Prima supplenza - Edizioni Leucotea

Transcript

Prima supplenza - Edizioni Leucotea
Prima supplenza
«Professore Verdelli?»
«Sono io.»
«Qui è il liceo scientifico di S. Agata Militello.»
«Mi dica liceo scientifico di S. Agata Militello.»
Pausa. Un segretario in pausa: dovrebbe essere abituato.
«Professore, la chiamo per una supplenza.»
«Di quanti giorni?»
«Quindici giorni, a partire da domani.»
«Per?»
«Come?»
«Il motivo di questi quindici giorni? Malattia? C’è la possibilità
che l’insegnante prenda altri giorni?»
«Non credo proprio. Si tratta di una matrimoniale.»
«Nel senso che sono due gli insegnanti che hanno preso
quindici giorni?»
Delle due, l’unica possibile, sta pensando il segretario dal sicuro
riporto spiraloide in testa: questo è scemo.
«Il professore si è sposato.»
«Se può, gli faccia gli auguri da parte mia.»
Il segretario non coglie, e dice: «Che fa, accetta?»
«Accetto.»
Quindici giorni: un altro giorno e sono due punti. Poi, mi
bastano altri centocinquanta giorni per fare dodici punti. Già
questa sarebbe una consolazione. Ma c’è il fatto dei centottanta
giorni: se non li faccio, retrocedo di nuovo, mi tolgono i diritti,
non mi tocca nulla; se mi ammalo si tengono la metà dei soldi
della giornata, e c’è il medico da pagare. Se un supplente deve
fare una visita specialistica, deve 1) pagare la visita specialistica
(che poi non è detto che si riveli così specialistica), e deve 2)
infilare le monetine della sua giornata lavorativa nella fessura
del salvadanaio a forma di orco delle casse dello Stato, e deve
3) superare lo stress del momento aiutandosi con compresse di
biancospino, valeriana, bromuro, zinco e acido fosforico. Non
tutti i supplenti ce la fanno. C’è chi perde i capelli per strada,
chi si fa venire una bella alopecia aerata, chi resta per strada con
la macchina, e non ha la tessera ACI, chi soffre di principio
d’ulcera, ulcera, ulcera perforante; chi di colite, acuta e spastica;
chi non fa in tempo, la mattina, ad andare in bagno; chi ha la
macchinetta del caffè con i forellini del filtro intasati, e il caffè
esce lentamente, o non esce, e allora ti ritrovi a uscire di casa,
sperando di arrivare cinque minuti prima alla stazione per
prendere un caffè al bar, quello che ti dà l’ultima botta di
trapano, prima di perforarti lo stomaco. C’è anche chi è di
Messina e lavora a S. Agata e chi è di S. Agata e lavora a
Messina; e c’è anche chi va a schiattare in una delle isole
minori, o si arrampica fino a Mistretta (a mille metri d’altezza)
rischiando ogni giorno di A) perdere la coincidenza a S.
Stefano, B) incorrere nell’ira del Dirigente Scolastico, ex
Preside, ora Manager targato XXI secolo, in questa terribile,
vomitevole, nauseabonda era Gelmini. E c’è chi ancora ci spera:
in che cosa? Che ci sia un limite. Che ci si fermi prima del
burrone. O che il volo, alla fine, che faremo tutti quanti, non sia
dei più mortali.
Sull’autobus, mi faccio dire la strada per arrivare al liceo
scientifico da una collega del liceo classico che è un gradino al
di sopra di me. È una che ha avuto una nomina annuale da CSA.
Io sono rimasto fuori dalle nomine annuali per tre miseri posti, e
ho ottenuto questi quindici giorni solo perché Iddio, nella sua
infinita misericordia, è intervenuto per fare un miracolino a me
che sono un precario ormai storico di questa gloriosa istituzione
a perdere che è La Scuola, che è come dire La Famiglia. Se
mamma Stato o papà Stato deve risparmiare, lo fa solo ed
esclusivamente sui supplenti, togliendo le ore residue,
accorpando le classi, portando a diciotto le ore effettive di
insegnamento. Una volta, c’erano le disponibilità; adesso, le
disponibilità cominciano a scarseggiare, come l’acqua. E i
supplenti cominciano ad avere sete; hanno già messo un primo
piede in un deserto dei sensi dove anche i miraggi vivono
accorpati, e i beduini di passaggio hanno i volti dei ministri che
si sono succeduti nelle varie ere e nei diversi interregni.
Mi ritrovo solo. Nessuno è sceso con me.
Per arrivare a scuola, devo fare una salita: la famosa
salita del Calvario intitolata a un certo professore Rosario
Nascimbeni morto per strada, dopo solo ventuno anni di
servizio, nel tentativo di giungere a scuola prima del suono
della campana, e dell’arrivo del preside, ora Dirigente
Scolastico.
Faccio la salita Nascimbeni (che poi è morto male), e
incrocio un vecchietto piegato in due, sbucato fuori da chissà
quale campagna, vestito alla meno peggio, con pantaloni di
velluto e un gilet incatramato di sporcizia.
“Vuoi vedere che è un professore in pensione?”, penso.
«Mi scusi, vado bene per il liceo scientifico?» gli chiedo.
Mi fa cenno di proseguire, ma di proseguire a lungo,
gracchiando qualcosa, e togliendosi forse la soddisfazione di
vedere qualche forestiero farsi la salita che lui compie ormai da
anni immemorabili.
Arrivo a scuola in undici minuti e qualche spicciolo di
secondo. Non so a che ora suona. Non sento trilli nell’aria. Non
sento i megafoni del potere. Va che sono in orario. Ma tanto
devo ancora prendere servizio. Il primo giorno di servizio è uno
spasso, per un supplente. Se arrivi in ritardo, non sanno come
risvegliarti il senso della decenza professionale. Non ti possono
dire: “È questa l’ora di arrivare a scuola?”. Un supplente, al suo
primo giorno, può sempre dire (e lo dirà, lo dirà sempre, un
supplente che si rispetti): “Non sapevo dov’era la scuola”.
Vedo tre alunni sfaccendati che si muovono in circolo per
perdere scampoli di tempo. Non funziona così, ragazzi;
purtroppo, non è così facile: puoi arrivare in classe alle otto e
mezzo, come alle nove meno un quarto, ma la tua prima ora
sarà sempre lunga, e senza consolazione, come il sapore di una
sigaretta senza filtro, potente, una colata sui polmoni, un cero
acceso nella tua gola, che ti soffoca. Cinque anni, alunno. Ma
non ti preoccupare, passano. E arriverà il momento in cui
magari li rimpiangerai.
In alto, stanno i ricchi. Più in basso, gli affiliati. Più sotto, i
borghesi di ogni specie. In basso, la gente: instabili, precari e
disoccupati.
A scuola, in alto, sta il ministro, sempre sia lodato. Più in
basso, i collaboratori. Più sotto, i presidi top manager, e un po’
più sotto, mezzo scalino più in basso, gli imboscati delle
segreterie che, a onor del vero, lavorano più del dovuto (e meno
male che oggi hanno i computer), e i professori che detengono il
ruolo, che hanno un ruolo in questa nostra società che,
altrimenti, rischierebbe il collasso culturale; e i bidelli, esseri
ibridi che hanno i compiti più indispensabili: il bidello che apre
la porta, il bidello che ritira i giornali, il bidello donna che
lavora all’uncinetto per preparare i centrini per i nipoti di tutti i
bidelli, il bidello statua della portineria, il bidello che fuma in
sala professori per mantenere l’ambiente pulito, il bidello
autoctono che parla una lingua diversa da tutte le altre affinché
il ricordo della lingua degli avi alberghi - tessuto indelebile nella memoria dei giovani; il bidello che si deve incazzare con
tutti, il bidello che recita la parte del bidello, il bidello spia, il
bidello che tiene il mazzo delle chiavi, il bidello donna vestito
da lavandaia che prepara il caffè e lava cespi di lattuga, il
bidello che fa entrare quello dei panini e il bidello che in
mancanza del preside, ora manager, ne assume le veci. E,
dimenticavo, il bidello che fa tutto, figura decisamente atipica.
Bidello: dal francese antico bedel ‘poliziotto’. Bidello:
chi è addetto alla custodia e alla pulizia delle scuole. Istantanea
verista: un bidello che fa le pulizie in una classe dopo cinque
ore di lezione.
Un giorno, scriverò una Storia universale dei bidelli, una
storia che qualcuno si è divertito a mutare, a cancellare, a
rendere bizzarra e innocua come vita grigia e anonima.
Entro in segreteria.
Uno male resuscitato mi viene incontro, e non ho
neanche la pistola per sparargli.
«Sono il professore Verdelli,» dico. «Devo prendere servizio.»
Il resuscitato mi indica una porticina, poi si perde tra mille
spasmi, cercando di sfuggire ai suoi stessi miasmi.
Procedo.
Entro in una stanzetta. Ci sono due individui che pensano
che interfacciarsi con un computer significhi starlo a guardare
per ore e ore. Un terzo ritaglia fogli: sarà un nuovo compito
appena ammesso nelle scuole.
Vado da quello che ha un riporto a chiocciola sulla testa.
«Sono il professore Verdelli,» mi presento. «Devo prendere
servizio.»
L’amico sghignazza: è pronto a fare la battuta.
«Professore, sono le nove,» mi rimprovera. «Lei doveva
prendere servizio alle otto e un quarto.»
«Ho parlato con lei, ieri?»
«Sì.»
«Lei si è preoccupato di fornirmi l’esatta ubicazione della
scuola?»
«Come dice?»
« Mi ha trasmesso, per via telefonica, il mio orario?»
«Era lei che doveva chiedere.»
«Ma siete voi che dovete rispondere.»
Si altera. «Che cosa vuole dire?» mi chiede.
«Che voglio parlare col manager di questa scuola.»
«Con chi?»
«Col signore che si trova oltre quella porta.»
«Lì c’è il Direttore Amministrativo.»
«Allora, col signore che si trova oltre la porta del Direttore
Amministrativo.»
Il riporto segretariesco subisce un’impennata: minaccia,
indignazione, collera, ripensamento. E se davvero questo
coglione di supplente chiama il preside?
«Col preside,» preciso, facendo finta di non essermi spiegato
bene.
Il segretario si esime. È dibattuto. Bofonchia qualcosa
d’incomprensibile. Si dibatte, come una cernia in una piscina di
plastica piena di polpi. Capisce, e non capisce. Forse, per la
prima volta si interroga sulla sorte che la vita gli ha riservato: è
un segretario: un tassello alla base della piramide del potere.
Non può nulla neanche con un supplente precario a vita. Non sa
più chi è. O meglio, lo sa, e se lo nasconde. Guai a rivelare a se
stesso di essere una nullità. Meglio tornare a interfacciarsi col
computer, qualunque cosa possa significare.
Apre un cassetto e mi consegna una chiave attaccata a un
portachiavi mangiucchiato: la chiave di un armadietto.
«Non la perda, professore: è l’unica che abbiamo.»
Sul portachiavi, il numero dell’armadietto. Il 14. Quattordici
doppio di sette, numero mistico per eccellenza. Quattordici: il
numero dei miei anni di precariato. E io ho trentanove anni. 14
e 39, buoni per un ambo. Che sia la volta buona che racimolo i
soldi per una vacanza, senza sotterrarmi di lavoro?
«Tra qualche giorno, passi per la firma del contratto,» mi
ricorda il segretario.
«Farò di tutto per esserci.»
Mi consegna l’orario del professore sposo novello, un
foglietto rettangolare debitamente compilato nelle parti anche
più intime, e si dimentica di me.
Mi dimentico di lui.
Profano la Sala Professori, tagliando in due una voluta di fumo
che, per dispetto, si solleva verso la scritta VIETATO
FUMARE, senza per questo volersi disperdere. Ci sono quattro
sagome di ruolo, quattro insegnanti da tumore alle occhiaie.
Saluto. Non mi salutano. Firmo nel registro con una penna
dell’era Berlinguer, apro il cassetto del professore che devo
sostituire e mi impossesso del suo registro personale. Le quattro
cellule cancerogene di ruolo m’avvistano, accerchiandomi. Non
posso più uscire dalla sala. Al posto della porta, adesso c’è una
cortina fumogena di MS Lights, Marlboro e Merit. Non mi resta
che la finestra, ma siamo al secondo piano. Non mi resta che
arrendermi.
«Nuovo?» Mi fa una con un sopracciglio rialzato fino alla
stempiatura bianca.
«Sì,» rispondo.
«Sostituisci il professore Santini?»
«Sì.»
«Bene.»
«Quello non rientra più,» dice un’altra in siciliano.
«Stai tranquillo,» mi fa la terza, la più insipida.
Il quarto, un maschio, è uno con un bocchino in bocca,
sciacquato nella paranoia.
Il mistero sulle mie origini si dissipa.
Suona la campana, annunciando la fine della prima ora,
ma gli ineffabili quattro non si muovono.
Devo entrare in IC.
Seguo le indicazioni su una piantina e trovo la classe. Gli
alunni sono tutti fuori che mi aspettano. Già mi vogliono bene.
Un bene dell’anima. Già una dozzina di paia di occhi
strafottenti hanno scaricato dal mio hard il mio curriculum
vitae. Sanno già tutto di me, ma principalmente sanno che sono
un supplente, e che non hanno nulla da temere. Passeremo la
prima ora a studiarci, e ad assumere le posizioni in campo.
Proveranno a escludermi, a ingannarmi, a tergiversare, a
sottomettermi. Ridacchieranno e sghignazzeranno, giocando a
passaparola con i dati della mia vita, e con i miei difetti,
radendo a zero i miei pregi. Per una buona mezz’ora, non
conterò nulla. Un invisibile, un risibile invasore. Lasciamoglielo
credere.
Li faccio entrare in aula, e subito individuo il tipo di
classe: trattasi di alunni protozoi, costituiti da una sola cellula,
più o meno complessa o specializzata. Ci mettiamo a parlare, e
verso la fine dell’ora il quadro si delinea con una sufficienza
impressionante: sono animali e vegetali insieme, e si nutrono
mediante fotosintesi scolastica, con la poca luce che il cervello
di pochi riesce a riflettere. La maggior parte sono quindi
sarcodini, dotati cioè di propaggini mobili del corpo che
servono per la presa dell’alimento: suggerimenti, copie di
compiti, quaderni di altri per sopravvivere alle interrogazioni.
Poi, alcuni sporozoi, organismi parassiti assai rari, per la verità,
che il gruppo tende ad accantonare perché trasmettono la
famosa malaria da banco, che prosciuga le cellule, specie quelle
cerebrali, di ogni intenzione. Infine, due alunni celenterati, un
ragazzo e una ragazza, belli e puliti a vedersi, ma mortali a
toccarsi. Meno male che la supplenza dura solo quindici giorni,
cioè dieci giorni lavorativi, cioè otto perché starò male due
giorni, cioè sette perché qualcosa succederà, un altro giorno si
perderà, è fisiologico.
Per prima cosa, vediamo cos’avete fatto di Latino. Chi si offre
volontario per andare alla lavagna? Nessuno si offre volontario
per andare alla lavagna? Devo chiamare io? Io devo rendermi
conto di quello che avete fatto, se no come faccio ad andare
avanti col programma. Guardate che ho parlato col Vostro
Professore, e ci siamo messi d’accordo per quanto riguarda il
prosieguo (prosieguo?) del programma; che voi lo sapete che
non ci possiamo fermare; non è che ci possiamo permettere di
fare una sosta, la scuola non è neanche cominciata, e allora: o
viene qualcuno alla lavagna, o mi trovo costretto a mettere due
sul registro, se no il Vostro Professore, quando torna dalla luna
di miele, e vi chiede cosa avete fatto, voi cosa rispondete? Non
abbiamo fatto nulla? Voi capite che io non me ne posso tornare
a casa, pensando che voi direte che non avete fatto nulla. Perciò,
chi viene alla lavagna? Nessuno? Allora, chiamo io. Ma non vi
offendete, se chiamo questo o quell’altro. Anzi, ora apro un
libro di Latino… datemi un libro… grazie… ah, avete questo
testo? Ottimo manuale, davvero… ora apro il libro, e vediamo
che numero esce… 299… 2+9+9 uguale 20… il numero
venti… siete diciannove?... rifacciamolo… 123… 1+2+3 uguale
6… il numero sei… vediamo chi è il numero sei… Christian Di
Marco… alla lavagna. Non vuoi venire alla lavagna? Guarda
che mi costringi a metterti due! Sentiamo la prima declinazione.
Come non sai la prima declinazione? La conosco pure io! Dai,
ripeti la prima declinazione. Sono cose che dovete sapere come
l’Ave Maria, o il Pater Noster, non è che in italiano potete dire
fòrchetta per forchetta, o tavòlo per tavolo. Voi ridete? O sapete
bene quello che dite, oppure ogni errore io lo devo classificare
come un punto in meno. O fate bene i casi, o imparate come si
deve le desinenze, o io non so che farci. Due è, e due vi resta…
a che ora suona? Alle dieci? Avete l’ora di cinquanta minuti? Il
mercoledì è da quarantacinque? Allora, uscite presto, il
mercoledì. Anche il lunedì e il venerdì? Per motivi di trasporto,
vero? Di dove siete? Tutti di S. Agata? Allora, non avete
problemi di autobus e treni. Quindi, a momenti suona? Va bene,
per la prossima volta ripetete quello che avete fatto finora.
Guardate che vi interrogo!
Sono diventato un professore ignobile.
Non potrò mai essere come un professore di ruolo. Quelli
hanno sempre le classi migliori. Stampano individui in serie
dell’altro mondo. Ma come fanno? Sarà il ruolo. Forse il
ministro dell’ultimo piano dovrebbe inventare i supplenti di
ruolo. Così, per darci più sicurezza.
Alla terza ora, passo in 2C. Stessa trafila, qualche ragazza
ammicca, qualcun’altra occhieggia, i più fanno gli indifferenti,
o i ritrosi. In breve, sono infastiditi dalla mia presenza. Qui,
sono un usurpatore. Questa è una classe appartenente alla
grande famiglia dei rettili, ordine chelonia, rhynchocephalia e
squamata. Sulla destra, appartenenti al primo ordine, ho un
gruppo di alunni testuggini, con tanto di carapace e piastrone.
Sono tutti bravi ragazzi, ma come le testuggini, se devono
mordere, sono capaci di staccarti una mano. Già mi odiano. Già
hanno capito che non sono l’intellettuale che speravano di
trovarsi davanti. Già rivogliono il loro professore, l’agevolezza
delle sue spiegazioni, il tatto delle sue disquisizioni. Nella
sostanza, si dicono: “Ma che cazzo vuole, questo qui?”. Poi, a
due metri di distanza, lungo un asse poco immaginario, ho
un’alunna tuatara, un rettile primitivo, una lucertolina
sopravvissuta all’estinzione, che ha un rudimentale terzo occhio
sulla sommità del capo, col quale intercetta mentalmente le
lacune di base dei professori. Entro due giorni, mi dirà:
“Professore, il perfetto latino traduce non solo il passato
prossimo e il passato remoto, ma anche il trapassato remoto.
Così ci ha spiegato il professore”. Oppure, a bruciapelo: “Chi
era Paolo Diacono? Come si chiamava anticamente la Scozia?
Ma i Burgundi erano imparentati con i Vandali? Dove si trova
la Mesia, in Polonia o in Bulgaria? Chi erano San Pacomio e
Simeone il Vecchio? E Astolfo? E Autari? E Clefi? E Equizio?
Presso quale località Stilicone fermò i Visigoti guidati da
Alarico? La determinazione di tempo ‘Quo temporis spatio’
come si traduce? Mi può rispiegare il comparativo e il
superlativo di ‘frugi’ e ‘nequam’? Ante diem quartum Idus
Ianuarias a quale giorno corrispondeva? Che differenza c’è tra
‘utervis, utravis, utrumque’ e ‘uterlibet, utralibet, utrumlibet’?
Ma se dico ‘ne-hilum’, sbaglio?”.
Il resto della classe è un’accozzaglia di rettili che sibilano
il loro malcontento ai muri della loro gabbia. Occupano due
terzi della classe. Hanno gli occhi iniettati di sangue. Quando
parlano, è solo per ipnotizzarti. O per infinocchiarti. C’è una
categoria di alunni nata solo per fare atto di pompaggio, e i
peggiori sono questi dell’ordine squamata. Riescono a fondere
il loro istinto primordiale rettiliano con le tecniche di
persuasione più all’avanguardia del momento. Sono i dirigenti
del futuro, quelli che la sparano grossa, quelli che ti
circuiscono, che ti abbindolano, che ti dirigono con la sola
imposizione dei loro pensieri. Hanno le tacche sulla cintura, e
sputano veleno misto a sangue e fumo. Sono nati per governare,
per averla vinta, non si preparano mai per i compiti in classe,
sanno di poter contare su una delle testuggini, sanno di poterla
gabbare, di potersi insinuare tra carapace e piastrone per
infettarla; si appropriano del lavoro degli altri, perché non sanno
cosa significhi lavorare, sanno solo cosa significa fottere. E così
che ragiona uno squamato: ti fa credere tutto quello che vuole.
Ti fa credere che lui è il migliore, e puoi stare sicuro che ci
riuscirà.
Uno, uno squamato, mi fa: «Professore, posso andare in
bagno?»
«A fare cosa?»
«Cosa si fa in bagno?»
«Devi fumare?»
«No, non fumo, professore.»
«Allora, vai dopo.»
«Professore, devo fare pipì.»
«Falla.»
«E dove? Nel cestino?»
Quando vedo uno squamato, i miei occhi mandano lampi, e le
mie orecchie odono il rumore del tuono.
«Tuo padre che lavoro fa?» gli chiedo.
« Il ginecologo,» risponde tra mille soddisfazioni.
Uno squamato è tendenzialmente un sadico, come lo è
tendenzialmente la gente che sta in alto. Parlo di potere,
naturalmente. Io parlo sempre di potere. È una delle mie parole
preferite; e la mia domanda preferita è: “Perché quelli che
salgono al potere sono tendenzialmente sadici, manipolatori,
narcisisti, psicopatici, isterici?”.
«E tua madre?»
«È psicologa.»
Famiglia per bene. Ce ne sono tante. Non vuol dire niente. Sono
i fatti che contano.
«Tu lo sai che sono i fatti che contano?» Domando allo
squamato.
«Come, professore?»
Tiene la testa alta, ha le labbra socchiuse, si spinella, ma non
perché è figlio di famiglia per bene, questo è un luogo comune:
fuma perché deve tenere lo spinello in bocca. Deve avere
qualcosa in bocca. È l’espressione di un bisogno orale. Un
sostituto del seno materno. In questo mondo, devi inspirare
qualcosa, per stare a galla.
Vai in bagno, squamato. Vai in bagno, e prova a vomitare
qualche filo di tristezza, qualche spaghetto di pianto, di
depressione. Staresti meglio.
«Vai in bagno,» gli concedo.
Esco dall’aula e incrocio una collega, due mandorle al posto
degli occhi, due meloni al posto del seno, due grosse fette
d’anguria al posto del sedere. L’ho già vista. Corso abilitante
2000/01 per le classi di concorso A043, A050, A051. Certe
visioni non si scordano. Nel frattempo, è entrata di ruolo.
Ancora me la ricordo. Eravamo in trentaquattro, seduti ai nostri
banchetti di scuola, in un corridoio del liceo classico di
Barcellona, a fare il nostro bel compitino, prima di presentarci
per l’orale. Io ero seduto in prima fila. Lo sono sempre stato.
Seduto in prima fila a fare il mio compitino. Foglio, penna e
idee: nient’altro. Dietro: fogli, penne, libri, enciclopedie, moduli
già scritti pronti per essere copiati. Gli stessi professori che poi
andranno in classe a dire agli alunni che copiare no, non è bene,
che copiare no, non si fa, che copiare no, se no vi metto due. Ne
avevo trentatré dietro, al corso abilitante, e trenta copiavano. Gli
stessi professori che… E tra questi c’era lei, miss Melone
Dolce, bella e impossibile, uscita col massimo dei voti, 80 su
80. Ora, è un insegnante di ruolo. È arrivata. È padrona del suo
tempo, della sua opera, con quella grinta in viso che la rende
ancora più bella, ancora più appetitosa, lei, conosciuta e seguita
da tutti i sindacalisti, osannata nei pensieri, dai più turpi ai più
osceni.
«Ciao, collega,» mi fa.
Non siamo colleghi, collega. Io sono un supplente: sono
il ruggito della bestia prima della morte. Comprendi?
«Ciao.»
«Siamo stati a Barcellona, insieme,» mi ricorda.
Sono la bestia che cerca un angolo per morire. Il leone
vecchio e insanguinato che non troverebbe posto più neanche in
una favola di Fedro. Grande Fedro, supplente di grandi.
«Mi ricordo.»
«Sei qui, quest’anno?»
«Solo per quindici giorni.»
«Io sono qui in assegnazione provvisoria.»
Tutto è provvisorio. E tutto è relativo.
«Io comincio adesso il mio giro di supplenze.»
«Non sei riuscito ad avere una nomina annuale?»
«Non sono arrivati a me, non c’erano più posti,» la informo.
«Lo so, lo so.»
«Dovevano sistemare prima noi delle sessioni riservate.»
«Lo so benissimo.»
«Potevano almeno spiegarci, allora, che si trattava di una
sessione riservata a tutti, tranne che agli aventi diritto.»
«È che al Ministero ci sono persone che non s’intendono di
scuola.»
«È che la ferita del poveraccio va subito in cancrena,»
sentenzio.
«Sì,» fa lei, sorridendo, ma non ha capito nulla. Ai suoi occhi,
sono un tipo da dimenticatoio. Anche i miei attributi non sono
di ruolo; io sono uno di terza fascia; uno con un piede nella
fossa e l’altro nel cemento. Sono l’uomo di una notte, l’uomo
che non ci crede, che è troppo impegnato a pensare al domani,
per viversi il presente.
«Devo andare,» mi comunica.
«Certo.»
Mi saluta. Fuori, c’è il marito che l’aspetta. E c’è anche il suo
figlioletto. Una famigliola felice. Felicitazioni. Almeno voi ce
l’avete fatta. Ma c’è qualcosa che non mi torna. C’è sempre
qualcosa che non torna. Sarà il tempo che è cambiato. Sarà
questo clima malato di ipocrisia. Sarà che il barcone sul quale
viaggiamo non ha oblò e non ti permette la vista di quello che
c’è fuori. Mi piacerebbe dare un’occhiata a quello che c’è fuori.
Un giorno, mi isserò sulla vedetta per cercare un orizzonte.
Dicono che sia diventato di carta, ormai. E che ci sono tanti
disegnini, e collanine di perla, e un sole che fa sempre finta di
tramontare, e dei ragazzi che giocano su una spiaggia, e un
maestro di vita che insegna loro a ridere e a scherzare. Peccato
che si tratti solo di carta.
L’autobus mi riporta a Messina alle tre meno venti. C’è mio
padre che mi aspetta all’uscita del viale Boccetta.
«Com’è andata?» Mi chiede.
«Bene.»
«Com’è l’ambiente?»
«Buono.»
«Sei ancora in tempo a cambiare mestiere.»
Non riesco a rispondergli. Arriviamo a Ganzirri alle tre e
cinque. La mia casetta mi aspetta, il mio giardino incolto dove
crescono tante erbacce e qualche sorpresa, la mia stanza che
non riesco ad abbandonare.
Domani, si parte per un’altra avventura.
Chissà chi incontrerò?
Incontro le facce del giorno prima.
L’apnea comincia.
Forse sono fortunato a essere un supplente, non voglio
entrare di ruolo. Voglio capirci qualcosa di quello che sto
(stiamo) facendo. La salita, le classi, le lezioni, l’intervallo, le
lezioni. Si riparte. L’apnea crescerà, si arrampicherà sulla gola
di ognuno, ci contrarrà i nervi, faremo tutto con i pugni chiusi,
esaleremo sorrisi tra le mascelle indurite, piangeremo duro,
compreremo medicinali, tanti medicinali. Non sei un buon
professore, se non hai un tuo cassetto dei medicinali. Ieri, ho
comprato degli integratori, domani una crema per le emorroidi,
dopodomani il caffè mi farà male, tra una settimana chiederò un
giorno di malattia, perché starò male, dentro, mi sentirò inutile,
mi sentirò come se non stessi facendo niente. Non ho privilegi.
Non posso entrare in congedo. Che bella parola. Quelli di ruolo
spesso vanno in congedo. Staccano. Mai completamente, ma
staccano. Il supplente, invece, è staccato. Tampona. È uno
schiavo divenuto liberto; un uomo libero alla catena del
padrone.
Ho come la chiara sensazione di non esserci.
In 2C, siamo in piena trattativa. Dopo due giorni, capisco che si
comportano da serpenti solo se punzecchiati. Hanno bisogno di
lentezza, di digerire il pasto della settimana. Non devo
stuzzicarli, non devo svegliarli. La lezione non può e non deve
essere da programma. Non posso andare avanti, non posso
interrogare. Se lo faccio, mi odieranno. Forse, ce la facciamo a
giungere a un compromesso. Loro se ne stanno buoni, e io
faccio il minimo indispensabile. Niente lezioni pallose di Storia,
solo qualche ripasso di Latino.
Uno mi ha chiesto: «Ma lei è supplente?»
Devo mentire. È più forte di me. Io avevo il diritto di non
essere più un supplente. Come faccio a dirlo?
«Per mia scelta,» rispondo.
«Di dov’è, professore?»
«Di Messina.»
«Di Messina? E a che ora si alza per venire qui?»
«Presto. Molto presto. Io abito fuori Messina. Conoscete
Ganzirri?»
«Sì, dove ci sono i laghi.»
«Dove ci sono i laghi,» confermo.
Non mi parlano più. Tornano a riunirsi in tre, quattro
gruppi. Io torno a non esistere più. Da domani si fa lezione
regolarmente. Forse è meglio.
Aria di sciopero nazionale. Le riforme non piacciono a nessuno,
ma c’è una manovra finanziaria da portare avanti. Bisogna
tagliare le gambe. Falcidiare più professori possibili. Le classi
arriveranno a contenere fino a trentacinque alunni, ma già
questo succede in molte scuole. Trentacinque corpi stipati in
una stanzetta quasi sempre oltre le misure stabilite dalla legge
per metro quadro, mentre agli insegnanti si continua a chiedere
il massimo della qualità e della professionalità. Prova tu, caro
ministro, o caro manovratore di fili finanziari, a insegnare come
si deve a trentacinque ragazzi di cui due magari portatori di
handicap.
Non c’è verso. Cambiamo sempre i nomi alle cose, senza
mai cambiare nulla.
«Quanto resti qui, collega?» mi chiede un’insegnante con due
bottoncini al posto del seno, e denti guasti.
«Quindici giorni.»
«Ma il collega rientra?»
«Rientra.»
«Non fai neanche due punti.»
Grazie per avermelo ricordato.
«No, non faccio neanche due punti.»
La collega tira fuori una sigaretta. Si mette a fumare. Ecco il
perché dei denti guasti.
«Fumate in sala professori?» Chiedo.
«Ti dà fastidio?» ribatte, inarcando un sopracciglio, e
atrofizzando l’altro.
«A me no,» rispondo. «A te sì. Fumare fa venire i denti gialli. E
l’affanno.»
Mi guarda come una che è stata appena spennata. C’è rimasta
male, e io pure.
«Anch’io fumavo, prima,» dico, come se fossi ancora in tempo
per scusarmi. Ma ormai è troppo tardi. Se ne va, quasi avesse un
difetto irreparabile di cui non può più liberarsi.
Un alunno di 1C si è messo in testa di farmi sudare gli ultimi
giorni di supplenza. Gli altri se la ridono. Non riesco a fare
lezione. Ho le vene delle braccia gonfie, e mi gira la testa.
Parlo, sapendo di non essere ascoltato. Qualcuno, bontà sua, mi
segue, annuendo, proponendosi, ma è il resto di niente. Non
posso andare avanti. Sudo. Si stanno prendendo gioco di me, e
io non lo vorrei fare, ma c’è un punto, quel punto, di
separazione dal tutto, dove torni a essere puro istinto, preda che
combatte, predatore che si difende. La visione periferica
svanisce, e resta l’obiettivo, l’unico: sopravvivere. Fare fuori il
nemico.
Avanzo verso l’alunno e gli intimo di uscire dalla classe.
«Va bene, va bene,» mi fa lui, ghignando come un demone
fanciullo.
«Esci fuori,» gli ordino.
«Non dico più niente, professore.»
Afferro il suo zaino e lo scaravento contro la porta. Prendo lui
per un braccio, lo strattono e lo ricongiungo allo zaino. Apro la
porta e li butto fuori tutt’e due. Torno alla cattedra. Abbranco il
registro, una penna, sputando un po’ d’inchiostro, una nota, la
famosa nota che non serve a niente. La nota inservibile della
scala musicale, un grido ammaestrato dal vento.
«Stavamo dicendo...»
Il cellulare squilla. Non succede spesso, non più di quattro volte
a settimana. È Nicoletta, la mia amica del cuore. L’unica
consolazione che la vita sia stata in grado di offrirmi.
«Ciao,» rispondo quasi sorpreso.
«Che fai?»
«Studio.»
«Ancora?»
«Preparo una lezione.»
«Ti va un cinema?»
«Uno qualunque?»
«Uno qualunque.»
«Aggiudicato.»
Quando la sento, ritorno a essere il ragazzo di sempre. Sarà la
vita da single acquartierato in casa dei genitori a farmi sentire
anche così. Ma poi rifletto e penso che il tempo è trascorso, o
che, se non altro, mi ha sfiorato le guance, l’attaccatura dei
capelli, il contorno degli occhi. Un ragazzone cresciuto male e
in ritardo. Meglio non pensarci più di tanto.
Non ho ancora visto il preside, sempre più manager. Mi dicono
che non si fa vedere spesso. Mi dicono che se suoni alla sua
porta, forse non ti risponde. Mi dicono di non chiedere, e di
presentarti da lui solo se sei invitato. Mi dicono che è sempre
occupato, e che non si può gestire un istituto d’istruzione
superiore senza perderci in salute. È per questo che i dirigenti di
oggi, ex presidi, si circondano di collaboratori. Passano ore a
firmare carte, a fare telefonate, a intervenire nelle questioni
scolastiche, a trovare sempre più collaboratori che possano
sopperire alla mancanza di tempo. Mettiamoci in testa che un
preside non è più un preside. Ora questo signore gestisce
un’azienda statale. Che poi la figura del preside era bella,
autorevole; se il preside parlava, tutti zitti e riverenti! Il preside
veniva nelle aule, una volta; ora non più. Ha da fare! Non
possiamo disturbarlo. Sul campanello del suo ufficio, c’è
sempre accesa una lucina che dice: OCCUPATO. Ma non vuol
dire che è sempre in bagno. Che poi, manager è colui che ha
responsabilità di coordinamento o di indirizzo dell’attività di
altre persone; dirigente. Dall’inglese to manage, che poi deriva
dall’italiano maneggiare, verbo della famiglia dei maneggioni,
che poi sta a significare ‘amministrare, governare”. C’era un
dirigente, non ricordo dove l’ho sentito dire, forse una leggenda
solido-urbana, che è riuscito a rialzare di un piano la sua villa di
campagna governando bene, e amministrando meglio. E ce
n’era un altro che non ti faceva entrare nel suo ufficio se non
chiedevi permesso in francese. E un altro ancora che ti dava la
sua benedizione, quando arrivavi nella sua scuola, e un altro che
pretendeva regali solo dai duemila euro in su. Ma sono tutte
dicerie. E c’è un’altra cosa: sono i professori di ruolo a spargere
queste voci in giro. I professori di ruolo sono invidiosi.
Vogliono cambiare nome. Perché siccome professore (m) viene
da profiteri, nel significato di “insegnare pubblicamente”, ora
qualcuno si è messo in testa che devono essere chiamati profeti.
Perché se è vero che l’insegnamento è una missione, è giusto, è
più giusto, che chi parla in nome di Dio, venga chiamato
profeta. E c’è anche chi spera di poter cambiare, all’uopo, il
nome di battesimo, per farsi chiamare, che so?, profeta
Alessandro in onore di Manzoni, profeta Sigmund in onore di
Freud, profeta Guglielmo in onore di Marconi, profeta
Michelangelo in onore del Buonarroti. C’è chi sostiene che la
legge verrà approvata al più presto. Per i supplenti, invece, si
pensa di ripristinare l’istitutore di una volta, il precettore che un
tempo veniva chiamato aio, forse in riferimento al dolore fisico
e psichico a cui i supplenti sono sottoposti di continuo. Aio e
aia. Sempre meglio che profeti. Ma, francamente, con tutto il
rispetto per la categoria, spero un giorno di diventare dirigente.
Mio padre ha lavorato nell’esercito per quarant’anni, imboscato
in un ufficio che lui chiamava NED. Credo significasse
qualcosa come Nucleo Elaborazioni Dati. Ma per lui NED era il
suo rifugio. Era un ufficietto posto al centro di uno spiazzo
vuoto. Lì passava le giornate a leggere e a pensare.
Mio padre ha un senso dello humour spaventoso, che solo
la sensibilità di mia madre, casalinga per devozione, riesce a
tenere a freno.
È da qualche minuto che passeggia davanti alla mia
stanza.
«Che c’è, papà?» Gli chiedo. «Se vuoi camminare in circolo
come i pazzi, puoi uscire in giardino.»
«Devo fare due chilometri al giorno.»
«Usando un corridoio di sei metri?»
«Cinque.»
«Cosa?»
«Cinque metri.»
Poso la penna sulla scrivania. «E quanto ci stai a fare due
chilometri?»
«Non lo so.»
«E come fai a contarli?»
Agita le dita, toccandosi una tempia. «È tutto qui dentro. Conto
i passi.»
«Una passeggiata fuori sarebbe più salutare,» gli propongo. «Un
giro attorno al lago, e rientri.»
«No,» dice. «Ho sempre vissuto in poche stanze. Gli spazi
aperti mi danno fastidio. Mi impediscono di pensare.»
Ci scambiamo un’occhiata, non so quanto d’intesa. Ha già gli
occhi acquosi di certi vecchi, e una sorta di quieta disperazione
che non riesco a spiegarmi.
Torno ai miei appunti.
Vedo il preside, cravatta verde, calzini gialli, giacca di servizio,
che mi attende al varco. Non può che essere lui. Sono in ritardo,
ma non so che farci. Sono le otto e ventidue e quindici secondi.
Lui mi ha visto pure, non mi conosce, ma sa che sono un
aspirante professore, un supplente col dovere di tacere.
«Buongiorno, preside.»
«La campana suona alle otto e un quarto, professore. Lei
doveva essere già in classe ad accogliere gli alunni.»
«L’autobus ha ritardato.»
«L’autobus ritarda sempre.»
«Il tempo di fare la salita...»
«Ad ogni modo, non perda tempo, professore.»
«Non perdo tempo, preside. Non ho più tempo da perdere.
Magari l’avessi.»
Si volta verso di me come un generale con la schiena bloccata, a
ogni modo futuro manager. «Che cosa vuol dire, professore?»
«Che non c’è più tempo da perdere.»
«Mi perdoni, ma non riesco a cogliere il senso di questa sua
espressione.»
Potere e volere a confronto. Dio, che momento! Non me lo
posso perdere. Spero che mi vengano fuori le battute giuste.
«Si lavora, preside,» rispondo. «E quando si lavora, il tempo
personale va a farsi friggere. Poi, quando si finisce di lavorare,
si deve viaggiare per tornare a casa, e quello è l’unico tempo
che ci è concesso, se non è il sonno ad accaparrarselo. Il tempo,
intendo. Infine, si arriva a casa, e si va a dormire, in tempo,
perché per uno come me che si alza la mattina alle quattro e
mezzo, il tempo di cui lei parla non esiste. Per cui, se sono
arrivato in ritardo è perché - mi creda! - un autobus mi ha tolto
cinque minuti di tempo lavorativo. Se vuole, me li può detrarre
dallo stipendio, ma io, con tutta la mia buona volontà - e ne ho
tanta, davvero tanta! - non avrei mai potuto arrivare fin qui
prima del suono della campana. Ora, io capisco che lei debba
assumere...»
«Va bene. Vada in classe, professore.»
«Buongiorno, professore. Sono la signora Merenda del
Pirandello. Come sta?»
«Bene, signora. E lei?»
«Al lavoro. Com’è messo, professore? È libero per una
supplenza?»
«Ho preso quindici giorni a S. Agata Militello. Finisco tra tre
giorni.»
«Quindi, è occupato.»
«Purtroppo, sì.»
«Mi dispiace non averle dato una buona notizia.»
«Dispiace anche a me. Per quanti giorni era, la supplenza?»
«Un mese.»
«Non me lo dica.»
«Queste cose vanno così.»
«Già.»
«La lascio, professore. Continuo con le telefonate.»
«Alla prossima, signora.»
Un mese al Pirandello di Messina, a due passi da casa. È così
che vanno queste cose.
È l’intervallo, e la mia incazzatura è scesa di un solo grado.
Sono ancora febbricitante. Un mese al Pirandello, e magari la
signora è stata così gentile da non dirmi che si trattava di una
gravidanza.
Un collega mi si avvicina, troppo. Il suo alito puzza di
fegato guasto, e la sigaretta che tiene schiacciata tra i denti non
depone per nulla a suo favore. Urge una domanda: che cazzo
vuole?
Non so come, si mette a parlare. Ce ne andiamo su
un’autostrada del nord Italia, in un autogrill, dove, mi racconta,
una sera si trovò in un guaio alla Hitchcock, una storia ai
confini della realtà che forse deve aver dato lo spunto a
Spielberg per girare Duel. C’era questo tizio, un camionista, che
ostruiva col suo bestione meccanico la sua macchina, la
macchina del collega. C’era questo TIR, e lui non poteva uscire
dal parcheggio. Aspetta, lui, il collega, suona un po’ il clacson
per attirare l’attenzione sulla sua condizione di topo in trappola,
ma il camionista non ne vuole sapere di scendere dal suo
mezzo. O se la dorme alla grande, o finge di farlo. Il collega
non sa cosa pensare, così si attrezza per affrontare al meglio
l’emergenza. S’impossessa di una catena e si ripresenta dal
camionista. Lo chiama a gran voce, lo invita a spostare il
camion, e finalmente il camionista apre lo sportello, senza farsi
vedere, come un cagnaccio kinghiano pronto a fare sfracelli. Il
collega non ci vede più dalla paura e dalla rabbia, e comincia a
colpire il camionista con la catena, fino a lasciarlo mezzo morto
e mezzo dissanguato per terra. Intanto, le macchine che
ostruivano il passaggio vanno diradandosi. C’è giusto un
pertugio dove infilarsi per svignarsela. Il collega si mette in
macchina e riparte, passando a filo tra il camion e un’ultima
vettura, il famoso bastone tra le ruote. Il collega ritorna
sull’autostrada, convinto ormai di averla fatta franca, ma dalle
parti di Roma - lui era partito da Brescia - si ritrova dietro il
camionista-ombra. Percorrono l’autostrada fino a Villa S.
Giovanni, il collega davanti, il camionista fantasma dietro, e poi
non so come va a finire la storia, perché sono già le undici e
trenta e il vice preside è su tutte le furie per quel nostro
irragionevole ritardo.
«Mario!» Urla al collega.
E lui, imperterrito, continua, mimando atti di
automobilista inseguito e biascicando di entrare su un traghetto.
Del camionista non si hanno più tracce. Ne approfitto per
svicolare. Ho la classe scoperta. Scappo. Prima che il collega
tiri fuori la catena.
Il penultimo giorno di supplenza, in 2C, mi lancio in una
lezione sulla poesia che ha dello straordinario. Metto da parte
piano del significante e piano del significato, e sciorino una tesi
che ha dell’incredibile: ognuno di noi è un poeta. Guido gli
alunni attraverso i sentieri del sentire, e spiego loro che la
poesia è questo: sentire la parola che ti appare, davanti agli
occhietti, come se fosse stata sempre lì. Li invito a spargere
rime per tutta la classe, a pronunciarne una, a inventarsi una
strofa, a mettere insieme delle parole, così, come se il caso si
fosse improvvisamente scoperto poeta. I ragazzi stanno al
gioco, abbiamo intitolato una prima poesia: Viaggi. Viaggi di
ogni genere. E ognuno - menti ancora ingenue! - comincia a
fare il suo. Così, tra frasi fatte e frasi combinate, esce fuori una
poesia, che qualcuno sta già provvedendo a copiare in bella.
L’ora è passata, senza incidenti. Ho due alunni che sorridono, e
altri che mi chiedono se domani ripeteremo l’esperimento.
«Possiamo scrivere tutte le poesie che vogliamo,» dico.
«È bello fare lezione così,» suggerisce un alunno rettile,
abbastanza incuriosito.
Quasi quasi ci credo. Che poi, alla fine, come fai a dire
che un alunno è un rettile, o un invertebrato? È la paura del
confronto che mi fa parlare così. Quelli che ho davanti sono
solo ragazzi che cercano un esempio da seguire, qualcuno da
emulare, a cui paragonarsi, qualcuno che li aiuti a crescere,
senza per questo essere troppo invadente.
Ma questa è la scuola, dove si dice tutto per non dire
niente.
È l’ultimo giorno. Sto male. Telefono a scuola, e comunico che
sto male. Il segretario mi chiede che cos’ho. Sto male. Ho
vomitato dappertutto. Tutta la notte. Sto male. Prendo un
giorno. I segretari, generalmente, s’incazzano a morte quando
un professore telefona per chiedere un giorno di malattia:
diventano natura morta con palla floscia e pelosa in posizione
scoperta, e ghigno surrettizio su labbra stanche, con culo
acquattato in umido su sedia. Ogni giorno che un professore
prende, di ferie o di malattia, è come una stilettata. Ti augurano
che tu stia veramente male, perché non ci credono; e qualche
volta hanno pure ragione. Questa è una di quelle volte.
«Alla prossima,» dico.
Affiora un ‘buongiorno’ terribile sulle sua bocca di
frustrato secolare.
«Mi saluti il preside,» proseguo. «E quelli della segreteria, che
sono stati tutti gentili con me. Purtroppo, non conosco i nomi,
ma lei me li saluti uno per uno. E il signor Colucci della
portineria. Brava persona, davvero. E i ragazzi. Me li saluti
tutti. IC e IIC. Non se lo scordi. IC e IIC. E un saluto per lei.
Molto gentile da parte sua avermi contattato. E ringrazi il
ministero per queste belle opportunità che ci dà di
sopravvivere.»
E ridatemi il posto, quello che era mio, e quello che adesso è di
qualcun altro, che ha sudato una camicia su sette per averlo.
Il segretario chiude la comunicazione, mentre per il resto
del mondo arriva la sigla.