Prima supplenza - Edizioni Leucotea
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Prima supplenza - Edizioni Leucotea
Prima supplenza «Professore Verdelli?» «Sono io.» «Qui è il liceo scientifico di S. Agata Militello.» «Mi dica liceo scientifico di S. Agata Militello.» Pausa. Un segretario in pausa: dovrebbe essere abituato. «Professore, la chiamo per una supplenza.» «Di quanti giorni?» «Quindici giorni, a partire da domani.» «Per?» «Come?» «Il motivo di questi quindici giorni? Malattia? C’è la possibilità che l’insegnante prenda altri giorni?» «Non credo proprio. Si tratta di una matrimoniale.» «Nel senso che sono due gli insegnanti che hanno preso quindici giorni?» Delle due, l’unica possibile, sta pensando il segretario dal sicuro riporto spiraloide in testa: questo è scemo. «Il professore si è sposato.» «Se può, gli faccia gli auguri da parte mia.» Il segretario non coglie, e dice: «Che fa, accetta?» «Accetto.» Quindici giorni: un altro giorno e sono due punti. Poi, mi bastano altri centocinquanta giorni per fare dodici punti. Già questa sarebbe una consolazione. Ma c’è il fatto dei centottanta giorni: se non li faccio, retrocedo di nuovo, mi tolgono i diritti, non mi tocca nulla; se mi ammalo si tengono la metà dei soldi della giornata, e c’è il medico da pagare. Se un supplente deve fare una visita specialistica, deve 1) pagare la visita specialistica (che poi non è detto che si riveli così specialistica), e deve 2) infilare le monetine della sua giornata lavorativa nella fessura del salvadanaio a forma di orco delle casse dello Stato, e deve 3) superare lo stress del momento aiutandosi con compresse di biancospino, valeriana, bromuro, zinco e acido fosforico. Non tutti i supplenti ce la fanno. C’è chi perde i capelli per strada, chi si fa venire una bella alopecia aerata, chi resta per strada con la macchina, e non ha la tessera ACI, chi soffre di principio d’ulcera, ulcera, ulcera perforante; chi di colite, acuta e spastica; chi non fa in tempo, la mattina, ad andare in bagno; chi ha la macchinetta del caffè con i forellini del filtro intasati, e il caffè esce lentamente, o non esce, e allora ti ritrovi a uscire di casa, sperando di arrivare cinque minuti prima alla stazione per prendere un caffè al bar, quello che ti dà l’ultima botta di trapano, prima di perforarti lo stomaco. C’è anche chi è di Messina e lavora a S. Agata e chi è di S. Agata e lavora a Messina; e c’è anche chi va a schiattare in una delle isole minori, o si arrampica fino a Mistretta (a mille metri d’altezza) rischiando ogni giorno di A) perdere la coincidenza a S. Stefano, B) incorrere nell’ira del Dirigente Scolastico, ex Preside, ora Manager targato XXI secolo, in questa terribile, vomitevole, nauseabonda era Gelmini. E c’è chi ancora ci spera: in che cosa? Che ci sia un limite. Che ci si fermi prima del burrone. O che il volo, alla fine, che faremo tutti quanti, non sia dei più mortali. Sull’autobus, mi faccio dire la strada per arrivare al liceo scientifico da una collega del liceo classico che è un gradino al di sopra di me. È una che ha avuto una nomina annuale da CSA. Io sono rimasto fuori dalle nomine annuali per tre miseri posti, e ho ottenuto questi quindici giorni solo perché Iddio, nella sua infinita misericordia, è intervenuto per fare un miracolino a me che sono un precario ormai storico di questa gloriosa istituzione a perdere che è La Scuola, che è come dire La Famiglia. Se mamma Stato o papà Stato deve risparmiare, lo fa solo ed esclusivamente sui supplenti, togliendo le ore residue, accorpando le classi, portando a diciotto le ore effettive di insegnamento. Una volta, c’erano le disponibilità; adesso, le disponibilità cominciano a scarseggiare, come l’acqua. E i supplenti cominciano ad avere sete; hanno già messo un primo piede in un deserto dei sensi dove anche i miraggi vivono accorpati, e i beduini di passaggio hanno i volti dei ministri che si sono succeduti nelle varie ere e nei diversi interregni. Mi ritrovo solo. Nessuno è sceso con me. Per arrivare a scuola, devo fare una salita: la famosa salita del Calvario intitolata a un certo professore Rosario Nascimbeni morto per strada, dopo solo ventuno anni di servizio, nel tentativo di giungere a scuola prima del suono della campana, e dell’arrivo del preside, ora Dirigente Scolastico. Faccio la salita Nascimbeni (che poi è morto male), e incrocio un vecchietto piegato in due, sbucato fuori da chissà quale campagna, vestito alla meno peggio, con pantaloni di velluto e un gilet incatramato di sporcizia. “Vuoi vedere che è un professore in pensione?”, penso. «Mi scusi, vado bene per il liceo scientifico?» gli chiedo. Mi fa cenno di proseguire, ma di proseguire a lungo, gracchiando qualcosa, e togliendosi forse la soddisfazione di vedere qualche forestiero farsi la salita che lui compie ormai da anni immemorabili. Arrivo a scuola in undici minuti e qualche spicciolo di secondo. Non so a che ora suona. Non sento trilli nell’aria. Non sento i megafoni del potere. Va che sono in orario. Ma tanto devo ancora prendere servizio. Il primo giorno di servizio è uno spasso, per un supplente. Se arrivi in ritardo, non sanno come risvegliarti il senso della decenza professionale. Non ti possono dire: “È questa l’ora di arrivare a scuola?”. Un supplente, al suo primo giorno, può sempre dire (e lo dirà, lo dirà sempre, un supplente che si rispetti): “Non sapevo dov’era la scuola”. Vedo tre alunni sfaccendati che si muovono in circolo per perdere scampoli di tempo. Non funziona così, ragazzi; purtroppo, non è così facile: puoi arrivare in classe alle otto e mezzo, come alle nove meno un quarto, ma la tua prima ora sarà sempre lunga, e senza consolazione, come il sapore di una sigaretta senza filtro, potente, una colata sui polmoni, un cero acceso nella tua gola, che ti soffoca. Cinque anni, alunno. Ma non ti preoccupare, passano. E arriverà il momento in cui magari li rimpiangerai. In alto, stanno i ricchi. Più in basso, gli affiliati. Più sotto, i borghesi di ogni specie. In basso, la gente: instabili, precari e disoccupati. A scuola, in alto, sta il ministro, sempre sia lodato. Più in basso, i collaboratori. Più sotto, i presidi top manager, e un po’ più sotto, mezzo scalino più in basso, gli imboscati delle segreterie che, a onor del vero, lavorano più del dovuto (e meno male che oggi hanno i computer), e i professori che detengono il ruolo, che hanno un ruolo in questa nostra società che, altrimenti, rischierebbe il collasso culturale; e i bidelli, esseri ibridi che hanno i compiti più indispensabili: il bidello che apre la porta, il bidello che ritira i giornali, il bidello donna che lavora all’uncinetto per preparare i centrini per i nipoti di tutti i bidelli, il bidello statua della portineria, il bidello che fuma in sala professori per mantenere l’ambiente pulito, il bidello autoctono che parla una lingua diversa da tutte le altre affinché il ricordo della lingua degli avi alberghi - tessuto indelebile nella memoria dei giovani; il bidello che si deve incazzare con tutti, il bidello che recita la parte del bidello, il bidello spia, il bidello che tiene il mazzo delle chiavi, il bidello donna vestito da lavandaia che prepara il caffè e lava cespi di lattuga, il bidello che fa entrare quello dei panini e il bidello che in mancanza del preside, ora manager, ne assume le veci. E, dimenticavo, il bidello che fa tutto, figura decisamente atipica. Bidello: dal francese antico bedel ‘poliziotto’. Bidello: chi è addetto alla custodia e alla pulizia delle scuole. Istantanea verista: un bidello che fa le pulizie in una classe dopo cinque ore di lezione. Un giorno, scriverò una Storia universale dei bidelli, una storia che qualcuno si è divertito a mutare, a cancellare, a rendere bizzarra e innocua come vita grigia e anonima. Entro in segreteria. Uno male resuscitato mi viene incontro, e non ho neanche la pistola per sparargli. «Sono il professore Verdelli,» dico. «Devo prendere servizio.» Il resuscitato mi indica una porticina, poi si perde tra mille spasmi, cercando di sfuggire ai suoi stessi miasmi. Procedo. Entro in una stanzetta. Ci sono due individui che pensano che interfacciarsi con un computer significhi starlo a guardare per ore e ore. Un terzo ritaglia fogli: sarà un nuovo compito appena ammesso nelle scuole. Vado da quello che ha un riporto a chiocciola sulla testa. «Sono il professore Verdelli,» mi presento. «Devo prendere servizio.» L’amico sghignazza: è pronto a fare la battuta. «Professore, sono le nove,» mi rimprovera. «Lei doveva prendere servizio alle otto e un quarto.» «Ho parlato con lei, ieri?» «Sì.» «Lei si è preoccupato di fornirmi l’esatta ubicazione della scuola?» «Come dice?» « Mi ha trasmesso, per via telefonica, il mio orario?» «Era lei che doveva chiedere.» «Ma siete voi che dovete rispondere.» Si altera. «Che cosa vuole dire?» mi chiede. «Che voglio parlare col manager di questa scuola.» «Con chi?» «Col signore che si trova oltre quella porta.» «Lì c’è il Direttore Amministrativo.» «Allora, col signore che si trova oltre la porta del Direttore Amministrativo.» Il riporto segretariesco subisce un’impennata: minaccia, indignazione, collera, ripensamento. E se davvero questo coglione di supplente chiama il preside? «Col preside,» preciso, facendo finta di non essermi spiegato bene. Il segretario si esime. È dibattuto. Bofonchia qualcosa d’incomprensibile. Si dibatte, come una cernia in una piscina di plastica piena di polpi. Capisce, e non capisce. Forse, per la prima volta si interroga sulla sorte che la vita gli ha riservato: è un segretario: un tassello alla base della piramide del potere. Non può nulla neanche con un supplente precario a vita. Non sa più chi è. O meglio, lo sa, e se lo nasconde. Guai a rivelare a se stesso di essere una nullità. Meglio tornare a interfacciarsi col computer, qualunque cosa possa significare. Apre un cassetto e mi consegna una chiave attaccata a un portachiavi mangiucchiato: la chiave di un armadietto. «Non la perda, professore: è l’unica che abbiamo.» Sul portachiavi, il numero dell’armadietto. Il 14. Quattordici doppio di sette, numero mistico per eccellenza. Quattordici: il numero dei miei anni di precariato. E io ho trentanove anni. 14 e 39, buoni per un ambo. Che sia la volta buona che racimolo i soldi per una vacanza, senza sotterrarmi di lavoro? «Tra qualche giorno, passi per la firma del contratto,» mi ricorda il segretario. «Farò di tutto per esserci.» Mi consegna l’orario del professore sposo novello, un foglietto rettangolare debitamente compilato nelle parti anche più intime, e si dimentica di me. Mi dimentico di lui. Profano la Sala Professori, tagliando in due una voluta di fumo che, per dispetto, si solleva verso la scritta VIETATO FUMARE, senza per questo volersi disperdere. Ci sono quattro sagome di ruolo, quattro insegnanti da tumore alle occhiaie. Saluto. Non mi salutano. Firmo nel registro con una penna dell’era Berlinguer, apro il cassetto del professore che devo sostituire e mi impossesso del suo registro personale. Le quattro cellule cancerogene di ruolo m’avvistano, accerchiandomi. Non posso più uscire dalla sala. Al posto della porta, adesso c’è una cortina fumogena di MS Lights, Marlboro e Merit. Non mi resta che la finestra, ma siamo al secondo piano. Non mi resta che arrendermi. «Nuovo?» Mi fa una con un sopracciglio rialzato fino alla stempiatura bianca. «Sì,» rispondo. «Sostituisci il professore Santini?» «Sì.» «Bene.» «Quello non rientra più,» dice un’altra in siciliano. «Stai tranquillo,» mi fa la terza, la più insipida. Il quarto, un maschio, è uno con un bocchino in bocca, sciacquato nella paranoia. Il mistero sulle mie origini si dissipa. Suona la campana, annunciando la fine della prima ora, ma gli ineffabili quattro non si muovono. Devo entrare in IC. Seguo le indicazioni su una piantina e trovo la classe. Gli alunni sono tutti fuori che mi aspettano. Già mi vogliono bene. Un bene dell’anima. Già una dozzina di paia di occhi strafottenti hanno scaricato dal mio hard il mio curriculum vitae. Sanno già tutto di me, ma principalmente sanno che sono un supplente, e che non hanno nulla da temere. Passeremo la prima ora a studiarci, e ad assumere le posizioni in campo. Proveranno a escludermi, a ingannarmi, a tergiversare, a sottomettermi. Ridacchieranno e sghignazzeranno, giocando a passaparola con i dati della mia vita, e con i miei difetti, radendo a zero i miei pregi. Per una buona mezz’ora, non conterò nulla. Un invisibile, un risibile invasore. Lasciamoglielo credere. Li faccio entrare in aula, e subito individuo il tipo di classe: trattasi di alunni protozoi, costituiti da una sola cellula, più o meno complessa o specializzata. Ci mettiamo a parlare, e verso la fine dell’ora il quadro si delinea con una sufficienza impressionante: sono animali e vegetali insieme, e si nutrono mediante fotosintesi scolastica, con la poca luce che il cervello di pochi riesce a riflettere. La maggior parte sono quindi sarcodini, dotati cioè di propaggini mobili del corpo che servono per la presa dell’alimento: suggerimenti, copie di compiti, quaderni di altri per sopravvivere alle interrogazioni. Poi, alcuni sporozoi, organismi parassiti assai rari, per la verità, che il gruppo tende ad accantonare perché trasmettono la famosa malaria da banco, che prosciuga le cellule, specie quelle cerebrali, di ogni intenzione. Infine, due alunni celenterati, un ragazzo e una ragazza, belli e puliti a vedersi, ma mortali a toccarsi. Meno male che la supplenza dura solo quindici giorni, cioè dieci giorni lavorativi, cioè otto perché starò male due giorni, cioè sette perché qualcosa succederà, un altro giorno si perderà, è fisiologico. Per prima cosa, vediamo cos’avete fatto di Latino. Chi si offre volontario per andare alla lavagna? Nessuno si offre volontario per andare alla lavagna? Devo chiamare io? Io devo rendermi conto di quello che avete fatto, se no come faccio ad andare avanti col programma. Guardate che ho parlato col Vostro Professore, e ci siamo messi d’accordo per quanto riguarda il prosieguo (prosieguo?) del programma; che voi lo sapete che non ci possiamo fermare; non è che ci possiamo permettere di fare una sosta, la scuola non è neanche cominciata, e allora: o viene qualcuno alla lavagna, o mi trovo costretto a mettere due sul registro, se no il Vostro Professore, quando torna dalla luna di miele, e vi chiede cosa avete fatto, voi cosa rispondete? Non abbiamo fatto nulla? Voi capite che io non me ne posso tornare a casa, pensando che voi direte che non avete fatto nulla. Perciò, chi viene alla lavagna? Nessuno? Allora, chiamo io. Ma non vi offendete, se chiamo questo o quell’altro. Anzi, ora apro un libro di Latino… datemi un libro… grazie… ah, avete questo testo? Ottimo manuale, davvero… ora apro il libro, e vediamo che numero esce… 299… 2+9+9 uguale 20… il numero venti… siete diciannove?... rifacciamolo… 123… 1+2+3 uguale 6… il numero sei… vediamo chi è il numero sei… Christian Di Marco… alla lavagna. Non vuoi venire alla lavagna? Guarda che mi costringi a metterti due! Sentiamo la prima declinazione. Come non sai la prima declinazione? La conosco pure io! Dai, ripeti la prima declinazione. Sono cose che dovete sapere come l’Ave Maria, o il Pater Noster, non è che in italiano potete dire fòrchetta per forchetta, o tavòlo per tavolo. Voi ridete? O sapete bene quello che dite, oppure ogni errore io lo devo classificare come un punto in meno. O fate bene i casi, o imparate come si deve le desinenze, o io non so che farci. Due è, e due vi resta… a che ora suona? Alle dieci? Avete l’ora di cinquanta minuti? Il mercoledì è da quarantacinque? Allora, uscite presto, il mercoledì. Anche il lunedì e il venerdì? Per motivi di trasporto, vero? Di dove siete? Tutti di S. Agata? Allora, non avete problemi di autobus e treni. Quindi, a momenti suona? Va bene, per la prossima volta ripetete quello che avete fatto finora. Guardate che vi interrogo! Sono diventato un professore ignobile. Non potrò mai essere come un professore di ruolo. Quelli hanno sempre le classi migliori. Stampano individui in serie dell’altro mondo. Ma come fanno? Sarà il ruolo. Forse il ministro dell’ultimo piano dovrebbe inventare i supplenti di ruolo. Così, per darci più sicurezza. Alla terza ora, passo in 2C. Stessa trafila, qualche ragazza ammicca, qualcun’altra occhieggia, i più fanno gli indifferenti, o i ritrosi. In breve, sono infastiditi dalla mia presenza. Qui, sono un usurpatore. Questa è una classe appartenente alla grande famiglia dei rettili, ordine chelonia, rhynchocephalia e squamata. Sulla destra, appartenenti al primo ordine, ho un gruppo di alunni testuggini, con tanto di carapace e piastrone. Sono tutti bravi ragazzi, ma come le testuggini, se devono mordere, sono capaci di staccarti una mano. Già mi odiano. Già hanno capito che non sono l’intellettuale che speravano di trovarsi davanti. Già rivogliono il loro professore, l’agevolezza delle sue spiegazioni, il tatto delle sue disquisizioni. Nella sostanza, si dicono: “Ma che cazzo vuole, questo qui?”. Poi, a due metri di distanza, lungo un asse poco immaginario, ho un’alunna tuatara, un rettile primitivo, una lucertolina sopravvissuta all’estinzione, che ha un rudimentale terzo occhio sulla sommità del capo, col quale intercetta mentalmente le lacune di base dei professori. Entro due giorni, mi dirà: “Professore, il perfetto latino traduce non solo il passato prossimo e il passato remoto, ma anche il trapassato remoto. Così ci ha spiegato il professore”. Oppure, a bruciapelo: “Chi era Paolo Diacono? Come si chiamava anticamente la Scozia? Ma i Burgundi erano imparentati con i Vandali? Dove si trova la Mesia, in Polonia o in Bulgaria? Chi erano San Pacomio e Simeone il Vecchio? E Astolfo? E Autari? E Clefi? E Equizio? Presso quale località Stilicone fermò i Visigoti guidati da Alarico? La determinazione di tempo ‘Quo temporis spatio’ come si traduce? Mi può rispiegare il comparativo e il superlativo di ‘frugi’ e ‘nequam’? Ante diem quartum Idus Ianuarias a quale giorno corrispondeva? Che differenza c’è tra ‘utervis, utravis, utrumque’ e ‘uterlibet, utralibet, utrumlibet’? Ma se dico ‘ne-hilum’, sbaglio?”. Il resto della classe è un’accozzaglia di rettili che sibilano il loro malcontento ai muri della loro gabbia. Occupano due terzi della classe. Hanno gli occhi iniettati di sangue. Quando parlano, è solo per ipnotizzarti. O per infinocchiarti. C’è una categoria di alunni nata solo per fare atto di pompaggio, e i peggiori sono questi dell’ordine squamata. Riescono a fondere il loro istinto primordiale rettiliano con le tecniche di persuasione più all’avanguardia del momento. Sono i dirigenti del futuro, quelli che la sparano grossa, quelli che ti circuiscono, che ti abbindolano, che ti dirigono con la sola imposizione dei loro pensieri. Hanno le tacche sulla cintura, e sputano veleno misto a sangue e fumo. Sono nati per governare, per averla vinta, non si preparano mai per i compiti in classe, sanno di poter contare su una delle testuggini, sanno di poterla gabbare, di potersi insinuare tra carapace e piastrone per infettarla; si appropriano del lavoro degli altri, perché non sanno cosa significhi lavorare, sanno solo cosa significa fottere. E così che ragiona uno squamato: ti fa credere tutto quello che vuole. Ti fa credere che lui è il migliore, e puoi stare sicuro che ci riuscirà. Uno, uno squamato, mi fa: «Professore, posso andare in bagno?» «A fare cosa?» «Cosa si fa in bagno?» «Devi fumare?» «No, non fumo, professore.» «Allora, vai dopo.» «Professore, devo fare pipì.» «Falla.» «E dove? Nel cestino?» Quando vedo uno squamato, i miei occhi mandano lampi, e le mie orecchie odono il rumore del tuono. «Tuo padre che lavoro fa?» gli chiedo. « Il ginecologo,» risponde tra mille soddisfazioni. Uno squamato è tendenzialmente un sadico, come lo è tendenzialmente la gente che sta in alto. Parlo di potere, naturalmente. Io parlo sempre di potere. È una delle mie parole preferite; e la mia domanda preferita è: “Perché quelli che salgono al potere sono tendenzialmente sadici, manipolatori, narcisisti, psicopatici, isterici?”. «E tua madre?» «È psicologa.» Famiglia per bene. Ce ne sono tante. Non vuol dire niente. Sono i fatti che contano. «Tu lo sai che sono i fatti che contano?» Domando allo squamato. «Come, professore?» Tiene la testa alta, ha le labbra socchiuse, si spinella, ma non perché è figlio di famiglia per bene, questo è un luogo comune: fuma perché deve tenere lo spinello in bocca. Deve avere qualcosa in bocca. È l’espressione di un bisogno orale. Un sostituto del seno materno. In questo mondo, devi inspirare qualcosa, per stare a galla. Vai in bagno, squamato. Vai in bagno, e prova a vomitare qualche filo di tristezza, qualche spaghetto di pianto, di depressione. Staresti meglio. «Vai in bagno,» gli concedo. Esco dall’aula e incrocio una collega, due mandorle al posto degli occhi, due meloni al posto del seno, due grosse fette d’anguria al posto del sedere. L’ho già vista. Corso abilitante 2000/01 per le classi di concorso A043, A050, A051. Certe visioni non si scordano. Nel frattempo, è entrata di ruolo. Ancora me la ricordo. Eravamo in trentaquattro, seduti ai nostri banchetti di scuola, in un corridoio del liceo classico di Barcellona, a fare il nostro bel compitino, prima di presentarci per l’orale. Io ero seduto in prima fila. Lo sono sempre stato. Seduto in prima fila a fare il mio compitino. Foglio, penna e idee: nient’altro. Dietro: fogli, penne, libri, enciclopedie, moduli già scritti pronti per essere copiati. Gli stessi professori che poi andranno in classe a dire agli alunni che copiare no, non è bene, che copiare no, non si fa, che copiare no, se no vi metto due. Ne avevo trentatré dietro, al corso abilitante, e trenta copiavano. Gli stessi professori che… E tra questi c’era lei, miss Melone Dolce, bella e impossibile, uscita col massimo dei voti, 80 su 80. Ora, è un insegnante di ruolo. È arrivata. È padrona del suo tempo, della sua opera, con quella grinta in viso che la rende ancora più bella, ancora più appetitosa, lei, conosciuta e seguita da tutti i sindacalisti, osannata nei pensieri, dai più turpi ai più osceni. «Ciao, collega,» mi fa. Non siamo colleghi, collega. Io sono un supplente: sono il ruggito della bestia prima della morte. Comprendi? «Ciao.» «Siamo stati a Barcellona, insieme,» mi ricorda. Sono la bestia che cerca un angolo per morire. Il leone vecchio e insanguinato che non troverebbe posto più neanche in una favola di Fedro. Grande Fedro, supplente di grandi. «Mi ricordo.» «Sei qui, quest’anno?» «Solo per quindici giorni.» «Io sono qui in assegnazione provvisoria.» Tutto è provvisorio. E tutto è relativo. «Io comincio adesso il mio giro di supplenze.» «Non sei riuscito ad avere una nomina annuale?» «Non sono arrivati a me, non c’erano più posti,» la informo. «Lo so, lo so.» «Dovevano sistemare prima noi delle sessioni riservate.» «Lo so benissimo.» «Potevano almeno spiegarci, allora, che si trattava di una sessione riservata a tutti, tranne che agli aventi diritto.» «È che al Ministero ci sono persone che non s’intendono di scuola.» «È che la ferita del poveraccio va subito in cancrena,» sentenzio. «Sì,» fa lei, sorridendo, ma non ha capito nulla. Ai suoi occhi, sono un tipo da dimenticatoio. Anche i miei attributi non sono di ruolo; io sono uno di terza fascia; uno con un piede nella fossa e l’altro nel cemento. Sono l’uomo di una notte, l’uomo che non ci crede, che è troppo impegnato a pensare al domani, per viversi il presente. «Devo andare,» mi comunica. «Certo.» Mi saluta. Fuori, c’è il marito che l’aspetta. E c’è anche il suo figlioletto. Una famigliola felice. Felicitazioni. Almeno voi ce l’avete fatta. Ma c’è qualcosa che non mi torna. C’è sempre qualcosa che non torna. Sarà il tempo che è cambiato. Sarà questo clima malato di ipocrisia. Sarà che il barcone sul quale viaggiamo non ha oblò e non ti permette la vista di quello che c’è fuori. Mi piacerebbe dare un’occhiata a quello che c’è fuori. Un giorno, mi isserò sulla vedetta per cercare un orizzonte. Dicono che sia diventato di carta, ormai. E che ci sono tanti disegnini, e collanine di perla, e un sole che fa sempre finta di tramontare, e dei ragazzi che giocano su una spiaggia, e un maestro di vita che insegna loro a ridere e a scherzare. Peccato che si tratti solo di carta. L’autobus mi riporta a Messina alle tre meno venti. C’è mio padre che mi aspetta all’uscita del viale Boccetta. «Com’è andata?» Mi chiede. «Bene.» «Com’è l’ambiente?» «Buono.» «Sei ancora in tempo a cambiare mestiere.» Non riesco a rispondergli. Arriviamo a Ganzirri alle tre e cinque. La mia casetta mi aspetta, il mio giardino incolto dove crescono tante erbacce e qualche sorpresa, la mia stanza che non riesco ad abbandonare. Domani, si parte per un’altra avventura. Chissà chi incontrerò? Incontro le facce del giorno prima. L’apnea comincia. Forse sono fortunato a essere un supplente, non voglio entrare di ruolo. Voglio capirci qualcosa di quello che sto (stiamo) facendo. La salita, le classi, le lezioni, l’intervallo, le lezioni. Si riparte. L’apnea crescerà, si arrampicherà sulla gola di ognuno, ci contrarrà i nervi, faremo tutto con i pugni chiusi, esaleremo sorrisi tra le mascelle indurite, piangeremo duro, compreremo medicinali, tanti medicinali. Non sei un buon professore, se non hai un tuo cassetto dei medicinali. Ieri, ho comprato degli integratori, domani una crema per le emorroidi, dopodomani il caffè mi farà male, tra una settimana chiederò un giorno di malattia, perché starò male, dentro, mi sentirò inutile, mi sentirò come se non stessi facendo niente. Non ho privilegi. Non posso entrare in congedo. Che bella parola. Quelli di ruolo spesso vanno in congedo. Staccano. Mai completamente, ma staccano. Il supplente, invece, è staccato. Tampona. È uno schiavo divenuto liberto; un uomo libero alla catena del padrone. Ho come la chiara sensazione di non esserci. In 2C, siamo in piena trattativa. Dopo due giorni, capisco che si comportano da serpenti solo se punzecchiati. Hanno bisogno di lentezza, di digerire il pasto della settimana. Non devo stuzzicarli, non devo svegliarli. La lezione non può e non deve essere da programma. Non posso andare avanti, non posso interrogare. Se lo faccio, mi odieranno. Forse, ce la facciamo a giungere a un compromesso. Loro se ne stanno buoni, e io faccio il minimo indispensabile. Niente lezioni pallose di Storia, solo qualche ripasso di Latino. Uno mi ha chiesto: «Ma lei è supplente?» Devo mentire. È più forte di me. Io avevo il diritto di non essere più un supplente. Come faccio a dirlo? «Per mia scelta,» rispondo. «Di dov’è, professore?» «Di Messina.» «Di Messina? E a che ora si alza per venire qui?» «Presto. Molto presto. Io abito fuori Messina. Conoscete Ganzirri?» «Sì, dove ci sono i laghi.» «Dove ci sono i laghi,» confermo. Non mi parlano più. Tornano a riunirsi in tre, quattro gruppi. Io torno a non esistere più. Da domani si fa lezione regolarmente. Forse è meglio. Aria di sciopero nazionale. Le riforme non piacciono a nessuno, ma c’è una manovra finanziaria da portare avanti. Bisogna tagliare le gambe. Falcidiare più professori possibili. Le classi arriveranno a contenere fino a trentacinque alunni, ma già questo succede in molte scuole. Trentacinque corpi stipati in una stanzetta quasi sempre oltre le misure stabilite dalla legge per metro quadro, mentre agli insegnanti si continua a chiedere il massimo della qualità e della professionalità. Prova tu, caro ministro, o caro manovratore di fili finanziari, a insegnare come si deve a trentacinque ragazzi di cui due magari portatori di handicap. Non c’è verso. Cambiamo sempre i nomi alle cose, senza mai cambiare nulla. «Quanto resti qui, collega?» mi chiede un’insegnante con due bottoncini al posto del seno, e denti guasti. «Quindici giorni.» «Ma il collega rientra?» «Rientra.» «Non fai neanche due punti.» Grazie per avermelo ricordato. «No, non faccio neanche due punti.» La collega tira fuori una sigaretta. Si mette a fumare. Ecco il perché dei denti guasti. «Fumate in sala professori?» Chiedo. «Ti dà fastidio?» ribatte, inarcando un sopracciglio, e atrofizzando l’altro. «A me no,» rispondo. «A te sì. Fumare fa venire i denti gialli. E l’affanno.» Mi guarda come una che è stata appena spennata. C’è rimasta male, e io pure. «Anch’io fumavo, prima,» dico, come se fossi ancora in tempo per scusarmi. Ma ormai è troppo tardi. Se ne va, quasi avesse un difetto irreparabile di cui non può più liberarsi. Un alunno di 1C si è messo in testa di farmi sudare gli ultimi giorni di supplenza. Gli altri se la ridono. Non riesco a fare lezione. Ho le vene delle braccia gonfie, e mi gira la testa. Parlo, sapendo di non essere ascoltato. Qualcuno, bontà sua, mi segue, annuendo, proponendosi, ma è il resto di niente. Non posso andare avanti. Sudo. Si stanno prendendo gioco di me, e io non lo vorrei fare, ma c’è un punto, quel punto, di separazione dal tutto, dove torni a essere puro istinto, preda che combatte, predatore che si difende. La visione periferica svanisce, e resta l’obiettivo, l’unico: sopravvivere. Fare fuori il nemico. Avanzo verso l’alunno e gli intimo di uscire dalla classe. «Va bene, va bene,» mi fa lui, ghignando come un demone fanciullo. «Esci fuori,» gli ordino. «Non dico più niente, professore.» Afferro il suo zaino e lo scaravento contro la porta. Prendo lui per un braccio, lo strattono e lo ricongiungo allo zaino. Apro la porta e li butto fuori tutt’e due. Torno alla cattedra. Abbranco il registro, una penna, sputando un po’ d’inchiostro, una nota, la famosa nota che non serve a niente. La nota inservibile della scala musicale, un grido ammaestrato dal vento. «Stavamo dicendo...» Il cellulare squilla. Non succede spesso, non più di quattro volte a settimana. È Nicoletta, la mia amica del cuore. L’unica consolazione che la vita sia stata in grado di offrirmi. «Ciao,» rispondo quasi sorpreso. «Che fai?» «Studio.» «Ancora?» «Preparo una lezione.» «Ti va un cinema?» «Uno qualunque?» «Uno qualunque.» «Aggiudicato.» Quando la sento, ritorno a essere il ragazzo di sempre. Sarà la vita da single acquartierato in casa dei genitori a farmi sentire anche così. Ma poi rifletto e penso che il tempo è trascorso, o che, se non altro, mi ha sfiorato le guance, l’attaccatura dei capelli, il contorno degli occhi. Un ragazzone cresciuto male e in ritardo. Meglio non pensarci più di tanto. Non ho ancora visto il preside, sempre più manager. Mi dicono che non si fa vedere spesso. Mi dicono che se suoni alla sua porta, forse non ti risponde. Mi dicono di non chiedere, e di presentarti da lui solo se sei invitato. Mi dicono che è sempre occupato, e che non si può gestire un istituto d’istruzione superiore senza perderci in salute. È per questo che i dirigenti di oggi, ex presidi, si circondano di collaboratori. Passano ore a firmare carte, a fare telefonate, a intervenire nelle questioni scolastiche, a trovare sempre più collaboratori che possano sopperire alla mancanza di tempo. Mettiamoci in testa che un preside non è più un preside. Ora questo signore gestisce un’azienda statale. Che poi la figura del preside era bella, autorevole; se il preside parlava, tutti zitti e riverenti! Il preside veniva nelle aule, una volta; ora non più. Ha da fare! Non possiamo disturbarlo. Sul campanello del suo ufficio, c’è sempre accesa una lucina che dice: OCCUPATO. Ma non vuol dire che è sempre in bagno. Che poi, manager è colui che ha responsabilità di coordinamento o di indirizzo dell’attività di altre persone; dirigente. Dall’inglese to manage, che poi deriva dall’italiano maneggiare, verbo della famiglia dei maneggioni, che poi sta a significare ‘amministrare, governare”. C’era un dirigente, non ricordo dove l’ho sentito dire, forse una leggenda solido-urbana, che è riuscito a rialzare di un piano la sua villa di campagna governando bene, e amministrando meglio. E ce n’era un altro che non ti faceva entrare nel suo ufficio se non chiedevi permesso in francese. E un altro ancora che ti dava la sua benedizione, quando arrivavi nella sua scuola, e un altro che pretendeva regali solo dai duemila euro in su. Ma sono tutte dicerie. E c’è un’altra cosa: sono i professori di ruolo a spargere queste voci in giro. I professori di ruolo sono invidiosi. Vogliono cambiare nome. Perché siccome professore (m) viene da profiteri, nel significato di “insegnare pubblicamente”, ora qualcuno si è messo in testa che devono essere chiamati profeti. Perché se è vero che l’insegnamento è una missione, è giusto, è più giusto, che chi parla in nome di Dio, venga chiamato profeta. E c’è anche chi spera di poter cambiare, all’uopo, il nome di battesimo, per farsi chiamare, che so?, profeta Alessandro in onore di Manzoni, profeta Sigmund in onore di Freud, profeta Guglielmo in onore di Marconi, profeta Michelangelo in onore del Buonarroti. C’è chi sostiene che la legge verrà approvata al più presto. Per i supplenti, invece, si pensa di ripristinare l’istitutore di una volta, il precettore che un tempo veniva chiamato aio, forse in riferimento al dolore fisico e psichico a cui i supplenti sono sottoposti di continuo. Aio e aia. Sempre meglio che profeti. Ma, francamente, con tutto il rispetto per la categoria, spero un giorno di diventare dirigente. Mio padre ha lavorato nell’esercito per quarant’anni, imboscato in un ufficio che lui chiamava NED. Credo significasse qualcosa come Nucleo Elaborazioni Dati. Ma per lui NED era il suo rifugio. Era un ufficietto posto al centro di uno spiazzo vuoto. Lì passava le giornate a leggere e a pensare. Mio padre ha un senso dello humour spaventoso, che solo la sensibilità di mia madre, casalinga per devozione, riesce a tenere a freno. È da qualche minuto che passeggia davanti alla mia stanza. «Che c’è, papà?» Gli chiedo. «Se vuoi camminare in circolo come i pazzi, puoi uscire in giardino.» «Devo fare due chilometri al giorno.» «Usando un corridoio di sei metri?» «Cinque.» «Cosa?» «Cinque metri.» Poso la penna sulla scrivania. «E quanto ci stai a fare due chilometri?» «Non lo so.» «E come fai a contarli?» Agita le dita, toccandosi una tempia. «È tutto qui dentro. Conto i passi.» «Una passeggiata fuori sarebbe più salutare,» gli propongo. «Un giro attorno al lago, e rientri.» «No,» dice. «Ho sempre vissuto in poche stanze. Gli spazi aperti mi danno fastidio. Mi impediscono di pensare.» Ci scambiamo un’occhiata, non so quanto d’intesa. Ha già gli occhi acquosi di certi vecchi, e una sorta di quieta disperazione che non riesco a spiegarmi. Torno ai miei appunti. Vedo il preside, cravatta verde, calzini gialli, giacca di servizio, che mi attende al varco. Non può che essere lui. Sono in ritardo, ma non so che farci. Sono le otto e ventidue e quindici secondi. Lui mi ha visto pure, non mi conosce, ma sa che sono un aspirante professore, un supplente col dovere di tacere. «Buongiorno, preside.» «La campana suona alle otto e un quarto, professore. Lei doveva essere già in classe ad accogliere gli alunni.» «L’autobus ha ritardato.» «L’autobus ritarda sempre.» «Il tempo di fare la salita...» «Ad ogni modo, non perda tempo, professore.» «Non perdo tempo, preside. Non ho più tempo da perdere. Magari l’avessi.» Si volta verso di me come un generale con la schiena bloccata, a ogni modo futuro manager. «Che cosa vuol dire, professore?» «Che non c’è più tempo da perdere.» «Mi perdoni, ma non riesco a cogliere il senso di questa sua espressione.» Potere e volere a confronto. Dio, che momento! Non me lo posso perdere. Spero che mi vengano fuori le battute giuste. «Si lavora, preside,» rispondo. «E quando si lavora, il tempo personale va a farsi friggere. Poi, quando si finisce di lavorare, si deve viaggiare per tornare a casa, e quello è l’unico tempo che ci è concesso, se non è il sonno ad accaparrarselo. Il tempo, intendo. Infine, si arriva a casa, e si va a dormire, in tempo, perché per uno come me che si alza la mattina alle quattro e mezzo, il tempo di cui lei parla non esiste. Per cui, se sono arrivato in ritardo è perché - mi creda! - un autobus mi ha tolto cinque minuti di tempo lavorativo. Se vuole, me li può detrarre dallo stipendio, ma io, con tutta la mia buona volontà - e ne ho tanta, davvero tanta! - non avrei mai potuto arrivare fin qui prima del suono della campana. Ora, io capisco che lei debba assumere...» «Va bene. Vada in classe, professore.» «Buongiorno, professore. Sono la signora Merenda del Pirandello. Come sta?» «Bene, signora. E lei?» «Al lavoro. Com’è messo, professore? È libero per una supplenza?» «Ho preso quindici giorni a S. Agata Militello. Finisco tra tre giorni.» «Quindi, è occupato.» «Purtroppo, sì.» «Mi dispiace non averle dato una buona notizia.» «Dispiace anche a me. Per quanti giorni era, la supplenza?» «Un mese.» «Non me lo dica.» «Queste cose vanno così.» «Già.» «La lascio, professore. Continuo con le telefonate.» «Alla prossima, signora.» Un mese al Pirandello di Messina, a due passi da casa. È così che vanno queste cose. È l’intervallo, e la mia incazzatura è scesa di un solo grado. Sono ancora febbricitante. Un mese al Pirandello, e magari la signora è stata così gentile da non dirmi che si trattava di una gravidanza. Un collega mi si avvicina, troppo. Il suo alito puzza di fegato guasto, e la sigaretta che tiene schiacciata tra i denti non depone per nulla a suo favore. Urge una domanda: che cazzo vuole? Non so come, si mette a parlare. Ce ne andiamo su un’autostrada del nord Italia, in un autogrill, dove, mi racconta, una sera si trovò in un guaio alla Hitchcock, una storia ai confini della realtà che forse deve aver dato lo spunto a Spielberg per girare Duel. C’era questo tizio, un camionista, che ostruiva col suo bestione meccanico la sua macchina, la macchina del collega. C’era questo TIR, e lui non poteva uscire dal parcheggio. Aspetta, lui, il collega, suona un po’ il clacson per attirare l’attenzione sulla sua condizione di topo in trappola, ma il camionista non ne vuole sapere di scendere dal suo mezzo. O se la dorme alla grande, o finge di farlo. Il collega non sa cosa pensare, così si attrezza per affrontare al meglio l’emergenza. S’impossessa di una catena e si ripresenta dal camionista. Lo chiama a gran voce, lo invita a spostare il camion, e finalmente il camionista apre lo sportello, senza farsi vedere, come un cagnaccio kinghiano pronto a fare sfracelli. Il collega non ci vede più dalla paura e dalla rabbia, e comincia a colpire il camionista con la catena, fino a lasciarlo mezzo morto e mezzo dissanguato per terra. Intanto, le macchine che ostruivano il passaggio vanno diradandosi. C’è giusto un pertugio dove infilarsi per svignarsela. Il collega si mette in macchina e riparte, passando a filo tra il camion e un’ultima vettura, il famoso bastone tra le ruote. Il collega ritorna sull’autostrada, convinto ormai di averla fatta franca, ma dalle parti di Roma - lui era partito da Brescia - si ritrova dietro il camionista-ombra. Percorrono l’autostrada fino a Villa S. Giovanni, il collega davanti, il camionista fantasma dietro, e poi non so come va a finire la storia, perché sono già le undici e trenta e il vice preside è su tutte le furie per quel nostro irragionevole ritardo. «Mario!» Urla al collega. E lui, imperterrito, continua, mimando atti di automobilista inseguito e biascicando di entrare su un traghetto. Del camionista non si hanno più tracce. Ne approfitto per svicolare. Ho la classe scoperta. Scappo. Prima che il collega tiri fuori la catena. Il penultimo giorno di supplenza, in 2C, mi lancio in una lezione sulla poesia che ha dello straordinario. Metto da parte piano del significante e piano del significato, e sciorino una tesi che ha dell’incredibile: ognuno di noi è un poeta. Guido gli alunni attraverso i sentieri del sentire, e spiego loro che la poesia è questo: sentire la parola che ti appare, davanti agli occhietti, come se fosse stata sempre lì. Li invito a spargere rime per tutta la classe, a pronunciarne una, a inventarsi una strofa, a mettere insieme delle parole, così, come se il caso si fosse improvvisamente scoperto poeta. I ragazzi stanno al gioco, abbiamo intitolato una prima poesia: Viaggi. Viaggi di ogni genere. E ognuno - menti ancora ingenue! - comincia a fare il suo. Così, tra frasi fatte e frasi combinate, esce fuori una poesia, che qualcuno sta già provvedendo a copiare in bella. L’ora è passata, senza incidenti. Ho due alunni che sorridono, e altri che mi chiedono se domani ripeteremo l’esperimento. «Possiamo scrivere tutte le poesie che vogliamo,» dico. «È bello fare lezione così,» suggerisce un alunno rettile, abbastanza incuriosito. Quasi quasi ci credo. Che poi, alla fine, come fai a dire che un alunno è un rettile, o un invertebrato? È la paura del confronto che mi fa parlare così. Quelli che ho davanti sono solo ragazzi che cercano un esempio da seguire, qualcuno da emulare, a cui paragonarsi, qualcuno che li aiuti a crescere, senza per questo essere troppo invadente. Ma questa è la scuola, dove si dice tutto per non dire niente. È l’ultimo giorno. Sto male. Telefono a scuola, e comunico che sto male. Il segretario mi chiede che cos’ho. Sto male. Ho vomitato dappertutto. Tutta la notte. Sto male. Prendo un giorno. I segretari, generalmente, s’incazzano a morte quando un professore telefona per chiedere un giorno di malattia: diventano natura morta con palla floscia e pelosa in posizione scoperta, e ghigno surrettizio su labbra stanche, con culo acquattato in umido su sedia. Ogni giorno che un professore prende, di ferie o di malattia, è come una stilettata. Ti augurano che tu stia veramente male, perché non ci credono; e qualche volta hanno pure ragione. Questa è una di quelle volte. «Alla prossima,» dico. Affiora un ‘buongiorno’ terribile sulle sua bocca di frustrato secolare. «Mi saluti il preside,» proseguo. «E quelli della segreteria, che sono stati tutti gentili con me. Purtroppo, non conosco i nomi, ma lei me li saluti uno per uno. E il signor Colucci della portineria. Brava persona, davvero. E i ragazzi. Me li saluti tutti. IC e IIC. Non se lo scordi. IC e IIC. E un saluto per lei. Molto gentile da parte sua avermi contattato. E ringrazi il ministero per queste belle opportunità che ci dà di sopravvivere.» E ridatemi il posto, quello che era mio, e quello che adesso è di qualcun altro, che ha sudato una camicia su sette per averlo. Il segretario chiude la comunicazione, mentre per il resto del mondo arriva la sigla.