione scritta, dalla quale risulta che lo stesso paziente,
quand'era nel pieno possesso delle proprie facoltà, non avrebbe voluto né continuare a
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sopravvivere ridotto a larva o a pianta, né soprattutto prolungare il massacro affettivo e
mentale di chi lo circonda. Quel documento non dà alcun vincolo a medici e magistrati, ma,
se non altro, qualora risulti certificato da un notaio e da due testimoni, e magari sia
depositato al registro dei testamenti, serve a stabilire l'identità e la volontà di chi l'ha redatto.
Per questo, è utile, e sicuramente non dannoso, recarsi da un notaio a depositare un
semplice e chiaro testamento biologico, nel quale si ufficializzi la volontà di non continuare a
sopravvivere attaccati per sempre ad una macchina o colpiti da un'irreversibile lesione
cerebrale.
Ma a quale notaio ci si può rivolgere? Per ora, fermo restando che questo genere di
documento non è previsto ma nemmeno proibito dalla legge italiana, conosciamo soltanto il
notaio Luigi Aricò che, nel suo studio in Piazza Strozzi a Firenze, accetta e ufficializza
testamenti biologici alla cifra simbolica di un euro.
"L'intervento del notaio - spiega Aricò - dà la certezza dell'identità personale". Già questo
non è poco: "nessuno può contestare, in primo luogo, che sia un falso stilato da parenti,
associazioni per l'eutanasia o che altro. L'intervento notarile serve a dare la certezza
dell'identità delle parti. Il testamento biologico diventa così comunque un atto da
esteriorizzare". Oltre all'identità si certifica anche la volontà: "dal punto di vista giuridiconotarile, il fatto che non vi sia un pubblico ufficiale che prenda in mano il testamento
biologico", per via del vuoto legislativo, "non crea particolari problemi". Addirittura, se
qualcuno, in quanto notaio, lo prende in mano, "è obbligato, secondo la legge vigente
notarile del 1913, a registrarlo, il che significa portarne una copia all'ufficio del registro".
Perché proprio a un euro? "C'è chi dice che andrebbe registrato gratis e senza tassa, ma
questo è da discutere. Tutte le volte c'è l'impiegato che non vuol saperne e si rifiuta di
archiviarlo se non si paga una tassa anche minima." E' invece dal punto di vista medico e
politico che si pone il problema di farlo rispettare, perché "se ne infischiano tutti", dice Arico'.
Mentre per i testamenti normali si può nominare un esecutore testamentario, "il problema
nasce quando si arriva con questo testamento biologico, perché c'è il vuoto legislativo". Ad
ogni modo non è proibito, anzi, è nel rispetto della legge che un notaio ufficializzi un
testamento biologico, "che ha valore al 100% fino a che non si arriva al medico che può dire:
'io me ne infischio'.
E che gli fai? Per fortuna Riccio - il medico di Welby - è stato assolto". Andare dal notaio e
mettere nero su bianco, con tanto di testimoni, nella speranza che ci aiuti a uscire, il prima
possibile, dall'agonia che Welby ha portato all'attenzione dell'opinione pubblica: è un gesto
che è utile, "nonostante il vuoto legislativo, perché non è detto che poi di fatto non venga
rispettato e poi perché c'è una base per dare futuro sviluppo al testamento biologico,
forzando la mano all'opinione pubblica e ai politici. Stiamo parlando di cose atroci - conclude
Aricò - e a me pare che tenere per forza in vita è una crudeltà tremenda. Quanta più gente
ne farà, tanto meglio potrà essere regolamentato".
753 - QUANTO E’ CRISTIANA LA DESTRA - DI BARBARA SPINELLI
da: La Stampa di domenica 6 aprile 2008
Chi ha visto su Internet il film Fitna, che in arabo significa stato di divisione, guerra civile,
sarà stato colpito dalla violenza con cui si parla non tanto dei terroristi che pretendono
rappresentare Dio ma del Corano e delle sue sure. Ogni attentato corrisponde a una sura,
ogni assassinio attinge ai suoi versetti: come se per parlare dei territori palestinesi occupati
si mostrassero le pagine bibliche che incitano allo sterminio dei Cananei e dei tanti popoli
insediati nella terra promessa. Autore del film è un parlamentare olandese, Geert Wilders,
appartenente all’estrema destra. Un partito minoritario, se non fosse che la sua ideologia in
Europa è diffusa, per nulla marginale. È ideologia dominante nel Popolo della libertà che
aspira a governare l’Italia: nella Lega, ma anche in Alleanza nazionale e Forza Italia. È
solida corrente di pensiero in Francia.
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E’un’ideologia che ha il potere di tacitare i dissenzienti, intimorire giornali. La sua tesi
centrale: questi sono tempi terribili, contrassegnati dal dilagare dei diritti, del permissivismo,
della perdita d’autorità e d’identità. Giulio Tremonti nel suo ultimo libro li riassume con due
parole, simili a quelle di Oriana Fallaci dopo l’11 settembre: «Al fondo (della difesa
dell’identità) c’è qualcosa di molto più intenso che una parodia bigotta della tradizione: è un
misto di paura e orgoglio» (La Paura e la Speranza, Mondadori 2008).
Paura del diverso, che ci assedia. Orgoglio di chi si esalta, temprandosi, nelle proprie radici
e nello scontro di civiltà. Il film di Wilders infiamma questo scontro come si fa con la brace:
soffiandoci sopra. Più scontro c’è, più ritroveremo noi stessi. Avere un nemico fa bene
all’anima, fuori casa e dentro.
Il libro di Tremonti è la traduzione delle immagini di Fitna. Il modo di scrivere è analogo:
formule brevi, a scatti, a slogan. Non mancano riflessioni importanti sulla globalizzazione ma
il nocciolo è lo scontro di civiltà e la solitudine dell’individuo in Stati e società indeboliti. Quel
che lo salva è l’identificazione con comunità chiuse, piccole, etnicamente e religiosamente
omogenee. Lì sono le radici: immutabili, impermeabili a qualsiasi incrocio-meticciato col
diverso. Il valore da opporre al mercatismo globale è l’esclusione: il contrario del messaggio
di Gesù, oltre che della storia laica d’Europa.
Quel che dà sicurezza, in chi cerca l’identità con orgoglio e paura, il lettore lo scopre a
partire da pagina 77: visto che è nella differenza che si formano comunità unite, visto che
l’identità «non è solo ciò che siamo, ma anche differenza da ciò che non siamo», «tutto è
chiuso nella coppia dialettica “noi-altri”». «Non vale qui la logica “sia l’uno che l’altro”»: prima
veniamo noi con le nostre radici cristiane poi gli altri, con cui non dev’esserci confusione. Un
tempo l’avanguardia era la classe, dopo venne la razza, ora ecco l’identità cristiana.
Tremonti dice esplicitamente (è un suo merito) che il Noi non serve solo a riempire il «vuoto
nell’anima e nel cuore». Serve alla politica per consolidare una «rivendicazione di potere»
altrimenti esangue, che non deve temere conflitti con l’Altro.
Anche in questo caso, come nel film olandese, non sono pensieri minoritari. Tremonti
s’immagina rivoluzionario controcorrente ma le sue sono idee conformisticamente
consensuali, che intimidiscono. Hanno impregnato per anni l’America, e solo Obama le
contesta veramente. Intimidiscono a tal punto che ogni pensare diverso viene malinteso,
demonizzato. Negli stessi giorni in cui appariva Fitna (27 marzo), negli stessi giorni in cui in
Italia si discuteva il libro di Tremonti, in Inghilterra era dramma attorno a un discorso,
essenziale, dell’arcivescovo di Canterbury Rowan Williams. Il capo della Chiesa anglicana è
stato accusato - per aver detto che parti della Shariah potrebbero conciliarsi col codice civile
- di capitolazione verso il nemico, di appeasement. Quel testo conviene leggerlo: non dice
affatto le cose che i giornali gli attribuiscono.
È un testo profondo, in cui si difende la laicità (Rowan parla di rule of law, valevole per
ciascuno) ma si cercano nuovi orizzonti: a questa laicità, bisogna integrare i fedeli di altre
tradizioni, come l’Islam. La shariah non è un sistema di leggi, ma un metodo aspirante al
bene che alcuni codificano in modo «primitivista», opprimendo innanzitutto la donna. Non
mancano però convergenze, da valorizzare. I diritti nelle società liberali vanno custoditi ma
non «attivati per forza»: opporre a essi l’obiezione di coscienza deve essere giuridicamente
consentito, anche se tutti, cittadini musulmani compresi, devono potersene avvalere.
Esenzioni analoghe già sono concesse per legge agli ebrei ortodossi, o ai cristiani
sull’aborto. In fondo, Rowan condivide la distinzione che Gustavo Zagrebelsky fa tra valori e
principi. I valori sono un bene finale, imposto dall’alto, senza badare ai mezzi. I principi sono
un bene iniziale con cui ci si incammina verso la meta confrontandosi con la realtà. La laicità
è un approdo arduo, cui si giunge tramite l’adattamento e la ricerca di punti comuni con
l’altro. Per non sciuparla e perderla devi tener conto che ogni persona ha oggi più identità: di
fedele e cittadino, di musulmano e italiano, di italiano e europeo. Queste dualità esistono
anche nell’Islam, secondo Rowan.
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Rowan è stato trattato come un erede di chi cedette a Hitler. Ma chi lo attacca ha una
singolare concezione della religione, dell’identità, della laicità; sinistramente somigliante a
quella degli integralisti musulmani, che piegano la religione alla politica e a comunitarismi
tribali. Non a caso la Chiesa è vista, da Tremonti, come strumento di dominio. Serve a
riempir vuoti, non tanto spirituali ma di potere. Serve a escludere (con la formula del Noi e gli
Altri) e a creare capri espiatori.
Non tutta la Chiesa si presta a simile strumentalizzazione, lo si è visto nei giorni scorsi a
Milano. Di fronte a uno sgombero eccezionalmente brutale di due campi nomadi (via
Bovisasca, via Porretta), il cardinale Tettamanzi s’è indignato: ha detto che «la legalità è
sacrosanta», ma «qui si sta scendendo abbondantemente sotto i limiti stabiliti dai
fondamentali diritti umani». Il rispetto della persona avrebbe imposto «qualche tanica
d’acqua, del latte per i più piccoli, un presidio medico, qualche soluzione alternativa»: «C’è
da augurarsi che la conquista dell’Expo non diventi il paravento per nascondere o spostare
più in là i drammi di questa città».
Questo tipo di Chiesa indispettisce la destra. Ha un «buonismo peloso», protesta Romano
La Russa, dirigente An a Milano. Tremonti stesso dice, nel libro: alla «vecchia tradizione
puramente caritatevole» bisogna sostituire la «responsabilità verso se stessi, verso la
propria famiglia, verso la propria comunità».
La carità ai suoi occhi è come il ‘68, contro cui si erge la destra italiana ed europea. In realtà
anche il ‘68 è paravento. Quel che si contesta è il patrimonio conciliare e giovanneo della
Chiesa, ed è la tradizione liberale del Saggio sulla Libertà di John Stuart Mill (1859). È Mill e
non il ‘68 che teorizza il diritto di parola dato a ciascuno - perfino a chi sostiene la poligamia
- se non si vuol precipitare nella «tirannia del sentimento predominante» e nel «profondo
sonno dogmatico indotto da un’opinione definitiva».
Condizione di questo liberalismo è tuttavia non usare la Chiesa. Quando il sindaco Moratti si
dichiara «profondamente amareggiata dalle parole del cardinale» (Corriere, 4-4) accampa
un ben stravagante diritto: il diritto ad avere un’aspettativa politica verso il proprio vescovo.
Tale è l’identità cristiana invocata dalla destra. Non la cura dei poveri, degli ultimi, del
diversi. Ma un orgoglio da tener acceso facendo leva sul più orrido dei marchingegni politici:
la paura.
754 - I DUE BENEDETTO CONTRO L’ILLUMINISMO - DI MARIO PIRANI
da: la Repubblica di lunedì 21 aprile 2008
La vittoria della destra contiene in sé tutte le premesse per l´accentuarsi dell´interferenza
religiosa sull´ordinamento laico della Repubblica. E´ facile, infatti, prefigurarsi lo zelo privo di
remore ideali di Berlusconi e associati di fronte alle prescrizioni del Pontefice e della
Conferenza episcopale sia che si tratti di coppie di fatto, di concepimento assistito o di
aborto, di sovvenzioni alle scuole cattoliche o di convenzioni favorevoli alle cliniche di Ordini
e Congregazioni. Ma tutto ciò si inquadrerà ancor più di quanto non avvenga in una
complessa azione ideologica per ridurre la cultura laica ad una funzione ancillare e di
servizio nei confronti della trascendenza e della verità come rivelazione. E´ un´offensiva che
ha come teatro l´Europa cattolica con l´Italia da epicentro.
Lo "Standard" di Vienna tracciando un quadro sulla ripresa in forza del cattolicesimo
militante scrive: «L´ora sembra essere quella di una Riconquista politica... Un clero senza
complessi si autoinvita oggi nello spazio pubblico... con una arroganza che non si era più
vista da molto tempo nella vecchia Europa». Potrei proseguire con una miriade di citazioni
internazionali ma quel che m´interessa è proporre ai lettori una riflessione sul carattere
dell´offensiva clericale.
Molti affermano che essa sgorga dall´emergere delle questioni "eticamente sensibili", ma a
me pare che alla radice vi sia l´antica avversione per l´Illuminismo, per il libero pensiero, per
la piena autonomia dell´individuo, per un´etica pubblica sottratta all´imperativo religioso.
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Siamo di fronte ad un grande balzo culturale all´indietro, a prima della Rivoluzione francese.
Mi conforta in questa tesi un bel libro appena uscito, «Il governo della lettura. Chiesa e libri
nell´Italia del Settecento» (ed. Il Mulino, Bologna 1908) di Patrizia Delpiano, che analizza e
rende di impressionante attualità il conflitto tra la Chiesa e l´Illuminismo e, cioè, quella
filosofia della Ragione, banalmente declassata al livello dell´incerto laicismo dei nostri giorni.
L´oggetto della ricerca ha, anzitutto, la particolarità di concentrarsi sul XVIII secolo, il "secolo
dei Lumi", quando la Chiesa appare sulla difensiva, dopo il periodo trionfante delle
Congregazioni dell´Indice e dell´Inquisizione nei due secoli precedenti. Mentre declina la
pratica dei roghi la Chiesa «sposta il baricentro dalle tecniche repressive a quelle
persuasive». La materia del contendere è il controllo della cultura che allora voleva dire il
controllo sui libri e sulla lettura, e la gerarchia ecclesiastica individua il nemico in «categorie
culturali che andavano ben oltre l´eresia protestante.... Proponendo una morale laica, del
tutto aliena dalla fede dogmatica tridentina, l´Illuminismo pareva travolgere l´ordine costituito
e attaccare in nome dell´universalismo cosmopolitico, la stessa identità cattolica e cristiana
della penisola». Anche il romanzo e la lettura d´intrattenimento «sono guardati con sospetto
in quanto capaci di raggiungere un pubblico più ampio della tradizionale élite di lettori.
Furono i due fenomeni (come non paragonarli alla Tv di oggi?, ndr) strettamente intrecciati
nell´immaginario ecclesiastico a sollevare... una ricca riflessione sui danni della lettura... uno
dei pericoli assoluti cui sembrava esposto quel popolo che la Chiesa in passato aveva
cercato di proteggere dai veleni del protestantesimo».
Artefice di quella «controrivoluzione attiva» fu il celebre cardinal Lambertini, bolognese,
assurto al Soglio come papa Benedetto XIV. Parso a molti il papa della tolleranza, «seppe in
realtà trasformare l´Indice (che venne soppresso solo nel 1960 dopo il Vaticanio II) in uno
strumento adeguato... a incoraggiare tra i letterati la pratica dell´autocorrezione e dunque
dell´autocensura. Nel corso del secolo furono condannati tutti i classici dell´Illuminismo
italiano ed europeo... In tal senso la resistenza della Chiesa ai Lumi ha oltrepassato il
Settecento, sopravvivendo al tramonto dell´Illuminismo storicamente inteso... Non è soltanto
nel breve periodo che bisogna valutare gli effetti di censura e propaganda svolta dalla
Chiesa nel Settecento. In quella fase consegnò al futuro indicazioni preziose, seppe
approntare un apparato teorico compatto, costituito in gran parte contro il mondo dei Lumi,
basato sul ruolo centrale del cattolicesimo nella vita pubblica... sulla difesa dei doveri contro
la rivendicazione dei diritti dell´uomo».
Nel cancellare le conquiste del Concilio il Benedetto bavarese raccoglie, dunque, l´eredità
del Benedetto bolognese. Ecco con cosa i laici debbono confrontarsi.
755 - AI CONFINI DELLA LAICITÀ - DI GAD LERNER
da: la Repubblica di mercoledì 23 aprile 2008
Ogni giorno che passa, fra i difensori della laicità si accentua la sensazione desolante di
presidiare una frontiera già attraversata in lungo e in largo dalle incursioni nemiche. Ma
saranno poi sempre nemiche, tali incursioni? Se il "vescovo rosso" Fernando Lugo vince le
elezioni in Paraguay ponendo fine a oltre mezzo secolo di regime di destra, salutiamo in lui
un´avanzata della democrazia.
E se all´altro capo del mondo, in Polonia, un politico come Lech Walesa dichiara che
"sarebbe una disgrazia" la nomina del reazionario monsignor Slawoj Leszek Glodz alla
guida della diocesi di Danzica, apprezziamo il coraggio con cui - da cristiano - interferisce
pubblicamente in una scelta del suo papa.
Gli esempi potrebbero essere numerosi. Basti per tutti l´importanza che l´argomento
religioso riveste nella campagna elettorale di Barack Obama. Bisognerà pure che i suoi
numerosi estimatori laici riconoscano quanto Gesù è presente nei suoi discorsi. Fin da
quando gli ultraconservatori lo attaccavano: «Gesù Cristo non voterebbe per Barack Obama,
perché Obama si è comportato in modo inconcepibile per Cristo». Sollecitandolo a invadere
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il loro stesso terreno con le motivazioni bibliche del suo impegno pubblico: «Dopo la
stagione dei condottieri come Mosè, capaci di sfidare il faraone affermando i diritti degli
afroamericani, io sento di appartenere alla generazione di Giosuè, dei continuatori».
Dovremmo forse accusarlo di integralismo? Al contrario, temo che il ritardo con cui la politica
italiana si è emancipata dall´egemonia di partiti fondati su un´appartenenza religiosa, oggi ci
stia giocando un brutto scherzo. La nascita del Partito democratico, inteso dai suoi fondatori
come superamento degli steccati identitari, è stata così faticosa da sollecitarli a una cautela
eccessiva. Tra i democratici italiani prevale tuttora l´idea anacronistica che la motivazione
religiosa dell´impegno politico vada sottaciuta. Pena il rischio di urtare le suscettibilità altrui
o, peggio, di evidenziare le divisioni culturali esistenti nel campo cattolico.
Naturalmente un tale scrupolo è ben lungi dallo sfiorare la destra, protesa nel tentativo di
appropriarsi in toto dell´argomento religioso, ma nel frattempo svelta ad accusare di
tradimento i pochi pastori d´anime che osano criticare la sua politica. Mentre i benpensanti
laici restano appostati in trincea a denunciare ogni sconfinamento tra politica e religione, i
leghisti milanesi non hanno esitato un minuto a rivendicare il "loro" Vangelo (in ruvido,
discutibile stile padano) volantinando di fronte alle chiese contro l´arcivescovo Tettamanzi,
colpevole di eccessiva sensibilità per i diritti degli immigrati senzatetto. Quarant´anni fa, nel
1968, era il dissenso cattolico a osare simili contestazioni pubbliche nei confronti della
gerarchia. Trattenuto da una malintesa concezione della laicità, oggi il cattolicesimo di
sinistra mugugna stordito nell´attesa che si levi, sempre più rara, la voce di un cardinale
amico a rappresentarne il malessere.
Il problema italiano non è infatti che Camillo Ruini parla troppo di politica. Il problema è che
nessun esponente politico gli risponde sul suo medesimo terreno della testimonianza, della
prossimità, della misericordia, della coerenza, della spiritualità. I vari Prodi, Rutelli, Marini,
Bindi, Parisi se lo sono proibiti, come se la sfida culturale fosse ancora delegabile ai loro
riferimenti conciliari, quasi tutti scomparsi se non altro per ragioni anagrafiche.
Così si consolida il luogo comune che nel mondo contemporaneo il messaggio religioso sia
appannaggio della destra. E viceversa che non possa più esistere una sinistra religiosa.
Tale rinuncia produce l´effetto di una vera e propria mutilazione. Posti di fronte alla ripetuta,
frequente violazione del comandamento («Non invocherai il nome di Dio falsamente»); e di
fronte allo stravolgimento dello spirito evangelico riguardo a tante persone di cui viene
negata la stessa umanità, molti politici religiosi si autocensurano e con ciò si diminuiscono.
Evitano di significare pubblicamente le motivazioni più profonde del loro impegno civile.
Attardandosi sulla frontiera colabrodo della laicità, rischiamo di esagerare l´importanza dei
nuovi compagni di viaggio "teodem", faticando a riconoscerli membri a pieno titolo del Partito
democratico. Il fastidio diffuso nei confronti di Paola Binetti si alimenta di un equivoco.
Tutt´altro che un retaggio clericale d´altri tempi, né impiccio né residuo, col suo cilicio e la
sua affiliazione all´Opus Dei, la Binetti è figura politica modernissima. Il futuro ce ne
riserverà sempre di più, non necessariamente agganciate come lei a una relazione fiduciaria
con la gerarchia ecclesiale. Del resto il passato del cattolicesimo democratico è ricco di
figure capaci di esprimere sé stesse per intero, senza che ciò violi alcun imperativo di laicità.
Vale la pena citare un ricordo di Raniero La Valle, estensore trent´anni fa del fondamentale
articolo 1 della legge 194 sulla tutela sociale della maternità e l´interruzione volontaria della
gravidanza. Intervenendo al Senato in difesa della legge, il cattolico di sinistra La Valle non
esitò a citare il fiat evangelico di Maria al concepimento del figlio di Dio come episodio di
autodeterminazione imprescindibile della donna, riconosciuta titolare inaggirabile del
rapporto col nascituro anche nel Vangelo. La scelta politica e la scelta religiosa si
sovrappongono più di quanto certi guardiani retrogradi della laicità siano disposti a
riconoscere. Negarlo regala spazio a chi pratica l´ostentazione dei valori come strumento di
potere.
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Come il resto del mondo, è facile prevedere che anche l´Italia sarà palcoscenico in futuro di
una sfida tra destra e sinistra religiosa, anche se baldanzosamente la destra s´illude di
averla già vinta. Tale sfida rischia ovunque di logorare la tenuta del sistema democratico e il
principio di laicità dello Stato. Aggrediti pure dalla miscela di fede, nostalgia, sessuofobia,
pregiudizio antiscientifico, disagio esistenziale, cui ricorrono gli integralismi. Ma l´antidoto
non sarà mai il divieto di una pulsione incomprimibile. Semmai è la reciproca interferenza, la
contestazione dell´oscurantismo sullo stesso terreno della spiritualità.
Perché il confronto avvenga proficuamente va preservata una cornice di regole pubbliche,
quelle sì da difendere in trincea. La scuola statale di tutti, per prima, come luogo formativo e
d´integrazione nei valori democratici. E poi le norme laiche di un codice civile che non
s´illuda di replicare mai il modello di convivenza già fallito nella democrazia ex-imperiale
britannica: un comunitarismo - per dirla con Amartya Sen - che frantuma la cittadinanza in
affiliazioni separate, il cui destino è finire in rotta di collisione.
Salvaguardata la laicità dello Stato. Conseguito un sistema democratico moderno i cui partiti
ospitano senza distinzioni credenti, non credenti, diversamente credenti. Nel nostro tempo
impaurito la politica tornerà a nobilitarsi solo rappresentando una speranza globale, e
dunque - perché no - anche religiosa.
756 - ZAPATERO INVENTA LA MORTE DIGNITOSA - DI CLAUDIO SINISCALCHI
da: Libero di mercoled’ 23 aprile 2008
In tutto il territorio spagnolo, da oggi, sarà possibile evitare l’accanirnento terapeutico,
facendo un testamento sanitario. Al malato viene così riconosciuta la facoltà di disporre delle
proprie volontà, in caso si trovasse nell’impossibilità di poterle esprimere. Non è un passo
verso I’eutanasia, che resta comunque vietata dalla legge, ma un tentativo di affrontare un
problema etico assai dibattuto. La moderna medicina, attraverso terapie farmacologiche,
alimentazione, idratazione e respirazione artificiali, riesce ormai a prolungare la vita anche
per periodi molto lunghi. Ma è una vita? A domandarselo sono in molti. E ogni tanto il
pietoso caso di un malato terminale, o film tra loro molto differenti nel senso come “La
farfalla e lo scafandro” e “Mare dentro”, rilanciano il dibattito. Le posizioni al riguardo sono
molto distanti. I pro-life si oppongono; i sostenitori dell’eutanasia ovviamente la pensano in
maniera opposta.
Il confine tra l’accanimento terapeutico e la preservazione della vita ormai si è fatto davvero
sottile. Agli spagnoli viene riconosciuto il diritto di poter lasciare per iscritto la loro volontà,
nel caso dovessero trovarsi in futuro nelle condizioni di non potersi pronunciare sulla
continuazione di cure impiegate per il mantenimento artificiale della vita. Non si tratta dalle
più parti auspicata eutanasia “attiva”, che resta illegale in Spagna. Ma un’indicazione da
lasciare a medici o parenti, Costretti spesso a dover prendere decisioni sulle scelte
terapeutiche più indicate per un malato terminale, o colpito da danni cerebrali irreversibili.
La regolamentazione dei “testamenti vitali” completa il percorso avviato dal Parlamento
spagnolo con l’approvazione, nel 2002, della cosiddetta “legge sulla autonomia del
paziente”. Con la legge divenne possibile istituire nelle comunità autonome appositi registri
dove i cittadini potessero indicare, in stato di piena facoltà, la loro decisione di ricevere o
meno determinati trattamenti medici. I dati contenuti nei registri finiscono in un archivio
centrale, depositato presso il ministero della Sanità, dove attualmente sono raccolti 30.500
“testamenti” inviati da dodici delle diciassette comunità spagnole. La legge tutela comunque i
medici dal non dover obbligatoriamente seguire le volontà del malato: la parola definitiva
sulle terapie da seguire, o da bloccare, spetta sempre alle équipe sanitarie.
La nuova normativa viene incontro solo parzialmente alle aspettative dell’associazione Dmd
(Derecho a Morir Dignamente, diritto a morire dignitosamente). Da anni questa associazione
si batte per l’interruzione volontaria della vita, e da tempo denuncia le difficoltà burocratiche
della legge, poiché ad esempio il registro sanitario contenente le volontà dei malati non è
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accessibile durante i fine settimana o di notte, e che vi sono ancora lentezze
nell’archiviazione digitale dei dati. L’associazione, attiva sin dagli anni Sessanta in favore
della “morte dignitosa”, consiglia di compilare il “testamento sanitario” basandosi
sull’assistenza medica, al fine di avere tutte le informazioni al riguardo; e soprattutto di
lasciarne copie a un notaio o in famiglia. La legge spagnola continua dunque a vietare
richieste di eutanasia e di trattamenti contrari alla medicina tesa a salvaguardare la vita, Su
questo non ci sono margini di dubbio.
Con la nuova normativa sanitaria Zapatero non dovrebbe aprire un nuovo fronte polemico
con la chiesa cattolica spagnola. Anche perché già i fronti aperti sono diversi. Quello che
resta da capire è se questa nuova normativa serva ad aggirare l’ostacolo. Visto che
l’eutanasia non è formalmente raggiungibile, il” testamento sanitario” può rivelarsi un valido
escamotage per introdurla nella sostanza della pratica di tutti i giorni, senza di fatto
introdurla formalmente.
Per il momento non si registrano reazioni da parte della Conferenza Episcopale Spagnola,
né vi sono prese di posizione di associazioni e organi di stampa ad essa vicini. Ma da
domani ha inizio una nuova fase. Condurrà all’eutanasia?
757 - LEZIONI DI DEMOCRAZIA - DI NELLO AJELLO
da: la Repubblica di martedì 29 aprile 2008
In occasione del centocinquantesimo anniversario dell´Unità d´Italia, che cadrà nel 2011, un
gruppo di intellettuali ha progettato una serie di iniziative, da rinnovarsi ad anni alterni, che si
raccolgono sotto il nome di Biennale Democrazia. A collaborare all´iniziativa sono chiamati
la città di Torino e il «Comitato Italia 150», già al lavoro nel capoluogo piemontese.
Presidente di Biennale Democrazia è Gustavo Zagrebelsky. Gli abbiamo rivolto alcune
domande.
Com´è nato, professore, il vostro progetto?
«L´idea è sorta fra un gruppo di amici, sulla scìa di un preciso precedente, cioè del ciclo di
conferenze che si tenne a Torino nella primavera-autunno del 2004, dedicato alla figura di
Norberto Bobbio e centrato su temi etici e politici. Ci impressionò, allora, l´interesse
suscitato, anche fra la gente comune, dalla personalità e dall´opera di Bobbio. Nei due teatri,
il Regio e il Carignano, che ospitavano le conferenze, affluirono migliaia di persone per
conoscere nei particolari il pensiero del filosofo. Quella serie di interventi, di cui fu animatore
Pietro Marcenaro, parlamentare del Partito Democratico, venne poi raccolta dall´editore
Einaudi nel volume Lezioni Bobbio, uscito nel 2006. Abbiamo pensato di dare un seguito a
quell´esperienza in un´accezione più ampia: non un semplice ciclo di conferenze, ma un
lavoro continuativo, che si concreterà, ogni due anni, in una settimana di lezioni».
Quando esordirà la Biennale Democrazia?
«La prima sessione la terremo l´anno prossimo, dal 22 al 26 aprile: una settimana che
incrocia l´anniversario della Liberazione. Sarà una sorta di prova generale delle celebrazioni
previste per il centocinquantesimo anniversario dell´Unità d´Italia. Nel 2009 saranno cento
anni dalla nascita di Bobbio. Alla base di tutto c´è l´aspirazione a considerare l´intera
vicenda risorgimentale non solo nella dimensione statale e territoriale, già interamente
realizzata, ma anche in senso etico-politico. Disegno, quest´ultimo, che rientra fra i compiti
ancora da perseguire».
Due fasi distinte, dunque, dell´unificazione nazionale. Con quale rapporto fra loro?
«La democrazia è un insieme di aspirazioni mai realizzate una volta per tutte. Già
l´unificazione geografica ha creato dei problemi, esemplificati per molti decenni dalla
questione meridionale. Ed ecco che essa si presenta, oggi, in una nuova forma: come
questione settentrionale. L´una e l´altra "questione" si legano fra loro come fattori confluenti
di disgregazione. Ne risulterebbe un paese unificato nel desiderio di scindersi. I fondamenti
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di legittimità della nostra democrazia sembrano essere entrati in crisi, riducendosi nella
pratica a motivi di discordia».
Certo, un bel paradosso. Anche perché risulta chiaro che non si tratta di una mera
controversia territoriale, ma di una sostanziale contesa etico-politica.
«Un vero assetto democratico presuppone la tendenziale uguaglianza fra i cittadini. In Italia
ci si trova, invece, di fronte a una situazione nella quale - a cominciare dalla disponibilità
delle conoscenze - si verifica uno squilibrio crescente, acuito dallo sviluppo delle nozioni
tecnologiche. Alla democrazia si contrappone, in molti casi, la tecnocrazia. Ciò riguarda la
condizione interna di ciascuno stato, ma anche la democrazia a livello internazionale».
In che modo si presentano, particolarmente in Italia, questi problemi?
«Guardi lo stato in cui versa la scuola. Si cerca di risolverne le difficoltà mediante un
approccio di tipo tecnico, privilegiando gli aspetti meramente professionali
dell´insegnamento: si pensi, per dirne una, alla trovata delle tre «i», concepita nel 2002 da
Silvio Berlusconi: inglese, internet, impresa. Un approccio d´indole esecutiva. La
democrazia, invece, richiede cittadini capaci non solo di eseguire, ma anche di decidere che
cosa realizzare, perché e come. E´ in questa prospettiva che va considerata la sfida che ci
pone oggi l´istruzione».
L´immigrazione, accanto ai suoi riflessi positivi, presenta una fisionomia tale da
aggravare simili inconvenienti. Come si pensa di farle fronte?
«Occorre integrare gli immigrati in uno stile di vita che non disconosca le loro particolarità,
ma si fondi su un ethos minimo condiviso. Esso dovrebbe in primo luogo comportare la
comune rinunzia alla violenza, che genera paura».
E viceversa. Ecco un circolo vizioso che va interrotto. Con quali interventi?
«Il vero antidoto è l´adozione di un tipo di sicurezza che non agisca a senso unico, ma quale
componente d´un contesto generale. Riferiamoci a una proposta attuale: le ronde. Esse, che
pure mirano a un obiettivo di sicurezza, diffondono violenza e moltiplicano la paura. Ciò
appunto perché non rappresentano un rimedio di sistema. Risentono, al contrario, di pulsioni
esclusive e "di parte"».
So bene che il tema democrazia è inesauribile. Ma quali proposte concrete avanzerete
nella prima sessione della vostra Biennale?
«Pensiamo, per cominciare, proprio al coinvolgimento delle scuole. Prenderemo in esame le
proposte provenienti dal mondo dell´istruzione: docenti e studenti. Riprodurremo e
diffonderemo a Torino esperimenti attuati in altre zone d´Italia».
Può farmi qualche esempio?
«Eccone uno, denominato "le belle tasse": titolo che venne adottato in epoca non sospetta,
prima cioè che il ministro Padoa Schioppa affermasse, con una battuta controversa, che
"pagare le tasse è bello". L´esperimento si svolse fra gli allievi delle scuole elementari di
Roma. A ciascuno scolaro fu assegnato un gruzzolo in monete di cioccolata per finanziare,
mediante tassazione, un qualche progetto comune: una festa, una gita, una recita.
Nacquero subito, fra i piccoli contribuenti, alcune domande: alla spesa dobbiamo partecipare
tutti nella stessa misura, o qualcuno pagherà di più e qualche altro di meno? E ci sarà chi
farà il furbo, evitando di contribuire? Sono, "in nuce", i problemi della democrazia fiscale, dal
giusto gravame dei tributi all´evasione e all´elusione».
Avete in programma altre iniziative capaci di interessare ampi ceti sociali?
«Progettiamo di promuovere esperimenti di democrazia deliberativa, attraverso discussioni
fra cittadini informati. Si fornisce a un campione di persone una serie di dati di conoscenza
imparziali su un tema controverso: il voto agli immigrati, poniamo. Dopo aver sottoposto
l´argomento a dibattito, si confronteranno i risultati della conversazione con le opinioni iniziali
dei partecipanti. E´ un esempio dei progetti capillari che confluiranno nelle "lezioni
magistrali" previste per la settimana. Ad assistere alle quali inviteremo qualche centinaio di
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studenti che abbiano partecipato alle iniziative preparatorie. Vorremmo, per ospitarli,
predisporre un "campus" con la collaborazione del comune di Torino».
Torniamo ai presupposti ideali di Biennale Democrazia. In quale misura al
conseguimento della seconda Unità d´Italia, quella etico-politica, potrebbe essere di
ostacolo la funzione che in Italia esercita la Chiesa? Mi riferisco all´interventismo
della Santa Sede nelle vicende pubbliche.
«L´unificazione cui pensiamo implica la partecipazione di tutti i soggetti portatori di istanze
etiche. A patto che nessuna di queste forze si erga ad unico interprete autorizzato dell´ethos
nazionale».
758 - LA SINISTRA SUCCUBE DELLA DESTRA - DI FABRIZIO RONDOLINO
da: la Stampa di martedì 29 aprile 2008
C’è la sinistra in Italia? Dal punto di vista lessicale, per la prima volta dal 1946 non è
presente in Parlamento. Non soltanto non ci sono più i comunisti e i socialisti: non c’è più
neppure la parola «sinistra», che i Ds ancora portavano sulle loro insegne. I risultati delle
ultime elezioni non sono meno drastici: grosso modo, il Pd è fatto per un terzo di ex
Margherita e per due terzi di ex Ds; sommando alla quota diessina i voti raccolti da tutte le
sinistre antagoniste (compresi Ferrando e Turigliatto) e dal Ps, si arriva al 27,3% dei voti
validi. Tre punti in meno di quanto raccolse il Fronte popolare di Nenni e Togliatti nel '48.
Sette punti in meno della «gioiosa macchina da guerra» assemblata da Occhetto nel ‘94. Più
di cinque punti in meno rispetto ad appena due anni fa.
Si è più volte polemizzato, in campagna elettorale, sulle somiglianze fra i programmi del Pd
e del Pdl, con reciproche accuse di «aver copiato» e con l’inevitabile evocazione del nuovo
mostro, il «Veltrusconi». In realtà, che i programmi dei due partiti che competono per il
governo di un qualsiasi Paese occidentale siano relativamente simili è un’assoluta ovvietà.
Non è infatti sui programmi che si decide il successo di una forza politica, ma sulla sua
identità. In generale, l’idea che far politica e vincere le elezioni significhi presentare una lista
della spesa più o meno credibile, più o meno compatibile, e più o meno gradita agli esperti
del Sole 24Ore, è un'idea risibile. Sebbene la parola sia carica di equivoci, la politica è fatta
di valori, non di programmi. Ciò naturalmente non significa che le «cose», cioè i programmi
elettorali e le leggi che (a volte) ne conseguono, non abbiano un peso e un significato: ma
quel significato è inscritto e dipende da un sistema di valori che lo precede e lo
contestualizza.
L’esempio più clamoroso è lo scontro sulla sicurezza. È evidente a tutti che chi commette un
reato va punito, e che i crimini vanno prevenuti: non è dunque di questo che si sta
discutendo. Negli ultimi sette anni, Berlusconi ha governato per cinque, e se c’è oggi
un’emergenza, una qualche responsabilità deve avercela anche il centrodestra: ma
all’elettore di Berlusconi quest’ipotesi non viene neppure in mente. Viceversa, né i
provvedimenti già presi dal centrosinistra (la criminalità nelle aree metropolitane è
oggettivamente diminuita), né quelli annunciati in campagna elettorale, riescono a soddisfare
un’opinione pubblica che, si legge sui giornali, «non ne può più». La ragione è semplice.
Nell’identità valoriale della destra c’è un’idea di ordine sociale tendenzialmente esclusivo
anziché inclusivo, c’è il valore della comunità e della nazione, c’è l'idea un poco
paternalistica per cui uno scappellotto ogni tanto fa bene, e così via. I fallimenti pratici dei
governi di centrodestra sono oscurati dalla saldezza dell’orizzonte simbolico di riferimento.
Per la sinistra, accade esattamente il contrario. I valori storici della sinistra hanno a che fare
con la solidarietà e con la difesa dei più deboli. Una politica di sinistra moderna dovrebbe
chiedersi come declinare questi valori nel mondo d’oggi; se però, come accade
regolarmente, finge che siano andati fuori corso e suggerisce l’impressione di scimmiottare
la destra, il risultato è un cortocircuito vistoso che lascia perplessi i simpatizzanti e certo non
convince gli incerti.
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In altre parole, la sinistra su molte questioni suona inautentica a chi non è di sinistra, e
ambigua o irriconoscibile a chi lo è, perché nel dibattito pubblico insegue sempre più spesso
(magari per moderarne la portata) le proposte della destra, cioè quelle proposte, giuste o
sbagliate, che sorgono e fruttificano all’interno di un universo valoriale tradizionalmente di
destra. In questo modo la sinistra subisce la scelta del campo di gioco e accetta di giocare
una partita non sua. Oggi è la destra a detenere saldamente l’egemonia culturale del
dibattito pubblico, di cui regolarmente scrive l’agenda. Si tratta di una novità che pochi,
persino a destra, sanno riconoscere. Ma è questa la novità politica del nuovo secolo, e da
qui discende tutto il resto.
Fare politica significa convincere i cittadini delle proprie buone ragioni, per poi agire di
conseguenza una volta eletti; non significa rincorrere l’opinione pubblica in cambio di una
poltrona. L’idea stessa di «opinione pubblica» è fuorviante, e andrebbe maneggiata con
cura. La sinistra invece ne è diventata succuba, e scambia regolarmente il sismografo per il
terremoto; come una mosca impazzita, sbatte contro il vetro dell'avversario senza accorgersi
che tutt'intorno lo spazio è aperto. Il moderatismo e il radicalismo, le due malattie mortali
della sinistra italiana, sono precisamente questo sbattere senza fine della mosca contro il
vetro.
Il moderatismo del Pd ha paura di spaventare i «moderati», rincorre la Lega al Nord,
nasconde i Radicali e archivia i Dico; il radicalismo dell'Arcobaleno si trincera dietro una
serie estenuante di no. Entrambi sono figli del Pci di Berlinguer, che dapprima annacquò il
profilo programmatico fino a renderlo indistinguibile da quello di Andreotti, nel tentativo di
cancellare l’appartenenza, seppur su posizioni critiche, all’universo sovietico; e che poi,
fallita la «solidarietà nazionale», si rifugiò nel fondamentalismo ecopacifista e finì col
condividere fin nei dettagli la politica estera di Breznev. Da allora, la sinistra ha sempre
oscillato e si è sempre divisa fra il tentativo di cancellare il colore di una pelle di cui si
vergogna, e l’esibizione rancorosa della propria impotenza.
Eppure non è così difficile, nel mondo, essere di sinistra, «essere sinistra». Lasciamo da
parte Blair, che è stato a lungo indicato come modello e che nel frattempo se ne è andato in
pensione senza che una sola delle sue idee trovasse ospitalità nella prassi della sinistra
italiana. Guardiamo a Zapatero. Il suo straordinario successo elettorale non si deve a una
complessa alchimia di alleanze moderate o a un cambio di nome, ma, più semplicemente,
all’aver rifondato una sinistra per la Spagna, e all’aver convinto gli spagnoli che quella
sinistra avrebbe governato (cioè interpretato) la contemporaneità meglio della destra.
Il centrosinistra italiano in sette anni di governo non è stato capace di legiferare sulle unioni
civili, sulla libertà di ricerca scientifica, sul conflitto d'interessi, sulle droghe leggere, sulla
procreazione assistita, sulla liberalizzazione dell'accesso alle professioni… In compenso i
conti pubblici sono un po’ meno in disordine, mentre quelli delle famiglie non quadrano più.
Nulla di ciò che segna oggi l’idea e il concetto di sinistra è stato fatto dalla «sinistra» italiana.
In particolare, il campo cruciale delle libertà individuali e dei diritti civili è stato congelato in
nome di un malinteso rapporto con il mondo cattolico, dimenticando che la sinistra ha
sfondato al centro, negli Anni Settanta, grazie alle battaglie sul divorzio e sull'aborto.
Se non si comincia da qui, cioè dalla definizione di un un’identità radicata nella tradizione e
capace di fruttificare nel presente, la sinistra, nonostante abbia persino smesso di chiamarsi
così, continuerà a perdere. Fra l’originale e una confusa contraffazione, non è difficile
scegliere l’originale.
Paralizzata fra il rifiuto della modernità e l’esaltazione dei suoi aspetti più stupidi, la sinistra
dovrebbe invece fermarsi a riflettere, riordinare un po’ le idee, convincersi che il Pci non c’è
più (e neppure la Dc), che il mondo non ha bisogno di essere cambiato ma, finalmente,
interpretato, e che soltanto fidandosi di se stessa potrà sperare di convincere gli italiani a
fidarsi di lei.
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Francamente, non so se Veltroni abbia il tempo, la voglia, la capacità o l’interesse a
compiere un’impresa del genere. Ma fra i tanti effetti collaterali della disintegrazione della
sinistra in Italia c'è stata anche, com’è noto, la disintegrazione sistematica dei suoi leader.
Veltroni è l'ultimo: non ci sono alternative, né ruote di scorta. Dunque tocca a lui, e speriamo
che ce la faccia.
759 - NUOVI SERVIZI DI CITTADINANZA
Venerdì 4 aprile si è svolto l’incontro con la stampa e con i candidati alle elezioni comunali e
municipali di Roma indetto da diverse associazioni laiche per il lancio dell'appello a favore
dei NUOVI SERVIZI DI CIITTADINANZA. La sala riunioni di via Genova, messa a
disposizione da LiberaUscita, era piena di candidati di tutte le liste (assenti totalmente quelli
del centrodestra malgrado siano stati regolarmente invitati), di rappresentanti di associazioni
laiche e di semplici cittadini. I lavori sono stati registrati da Radio Radicale e da GBR TV.
Presente anche un inviato di Panorama.
Il segretario di LiberaUscita ha aperto la riunione quale responsabile dell'associazione
ospitante, Claudio Bocci (Altrevie) ha illustrato il contenuto dell'iniziativa e Francesco
Paoletti (UAAR) ha coordinato il dibattito. Al termine è stato diramato il comunicato stampa
sotto riportato.
COMUNICATO STAMPA
All’incontro tenutosi stamattina presso la sede dell’Associazione LiberaUscita, sul tema
“Nuovi servizi di cittadinanza”, hanno partecipato numerosi candidati delle diverse liste al
Consiglio comunale ed ai Consigli municipali di Roma, rappresentanti delle Associazioni
laiche promotrici dell’iniziativa e personalità della politica e della cultura.
Le Associazioni promotrici hanno presentato ed illustrato il testo di un Appello rivolto a
TUTTI i candidati alle prossime elezioni amministrative di Roma affinché si impegnino,
qualora eletti, a promuovere sui territori l’istituzione di “NUOVI SERVIZI DI CITTADINANZA”
ispirati al principio della laicità delle Istituzioni come la realizzazione di registri per il
testamento biologico e per le unioni civili, di spazi per il commiato laico e il matrimonio civile,
l’insegnamento dell’educazione civica e della cultura della laicità.
Le adesioni all’Appello, che vanno inoltrate all’indirizzo di posta elettronica
[email protected],
saranno diffuse alla stampa mercoledì 9 aprile 2008 e
contestualmente riportate nel sito web www.altrevie.it nonché nei siti di tutte le Associazioni
promotrici.
L’Appello ha già raccolto l’adesione di numerosi candidati nonché di personalità pubbliche.
Fra gli altri Corrado Augias, Alessandro Battisti, Giorgio Benvenuto, Luigi Berlinguer, Adele
Cambria, Franca Coen, Franco Grillini, Sergio Lariccia, Miriam Mafai, Ignazio Marino,
Stefano Rodotà, Mina Welby.
Le associazioni promotrici (elenco provvisorio): Altrevie, Giordano Bruno, Circolo Mario
Mieli, Crides, Democrazia Laica, Fondazione Critica Liberale, Giustizia e Libertà, Gruppo
laico di ricerca, Italialaica, LiberaUscita, NoGod, Società laica e plurale, SOS razzismo,
UAAR.
760 - AMSTERDAM: LA MORTE ASSISTITA IN EUROPA – DI MARIA ELINDA GIUSTI
Il 28 marzo scorso si è svolto ad Amsterdam, in occasione del 35° anniversario della
fondazione di NVVE, l’organizzazione olandese per il diritto di morire, un simposio europeo
sul tema “La morte assistita in Europa”.
La nostra associazione è stata rappresentata da Maria Elinda Giusti, del Comitato Direttivo
nazionale di LiberaUscita, la quale ci ha inviato il resoconto che di seguito
pubblichiamo.(gps)
Il simposio si è svolto in due momenti precisi (mattina e pomeriggio), trattando i due filoni
principali del dibattito, ossia i diritti umani e le cure palliative. Dopo una breve introduzione
19
con i ringraziamenti e le formalità di rito, si è entrati nel vivo , focalizzando l'attenzione su
una prospettiva europea, partendo ovviamente dalle esperienze di Olanda, Belgio e
Svizzera.
La legge sull'eutanasia, raggiunta dall'Olanda 6 anni fa, ha avuto il merito di rendere
DIBATTIBILI argomenti considerati tabù e ha portato un notevole incremento delle cure
palliative, ma paradossalmente, una volta passata la legge, il dibattito sembra essersi sopito,
anzi viene deliberatamente scoraggiato. La nuova frontiera da raggiungere è una legge che
porti a una fusione di quelle esistenti in Olanda, Belgio e Svizzera, in modo da poter
fronteggiare al meglio l'ampia casistica delle problematiche di fine vita.
Ludwig Minelli sostiene che molti olandesi e belgi si rivolgono a Dignitas, e questo è un
segnale della perfettibilità della legge vigente nei Paesi Bassi. D'altro canto non è stato
rilevato alcun caso di eutanasia e seguito di disposizioni di fine vita (testamento biologico) e
questo ci mostra quanto ancora resta da fare. Bisogna quindi stimolare il dibattito e il
confronto. Il dialogo con gli stessi aspiranti suicidi è spesso la chiave di volta per riuscire ad
affrontare coscientemente il problema, Spesso la società reagisce ai desideri suicidi
indirizzando il soggetto verso i medici, aumentando così il senso di isolamento dell'individuo,
il suo disagio e la sua incapacità di comunicare. Portando ad esempio alcuni episodi
realmente accaduti, Minelli riferisce dell'esperienza positiva di Dignitas nell'affrontare le varie
fasi del sostegno al desiderio di suicidio. La cooperazione tra Dignitas e gli psichiatri infatti fa
si che il 70% dei pazienti che si rivolgono a Dignitas si sentano confortati tanto da non
ricontattare più l'associazione nonostante il parere positivo per l'assistenza al suicidio. Se
vogliamo prevenire il suicidio dobbiamo essere pronti ad offrire aiuto reale: anche perchè
poco si parla dei rischi legati ad un suicidio mancato, che lasciano danni gravissimi e spesso
irreversibili (non ci sono vere e proprie statistiche, ma si può valutare circa un 40% di suicidi
mancati rispetto alla totalità di quelli riusciti). Non c'è bisogno di regole ulteriori,
semplicemente il rispetto di quelle vigenti, che garantiscono la libertà di scelta dell'individuo:
la battaglia è ancora lunga per diffondere e discutere di temi così scottanti, e la strada più
veloce, purtroppo, è spesso quella dei tribunali, delle sentenze, visto il potere della chiesa,
dei medici, del Parlamento.
Sheila McLean, con un intervento molto tecnico (è una giurista) sostiene che il termine
Human Rights (diritti umani) è un termine abusato, che rischia di non avere alcun significato
e che cela il conflitto e il confronto: il vero diritto in realtà è il diritto di scegliere. Se non
sosteniamo questo diritto, rischiamo che i medici decidano per noi, decidano chi è in grado
di scegliere o no. Secondo la Mc Lean è utile partire dal concetto di libertà di scelta perchè è
una piattaforma consolidata e già accettata dalla società, un buon punto di partenza, già
avanzato.
Dalla platea si chiede ai due relatori quale sia la strada più veloce per ottenere risultati:
entrambi citano la Corte Europea dei Diritti Umani (European Court of Human Rights) come
metodo più veloce, ma non sempre il più efficace. Come sottolinea anche il moderatore, Erik
Jurgens, non si può imporre un punto di vista morale per legge: portando avanti una politica
europea in questo senso si rischia un inasprimento delle posizioni all'interno delle singole
nazioni. Il malato ha diritto di ricevere o rifiutare un trattamento, ma il medico ha il dovere di
rispettarlo?
Sheila McLean riferisce anche di sanzioni pecuniarie nel Regno Unito e che la discussione
in questo senso si è estesa anche all'aborto.
Ludwig Minelli riferisce che in Svizzera dal 2006 IL SUICIDIO E' UN DIRITTO
COSTITUZIONALMENTE GARANTITO: se si rispetta questa regola e qualcuno chiede il
nostro aiuto restano tre strade, ossia rifiutare, accettare illegalmente o accettare legalmente,
e questa è la strada da percorrere, è importante la trasparenza, uscire allo scoperto. Questa
affermazione sul diritto al suicidio provoca un acceso dibattito; dalla platea vari interventi
mostrano perplessità sul concetto di diritto al suicidio, per il fatto che chi si avvicina a questa
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scelta spesso è un individuo in crisi, bisognerebbe focalizzare invece l'attenzione sulle
cause di questa sofferenza. Inoltre si sottolinea che secondo quest'ottica, la presenza del
medico nell'assistenza di fine vita sembra quasi superflua: invece i medici non vanno
demonizzati nel loro contributo a vivere e morire, se sono disponibili ad ascoltare le istanze
dei pazienti.
Sheila McLean sottolinea che bisogna avvicinare la "santità" della vita (da non intendere per
forza in senso religioso) al diritto di autodeterminazione, che può voler dire anche il rifiuto
delle cure palliative. Il medico va addestrato a capire la persona, perchè solo così la scelta
resta a disposizione del paziente.
Dopo la pausa pranzo, il dibattito riprende focalizzandosi sulle cure palliative, ed è chiamata
a parlare la delegazione francese: in platea siede anche Marie Humbert, che il giorno dopo
riceverà un riconoscimento ufficiale per il suo impegno.
Si parla naturalmente del caso di Chantal Sébire: il caso ha scosso la Francia, che sta
vivendo un momento particolare di sensibilizzazione alle libertà personali. In Francia c'è
stato un notevole incremento delle cure palliative ed è legale una sorta di sedazione
terminale, che mantiene in stato di incoscienza il paziente terminale nelle ultime ore della
sua agonia.
Nelle stesse ore in cui si concludeva la vicenda di Chantal, Ugo Klaus, malato di Alzheimer,
ha ottenuto l'eutanasia in Olanda, sulla base di una richiesta chiara e cosciente: era ancora
nei primi stadi della malattia, quando la coscienza è ancora presente. Come si accennava
precedentemente, non avrebbe potuto chiedere l'eutanasia sulla base di un testamento
biologico, nonostante il decorso della malattia sia ampiamente documentato.
Jean Huss, politico dell'area dei Verdi lussemburghesi, passa poi a descrivere la situazione
in Lussemburgo: il 19 febbraio è passata una legge che ha reso legale l'eutanasia, ed è
stata la prima volta in 29 anni che il partito cristiano socialista è stato messo in minoranza.
La battaglia portata avanti dai Verdi è iniziata nel 1993 ed è continuata faticosamente fino al
2003, quando la votazione venne persa per solo 2 voti. Nel 2004 vennero raccolte firme a
sostegno di una petizione popolare, e nel 2008, con 30 voti a favore e 29 contrari la legge è
passata. Questo ha portato a reazioni molto forti, soprattutto a una decisa opposizione
clericale: l'argomento principe della chiesa è che le cure palliative sono sufficienti, che non
esiste il diritto ad uccidere e che possono verificarsi degli abusi. Ora si sta discutendo per
arrivare a una legge e sistemare le parti tecniche in modo da non stravolgere la sostanza.
Verrà regolamentata anche l'area che riguarda la sedazione terminale, per malati di cancro
soprattutto, da effettuarsi anche a casa. L'esempio di Olanda e Belgio è comunque
rassicurante, visti i buoni risultati e i pochi casi dubbi.
L'ultimo e impegnativo intervento è quello di Stans Verhagen, oncologo ed esperto in cure
palliative a Nijmegen. La definizione di "cure palliative" viene data solo nel 2005 e
corrisponde a "un intenzionale affievolimento della coscienza di un paziente nell'ultima fase
della sua vita, se null'altro sembra funzionare". La società moderna pensa che la condizione
normale sia la salute, che ogni malessere sia malattia e che se il corpo si ammala il sistema
di controllo della salute sia sbagliato: ecco perchè si parla così poco di cure palliative, anche
tra i medici, e non li si prepara. Si arriva a parlare di cure palliative soltanto quando si è allo
stadio terminale: si sbaglia a non dare informazioni su TUTTE le alternative al paziente nei
primi stadi della malattia, ed è un errore di medici che spesso non sanno usare bene le cure
palliative. I dottori spesso fanno fatica a parlare di morte: ma la MIA MORTE è mia, non del
dottore, della famiglia, della società, dei giudici. Bisogna capire il che il concetto di dolore è
estremamente complesso, non è una semplice reazione nervosa (mi brucio un dito e il
sistema nervoso lo comunica al cervello) ma è un dolore a 360°, una sofferenza, fisica,
psicologica, emotiva. Il medico deve essere preparato a fronteggiare questa situazione
delicatissima. Il suo intervento scatena un acceso dibattito perchè si ha l'impressione che
per Verhagen la scelta sia in realtà in mano al medico, più che al paziente. La discussione
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porta a chiarire che per Verhagen il medico va responsabilizzato nel momento in cui è la
porta d'accesso del malato alla gamma delle cure possibili: è fondamentale l'importanza
della formazione dei medici per poter rispondere adeguatamente alle esigenze dei pazienti.
Al termine dei lavori ci salutiamo con un brindisi.
A tutti voi ancora grazie per avermi concesso di rappresentare Libera Uscita. Non mi sono
sentita di intervenire, con il direttivo non avevamo programmato un intervento e nel contesto
così insolito mi sentivo un pò impacciata, ma la prossima volta non mancherò.
Piccola curiosità: non ho notato altre delegazioni dall'Italia, ragione in più per essere fieri
della nostra presenza.
Un abbraccio
Maria Elinda Giusti
761 - FIRENZE - CONVEGNO SU TESTAMENTO BIOLOGICO ED EUTANASIA
Sabato 5 aprile si è tenuto a Firenze, presso il Centro culturale protestante, un interessante
e partecipato dibattito sul tema “Problematiche di fine vita: tra testamento biologico e diritto
all’eutanasia”.
All’incontro hanno partecipato, fra gli altri, il dr. Mario Riccio, socio onorario di LiberaUscita, il
prof. Giancarlo Fornari, Presidente dell’associazione, Meri Negrelli, coordinatrice per la
Toscana, e molti nostri soci.
Sullo svolgimento del dibattito riportiamo qui sotto una sintesi di Meri Negrelli ed un
commento del ns. responsabile di Firenze, Urbano Cipriani
Da Meri Negrelli
Sabato 5 Aprile 2008, si è tenuto l’incontro “Problematiche di fine vita – tra testamento
biologico e diritto all’eutanasia” con presentazione del libro di F. Chaussoy “Non sono un
assassino” organizzato da LiberaUscita Toscana e il Centro Culturale Vermigli di Firenze.
Sono stati relatori il dott. Mario Riccio, il dott. Giancarlo Fornari e la dott.ssa Mariella Orsi.
Ha moderato l’incontro il prof. Marco Ricca del Centro Vermigli.
E’ stato un incontro ben riuscito, la sala gremita di persone, tutti gli interventi apprezzati da
un pubblico molto attento. Erano presenti diversi medici alcuni dei quali sono intervenuti con
argomentazioni interessanti nel dibattito. In particolar modo è stato apprezzata la presenza
del Presidente dell’Ordine dei Medici di Firenze, dott. Antonio Panti che sollecitato dal prof.
Ricca, è intervenuto esprimendo opinioni favorevoli ad una legge sul Testamento Biologico.
Sono stati venduti una trentina di libri e distribuiti numerosi moduli per il Testamento
Biologico che sono stati richiesti anche da alcuni medici.
Del buon esito devo ringraziare il Circolo Vermigli per l’ospitalità e collaborazione ed in
particolar modo il prof. Ricca che in prima persona si è attivato e mi ha supportato in tutte le
fasi dell’organizzazione e che tanto si è speso per propagandare l’iniziativa. Spero
vivamente di poter portare avanti con lui anche altre iniziative.
Un ringraziamento sincero anche alla sig.ra Nardini, del Centro Vermigli, che tanto si è
adoperata per i comunicati stampa e l’invio degli inviti.
Gli interventi al convegno possono essere riascoltati su Radio Radicale:
http://download.radioradicale.it/store-11/roma/2008/04/MP476356.mp3
Da Urbano Cipriani
Sabato 5 aprile in Via Manzoni 19, nel Centro culturale Protestante, ci siamo trovati, in una
sala piena di gente, a parlare della vita e della morte intorno ad un piccolo libro del costo di
10 euro, escluso senza colpa dalla catena di distribuzione.
Un medico francese racconta la sua vita di rianimatore concentrata nel momento più
umanamente coinvolgente della sua esperienza professionale: quando è intervenuto per
soddisfare la richiesta di un ragazzo di poco più di vent’anni, quella di essere sottratto a una
cattiva morte con una buona morte.
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Due uomini a fronte: Frédéric e Humbert. L’angelo della buona morte accusato di assassinio
da chi benedice ed esalta i morti per la patria nelle guerre giuste e preventive, da chi tiene
nel lettino di tortura di una cameretta dell’ospedale di Lecco - da 15 anni - Eluana Englaro…
Non sono un assassino! grida Fréderic Chaussoy dalle 200 pagine del libro, in pubblicazione
estrauterina di una editrice d’occasione. Avevo letto il libro tutto d’un fiato appena uscito
pochi mesi fa. Mi aveva colpito il modo immediato e diretto di raccontare particolari di vita di
famiglia e situazioni di vita d’ospedale, affetti, amori, dolore e morte tutti intrecciati tra casa e
ospedale e il rombo improvviso e assordante del fenomeno mediatico, l’interrogatorio di un
tenente di polizia, l’incombere del giudice, il sostegno della gente, il turbamento della
famiglia, il vario atteggiamento dei colleghi. Può capitare a tutti nella vita un passaggio
brusco dalla routine quotidiana di una vita normale al frastuono di una tempesta mediatica
che ti rintrona il cervello e ti toglie il sonno durante lunghe interminabili lotte.
La cronaca
Passiamo a un po’ di cronaca. Titolo dell’incontro di questo sabato pomeriggio d’un Aprile
tutto acqua neve e vento: “Problematiche di fine vita: tra testamento biologico e diritto
all’eutanasia”. Confronto fra il caso francese Humbert-Chaussoy e il caso italiano WelbyRiccio.
Conoscevo tutti i presenti al tavolo di presidenza tranne Mario Riccio, l’anestesista di Welby,
che incontravo per la prima volta. E fa sempre piacere la conoscenza diretta.
Non intendo fare la cronaca giornalistica che pure sarebbe utile; tocco solo alcune corde che
hanno prodotto una vibrazione nel mio animo. Il brano letto da Meri Negrelli, l’organizzatrice
di tutto per conto della nostra Associazione Libera Uscita, l’intervento di Mario Riccio nel
momento che si sente dire, dal rappresentante dei medici anestesisti (nel pieno della
trasmissione di fama mondiale Uscio a Uscio di Biondo Ape) “Sei un assassino”,
l’espressione di Giancarlo Fornari, Presidente Nazionale di Libera Uscita, quando ha
ricordato che la gerarchia cattolica che ha negato il funerale in chiesa a Welby ha concesso
la tumulazione d’onore in una cattedrale romana ad un esponente riconosciuto della banda
della Magliana, Mariella Orsi, sociologa, Presidente della commissione di bioetica della
Regione Toscana quando a spiegato la differenza tra il tempo di cura e quello di relazione (il
medico che fino al giorno della tua morte insiste nel farti le radiazioni chimiche invece di
quelle affettive).
Ma il momento più intimamente mio l’ho vissuto, ad insaputa di tutti tranne di chi mi legge
ora, quando ha parlato Antonio Panti, Presidente dell’ordine dei medici di Firenze,
dichiarando la sua adesione umana e professionale alla lettera e allo spirito di quanto detto
nel corso della riunione riguardo al trattamento di fine vita. Parlava il rappresentante di
quello stesso ordine che aveva in anni neppur molto lontani (1995) espulso dall’albo medico
Giorgio Conciani, reo di aver praticato - senza interesse e vantaggio personale - quanto oggi
legittimato dalla legge 194, nonché di aver ottemperato alla richiesta di un paziente per
l’acquisto di barbiturici. A lui era stato chiuso con sigillo lo studio medico e quando ha deciso
di por fine alla sua vita non ha avuto altro mezzo per farlo che una corda al collo (terzo
tentativo dopo che persone amiche l’avevano per due volte costretto a ritornare in vita contro
la sua volontà). Per tutto il tempo che ha parlato il dott. Panti ho rivissuto quella giornata lì al
Girone, tra Firenze e Compiobbi, quando con Paola siamo andati a visitarne la salma ancora
esposta, avendo l’occasione di un colloquio allucinante con una persona lì presente che si
faceva un merito di aver con tutte le sue forze e mezzi fino all’ultimo tentato di impedirgli il
suicidio, costringendolo così a scegliersi l’impiccagione. Tutto per amore. Poco tempo ma
tanta acqua d’Arno è passata dal vecchio mulino e dalle antiche gualchiere che fanno
ancora bella mostra in quei paraggi a ridosso di Firenze. Il dott. Panti, senza nominarlo,
stava con ogni sua parola riabilitando la figura di questo grande uomo e medico
compassionevole. Uno dei tanti nostri santi laici. Aspetto con fiducia il momento in cui
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l’Ordine dei medici fiorentini porga le sue scuse e riabiliti con decreto motivato Giorgio
Conciani.
Una parentesi: note di cronaca su Giorgio Conciani
(articolo di Annalisa Usai - “La Repubblica”, 15 maggio 1997)
Firenze - Non avrà funerale e sarà cremato. Queste le ultime volontà di Giorgio Conciani, il
ginecologo radicale che si è ucciso ieri sera, impiccandosi in cantina. Il suicidio del “dottor
morte” italiano, il giorno dopo, chiede ancora un’ultima risposta, in una vita per il resto
lineare e cristallina nelle sue scelte. Perché una morte così cruenta, la morte dei prigionieri
in carcere, degli adolescenti, dei disperati? Perché Giorgio Conciani non ha usato su di sé i
farmaci che dai lontani anni Ottanta, sfidando ogni legge, prescriveva a molti pazienti che si
rivolgevano a lui per cercare una “dolce morte”, e che lui aiutava “perché prolungare la vita
di un malato terminale è peggio di qualunque tortura”?
La risposta l’ha data poche ore fa all’agenzia Ansa suo figlio Ferruccio, lo stesso che ha
trovato il suo corpo senza vita, tornando a casa ieri sera: “Mio padre non ha scelto la “dolce
morte” perché riteneva che impiccarsi fosse un mezzo più sicuro. La malattia che lo aveva
colpito gli impediva di muoversi per andare in farmacia e, essendo stato radiato dall’ordine
dei medici, non poteva prescriversi i farmaci che aveva usato per altri”. Nel novembre del
1995 l’ordine dei medici di Firenze aveva infatti radiato Giorgio Conciani per “motivi etici”,
con l’accusa di aver prescritto cocktail di farmaci ad aspiranti suicidi. “Una cosa è provocare
l’eutanasia in una persona che soffre gravemente di una malattia terminale per la quale
morirà, altra cosa è se uno manifesta desiderio di suicidarsi perché è depresso. Questo da
un punto di vista medico è intollerabile”. Questo è quanto ha dichiarato Antonio Panti,
presidente dell’ordine dei medici di Firenze. “Il motivo della sua radiazione non aveva niente
a che vedere con l’eutanasia. La sua era istigazione al suicidio”. “Era molto depresso dopo
la radiazione dall’albo e la grave malattia che lo avrebbe progressivamente portato
all’immobilità assoluta”, ha spiegato all’Ansa Ferruccio Conciani. “Spesso mio padre aveva
manifestato l’intenzione di togliersi la vita e alle mie osservazioni rispondeva che le idee di
un uomo vanno rispettate. Qualche volta speravo che non avesse il coraggio di suicidarsi,
ma come potevo sperare, visto che in vita sua ha sempre fatto quello che voleva?”.
I brani del libro di Frédéric Chaussoy letti da Meri Negrelli
“Tutte queste macchine sono state inventate per impedire agli uomini di morire, giusto il
tempo che i medici facciano il necessario per curarli e che l’organismo recuperi le capacità di
vivere in modo autonomo. Spesso, funziona. Ma, quando non funziona, bisogna pur
risolversi a staccare la spina. Un uomo attaccato al respiratore non cessa mai di respirare,
fin tanto che la macchina continua a funzionare. E allora? Cosa fare? Che le cose siano ben
chiare, anche se ci disturbano: in numerosi casi, la gente che muore nei reparti di
rianimazione, super-attrezzati di macchine per la vita, muore perché a un certo momento è
stata presa la decisione di non utilizzare più queste macchine per mantenerla in vita. E non
è tutto. Quando si decide di fermare le macchine, cosa succede? Nei film le spie luminose
cessano di lampeggiare sul monitor e l’ammalato rende l’ultimo respiro, finalmente tranquillo.
Durante un telegiornale, in cui si parlava di Vincent, ho perfino visto l’immagine di una presa
maschio che veniva staccata dalla presa femmina, in una camera d’ospedale. Fine della
puntata! Come se fosse così semplice!
“Si dà il caso che la realtà sia più dura. Il più delle volte, l’ammalato si mette a soffocare.
Morirà per asfissia. Morirà, è certo. Ma non subito. Ci vuole tempo, per l’asfissia. Il corpo
umano non cede così facilmente. Si batte, per istinto. Cerca l’ossigeno di cui ha bisogno e
che non ha più i mezzi per trovare. In alcuni reparti, chiudono la porta della camera, giusto il
tempo che “questo” accada. A volte le infermiere, alle quali la situazione sembra
insopportabile, vengono a supplicare il medico di “fare qualcosa” perché “questo” cessi. A
volte il medico risponde loro di “fare il necessario”. E a volte lo “fa” lui stesso. (pag.120)
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Il testamento di vita è una buona idea perché mi rafforza nella giustezza della mia decisione:
ho rispettato la volontà del mio paziente. Tutti i lettori del libro di Vincent possono attestarlo
… Nessun bisogno di aspettare l’avvento di una legge perché ognuno di noi scriva il suo
testamento di vita! Anche se, per adesso, questi documenti non hanno nessun valore legale,
potrebbero per lo meno illuminare i medici sulla volontà di un paziente che giunge da loro
incosciente, o incapace di comunicare. Potrebbero suffragare in modo formale la richiesta
dei familiari. Potrebbero, soprattutto, concedere al paziente la libertà di essere l’attore della
propria storia, anche se privo di qualsiasi mezzo espressivo … Anche se la legge non lo
riconosce ancora, credo che il testamento di vita sia una buona idea. Un modo di dare a
ciascuno il tempo di riflettere sulla propria fine, in mancanza della possibilità di poterla
scegliere; un mezzo responsabile e adulto per affrontare la propria morte come la propria
vita. E non di lasciarne le redini alla famiglia, a un’équipe medica, o addirittura a un
procuratore della Repubblica… (pag. 130).
Per finire. La vita secondo Woody Allen
La cosa più ingiusta della vita è come finisce.
Voglio dire: la vita è dura e impiega la maggior parte del nostro tempo… Cosa ottieni alla
fine? La morte. Che significa! Che cos’è la morte? Una specie di bonus per aver vissuto?
Credo che il ciclo vitale dovrebbe essere del tutto rovesciato.
Bisognerebbe iniziare morendo, così ci si leva il pensiero.
Poi, in un ospizio dal quale si viene buttati fuori perché troppo giovani.
Ti danno una gratifica e quindi cominci a lavorare per quarant’anni, fino a che sarai
sufficientemente giovane per goderti la pensione. Seguono feste, alcool, erba e il liceo.
Finalmente cominciano le elementari, diventi bambino, giochi e non hai responsabilità,
diventi un neonato, ritorni nel ventre di tua madre, passi i tuoi ultimi nove mesi galleggiando
e finisci il tutto con un bell’orgasmo!
(Urbano Cipriani)
762 - GIANCARLO FORNARI SCRIVE A MARIA ANTONIETTA COSCIONI
Il Presidente di LiberaUscita, Giancarlo Fornari, ascoltate da radio radicale le dichiarazioni
rilasciate da Maria Antonietta Coscioni, candidata radicale alle elezioni politiche nelle liste
del Pd nel Friuli Venezia Giulia, le ha inviato la seguente lettera aperta.
<Cara Coscioni, come Presidente di un’associazione che si batte – e lo ha fatto spesso
insieme ai radicali – per la causa dell’eutanasia, mi spiace dirle che sono rimasto
francamente sconcertato dalla risposta da lei data domenica 6 aprile alla domanda di
un’ascoltatrice, in una trasmissione di Radio radicale dedicata alla sua candidatura nelle liste
del Pd.
La domanda era stata posta da una signora di Roma, la quale, dopo aver ricordato che su
Radio radicale c’è una rubrica settimanale dal titolo “Vivere e morire” incentrata sulla difesa
dell’eutanasia, ha citato una frase di Ignazio Marino, presidente della Commissione Sanità
del Senato, secondo cui l’eutanasia consiste nel somministrare un veleno come si fa nelle
camere della morte texane. Come parlamentare - le ha quindi chiesto l’ascoltatrice – Lei
pensa di agire attivamente in favore di questa pratica?
Ora dovrebbe essere per tutti evidente che questo paragone con l’esecuzione capitale, che
effettivamente il senatore Marino ha fatto più volte per giustificare la sua contrarietà
all’eutanasia, e che non a caso come associazione noi gli abbiamo contestato ufficialmente
mesi fa, è assolutamente infondato. Tanto che il prof. Marino, da quella persona di grande
correttezza che è, ci ha risposto assicurandoci che non l’avrebbe più utilizzato.
E in effetti l’esecuzione capitale è un atto violento con il quale si uccide una persona che
vorrebbe vivere, l’eutanasia è un atto di pietà con il quale si mette fine alla vita di una
persona che vuole morire. A prescindere dal mezzo usato, sia lo stesso nei due casi oppure
no, è evidente che tra loro c’è una differenza enorme, e ci vuole una buona dose di ipocrisia
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– cosa che non si può dire certo del senatore Marino, per il quale abbiamo grandissima
stima – per sostenere il contrario.
Niente di tutto ciò nella sua risposta, nella quale lei ha sorvolato tranquillamente sulle
espressioni usate dall’ascoltatrice e lungi dal confermare l’impegno degli eletti del partito
radicale in direzione della depenalizzazione dell’eutanasia si è anzi preoccupata di
escluderlo, in modo tortuoso. Non ha detto che è a favore e neppure che è contro, ha fatto
solo dei discorsi generici sulla vita e sulla dignità della vita che lasciano il tempo che trovano
e che non hanno fatto capire minimamente quale fosse il suo pensiero al riguardo.
Infatti Lei ha tenuto a precisare – cito testualmente - che “quella trasmissione di Radio
radicale non è una trasmissione pro eutanasia tout court, spiega semplicemente cosa
succede in Italia, in Europa e nel mondo per quanto riguarda la legislazione sulle scelte di
fine vita”.
Quindi nulla più che una asettica trasmissione culturale, come potrebbe farla Rai Education.
Ed ha aggiunto - riporto sempre testualmente: “Posso dire che l’attività dei radicali, l’attività
in particolare dell’associazione Luca Coscioni riguarda la difesa e la dignità della vita in tutti i
momenti fino all’ultimo momento utile che una persona ritiene di poter sostenere e di poter
vivere. Il nostro impegno è anche quello di far conoscere, di portare in Parlamento la
conoscenza di come si muore in Italia, di quanta sofferenza c’è, di quanta sofferenza è
soffocata, di quanto… riaprendo tutta quella questione che si è fermata in questa legislatura
– l’indagine conoscitiva sul fenomeno dell’eutanasia clandestina. E soprattutto accogliere le
istanze della parte degli italiani, che sono davvero molti, per un’assistenza domiciliare, per
un’assistenza alla vita, alla dignità delle persona fino al momento della morte”.
Queste le sue parole. Quindi dovremo vedere la pattuglia dei deputati radicali, nella
descrizione che lei ne ha dato, come una specie di comunicatori della sofferenza, il cui
compito è far sapere agli altri deputati come si muore. Impegnati tutt’al più a proporre
indagini conoscitive sull’eutanasia ma non certo a chiederne la legalizzazione, ci
mancherebbe. E parallelamente impegnati – come lei ha detto testualmente, perché non ci
siano equivoci – nell’assistenza alla vita fino all’ultimo istante; una specie di volontari
domiciliari della buona morte. Una confraternita.
Mentre lei parlava – purtroppo non sono potuto intervenire in diretta perché ero alla guida e
non avevo con me il telefonino – si poteva percepire chiaramente il suo imbarazzo nel
toccare questi temi. Lei non ha avuto il coraggio di dire che è a favore dell’eutanasia e
neppure di dire che è contro. Non ha avuto il coraggio di dire che l’atto di chi raccoglie le
drammatiche invocazioni di persone come Piergiorgio Welby, Giovanni Nuvoli o Vincent
Humbert o Ramon Sampedro o come, proprio in queste ultime settimane, l’infelice Chantal
Sébire non ha niente a che vedere con l’atto feroce di chi spegne la vita di un condannato.
Non ne è stata capace e ha girato in modo tortuoso e se mi permette, anche un po’ viscido
attorno al problema, rispondendo alla maniera dei democristiani di una volta. Ma almeno loro
lo facevano in modo meno goffo.
E a questo punto mi domando: questa sua reticenza è una posizione personale o è una
linea imposta ai radicali (o da loro stessi autoimposta) come tassa di ammissione nel grande
calderone delle liste democratiche? Il mascherarsi da democristiani, il silenzio, l’evitare di
assumere posizione sui temi eticamente più delicati dipendono da una sua scelta o sono il
prezzo pagato dai radicali per entrare alla Camera accanto ai teocon? La candidatura nel Pd
è il piatto di lenticchie per il quale si è accettato di vendere l’anima? Il logo con cui adesso vi
presentate nella lista di Veltroni, dismessa la Rosa nel Pugno che tante speranze aveva
suscitato in molti tra noi, è diventato il Bavaglio?
Queste che le sto rivolgendo, gentile signora Coscioni, non sono domande retoriche.
Come Presidente dell’associazione Libera uscita mi stavo infatti preparando a indirizzare ai
nostri iscritti l’invito a votare, in caso di incertezza, per il partito che sia pure con molti limiti
ha al suo interno una pattuglia radicale, capace di rappresentare un contraltare alle troppe
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presenze fondamentaliste che annovera. Queste sue dichiarazioni sono state per me un
brutto colpo. Dopo averla ascoltata mi guarderò bene dal rivolgere un appello in favore suo
e del Partito democratico.
Se Lei deve parlare più o meno come la Binetti preferisco quest’ultima, che quanto meno ha
l’orgoglio delle sue idee ha e non ha paura di difenderle. Mentre lei, ammesso che ne abbia,
se le tiene ben nascoste. Se dovesse essere eletta – cosa che a questo punto non mi
auguro – non credo proprio che i laici potrebbero contare su lei per le loro battaglie.
Ha ancora pochissimi giorni per farmi avere una smentita, che sarei felicissimo di leggere e
pubblicare. Ma possibilmente non nello stile dei dorotei. Di quelli ne abbiamo avuti fin troppi
nella nostra storia politica, non abbiamo bisogno di loro nipotini in veste pseudo-radicale.
Nell’attesa di questo chiarimento, pronto a ritrattarmi quando arriverà ufficialmente, le invio i
miei cordiali saluti>.
Giancarlo Fornari - Presidente di Libera uscita - Associazione per le depenalizzazione
dell’eutanasia e per la legalizzazione del testamento biologico – Roma, 6 aprile 2008
Risponde A. Maria Coscioni: Non è vero, non sfuggiamo il tema dell’eutanasia
<Caro Giancarlo, avrei voluto, innanzitutto - per l’impegno che investe la tua Associazione
sulle questioni del testamento biologico e dell’eutanasia, che sono da sempre per noi,
radicali, dell’Associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica, urgenti e
necessarie per l’agenda politica del nostro Paese - che la lettera pubblicata sul sito di Libera
uscita fosse a me spedita direttamente. Provo a spiegare il perché!
E’ il dubbio che hai sollevato sulla mia “scelta”, come scrivi tu di “girare intorno al problema”,
di “non rispondere” alla ascoltatrice di RadioRadicale, a lasciarmi un po’ esterrefatta.
A quel dubbio potrei rispondere raccontandoti alcuni momenti terribili, nella fase terminale di
vita di Luca, quando ascoltavo la volontà, la sua lucida volontà, di non voler essere attaccato
al ventilatore. Non lo faccio, è troppo doloroso. Ma la sua volontà, è stata rispettata; l’ho,
l’abbiamo rispettata. E, puoi starne certo, che lotterò, come in passato, con l’Associazione,
con i Radicali, dentro e fuori il Parlamento affinché la volontà della persona, sia rispettata
sempre, fino all’ultimo momento della vita che ritenga degno di essere vissuto. Vorrei che in
questo momento interrompessi la lettura di questa mia, per scriverne un’altra per invitare
urgentemente i tuoi amici e conoscenti a votare i Radicali nell’unico modo in cui possono
farlo, votando il PD.
Ora provo invece a risponderti, pensando tu sia un cittadino che non sa nulla di me, del mio
impegno politico, che non conosce l’Associazione Luca Coscioni, che non conosce i
Radicali.
Non capisco il tuo riferirti ai radicali come se fossero una “confraternita”, che vuole
“mascherarsi da democristiani”, oppure il perché tu abbia scritto che “non ho avuto il
coraggio” e che sono costretta “parlare più o meno come la Binetti” oppure che nel filo
diretto ho “girato in modo viscido attorno al tema”.
Confermo quanto detto nel filo diretto di RadioRadicale all’ascoltatrice che mi chiedeva
quale atteggiamento avrei tenuto su una materia come quella dell’eutanasia nell’ipotesi fossi
eletta in Parlamento. Come ci hanno insegnato, Luca Coscioni prima e Piergiorgio Welby
dopo, la dignità della vita che si sceglie di vivere, la dignità fino agli ultimi istanti di essa,
dunque nel processo del morire, la “morte opportuna” – come Piergiorgio la chiamava –
sono allo stesso modo, e credo con coerenza, al centro dell’iniziativa radicale tutta.
Nel filo diretto ho spiegato che sono candidata nel Friuli Venezia Giulia la terra del socialista
e radicale Loris Fortuna., che ha legato il suo nome a straordinarie battaglie di libertà e di
liberazione, dimenticato dalla storia patria e dalla neonata Costituente Socialista.
Fortuna, assieme a Marco Pannella, Emma Bonino, Gianfranco Spadaccia e tanti altri, ha
assicurato al paese tutto, riforme laiche degne di uno stato moderno, quali sono la legge sul
divorzio e sull’aborto nonché – e anche questo ho ripetuto durante il filo diretto –un disegno
di legge per depenalizzare l’eutanasia.
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Quanto Luca, Piergiorgio e noi tutti abbiamo fatto per garantire l’autodeterminazione
dell’individuo, anche nelle scelte di fine vita, è cosa che a chi dice di essere attento ai
radicali non credo di dover riassumere in queste poche righe.
Sull’eutanasia in particolare, però - permettimi di ricordarlo a tutti gli associati di Libera
Uscita che si recheranno tra pochi giorni alle urne - fuori come dentro il Parlamento non ci
siamo fermati un attimo. Negli anni abbiamo presentato proposte di legge di iniziativa
popolare per depenalizzare l’eutanasia, abbiamo organizzato la raccolta di decine di migliaia
di firme per chiedere un’indagine conoscitiva sul fenomeno dell’eutanasia clandestina in
Italia; nell’ultima legislatura abbiamo depositato un progetto di legge in materia.
Consentimi infine di notare che, per fugare qualsiasi dubbio, sarebbe bastato andarsi a
riprendere le poche righe che ho scritto in occasione della morte di Chantal Sébire, la donna
francese scomparsa qualche settimana fa: “Noi crediamo – scrivevo - che sia un atto di
misericordia e di amore comprendere e – quando viene esplicitamente richiesto – consentire
l’interruzione di inutili sofferenze. Da una parte, c’è l’ipocrisia tetragona di chi preferisce che
il fenomeno resti clandestino, ingovernato e ingovernabile, lasciando tutt’al più che a pietosi
medici e infermieri e alle loro coscienze il compito di praticare l’eutanasia; dall’altra c’è chi,
come noi, si batte perché ci sia una legge che regolamenti il fenomeno, e non come ora, un
arbitrio di fatto. Tutti i sondaggi demoscopici certificano che la maggioranza dell’opinione
pubblica è sulle nostre posizioni, e che ancora una volta è il mondo della politica a non
saper e voler comprendere quello che invece è chiaro ed evidente a tutti. Non per un caso si
sono opposti anche a una commissione d’inchiesta che monitorasse la situazione e
verificasse lo stato dei fatti. Quanti sono, in Italia, i casi come quelli di Chantal Sebire? E
perché deve esser loro negata la possibilità di cui ha beneficiato Hugo Class? Ci siamo
battuti e continueremo a batterci, in Parlamento e fuori perché queste inutili sofferenze, a chi
lo chiede, siano risparmiate”.
Niente altro da aggiungere, da parte mia. Non un momento da perdere, da parte di noi tutti.
Domenica 13 e lunedì 14 chi voterà Partito Democratico contribuirà a far sì che il prossimo
Parlamento e la politica politicante non eliminino i radicali e quindi chi da sempre si batte,
per regolamentare quelle che alcuni definiscono “questioni eticamente sensibili” e che noi
preferiamo definire “i nuovi diritti civili”>.
Anna Maria Coscioni – Roma, 8 aprile 2008
Commento: Anna Maria Coscioni, candidata radicale nelle liste del Pd del Friuli Venezia
Giulia, ha voluto dare tempestivamente alle perplessità che avevamo manifestato nella
nostra lettera aperta. Perplessità fugate dal richiamo fatto nella sua risposta all’impegno
esemplare che hanno sempre espresso i radicali su questi temi, ma che non sarebbero mai
nate se alla precisa domanda dell’ascoltatrice: “I deputali radicali si impegneranno nella
difesa dell’eutanasia?”, Coscioni avesse risposto: “Sì, si impegneranno”, magari precisando
“sempre che ce lo consentano la situazione politica e la disciplina del gruppo parlamentare”,
o addirittura aggiungendo “anche se questo è un impegno che probabilmente non sarà
attuale nella prossima legislatura”. Viceversa A. M. Coscioni non ha risposto in modo netto,
dando l’impressione di non volersi impegnare su un tema tanto scabroso. Comunque sia,
accettiamo questa precisazione, nella certezza che una volta eletti - come ci auguriamo - i
deputati radicali torneranno a mostrare, come sempre hanno fatto, meno diplomazia e
maggiore determinazione (Giancarlo Fornari).
763 – LE VIGNETTE DI GIULIANO – BERLUSCONI E MALPENSA
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