Supplemento al quaderno n. 4: Scienze sociali e

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Supplemento al quaderno n. 4: Scienze sociali e
CENTRO DI RICERCHE PER LO STUDIO DELLA DOTTRINA SOCIALE DELLA CHIESA
Supplemento al quaderno n. 4: Scienze sociali e dottrina sociale della Chiesa
Indice
Carlo Beretta
Simona Beretta
Giorgio Berti
Gianfranco Bettetini
Edoardo Teodoro Brioschi
Agostino Giovagnoli
Michele Grillo
Giammaria Martini
Daniela Parisi
Luigi Pasinetti
Walter Giorgio Scott
Enrico Maria Tacchi
Francesco Villa
Laura Zanfrini
Eugenio Zucchetti
La teoria economica
La scienza economica e il problema dello
sviluppo
L’evoluzione costituzionale
La comunicazione sociale
La comunicazione d’azienda
La storia
La microeconomia
Decisioni individuali e strategiche
Riflessioni dello storico del pensiero
economico
La scienza economica
Il marketing
La sociologia: note su alcune «grandi
questioni» culturali e sociali
La questione della sussidiarietà nelle
politiche sociali
Lo sviluppo: indicazioni per la ricerca
sociologica
Lavoro e ruolo delle istituzioni
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CARLO BERETTA
LA TEORIA ECONOMICA1
Il tema di discussione proposto riguarda le relazioni tra dottrina sociale della Chiesa ed
economia, ed in particolare le possibili influenze che cia scuna ha esercitato sull’altra. Per i limiti
di conoscenza di chi scrive lo si è ulteriormente circoscritto alle relazioni tra alcuni ambiti di
elaborazione della dottrina sociale e una parte della teoria, parte che si ritiene però di particolare
rilevanza per l’argomento in oggetto. Sempre i suddetti limiti hanno indotto ad un’analisi indiziaria,
prendendo due esempi come campioni dei problemi che sorgono quando si vuole affrontare la
tematica in questione; le induzioni che si possono trarre sono proposte come suggestive piuttosto
che come dimostrative; per accertare quale valore possano avere, occorrono conoscenze che al
momento non ho.
1. I diversi ambiti di elaborazione della dottrina sociale
Si possono distinguere più livelli di elaborazione, di diffusione ed applicazione della dottrina
sociale, legati tra loro in modo ovvio ma diversi l’un dall’altro. V’è, in primo luogo, il magistero
pontificio a forte contenuto sociale. V’è poi il magistero delle conferenze episcopali e dei singoli
vescovi che si differenzia dal primo se non altro per maggiori riferimenti alle realtà nazionali o locali. V’è quindi il lavoro di esegesi, soprattutto dei documenti pontifici e delle conferenze episcopali, fatto in gran parte da esperti con formazione prevalentemente teologica. V’è infine quel
che di tutto questo lavoro si trasferisce a livello delle singole comunità, che traspare dalla
predicazione e dal clima culturale ed ideale che si vive, ad esempio, nelle parrocchie.
Da un livello all’altro cambia l’insieme dei destinatari, passando da quello degli «uomini di
buona volontà» a comunità vuoi territorialmente circoscritte, vuoi contraddistinte dal possesso di
caratteristiche, soprattutto di formazione e di interessi culturali, particolari; cambia lo spettro dei
problemi affrontati e soprattutto cambia, o forse dovrebbe cambiare, il linguaggio utilizzato,
diventando possibile, ad esempio nel campo esegetico ed analitico, utilizzarne uno tecnico e
specializzato, con tutti i vantaggi ed i costi che queste operazioni sempre comportano. È naturale
che i contatti con il mondo della teoria siano molto diversi a seconda del contesto considerato.
Chi scrive ha una conoscenza, sia pure limitata e parziale, del primo, ristretta quasi
esclusivamente ai documenti pontifici più noti in materia, essenzialmente le encicliche, e a
qualche documento del Concilio; ha una conoscenza ancor più carente sia del magistero episcopale, sia del la voro di esegesi che si è sviluppato attorno ad essi. Piaccia o no, è praticamente
impossibile sottrarsi all’indistinto rumore di fondo che, di queste discussioni, si riverbera sulla
società, soprattutto all’ultimo livello. Le osservazioni che seguono sono perciò fortemente distorte
da questa disomogeneità e parzialità di informazione.
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Desidero ringraziare S. Beretta, A. Contini, F. Duchini, G. Merzoni, D. Parisi e gli intervenuti al
seminario organizzato dal prof. S. Zaninelli. Vale l’usuale caveat.
Non solo. Per quel che riguarda l’economia, le mie conoscenze sono prevalentemente
concentrate sulla teoria; sono scarse in materia di economia applicata e di politica economica.
Persino per quel che riguarda la teoria, esse si riferiscono ad un particolare tipo, essenzialmente
quello di derivazione neoclassica, utilizzato sia in campo microeconomico, sia negli studi di
equilibrio economico generale e di teoria dei giochi, ma sulla cui applicabilità in campo macroeconomico esistono laceranti dubbi, persino tra gli stessi economisti neoclassici. Tutto ciò
necessariamente limita la rilevanza di queste note.
2. Le interazioni tra dottrina sociale e teoria economica nei diversi ambiti
Nella ricerca di interazioni tra economia e dottrina sociale, vi sono problemi e difficoltà comuni
a tutti i livelli.
Il primo riguarda la possibilità e il modo attraverso cui le possibili influenze reciproche possono
essere individuate con una qualche certezza, così da non attribuire all’una o all’altra meriti (o
demeriti) che non ha. Essi condividono molti oggetti di interesse; entrambi riflettono su problemi
economici concreti. Entrambi, quindi, reagiscono agli impulsi che vengono loro dalla comune
osservazione della realtà; ricercare le influenze reciproche nel contenuto dei programmi di ricerca
porta perciò facilmente a correlazioni spurie.
Per di più, non sono gli unici a ricomprendere nel proprio dominio questi fenomeni, così che,
anche quando esistono influenze tra corpi di sapere diversi, si può attribuire ad uno ciò che in
realtà è dovuto ad altri. Questa interdipendenza diffusa ha caratteristiche e peso diverso nei vari
livelli ma è praticamente sempre presente per quanto riguarda sia la dottrina sociale, sia la teoria
economica.
Invece di usare ciò che le accomuna, si potrebbe partire da ciò che le differenzia, ad esempio
lo spettro coperto dall’indagine che cia scuna svolge; ma anche questo non è facile. Nel caso
della dottrina sociale, gli interessi spaziano dal campo economico a quello sociale, politico,
giuridico, antropologico e filosofico, avendo una radice comune in ambito teologico e biblico. Per
quel che riguarda la teoria economica, le opinioni sui limiti che il ricercatore deve o dovrebbe osservare, su ciò che dovrebbe o potrebbe considerare esogeno e ciò che dovrebbe o potrebbe
considerare endogeno, e quindi sul campo di pertinenza della propria indagine, sono molto divergenti. Almeno se ci si limita alla teoria neoclassica, non sembrerebbero esserci differenze
radicali tra dottrina e teoria su questo piano, se non per i riferimenti teologici.
Invece di considerare il campo d’indagine, la ricerca di influenze dovrebbe essere
probabilmente fatta a livello delle persone che operano in essi. E anche qui occorre distinguere.
Ai livelli più alti, è presumibile che la redazione dei documenti sia preceduta da lavori
preparatori di gruppi di specialisti ed è importante vedere qual è la loro formazione, le
conoscenze che hanno in altri ambiti, quanto dell’ottica e degli strumenti forniti da questi utilizzano nella propria riflessione. Non sempre, ma almeno di norma, soprattutto a livello pontificio, la
partecipazione a questi gruppi di la voro è coperta da un comprensibile riserbo, così che si sa
qualcosa, di scarsa affidabilità, solo per sentito dire; sarà lo storico ad aver accesso alle carte che
permettono di verificare chi ha partecipato ad essi, le sue caratteristiche scientifiche e quale
apporto ha dato.
Questi dati sulle persone dovrebbero invece essere noti quando si passa al livello degli esegeti,
da un lato, e dei teorici, dall’altro. Ciò che forse è sorprendente, o forse è solo un’ennesima
manifestazione dei vantaggi (con le costrizioni che da essi derivano) della specializzazione e
divisione del lavoro, è che sembrano esservi pochi esegeti della dottrina sociale che sono anche
economisti teorici e pochi economisti teorici che sono anche esegeti della dottrina sociale. Ma su
questo problema si ritornerà più avanti.
Dati i limiti sopra elencati, in queste note si cercheranno le possibili influenze reciproche
principalmente a livello di ottica adottata, di impostazione dei problemi, tenendo però conto che gli
obiettivi che ci si pone di fronte differiscono di molto quando ci si muove in un campo o nell’altro
e da un livello all’altro.
La Sollicitudo rei socialis afferma: «La Chiesa non ha soluzioni tecniche da offrire ... Essa,
infatti, non propone sistemi o programmi economici e politici, né manifesta preferenze per gli uni
o per gli altri, purché la dignità dell’uomo sia debitamente rispettata e promossa» (n. 41). La
dottrina, dunque, non si propone né di fare teoria né di dettare politiche o soluzioni. Ciò su cui
insiste è la centralità dei riflessi o delle conseguenze sull’uomo come metro di valutazione e di
giudizio tanto della pratica quanto della teoria.
Per quel che riguarda la teoria, chi conosce i profondi cambiamenti, se non le inversioni di
rotta (ed occorre tener presente che anche le strade che si sono dimostrate cieche hanno
prodotto conoscenza, e proprio quella conoscenza che ha portato a rivedere il proprio percorso
sapendo almeno qualcosa in più dei perché dei problemi che occorre affrontare), che questa ha
subito negli ultimi decenni non può che approvare un simile prudente distacco. D’altra parte,
questo atteggiamento spinge a chiedersi se la teoria abbia nulla da dire a chi elabora la dottrina
sociale. Quel che la teoria può offrire sembra essere una mappa almeno tentativa delle possibili
connessioni, eventualmente dei legami causali, tra caratteristiche di un assetto o di certi modi e
regole di comportamento e i riflessi sulla vita umana.
Si è tentati di fare invece una contrapposizione tra posizione del magistero pontificio, che privilegia un’analisi dei meriti e dei limiti di assetti diversi per la vita e lo sviluppo della persona, e
quella di altri corpi ecclesiali che, costretti dall’urgenza di molte situazioni, sono spesso tentati di
trarre subito implicazioni di condanna o di approvazione di situazioni e misure contingenti. Per far
questo, sembrerebbe necessario un uso molto più pesante della teoria in quanto si deve adottare
e credere in qualcuna di esse per giustificare la propria condanna o approvazione, e qui, qualche
volta, l’adesione avviene, forse non sempre con piena consapevolezza, con cuore assai meno
diviso di quello degli adepti che pure sostengono la medesima.
Chi si trova di fronte problemi concreti non deve, e forse semplicemente non può, rassegnarsi
alla semplice denuncia dei mali del mondo, soprattutto quando questi colpiscono altri, e altri che
non sono in grado di difendersi da soli. Ma forse sarebbe prudente, e comunque sembrerebbe
sensato, distinguere ciò che si può, o sarebbe desiderabile, fare in una certa situazione (di fronte
a quel particolare stato di bisogno, tenuto conto che è uno dei molti stati di bisogno tra cui si è
costretti a scegliere) da ciò che sembrerebbe risolvere il problema alla radice (che si presenti
uno stato di bisogno). Da fonte autorevole e non sospetta (almeno in certi ambienti, si spera),
sappiamo che la povertà non è destinata a scomparire fin che dura questo mondo mentre è ovvio
che certi poveri possono essere aiutati e certe povertà alleviate pur di sostenere costi, che è comunque bene precisare, e sacrificare il perseguimento di altri obiettivi.
Forse, in questo momento in particolare, v’è una sottovalutazione della pratica intelligente
rispetto alla teoria generale (ma è anche vero che la pratica intelligente è un bene di molto più
scarso, costoso e difficile da individuare e reperire della teoria anche buona). Dire che ci sono
vie d’uscita quando non è così chiaro che esistano, invece di guardare le singole realtà e
mettersi, o spingere altri, a una paziente ricerca, può essere avventato e pericoloso sia dal punto
di vista della soluzione dei problemi in questione, sia, e forse soprattutto, per coloro che si
vogliono aiutare. Occorre ammettere che, e probabilmente in questo campo più che in altri,
siamo lontani dall’onnipotenza, cosa certamente dolorosa ma, per chi crede, anche provvidenziale
e misteriosamente salvifica.
La posizione di chi lavora all’esegesi e alla sistematizzazione della dottrina sociale nei confronti
della teoria sembra essere più complessa. Potenzialmente è il tramite tra chi fa teoria e chi deve
elaborare la dottrina e viceversa, e dunque chi possiede, da un lato gli strumenti teorici, non solo
della dottrina ma anche dell’economia, e guida la loro applicazione pratica o illustra l’utilizzo che
ne viene fatto; dovrebbe essere quello che fa e traduce nel linguaggio appropriato le domande
che queste due aree di ricerca si pongono reciprocamente. Ma questo è il campo su cui le
conoscenze di chi scrive sono più carenti.
Dall’intento dichiarato del magistero si può forse derivare anche ciò che chi studia teoria può
cercare nella dottrina sociale della Chiesa: i documenti del magistero forniscono dei criteri di
giudizio e di valutazione e la loro applicazione a fatti e situazioni; essenzialmente enunciano e
chiarificano il contenuto da dare agli obiettivi personali e sociali che debbono ispirare le decisioni
di comportamento, le ragioni per adottarlo, e indicano quali valori vengono o debbono essere
realizzati e rispettati e quali vengono lesi o messi a repentaglio dal presentarsi di determinati fenomeni. Certo non è utile rifarsi ad essi per un’analisi scientifica dei meccanismi che portano a
tali situazioni e degli strumenti che possono essere utilizzati per prevenirle.
È in questa distinzione di ruoli e di campi che secondo me va cercato, se esiste, un raccordo
ed un dialogo tra dottrina sociale e teoria economica. Debbo subito dire che, mentre ritengo che
questa via esista e sia potenzialmente molto fruttuosa, essa non mi sembra sufficientemente
considerata, non tanto nei documenti del magistero che invece offrono molti spunti in questa
direzione, ma nell’esegesi che ne vien fatta, e ancor meno nella vulgata trasmessa, da coloro
che all’interno della Chiesa potrebbero essere interessati a questo dialogo.
3. Alcune caratteristiche dell’impostazione neoclassica in economia
Il tipo di teorie che io studio poggia, almeno nelle sue versioni essenziali, su una forte
caratterizzazione individualistica degli agenti e su una visione atomistica della società. Nell’analisi
positiva, esse si propongono non tanto di spiegare ma di caratterizzare o descrivere degli stati di
equilibrio di alcuni meccanismi in grado di generare un coordinamento di decisioni prese da un
insieme di agenti, ciascuno dei quali opera nell’ambito di una propria sfera di autonomia, in
diverse condizioni di informazione, e in presenza di obiettivi almeno parzialmente in conflitto. Vi è
anche una parte normativa, ma si deve purtroppo ammettere che, se la parte positiva è in
subbuglio, quella normativa si deve forse dire che è nel caos. Non dicono forse molto su ciò che
si può fare, ma certamente illuminano i problemi che occorre affrontare, problemi che è
pericoloso ignorare.
Vi sono due peculiarità che trovo interessanti di queste impostazioni.
La prima è formale e non molto controversa: queste teorie mirano ad un’analisi generale e
usano un linguaggio che, pur essendo formalizzato e astratto, costringe ad esplicitare quanto di
ad hoc è contenuto in un’ipotesi, impedisce di usare idee vaghe e confuse ed anzi mette in luce
quali legami con il referente empirico si riesce a catturare attraverso una data formalizzazione e
quanto sfugge; forse proprio per questo legame con un referente empirico sono state capaci di
un’evoluzione e differenzia zione generate dalle esigenze interne, non ultima quella di coerenza,
che non trovo in altre formulazioni.
La seconda è più discutibile e riguarda quelle che ritengo essere le strutture essenziali
utilizzate e studiate da queste teorie. In primo luogo, nonostante i limiti del modo in cui le caratterizzano, esse pongono l’accento sulle unità elementari di decisione, i loro obiettivi, il loro ruolo, la
loro autonomia, la loro responsabilità. In secondo luogo, l’analisi del problema del singolo agente è
poi la base per lo studio delle ragioni e dei meccanismi attraverso i quali gli agenti interagiscono
tra di loro, dei problemi e dei risultati che ci si possono aspettare da un’analisi di queste
interazioni. Questi due aspetti non sono completamente scindibili, ma ignorarne le distinzioni può
essere fatale. Ed è su di essi che ci si aspetterebbe di trovare, ma secondo me non c’è, dialogo
effettivo tra la teoria economica e la dottrina sociale. Essi sono i campi che verranno utilizzati per
fornire gli esempi o i campioni del tipo di interazioni che avvengono tra dottrina e teoria.
4. Il problema della scelta individuale e le sue connessioni col concetto di libertà
Si consideri il modo in cui viene descritto e trattato il problema dell’individuo. Formalmente
esso consiste in un esame del concetto di scelta e di comportamento razionale. Si postula
l’esistenza di un centro di decisioni dotato di una sfera di autonomia il cui contenuto è dato dalle
alternative, che per semplicità si supporranno di numero finito, a sua disposizione; questo centro è
dotato di criteri di scelta tra le alternative, che riflettono i suoi obiettivi, criteri che vengono
supposti completi e transitivi; la razionalità è scegliere l’elemento preferito, tecnicamente un
elemento massimo, tra quelli disponibili.
L’astrattezza della presentazione è in parte legata al fatto che questa si propone di essere una
teoria generale della scelta, ma è soprattutto voluta; costringe a porsi il problema del contenuto
da dare ai vari termini (non a quelli tecnici che sono facilmente definibili, anche se la loro
discussione è importante) e dell’interpretazione del problema. Si è inoltre volutamente scelto un
contesto in cui le conseguenze della scelta sono univocamente determinate dalla medesima per
evitare tutti i problemi che sono più tipici delle interazioni.
Le prime difficoltà riguardano la definizione e le implicazioni dell’ipotesi di razionalità e
l’estensione del dominio della scelta controllato dalla razionalità. Un’interpretazione comune è
quella che vede nei criteri di scelta i gusti di un individuo e nelle alternative, combinazioni di beni
diverse che si può procurare; e questa è certo un’interpretazione realistica di situazioni incontrate
da tutti. Ma come si è detto, la formulazione lascia del tutto indeterminato l’oggetto della scelta.
Sopra si fatto l’esempio di panieri di beni alternativi, ma oltre a decidere se si vogliono delle mele
o delle pere, spesso, magari erroneamente, la gente crede di poter scegliere che tipo di persona
vuole essere. Qui le alternative sono i tipi di persona che si può essere, o almeno i tipi di criteri di
scelta (e di conseguenza di modi di comportamento) che si possono adottare. Per l’economista
non è chiaro quanto i fini perseguiti dal singolo individuo e la stessa idea che l’individuo si fa di
sé, le caratteristiche che possiede come persona, debbano essere considerati, almeno da lui e per
i fini della propria indagine, come esogenamente dati, e dunque non controllati dalla persona che li
persegue, o debbano essi stessi essere visti come oggetti di scelta, eventualmente soggetti a una
valutazione di razionalità. E naturalmente, se l’oggetto della scelta sono i criteri di scelta, occorre
stare attenti quando si definiscono, da un lato, i criteri per scegliere tra criteri alternativi e,
dall’altro, come si costruisce, e si arriva a conoscere, l’insieme delle alternative tra cui si può
scegliere. Da un punto di vista logico, il problema è quello di evitare le regressioni all’infinito; da
un punto di vista pratico il problema è quello di vedere quanto una scelta sia li risultato di
preferenze o le preferenze siano il risultato di scelte.
Per fare un esempio, si esaminino le connessioni tra questo problema e la maniera in cui è
possibile introdurre il concetto di libertà e di responsabilità della persona nel discorso economico.
Credo che nessuno dubiti che essere libero richieda avere delle alternative tra cui scegliere;
questa può non essere una condizione sufficiente ma si deve ritenere, almeno in prima approssimazione, necessaria. Nelle formulazioni più semplici, l’insieme delle alternative a
disposizione di un individuo è determinato dal suo reddito (o dalla sua dotazione) e dall’insieme
dei prezzi a cui può acquistare o vendere; se il reddito aumenta, dati i prezzi, aumenta l’insieme
delle scelte che l’individuo è in grado di realizzare e si sarebbe tentati di dire che aumenta la sua
libertà.
Tuttavia, se i suoi obiettivi sono dati e l’individuo è razionale, ciò che deve scegliere è determinato e consiste nell’elemento che massimizza la funzione obiettivo; può essere difficile
individuare la scelta ottimale ma essa è data una volta specificate le condizioni su indicate. In
sostanza, l’individuo ha delle alternative, deve fare una scelta ma forse non ha libertà di scelta.
Ad esempio, se si tolgono dal suo insieme di alternative tutte quelle diverse da quella ottimale non
cambia nulla dal punto di vista della realizzazione dei suoi obiettivi; la sua scelta viene solo resa
più semplice e sottratta al rischio di errori. Questo sembra dire che non è rilevante disporre delle
alternative che comunque non verrebbero scelte. Se si accetta questa conclusione, avere un
reddito più alto è importante solo perché consente di realizzare meglio i propri scopi, non perché
offre più alternative.
Ciò mostra che si è forse identificata la libertà con la capacità di realizzare i propri propositi,
che è certamente un uso legittimo e forse probabile della libertà, una delle ragioni per cui la si
ricerca, ma non è la libertà e, d’altra parte, qualunque sia il livello di realizzazione dei propri obiettivi, se non si hanno alternative dire che si è liberi sembra bizzarro.
Nasce da qui il problema di come spiegare l’importanza dell’avere alternative, di come
introdurre una qualche libertà di scelta. Vi sono almeno due possibilità. Avere alternative: a)
consente di scegliere in modo diverso da come vuole la razionalità, ma è dubbio che la possibilità
di essere irrazionali nel senso di fare scelte sub-ottimali significhi essere liberi; b) impone di
affrontare problemi che la razionalità non è in grado di risolvere, ma allora devono esistere ambiti
di scelta in cui la razionalità non è in grado di determinare da sola quale scelta si debba fare e
tipicamente questo accade quando il criterio di scelta è incompleto. Ciò può accadere perché
non si hanno abbastanza informazioni (e sapere di non avere informazioni sufficienti è già avere
informazioni), non si sa cosa vuol dire optare per x invece che per y (e qualche volta non si sa
neppure come e quando si sta facendo questa scelta) ma si sa che x e y sono cose diverse e non
si ha alcuna ragione per ritenere di essere indifferenti tra l’una e l’altra. Ma può succedere
anche quando si hanno tutte le informazioni che si possono desiderare e si hanno ragioni per
scegliere x invece di y, ma si hanno anche ragioni per scegliere y invece di x e non si è in grado
di, o non è possibile, rinunciare a nessuna di queste ragioni in conflitto. Se la scelta deve
comunque essere fatta, occorre assumersene l’onere e la responsabilità. Trovarsi in queste
situazioni è ciò che permette di darsi un’identità, invece di essere semplicemente fatti così, ma dà
alla libertà un’aura più tragica che ilare e spensierata.
Come si è detto, il campo di applicazione più ovvio è la costruzione e la giustificazione della
scelta della propria funzione obiettivo e in quest’ambito resta comunque da esaminare il ruolo che
la scelta delle situazioni concrete che si vogliono sperimentare ha in tutto questo processo, quanto
sia causa e quanto si effetto dell’adozione di una funzione piuttosto che di un’altra.
Gran parte degli interrogativi interessanti sollevati da queste teorie si riferisce a situazioni in
cui vi sono più agenti. In questi casi è importante specificare gli ambiti di autonomia decisionale e
comportamentale di cia scuno: occorre qui vedere se vi sono, e quali siano gli ambiti che non è
possibile, desiderabilità a parte, sottrarre all’autonomia individuale, quelli che è possibile e desiderabile lasciare e quelli che è possibile ma non desiderabile lasciare all’esercizio di quest’autonomia. Diventa rilevante specificare cosa si sa e cosa si può (e quando e a quali costi) osservare,
da un lato, circa le caratteristiche (in pratica, quanto si conosce delle dotazioni, delle informazioni
e degli obiettivi) di ciascuno e, dall’altro, circa le azioni possibili e messe in atto da ogni individuo.
Ovviamente, ciò che non è possibile sottrarre all’autonomia individuale verrà usato, se
l’individuo è razionale, per il perseguimento dei suoi obiettivi; se si vuole incidere su questa sfera
occorre dunque incidere sugli obiettivi perseguiti o sul processo attraverso cui si formano. Le ragioni per cui si può voler incidere su di essi possono essere legate semplicemente al giudizio che
si dà su tali obiettivi o, invece, a quello sulle conseguenze prodotte da un comportamento ispirato
da certi obiettivi. Entrambe presentano ovvi pericoli. Le prime possono intaccare gli ambiti più
importanti di libertà della persona; nella dottrina tradizionale si tendeva a distinguere il compiere
azioni buone dall’essere buoni, e quest’ultimo si riteneva riflettere una decisione, almeno in
qualche misura, libera, volontaria e cosciente e pertanto da privilegiare. Le seconde rischiano di
subordinare i valori perseguiti da un individuo alle conseguenze, di giustificare valori con fatti. E,
d’altra parte, le conseguenze possono incidere sulla possibilità di altre persone di perseguire i
propri valori.
Nonostante la dottrina sia rimasta ferma in una posizione anticonsequenzialista, c’è oggi un’attenzione, certo giustificata, per i problemi concreti, per la soluzione di situazioni ovviamente
pressanti, che però ha portato a bollare come un’impostazione angelistica, ritenuta per qualche
ragione piuttosto biasimevole, una problematica di questo tipo.
Gli stessi problemi si ripropongono per gli ambiti che possono essere sottratti all’autonomia
individuale. Se vi è spazio per redistribuire le possibilità di scelta, ad esempio redistribuendo
reddito o dotazioni, con quali ragioni, come e a favore di chi dovrebbero essere utilizzate? Se gli
obiettivi individuali sono dati esogeni, a parte problemi sulla compatibilità tra libertà di scelta e
realizzazione dell’efficienza paretiana, sembra sensato preferire una situazione in cui tutti stanno
meglio a quelle in cui almeno qualcuno sta peggio e nessuno sta meglio, il tutto valutato in termini
di questi obiettivi esogeni. Questo criterio pare un requisito minimo di ragionevolezza, ma ha
problemi di incompletezza: date due situazioni Pareto efficienti, come (e chi e sulla base di quali
ragioni può) ordinare l’alternativa x rispetto alla y quando l’individuo A preferisce la prima alla
seconda e B la seconda alla prima? Occorre andare oltre e scegliere una delle possibili situazioni
efficienti in senso di Pareto, scartando tutte le altre, occorre cioè decidere quale peso dare alla
realizzazione degli obiettivi di un individuo rispetto a quello da dare a quella degli obiettivi di un altro, ossia decidere come costruire una funzione obiettivo per la società, ad esempio, il che, per
alcuni versi, significa specificare un contenuto del bene comune.
D’altra parte, se il giudizio che uno dà sullo stato in cui la società e lui stesso si trovano non
riflette un ele mento esogeno, non controllato e non manipolato da lui, se il suo stato di bisogno è il
riflesso della sua scelta di obiettivi, quando poteva scegliere obiettivi diversi, questo giudizio dovrebbe contare tanto quanto, o di più, o di meno, rispetto alla situazione di esogeneità dei suoi
bisogni, ad esempio nel momento di decidere quanto dare a lui invece che ad un altro, quanto
permettere la realizzazione dei suoi obiettivi sacrificando la realizzazione di quelli di un altro?
Come si vede, questo problema ha poi riflessi sulle indicazioni normative che si possono ottenere
dall’analisi.
In tutti questi ragionamenti occorre distinguere il caso in cui gli obiettivi di ciascuno siano noti
da quello in cui non lo siano e occorre tener conto che sottrarre autonomia decisionale, anche
quando è possibile, può avere dei costi in termini di utilizzazione dell’area di autonomia che non è
possibile intaccare. Le valutazioni e comunque gli esiti collettivi, nella gran parte dei discorsi teorici, sono il risultato di valutazioni e decisioni individuali (anche se non del singolo individuo, ad
esempio nei modelli di concorrenza perfetta, per le ragioni indicate tra poco). Si può approvare o
disapprovare un simile stato di cose, ma sembra inevitabile accettarlo se si riconosce una qualche
possibilità di scelta agli individui.
Nell’apparente esoterismo, un campo di applicazione canonico è quello del confronto e della
scelta tra un’economia centralizzata, dotata di un pianificatore in grado di decidere tutto ciò che
accadrà a cia scuno degli agenti, ed un’economia a decisioni decentrate, in cui agli agenti vengono
riconosciuti ambiti di autonomia decisionale, un tema ricorrente nella dottrina sociale e
fortemente sottolineato nella Centesimus annus.
Nell’ottica in esame, l’economia pianificata tende a ridurre il numero e la varietà delle alternative che possono essere autonomamente adottate e, impoverendo lo spettro delle esperienze
possibili, a ridurre le possibilità di scegliere e realizzare il tipo di persona che si vuole essere,
quando addirittura non si propone di costruire l’«uomo nuovo». In questo senso può mettere a
repentaglio «la “soggettività” della società…, insieme [alla ] soggettività dell’individuo» (n. 13).
D’altro lato, l’economia di mercato vincola le esperienze che una persona può effettuare alla sua
disponibilità di reddito; redistribuire reddito redistribuisce possibilità di scelta, può addirittura
essere indispensabile perché una persona possa effettuare esperienze che le danno una più
ampia gamma di criteri di percezione e di valutazione della realtà e la capacità di usarle; ma ciò
non basta a redistribuire libertà di scelta; per questo occorre che la persona si renda conto della
sua responsabilità nel processo di individuazione di sé e di ricerca di una effettiva autonomia.
È ovvio che su tematiche di questo tipo, in particolare sulla libertà della persona, la dottrina
(non solo, e forse prevalentemente non quella, sociale) della Chiesa si è esercitata a lungo e
certo non infruttuosamente; per lo meno, era un argomento assai importante nella formulazione
tradizionale, anche se forse non riceve oggi l’attenzione di un tempo; ed è ovvio che tutto questo
lavoro sia noto a chi fa esegesi della dottrina sociale. Ciò che colpisce è il fatto che, da un lato,
esso è in gran parte ignorato da chi fa teoria economica, non ha nessuna incidenza su di essi.
Ma, forse per simmetria, i problemi dell’economista sembrano essere ignorati da chi studia la
dottrina sociale.
In una certa apologetica corrente si dice che la visione economicistica privilegia l’avere
sull’essere. Certo riprende un’espressione usata anche nei documenti del magistero, ma se è
lecito usare forme ellittiche in documenti di questo tipo non lo è altrettanto in quelli che dovrebbero essere lavori di analisi critica, di approfondimento e di interpretazione. Di sicuro rivela
una scarsa conoscenza della teoria: anche nelle formulazioni più ingenue, come quella relativa
alle scelte di consumo sopra riportata ad esempio, in questi schemi nessuno persegue
l’acquisizione di beni di per sé, ma solo come mezzi per il raggiungimento di obiettivi. Il contenuto
di questi obiettivi può essere criticato, può rivelare smodate propensioni al piacere sensuale,
ricerca di dominio sul mondo, altri compresi, un atteggiamento di prudenza e di ricerca di sicurezza molto lontano da quello di chi si interroga sui progetti di Dio, ecc.; ma si ammetterà che,
per quanto criticabili, questi sono modi di essere e dovrebbero essere discussi in quanto modi di
essere. Per di più, non sono gli unici problemi e forse neppure sono quelli cruciali da discutere in
quest’ambito, come si è cercato di argomentare sopra.
Questo modo di vedere le cose ha anche un riflesso in termini del perché una persona
dovrebbe essere interessata ai problemi toccati dalla dottrina sociale della Chiesa e forse del
perché e come questi temi dovrebbero esserle presentati.
Si insiste spesso sul ruolo che la solidarietà avrebbe nell’assicurare non solo una migliore (o
maggiore?) realizzazione del bene comune ma lo stesso buon funzionamento del meccanismo
economico-sociale. Ma, sia pure riferendosi a un contesto diverso, la Centesimus annus
considera errata la visione secondo la quale
quel medesimo bene possa essere realizzato prescindendo dalla sua [dell’individuo] autonoma scelta,
dalla sua unica ed esclusiva assunzione di responsabilità di fronte al bene ed al male. L’uomo così è ridotto
a una serie di relazioni sociali, e scompare il concetto di persona come soggetto autonomo di decisione mo rale, il quale costruisce mediante tale decisione l’ordine sociale (n. 13).
Si insiste anche sull’individualismo che caratterizzerebbe la nostra società e si tenta di
correggere questa tendenza esaltando l’importanza dei momenti di vita comunitaria. Io ritengo
invece che oggi ci sia molta difficoltà a formare e conservare la propria individualità, a diventare
individui veramente completi, a vedere la propria vita nella sua interezza e dunque anche a
vedere quanto di sé stessi si perda quando ci si chiude al resto del mondo. Se in un mondo bombardato di messaggi e modelli televisivi v’è un grosso pericolo di vite sprecate, in modo assai
poco personale, in esperienze vicarie ed imitative, questo pericolo c’è sia per l’egocentrico che
per il comunitario. Ma se è sicuro che una persona non possa essere, e vivere una vita, completa
senza acquisire una dimensione sociale, non c’è comunità senza una forte individuazione di sé da
parte dei propri membri.
5. Le interazioni tra soggetti autonomi
Va comunque subito chia rito che parlare di individui che perseguono i propri obiettivi non vuol
dire parlare di individui egocentrici e tanto meno egoisti. Come si è sottolineato, nelle formulazioni
più astratte, il contenuto degli obiettivi, come pure gli oggetti della scelta, è lasciato del tutto
indeterminato. Suona perciò un po’ ironico che alcuni studiosi della dottrina sociale (ma non sono
soli in questo) ritengano che la teoria economica predichi l’egocentrismo; in realtà quel che essa
fa è mettere in evidenza quanto più complicati siano, in generale, i problemi di coordinamento in
società in cui gli individui non sono egocentrici, naturalmente se si prende sul serio ciò che
significa trovarsi di fronte a una persona, quando si vuole comunque preservarne e rispettarne
l’autonomia.
Ciò porta al secondo tema tipico della teoria a cui si fa riferimento e a cui si è fatto cenno
all’inizio, un tema che ha radici in un arric chimento, rispetto alla formula zione tradizionale,
dell’insieme dei meccanismi che permettono e regolano le interazioni tra gli individui.
È in quest’ultimo ambito che l’ipotesi di egocentrismo diventa importante ma lo diventa, come
si è detto, per ragioni ben precise. In tema di interazione, vi è sia un problema di coordinamento
(si interagisce perché certi effetti possono essere ottenuti solo, o più facilmente, attraverso
l’azione coordinata, talora addirittura congiunta, di più agenti) sia quello della soluzione di un
conflitto (come ripartire i vantaggi generati dal coordinamento tra coloro che vi hanno preso
parte, tenendo conto che il vantaggio ottenuto dall’uno pone dei limiti a quello che gli altri possono
ottenere). Se si usano certi meccanismi, ad esempio il mercato di perfetta concorrenza, la
soluzione del conflitto ed il coordinamento vengono realizzati in maniera automatica e non costosa, almeno in corrispondenza ad un equilibrio. In assenza di egocentrismo (ma naturalmente il
venir meno dell’egocentrismo è solo una delle cause di fallimento di questi meccanismi) diventa
difficile, se non impossibile, definire ambiti di autonomia esclusiva e questi meccanismi non sono
in grado di produrre i risultati sopra indicati.
Nella versione tradizionale della formulazione teorica a cui si fa riferimento, l’interazione e i
suoi problemi sono praticamente assenti; almeno nella sua versione popolare, il meccanismo
tipico è costituito da un contratto di compravendita, per di più stipulato in ambiente anonimo, in
cui chi vende non conosce chi acquista e viceversa; nella versione colta dei modelli di perfetta
concorrenza in realtà non si parla di contratti tra individui, dal momento che non vi sono
interazioni individuali, ma solo di decisioni dei singoli su quanto ciascuno di essi desidera vendere
o comperare dal mercato; in equilibrio, tutte queste decisioni individualmente ottimali ed
autonomamente prese risultano essere compatibili e simultaneamente realizzabili.
Questa visione presuppone l’esistenza di mercati o, più in generale, di un meccanismo in grado
di determinare i rapporti di scambio, che vengono considerati dei dati dai singoli agenti e sulla cui
base essi decidono quali scambi effettuare. Essa richiede che ciò che è acquistato e venduto sia
perfettamente noto e conosciuto da tutti i contraenti così che non vi siano costi nella determinazione e nella specificazione del contenuto stesso del contratto di scambio da parte di ciascun
individuo e nella verifica della sua esecuzione.
È questa la versione che, sotto opportune ipotesi, permette di dimostrare l’efficienza paretiana
dell’equilibrio di un’economia di concorrenza perfetta e la raggiungibilità di (quasi) ogni
allocazione efficiente come equilibrio di perfetta concorrenza se sono realizzabili opportune redistribuzioni delle dotazioni individuali. È molto difficile vedere in che senso, se non per un
pianificatore (e in questo caso bisognerebbe poi studiare le problematiche relazioni tra i suoi
obiettivi e quelli dei pianificati) sia possibile usare questo schema per esaminare gran parte dei
problemi di interesse per la dottrina sociale della Chiesa; ad esempio, per costruzione, in questo
contesto l’azione dell’individuo non ha alcuna incidenza sull’equilibrio raggiunto, dunque egli non
ha alcun potere di influenzarla e di conseguenza neppure alcuna responsabilità per le sue caratteristiche.
I meccanismi che vengono studiati nella teoria recente sono quelli in cui cia scun contraente sa
chi è la sua controparte. Cia scuno cerca accordi liberamente e volontariamente accettati da tutti
coloro che vi prendono parte, e in questo senso rispettosi dell’autonomia di ciascuno, che
consentono di coordinare le proprie azioni con quelle degli altri in modo da permettere a tutti gli
agenti coinvolti di raggiungere stati preferiti a quelli raggiungibili in assenza di accordo e coordinamento. Ciascuno sa però anche che esiste una pluralità di accordi possibili che godono di
queste caratteristiche ma che differiscono per la maniera in cui distribuiscono i vantaggi derivanti
dal coordinamento stesso tra i partecipanti ed esiste dunque un conflitto sulla scelta dell’accordo.
Per di più la negoziazione viene effettuata in una situazione in cui l’informazione che cia scuno
possiede sulle caratteristiche dell’altro e sullo stato del mondo è limitata e asimmetrica, e l’osservazione del soddisfacimento del contratto stipulato è costosa o addirittura irrealizzabile. L’ultima
caratteristica pone vincoli alla possibilità di utilizzare meccanismi di garanzia del rispetto dei patti
come il ricorso ad un terzo arbitro o a un sistema giudiziario e richiede che il vincolo contrattuale
contenga incentivi sufficienti a rendere interesse di ciascuna parte il corretto adempimento degli
obblighi volontariamente sottoscritti.
Gran parte della strumentazione concettuale per analizzare questi casi viene derivata dalla
teoria dei giochi. Un gioco è definito da: a) un insieme di giocatori; b) per ciascun giocatore, un
insieme di azioni alternative tra cui deve scegliere quella da compiere; c) una regola che associa
a ciascun insieme di azioni, una per ciascun giocatore, un esito, ossia uno stato raggiunto per
effetto della loro attuazione; d) una misura del livello di realizzazione degli obiettivi di ciascun
giocatore in corrispondenza a cia scuno dei possibili esiti.
Per semplicità, ci si limiterà dapprima essenzialmente ai giochi deterministici a informazione
completa e perfetta. Nei giochi di un qualche interesse, nessun giocatore è in grado di
determinare, attraverso la scelta del proprio comportamento, quale esito verrà raggiunto; sa che
esso dipenderà da quali azioni gli altri sceglieranno di effettuare e sa che gli altri si trovano, e
sanno di trovarsi, in una condizione analoga. Si ipotizza che ciascun giocatore sia razionale nel
fare le proprie scelte, ossia che a ciascuna possibile combinazione di azioni scelte dagli altri
associ un’azione sua tale da massimizzare la propria funzione obiettivo. Sa che gli altri sono
razionali e sa che ciascuno sa tutto ciò che gli altri sanno. La nozione più comune di equilibrio di
un gioco è quella che lo identifica in un insieme di azioni tali per cui nessuno vorrebbe aver
deciso altrimenti una volta conosciute le azione adottate dagli altri; nessuno, date le scelte degli
altri, potrebbe far meglio per la realizzazione dei propri obiettivi che continuando a fare ciò che
fa.
Trascurando gli aspetti tecnici relativi alle condizioni di esistenza e all’interpretazione di un
equilibrio, i problemi interessanti per la presente discussione nascono dall’esistenza di più
soluzioni che, anche quando sono tutte efficienti, non possono essere ordinate tra loro nel senso
di Pareto (l’esempio canonico è la «battaglia dei sessi») e/o dal fatto che, anche quando vi è
un’unica soluzione, questa non è efficiente nel senso di Pareto (il caso del «dilemma dei
prigionieri»).
Mentre la decisione individuale è potestà e responsabilità del singolo, la formulazione lascia del
tutto impregiudicato il fatto che si stia descrivendo un mondo di persone egocentriche o di
persone altruiste; questo dipende dalla struttura della funzione obiettivo di cia scuno dei giocatori.
Ciò che è importante è che, una volta specificato l’insieme delle azioni disponibile per ciascuno,
nessuno può vincolarsi con gli altri, per lo meno non in modo da essere credibile e creduto da
costoro, a prendere una decisione piuttosto che un’altra; ciò non vuol dire che mantenere la
propria parola deve essere ritenuto un fatto irrilevante: se lo è, questo incide sul modo in cui il
gioco viene caratterizzato, in particolare su come si descrive la singola azione (come si distingue
il fare, o non fare, un’azione che si è promesso di fare dal farla, o non farla, in assenza di
promessa), come si costruisce l’insieme delle azioni ammissibili e, soprattutto, sulle proprietà di
cui si dotano le funzioni obiettivo dei singoli.
I problemi sottolineati in quest’ambito riguardano soprattutto i conflitti tra razionalità individuale
e razionalità collettiva. Ma essi costringono anche ad un rigore di linguaggio che aiuta a chiarire
di cosa si sta effettivamente parlando. Ad esempio, distinguono nettamente i problemi di
coordinamento, che non richiede coinvolgimento nel perseguimento dei fini degli altri giocatori, da
quelli di cooperazione, che invece sembra presupporlo; i primi vanno studiati analizzando il gioco
una volta che lo si sia definito, i secondi incidono invece sul modo in cui si definisce il gioco, ad
esempio, sulle caratteristiche di cui si vuole che godano le funzioni obiettivo di cui sono dotati gli
individui. Ancora, fanno vedere come si possa facilmente essere altruisti, almeno nel senso di
essere interessati al benessere altrui, per motivi terribilmente egocentrici.
Per riferirsi a un caso concreto, si vede spesso utilizzare il dilemma del prigioniero per
illustrare i danni prodotti da una visione egocentrica, che trascura gli interessi della parte con cui
ci si trova a giocare, quanto stupido sia comportarsi in maniera egoista e, in questo senso,
immorale. Nel far ciò si mischia il problema del coordinamento con quello della scelta del tipo di
persona che si vuol essere. Si può ben sostenere che sia male essere egocentrici e che in alcune
situazioni due persone altruiste finiscono per fare scelte che se fossero fatte dalle persone egocentriche le porterebbero entrambe ad una posizione preferita a quella che la razionalità nel perseguimento di obiettivi egocentrici finisce per far loro raggiungere. Il problema è che, sia pure in
situazioni diverse e per motivi diversi, anche persone altruiste possono trovarsi in una situazione
di dilemma del prigioniero e essere indotte dalla razionalità a fare scelte che le portano a una
situazione peggiore di quella che raggiungerebbero se si comportassero come se perseguissero
razionalmente obiettivi egocentrici. Date queste difficoltà, la scelta del meccanismo di coordinamento deve dunque essere discussa separatamente, almeno da questo punto di vista, da quella
della scelta del tipo di persona che si vuole essere.
Si può voler sostenere che se la gente non è egocentrica certe situazioni, o certi giochi, come
quelli del dilemma del prigioniero, con i loro paradossi e i loro costi, non si presenterebbero ma
allora si scoprirebbe anche che è impossibile arrivare alle conclusioni desiderate; al massimo si
riuscirebbe a dimostrare che si presenterebbero meno frequentemente o con minor probabilità. Si
può mettere in discussione il concetto di razionalità impiegato, ma in questo modo si discuterebbe
della logica impiegata non della moralità. Ma, a parte queste possibilità, si può solo dire se un
gioco è giocato bene, nel senso di razionalmente, o male, irrazionalmente, non che un gioco può
essere giocato in modo morale o in modo immorale. E si può discutere quali effetti abbia giocare
un certo gioco sulla struttura di preferenze, sulla funzione obiettivo di un certo individuo, più in
generale su come percepisce il mondo in cui si trova, ma non quale influenza abbia quella funzione sul modo in cui un gioco viene effettuato. Ma questo riporterebbe al problema della
formazione delle persone a cui si è fatto cenno in precedenza.
6. Cenni ai problemi di disegno e valutazione delle istituzioni e dei meccanismi di
interazione
I problemi considerati dalla teoria dei giochi portano ad estendere l’analisi all’individuazione
delle condizioni sulle caratteristiche di un gioco che assicurano, ad esempio, che l’esito sia
almeno efficiente nel senso di Pareto e dunque sulla scelta, quando questo è possibile, del
meccanismo di interazione da adottare. Essi possono dunque essere visti come il primo passo
verso una formulazione del problema del disegno e della scelta degli assetti istituzionali.
Occorre osservare che, nel caso particolare in cui tutti adottassero il medesimo criterio di valutazione degli esiti, scomparirebbero gran parte delle difficoltà a cui si fa cenno ma chi trovasse
quest’ipotesi seducente dovrebbe poi chiedersi, a parte il realismo, cosa essa richieda in termini
di informazione e osservazione delle azioni e dei criteri di valutazione degli altri giocatori per cia scuno degli agenti e quanto sia compatibile con la preservazione di un’identità personale dell’individuo.
Informazione ed osservabilità diventano i problemi dominanti quando si abbandona l’ipotesi di
informazione completa e perfetta. Un caso molto studiato è quello del principale -agente; la sua
applicazione tipica è quello del contratto di lavoro quando il datore di lavoro non può specificare
le azioni che il lavoratore dovrà mettere in atto e/o non può verificare l’impegno con cui il
dipendente svolge il suo lavoro; ovviamente ciò si riflette in una qualche indeterminazione
contrattuale ex ante di quale remunerazione verrà riconosciuta al lavoratore dal datore di lavoro
ex post.
Fa grande differenza che l’interazione esaminata sia vista come unica e non ripetuta o che
invece si supponga che la stessa situazione sia destinata a ripetersi un numero non predeterminato di volte. Il caso di interazioni ripetute porta all’analisi di rela zioni potenzialmente durature,
in cui credibilità del rispetto degli impegni all’interno di una relazione e reputazione nei confronti
degli altri membri della collettività in vista di altre possibili relazioni contrattuali diventano particolarmente importanti. E nel discutere le caratteristiche che deve assumere il contratto che si deve
stipulare, specificare le caratteristiche personali dei contraenti, quali obiettivi e dunque anche
quali valori perseguono, di nuovo diventa importante.
Questo tipo di indagini sta alla base del modo in cui si tende a vedere e a studiare il perché
esistono e come funzionano le imprese, le strutture e i modi di operare dei mercati. Generalmente
tendono a spostare l’analisi dal livello macroeconomico a quello microeconomico. Purtroppo non
generano ipotesi facilmente verificabili e in questo campo i risultati negativi, i teoremi di impossibilità, primo tra tutti quello di Hurwicz, sono molto più forti di quelli positivi.
Anche una volta che si sia ammesso tutto ciò, non sono sicuro che si possa tranquillamente
accantonare queste cose come astratta teorizzazione. L’impressione che dà una certa pastorale è
quella di considerare il lavoro esclusivamente come mezzo per ottenere un reddito, come tempo
sottratto alla vita vera e che la sacrifica. Del resto, la necessità di lavorare (o forse solo quella
del sudore della fronte) per procurarsi il pane è sorta solo dopo la cacciata dal Paradiso
Terrestre. Pur essendo in accordo su questo punto, la visione moderna è molto diversa per tutto il
resto dalla visione più antica. Ovviamente, le condizioni in cui si lavora sono cambiate; si pensi a
quante famiglie contadine che lavoravano propri appezzamenti o alle piccole imprese artigianali,
anche queste molte a conduzione familiare, sono scomparse con il passaggio alla fabbrica in
Italia nel dopoguerra. Ed è cambiato di conseguenza anche il contenuto ed il significato del
lavoro.
Ma quando si usa quest’ottica, di quale lavoro e di quale tipo di lavoratori si parla? Date le
caratteristiche di estraneità e di estraneazione, la teoria sopra indicata tenderebbe ad individuarlo
in quello a bassa qualificazione, usato per operazioni di facile standardizzazione che, proprio
perché non richiede grande partecipazione al lavoratore, non pone problemi di verificabilità; non
lo assocerebbe certo a quello dei manager o dell’alta dirigenza e neppure a quello di un comune
impiegato o persino di un garzone dotato di una qualche autonomia. Dal punto di vista
dell’impresa, all’opposto di quello del lavoratore, non esiste un grande interesse ad instaurare un
rapporto potenzialmente continuativo con lavoratori di questo tipo, mentre la potenziale
continuatività è una struttura essenziale per il funzionamento del contratto per lavori diversi.
Vi sono molte ragioni per essere estremamente critici, pur tenendo conto dei vincoli di
realizzabilità, per un’organizzazione e per un uso del lavoro di questo tipo, che certamente
dovrebbe essere ridotta al minimo. La pastorale del lavoro non dovrebbe perciò essere indirizzata
solo ai lavoratori ma, anche se non soprattutto, ai datori di lavoro.
Detto questo, è importante però insistere su quale atteggia mento, quali relazioni si dovrebbero
instaurare tra lavoratore e impresa per realizzare un assetto diverso, quale formazione dovrebbe
darsi e quale ottica dovrebbe adottare il lavoratore per poter realizzare un assetto diverso: se il
lavoro è un diritto, comporta però ben precisi obblighi. Occorre di nuovo recuperare il ruolo ed il
significato del lavoro per la vita della persona. E l’essere realisti su cosa vuol dire la vorare oggi, il
prescindere da queste dimensioni, si potrà dimostrare molto stupido quando si dovrà far i conti con
il fatto che questo è anche il tipo di lavoro che ci verrà più facilmente sottratto, e su cui cadranno
più pesantemente i costi della concorrenza dei paesi dell’Est Europa e di quelli in via di sviluppo
dove questo tipo di lavoro costa molto di meno e forse, da un punto di vista equitativo (di
equilibrio tra Nord e Sud e tra Ovest ed Est), vale molto di più.
La dottrina sociale della Chiesa ha sempre avuto attenzione ai meccanismi di interazione. Da
un lato, essi incidono sulle possibilità di, e sulla effettiva realizzazione della, scelta di che tipo di
persona essere; d’altro lato, determinano le situazioni in cui le persone si troveranno ad operare.
Questi due aspetti non sono completamente separabili ma, come si è sostenuto, è pericoloso
trascurare le loro diversità.
Una volta eliminati i fraintendimenti non v’è poi tanta contrapposizione tra questo tipo di teorie
e le posizioni solidaristiche che si ritrovano nella dottrina; la differenza sta piuttosto nell’analisi dei
problemi che il solidarismo deve risolvere. Da un lato c’è chi mette l’accento sulle buone intenzioni, i buoi propositi, l’essere attenti agli altri, ecc. Ma il magistero afferma che: «[La solidarietà]… non è un sentimento di vaga compassione o di superficiale intenerimento per i mali di
tante persone, vicine o lontane» (Sollicitudo rei socialis, n. 38). Queste cose sono certamente
desiderabili e in molti casi necessarie ma nel documento citato si aggiunge: «Al contrario, è la
determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune: ossia per il bene di tutti e
di ciascuno, perché tutti siamo veramente responsabili di tutti» (ibid.). C’è dunque, a mio modo
di vedere, un problema di modi e regole di interazione che occorre affrontare e risolvere; per formulare questo problema occorre sia definire quali sono gli ambiti di autonomia individuale, sia
definire quali sono le strutture che, pur rispettando il decentramento delle decisioni e l’autonomia
dell’individuo, producono risultati che soddisfano condizioni reputate desiderabili.
C’è gente che muore di fame ed è certamente necessario far sì che abbia da mangiare, ma a
seconda di come questo viene fatto si possono indebolire i meccanismi che hanno prodotto
questa situazione o aggravarli e sembrerebbe che ristabilire le condizioni ed i meccanismi che
consentono a ciascuno di usare la propria autonomia in modo da non trovarsi a morire d’inedia
sia almeno altrettanto importante dell’intervento d’urgenza. Ma di nuovo, questo mette in
evidenza il problema di come le regole e le condizioni di interazione inducono i singoli ad usare
della propria autonomia e, in un certo senso, di quanto l’azione sociale debba essere sussidiaria
rispetto a quella individuale. La Centesimus annus afferma: «una società di ordine superiore non
deve interferire nella vita interna di una società di ordine inferiore, privandola delle sue
competenze, ma deve piuttosto sostenerla in caso di necessità ed aiutarla a coordinare la sua
azione con quella delle altre componenti sociali in vista del bene comune» (n. 48).
7. Alcuni dubbi sul ruolo dell’esegesi della dottrina sociale
Si è argomentato sopra che molti dei temi della ricerca teorica recente in economia, in
particolare l’attenzione per la persona e per i meccanismi di interazione, appartengono in realtà
alla tradizione del pensiero cattolico; ciò che le rende diverse è soprattutto il linguaggio e
naturalmente l’ottica adottata in queste discussioni. Se vi è stato un influsso della teoria, non è
consistito nell’introduzione di nuovi temi ma piuttosto in un arricchimento dell’articolazione e degli
strumenti di analisi. Per fare un’analisi di questo tipo occorrerebbe comparare documenti
elaborati in periodi diversi, vedere quali sono stati i cambia menti e quando questi sono avvenuti.
D’altra parte mi sembra molto improbabile che, direttamente, come membri dei comitati
preparatori, o indirettamente, attraverso l’incidenza dei loro contributi su come si fa e cosa si
studia in economia su questi problemi, i maggiori teorici del momento non abbiano avuto un
qualche influsso soprattutto sui documenti più recenti.
Anche in questo caso, sembra necessario fare distinzioni a seconda dei livelli a cui viene
elaborata la dottrina sociale. L’incidenza della teoria sulla dottrina, nella misura in cui è avvenuta,
c’è stata per quanto riguarda il magistero pontificio. Mi sembra più limitata quella sul magistero
episcopale, e, forse sorprendentemente, ma qui occorre ribadire la scarsità di conoscenze in
materia di chi scrive, ancora più limitata sul lavoro di esegesi.
Ho molti dubbi invece sul fatto che la dottrina sociale abbia influenzato il modo in cui si studiano questi problemi in ambito scientifico.
A mio avviso questo è un riflesso della scelta del tipo di linguaggio utilizzato ed il tipo di
interlocutori a cui ci si rivolge l’esegesi. Anche qui occorre fare una distinzione tra il linguaggio
che è lecito, e probabilmente è necessario, usare in documenti del magistero e quello che invece
si dovrebbe usare da parte di chi ne fa un’analisi. Da quest’ultimo punto di vista, mi sembra che,
da un lato, l’analisi tenda a privilegiare quelle che vengono viste come le implicazioni pratiche,
assai più che non la struttura teorica del discorso; d’altro lato, la mia impressione è che non ci sia
alcuna attenzione per alcuni tipi di interlocutori. Queste scelte hanno costi che non sono sicuro
siano stati attentamente valutati e, almeno potenzialmente, assai più alti di quanto si pensa.
Molti dei concetti cardine utilizzati dal magistero nei suoi documenti non sono quelli usati nella
letteratura scientifica corrente. Per fare un esempio, è molto difficile trovare in questa letteratura
un concetto come quello di bene comune, largamente usato nei documenti; non che esso sia interamente assente, ma viene variamente declinato in termini di efficienza paretiana, funzione sociale del benessere, funzione di scelta collettiva e così via. Nella letteratura scientifica, quando
vengono usati, si insiste sui limiti di questi concetti (questo è il caso di quello più facilmente
definibile, di efficienza paretiana) e sui problemi di esistenza, di interpretazione e di identificazione o costruzione (questo è il caso delle funzioni di scelta collettive o delle funzioni del
benessere sociale) ma sono queste le cose di cui si discute. Sembrerebbero perciò essere queste
le categorie che dovrebbero essere poi usate dagli esegeti, almeno se vogliono rendersi
comprensibili a un certo pubblico.
E, non resistendo alla tentazione di un secondo esempio, mi pare molto più articolata la
posizione sull’impresa della Centesimus annus2 di quanto non dica, soprattutto a proposito del
lavoro e del profitto, certa esegesi. Leggendo quest’ultima, non si capisce qual è il livello di conoscenza della moderna teoria dell’impresa, teoria che la vede essenzialmente come un luogo di
interazione tra agenti con obiettivi potenzialmente in conflitto e allo stesso tempo con ragioni di
cooperazione, o del ruolo che il profitto ha anche nei modelli economici più tradizionali. Certamente si può ben sostenere che se profitti più alti vogliono dire consumi ostentativi per il «padrone», salari più bassi per i lavoratori e maggior disoccupazione, tutto ciò sia riprovevole; in
questo caso però, non si sta parlando del profitto ma essenzialmente dello scopo perseguito dal
padrone e dei modi in cui è realizzato, il consumo opulento anche a scapito di quello di sussistenza dei lavoratori. Credere che il problema dell’impresa, del profitto e del lavoro si riduca a
questo mi sembra colpevolmente ingenuo.
Usare concetti più precisi o circoscritti pone certamente problemi per i documenti del
magistero che hanno come destinatario un pubblico ovviamente eterogeneo; questa ragione non
c’è per le analisi esegetiche e, d’altra parte, non sono sicuro che senza questa precisione si possa
andare molto avanti nell’analisi. Vi è certamente un delicato problema di equilibrio, sia nella
scelta delle persone a cui rivolgersi, sia nella scelta dei temi da mettere in rilievo. Ma insisterei
sul fatto che il tipo di problemi a cui ho fatto cenno sopra, anche se astratti e non immediata-
2
«Scopo dell’impresa… non è semplicemente la produzione del profitto, bensì l’esistenza stessa
dell’impresa come comu nità di uomini che, in diverso modo, perseguono il soddisfacimento dei loro
fondamentali bisogni e costituiscono un particolare gruppo al servizio dell’intera società. Il profitto è un
regolatore della vita dell’azienda, ma non è l’unico; …» (n. 35).
mente applicabili, siano importanti per discutere problemi urgenti come la fame nel mondo; a
detta di specialisti, molte di queste situazioni dipendono dal tipo di strutture istituzionali e di interazione utilizzate in alcune società; certamente il precetto di dar da mangiare all’affamato ha
un’ovvia precedenza ma da solo, nella sua versione più immediata, non impedisce che situazioni
di fame si ripresentino e addirittura si aggravino.
Quel che a prima vista può apparire un doveroso esercizio dell’opzione preferenziale per i
poveri può più semplicemente essere un’opzione a vantaggio di alcuni poveri e contro altri
poveri, ad esempio degli occupati contro i disoccupati o dei poveri delle generazioni presenti
contro i poveri delle generazioni future, di quelli dei paesi ricchi contro quelli dei paesi poveri o
viceversa. Nell’appoggiare interventi di politica economica, soprattutto quelli a carattere
redistributivo, occorre esser ragionevolmente sicuri di aver individuato tutti coloro che vengono
colpiti, di aver accertato che sia in effetti possibile raggiungere gli effetti desiderati, scontando sia
le eventuali reazioni di chi viene danneggiato, sia i comportamenti strategici dei potenziali
beneficiari, qualunque sia il giudizio che si dà su queste reazioni, ed identificato chi e in che
misura verrà avvantaggiato. E in queste discussioni, per quanto importante sia la teoria, la pratica
(e non le implicazioni pratiche tratte dai teorici) intelligente, così rara, è insostituibile
Personalmente non sono tanto disturbato dal fatto che interventi redistributivi comportino
confronti interpersonali, che non è sempre facile giustificare, quanto dal fatto che non solo si
fanno questi confronti, spesso senza renderli espliciti, ma di solito non si è affatto chiari, e
comunque non lo si è sempre, su quanto grande ed incerto è il campo di variazione dei possibili
risultati di questi interventi. Esplicitare l’esistenza di questa incertezza, possibilmente quantificarla
e assumersene gli oneri e le responsabilità mi sembra una condizione minima che deve essere
soddisfatta da chi è mosso all’azione da esigenze etiche.
Quello che forse trovo più disturbante è il fatto che l’aver abbandonato o non molto coltivato il
proprio campo, essenzialmente culturale e teorico, per una spuria ricerca di rilevanza pratica che
chi opera nel concreto saprebbe, o dovrebbe saper, fare meglio, è forse la causa principale della
scarsa incidenza che la dottrina sociale, ma forse più in generale il pensiero della Chiesa, sulla
persona e sulle istituzioni in particolare, ha avuto sulla letteratura scientifica. Io conosco parte di
quella economica sulla teoria della scelta, ad esempio, ma credo che la situazione sia analoga in
alcuni ambiti filosofici. Ho fatto sopra un esempio dei problemi per trovare uno spazio per l’idea
di libertà, ma si sarebbe potuto usare il caso di cosa voglia dire che le scelte di una persona hanno
un significato, di cosa costituisca ragione di una scelta. Il problema è che mentre gli schemi che
essi usano sono aperti a questi interrogativi, alcuni economisti li studiano, ma molti altri, e anche
tra i più rilevanti, non li vedono neppure più, e condividono anzi un’impostazione che sembra
negare la stessa esistenza di queste dimensioni della persona e vederli non come problemi di
libera scelta ma come il campo privilegiato dell’operare di meccanismi esogeni. Ovviamente questa impressione può essere dovuta a mia incomprensione o semplicemente a mia ignoranza.
Ammesso che i documenti del magistero non possono essere il luogo di analisi scientifiche
rigorose in campi per di più ancora ben lungi dall’aver trovato una qualche sistemazione definitiva, non saprei dove andare a trovare la letteratura scientifica, e forse soprattutto quella filosofica, ispirata alla dottrina che, scendendo sul loro terreno ed usando il loro linguaggio e la loro
struttura concettuale, abbia, se non messo in crisi, almeno sollevato problemi per impostazioni diffuse in ambito scientifico e filosofico che sembrano palesemente in contrasto con essa, che le
abbia costrette a ripensare la propria posizione.
A mio modo di vedere questo è un po’ sorprendente e solleva alcuni interrogativi sugli
atteggiamenti che oggi sembrano prevalere nei confronti del lavoro puramente intellettuale
soprattutto se confrontato con l’impegno nel sociale. Di nuovo devo premettere che non ho conoscenza sufficiente in materia. Per un incolto come me, l’immagine della Chiesa medioevale è
popolata di monaci variegati, dagli agostiniani ai domenicani, dai benedettini ai francescani che,
vivendo in un periodo non meno caratterizzato da povertà e miseria del nostro, in cui carestie,
pestilenze e guerre non erano sconosciute, con livello di reddito pro-capite risibili per gli standard
di oggi, non solo si impegnavano, magari con qualche limite (ma gli storici ci ammoniscono dal
fare storia con i se), per i poveri, i diseredati e gli ammalati, ma, oltre a realizzare importanti
innovazioni nelle tecniche agricole e in quelle di amministrazione, fondavano e difendevano,
qualche volta con un po’ di asprezza, delle proprie scuole, innanzitutto teologiche, ma anche filosofiche e scientifiche. Quanto della logica in uso fino a pochi decenni fa è stata raffinata da loro?
Sarebbe difficile oggi associare qualcuna delle maggiori correnti filosofiche a uno qualsiasi di
questi ordini. E il loro lavoro, ma anche quello degli altri che operano in campo teorico e culturale,
mi sembra avere prevalentemente un interesse interno alla Chiesa, importante per noi ma privo di
incidenza fuori dal nostro ambito.
Perché? Sono queste cose meno importanti oggi di allora?
Sarebbe interessante sapere se esistono stime sulla percentuale delle risorse e dell’attenzione
che nel medioevo, in quelle condizioni, veniva destinata al lavoro puramente intellettuale, allo
sviluppo e al rafforzamento della formazione culturale, e sapere come è cambiata venendo
all’oggi. La mia impressione è che ora tale quota sia decisamente inferiore. Sono veramente dei
beni inferiori o addirittura di Giffen?
Allora la Chiesa aveva un ruolo che oggi non ha più; la Chiesa non ha oggi gli stessi compiti
che doveva porsi allora; la Chiesa non ha più la responsabilità che deriva dall’essere uno dei
pochi centri che sentono l’esigenza ed hanno la possibilità di elaborare questo tipo sapere. Oggi
gran parte della cultura viene elaborata fuori dalla Chiesa e credo che in questo non ci sia nulla di
male.
Ma il confronto tra la situazione di allora e quella di oggi mi pare mettere in rilievo un altro
fattore: allora si riteneva che anche chi si muoveva in una prospettiva essenzialmente religiosa
dovesse interessarsi di tutto il campo dello scibile nel senso che nulla fosse estraneo all’uomo
religioso proprio in quanto religioso. Ciò esponeva a molte tentazioni, specialmente fuori
dall’ambito teologico, di scorcia toie e soprattutto di subordinazione del campo puramente
scientifico e dell’interpretazione della natura che sono state duramente contestate in seguito.
D’altra parte sembrava mettere in evidenza che non esiste tanto uno specifico territorio
d’indagine religioso, ma piuttosto un’ottica che chi si muove in una prospettiva religiosa adotta
nell’indagare un qualsiasi campo; ci possono essere oggetti d’indagine che sono di interesse quasi
esclusivo di chi si muove in questa prospettiva, si pensi all’ambito strettamente teologico, mentre
non lo sono per chi si muove in una diversa prospettiva, ma sembrerebbe non essere vero l’inverso.
Ho il sospetto che oggi si tenda invece ad affermare che c’è un terreno di indagine proprio di
ciò che è religioso, distinto se non separato dal resto del terreno culturale e scientifico. Se ci si
muove in quest’ultima prospettiva, si è portati a trascurare ciò che non rientra in questo ambito
specifico, e dunque a trascurare le interazioni con chi si muove in una prospettiva diversa ma
sugli stessi temi. Il proble ma è che non ci si può aspettare che questa cultura necessaria mente
adotti l’ottica, anche solo antropologica, di maggior interesse per la Chiesa. La mia impressione è
che molti dei temi rilevanti, per il cristiano ma non solo, abbiano così finito per essere fortemente
relegati in una regione guardata con sufficienza o almeno con sospetto nell’ambito della cultura
prevalente. E forse non ci si deve meravigliare del proprio isolamento quando lo si constata nei
congressi mondiali sulla popolazione, ad esempio, dove semplicemente si esprime ciò che si era
culturalmente preparato prima.
Se invece non esiste uno specifico religioso, ma un’ottica religiosa che pervade tutto, questa
concentrazione perderebbe la sua ragione d’essere. Certamente ciò che accade in altri campi
potrebbe porre interrogativi e problemi difficili a chi condivide un’ottica religiosa e che potrebbe
evitare chiudendosi ad essi; l’interazione potrebbe non essere affatto facile ma fornirebbe un
terreno di confronto importante e potenzialmente produttivo di conseguenze anche sugli
atteggiamenti, sugli argomenti studiati e sui metodi e gli indirizzi adottati anche da chi non condivide una tale ottica.
Naturalmente si possono rifiutare tutte le impostazioni moderne che si trovano in contrasto con
la propria visione. Con ciò, non cesseranno di porci domande. Il punto è che comunque finiremo
per usarle e verranno comunque impiegate da coloro che lavorano in quegli specifici campi;
questo è sicuramente vero per l’economia in cui gran parte dei fondamenti teorici sono
fortemente debitori verso filosofie e impostazioni metodologiche predominanti nel mondo
anglosassone che ci sono almeno in qualche misura estranee. D’altra parte, la gente che lavora
in quei campi è lungi dall’essere perversa o in qualche senso meno persona di noi o avere una
ricchezza di sentimenti e di ideali inferiore alla nostra. Come abbiamo cercato di interagire con
loro e con questo sviluppo culturale? Quali domande siamo stati capaci di formulare e abbiamo
posto in modo rilevante per coloro che lavorano in questi ambiti?
Anche se, ma ciò è discutibile, ciò che ci interessa di più è il sociale, è vero che, proprio in
quest’ottica, l’impegno, soprattutto quello di persone che non sono esperte nella pratica
intelligente quanto nella teoria, debba essere concentrato sull’intervento nel sociale e non essere
invece assai più attento alle dimensioni culturali, a quelle dimensioni che poi, in modo obliquo e
magari distorto, generano anche il clima culturale in cui tutti noi viviamo? Dopo tutto, non è
questo il clima che influenza fortemente il modo in cui si formano le persone e che rende poi
necessario, secondo alcuni, rendere sensibili gli individui al sociale?
SIMONA BERETTA
LA SCIENZA ECONOMICA E IL PROBLEMA DELLO SVILUPPO
Nel presente contributo intendo sviluppare il rapporto fra corpo dottrinale e le discipline
economiche, con particolare riferimento al problema dello sviluppo. Secondo le indicazioni, il
contributo sarà articolato in tre punti (non equipesanti, per le ragioni indicate nello svolgimento):
1. quale incidenza o quale fecondità ha avuto la dottrina sociale sulla storia della nostra
società?
2. quali impieghi ha fatto la dottrina sociale dei risultati scientifici?
3. quali indicazioni di approfondimento scientifico l’approccio disciplinare riceve dalla dottrina?
1. Quale incidenza o quale fecondità ha avuto la dottrina sociale sulla storia della nostra
società?
La risposta che io mi sento di dare al primo quesito è innanzitutto contenuta in quanto la
Dottrina Sociale dice di sé e in come definisce il suo compito nel mondo. I punti che mi sembrano
più direttamente pertinenti sono:
a) La dottrina sociale prende avvio dalla fede; avvalendosi di tutti gli apporti delle scienze e
della filosofia, si propone di assistere l’uomo nel cammino di salvezza (Centesimus annus, n.
54).
b) Il messaggio sociale del Vangelo non è una teoria, ma fondamento e motivazione per
l’azione (n. 57). Inclusa fra le azioni - mi pare importante ricordarlo - è l’azione del fare ricerca
scientifica.
c) La dottrina sociale si caratterizza sia per la sua dimensione interdisciplinare e per la sua
dimensione pratica, sperimentale. «Essa si situa all’incrocio della vita e della coscienza cristiana
con le situazioni del mondo e si manifesta negli sforzi che singoli, famiglie, operatori culturali e
sociali, politici e uomini di stato mettono in atto per darle forma e applicazione nella storia» (n.
59).
d) Nell’esame del corso degli eventi, la dottrina sociale non intende dare giudizi definitivi (n.
3).
e) Come lo scriba divenuto discepolo sa trarre dal suo tesoro cose nuove e cose antiche, così
nel valore permanente del suo insegnamento si manifesta il vero senso della tradizione della
chiesa. Di tali cose, nuove e antiche, che si incorporano alla tradizione fa parte anche l’operosità
feconda di milioni di uomini, che, stimolati dal magistero sociale, si sono ispirati ad esso in ordine
al proprio impegno (n. 3).
f) La dottrina segue da vicino la questione sociale non per imporre una sua concezione, ma per
avere cura dell’uomo; non dell’uomo astratto, ma di ciascun uomo concreto e storico (n. 53); si
noti che, per aver cura di ciascun uomo concreto e storico, è indispensabile che gli attori della
dottrina sociale sono i milioni di uomini sopra ricordati.
g) Si tratta di un messaggio credibile nella testimonianza delle opere, prima che nella sua
coerenza interna (n. 57).
Dunque, la stessa vita, concreta e storica, della Chiesa nel mondo fa parte del tesoro da cui la
forma scritta della dottrina attinge; al medesimo tempo, la dottrina educa ed accompagna la vita
del popolo di Dio. Insomma, temo non sia possibile distinguere l’incidenza e la fecondità della
«dottrina - testo scritto» dall’incidenza e fecondità della «dottrina - tradizione e vita», e forse
nemmeno appropriato,. Ciò che distingue la dottrina sociale dalle tante teorie è la sua natura
unitaria, il suo essere allo stesso tempo riflessione teorica e movimento reale di persone che, per
fede, annunciano la salvezza e (almeno per fragili cenni) la rendono sperimentabile.
Non è un caso che, anticipando quel che la chiesa dice per sintetizzare il suo compito e la sua
dottrina in materia di sviluppo, «la Chiesa… dà il suo primo contributo alla soluzione urgente del
problema dello sviluppo quando proclama la verità su Cristo, su se stessa e sull’uomo,
applicandola ad una situazione concreta» (Sollicitudo rei socialis, n. 41), «preparando la venuta
del suo Regno e anticipandolo pur nelle ombre del tempo presente» (n. 48).
2. Quali impieghi ha fatto la dottrina sociale dei risultati scientifici?
Il secondo quesito -non vorrei averlo banalizzato- ha anch’esso una prima risposta ovvia: è
evidente che il genere letterario della dottrina sociale non è indicato ad esibire raffinatezze
analitiche; anzi, potrebbe essere pericoloso valutare quanto avanzata è la dottrina sulla base di
quanto sono state utilizzate le risultanze scientifiche delle diverse discipline (anche perché ricerca
economica avanzata rischia troppo spesso di essere sinonimo di alla moda).
La Chiesa, esperta in umanità, rivela il suo genio non tanto nell’impiegare, nella dottrina
sociale, i risultati scientifici (questo lo san fare tutti, anche i pagani); il suo genio sta piuttosto nel
porre e nel dare voce alle domande più umane che muovono dal di dentro le discipline. Meglio
ancora: alle domande che muovono il lavoro, concreto e storico, dei ricercatori.
3. Quali indicazioni di approfondimento scientifico l’approccio disciplinare riceve dalla
dottrina?
Più che l’approccio disciplinare in quanto tale, è il lavoro scientifico delle persone (delle
persone concrete e storiche: il mio e il tuo) a ricevere ricchissime indicazioni di approfondimento
dalla dottrina sociale. Su questa terza domanda mi permetto di esemplificare quali indicazioni la
dottrina sociale suggerisce in merito all’analisi scientifica dei processi di sviluppo economico.
L’urgenza di una visione realistica del processo di sviluppo è unanimemente riconosciuta, non
essendo secondo la natura dell’uomo l’abbandonarsi alla pessimistica conclusione che i
meccanismi di sviluppo siano impermeabili all’azione umana. Certo è che l’ottimismo dei decenni
per lo sviluppo, associato ad una concezione del sottosviluppo come arretratezza dovuta a
mancanza delle risorse tipiche di paesi sviluppati e, conseguentemente, dello sviluppo come
meccanismo dinamico attivabile con adeguati trasferimenti di risorse, è ormai definitivamente
tramontato. Oggi, gran parte degli studi che hanno per oggetto i processi di crescita economica
tendono a sottolinearne la natura endogena e a studiare i meccanismi cumulativi che descrivono
le ragioni per cui diversi sistemi economici sperimentano un ritmo più o meno veloce di crescita;
di conseguenza, la teoria della crescita che oggi va per la maggiore non ha per oggetto immediato
lo studio dei problemi di sviluppo economico dell’umanità (in senso concreto e storico), anche se
non manca di avere ripercussioni sull’atteggiamento e sui contenuti di coloro che affrontano
operativamente i problemi dei paesi poveri.
In quanto segue, si parlerà di crescita per intendere quel sottoinsieme di eventi economici
osservabili che riguardano fenomeni (più o meno) misurabili, quali le dimensioni di elementi del
sistema economico (il reddito procapite, per esempio) o la composizione strutturale del sistema
stesso (grado di industrializzazione). È - giustamente - alla crescita che fa riferimento la maggior
parte dei modelli che tentano di misurare e spiegare la dinamica dei sistemi economici.
Si userà la parola sviluppo per indicare l’incremento della capacità di una popolazione a far
aumentare in modo durevole e stabile il proprio benessere in forza di cambiamento mentali,
culturali e di comportamento che costituiscono le precondizioni di tale incremento (Perroux). Lo
sviluppo, dunque, non dipende tanto dal trovare le combinazioni ottimali delle risorse e dei fattori
di produzione dati, bensì dal suscitare e utilizzare risorse e capacità nascoste, disperse o male
utilizzate (Hirshman). Insomma, la questione dello sviluppo concerne cultura, atteggiamento e
decisioni degli attori; la loro azione produce il cambiamento, in quanto individuano nessi,
allacciano connessioni, colgono opportunità. Si noti che nel linguaggio corrente - anche se non
nelle riflessioni scientifiche più accorte - la parola sviluppo non indica una azione, un agire
umano; la parola sviluppo ha finito per denotare quasi esclusivamente l’esito o il fine dell’azione
stessa: una cosa, e non l’azione di un soggetto. Per inciso: analogo trattamento oggettizzante è
stato riservato alla parola lavoro.
La dottrina sociale è geniale, invece, nel porre i termini delle questioni economiche a partire
dalla sua esperienza nell’umano. Gli elementi di una definizione realistica di sviluppo e di una
possibile politica per lo sviluppo contenuti nella dottrina sociale possono essere così riassunti:
a) la natura del processo di sviluppo è la partecipazione all’opera della creazione, attraverso il
lavoro;
b) il processo di sviluppo è mosso dalla coscienza e responsabilità del bisogno, proprio e del
prossimo;
c) lo sviluppo è il concreto svolgersi, nello spazio e nel tempo, di azioni che producono un
cambiamento nella realtà;
d) lo sviluppo, come ogni cambiamento, comporta dei rischi e rende necessaria la solidarietà
fra persone e fra gruppi.
I quattro punti sopra elencati non mancano di implicazioni analitiche e pratiche, che possono
essere - sia pur brevemente - suggerite.
La natura del processo di sviluppo è la partecipazione all’opera della creazione,
attraverso il lavoro
Al centro del processo di sviluppo c’è l’uomo, chiamato a «dominare» la terra (Laborem
exercens, n. 6), cioè a partecipare all’opera della creazione (n. 25). Il lavoro (la capacità
dell’uomo di rinnovare, riorganizzare, inventare, cambiare) è infatti la chiave di tutte le questioni
sociali (n. 3).
Alla luce della dottrina sociale, si può dire che lo sviluppo è un nuovo modo di lavorare.
Questa definizione ricomprende anche i molteplici aspetti dello sviluppo che la scienza economica
ha via via sottolineato: l’aspetto tecnico (produttivo e organizzativo) che i classici hanno così
mirabilmente messo in rilievo; il riferimento alla figura dell’imprenditore innovativo, alla
Schumpeter. Ma si tratta di una definizione assai più generale, come si può documentare.
Attraverso il lavoro, l’uomo e gli uomini partecipano all’opera della creazione: la principale
risorsa dell’uomo è, insieme alla terra, l’uomo stesso (Centesimus annus, n. 32). Ci sono alcune
azioni chiave che caratterizzano lo sviluppo così definito:
a) il prendere (nel senso fisico dell’acquisire un dato, ma anche nel senso di prendere atto
della situazione);
b) il comprendere (attraverso questa azione il dato diventa risorsa, cioè un bene nel senso
economico; ad esempio, il dato immateriale compreso diventa informazione, cioè risorsa);
c) il connettere (la risorsa viene messa in relazione al bisogno, proprio e del prossimo, e viene
usata per soddisfarlo. Produzione, consumo e investimento si collocano qui, come esempi di
azioni che connettono risorse e bisogni; vale la pena di osservare che tali tre azioni, pur
costituendo l’oggetto normale dell’analisi economica dello sviluppo, non possono esaurire, dal
punto di vista analitico, le azioni di partecipazione all’opera della creazione);
d) l’informare (nei suoi diversi sensi, ma soprattutto nel senso di dare forma, di dare ordine
alla realtà; in altre parole, lo sviluppo ha anche una dimensione esplicitamente progettuale).
Così caratterizzato, il processo di sviluppo consiste essenzialmente nel creare nessi: nessi con
il dato (il dato inanimato, cioè gli elementi naturali e le loro trasformazioni avvenute nel passato) e
nessi con le persone. Questo secondo tipo di nessi è particolarmente interessante da studiare,
perché tende a presentare connotati diversi a seconda che le altre persone siano «dei nostri» (in
senso parentale o comunitario) o «altri». La partecipazione all’opera della creazione comporta
dunque l’esercizio di un potere sulle cose e sulle persone, che non può essere disgiunto da una
responsabilità etica. Specie nelle relazioni di appartenenza (parentale, comunitaria, nazionale) e di
conseguenza nell’esercizio della solidarietà la dimensione etica non è un problema di finalità, ma
di non volontà di dominio.
La dottrina sociale ricorda spesso che la crescita economica è un fenomeno ambivalente:
necessaria per permettere all’uomo di essere più uomo, essa può anche ritorcersi contro di lui
(Sollicitudo rei socialis, n. 28). Ma vale la pena di osservare che anche lo sviluppo non consiste
nel fine buono da perseguire: esso è un processo di partecipazione all’opera della creazione, e il
contenuto dell’azione umana: dunque è un percorso essenzialmente ambivalente. Queste due
affermazioni portano un messaggio più forte della solita idea che non ogni crescita è sviluppo.
L’esistenza innegabile di forze oggettive, di grandi meccanismi di inerzia e di
predeterminazione delle azioni dei singoli e dei gruppi non eliminano la centralità del lavoro umano
nello sviluppo. Anzi, per prova provata la meccanica della crescita non risolve alcun problema:
non elimina, ma aggrava gli squilibri (come si è sperimentato nelle aree sottosviluppate, dove lo
strumento prescelto per dare un contributo allo sviluppo - il prestito internazionale - si è
trasformato in un congegno controproducente; n. 19); non traduce l’abbondanza di beni materiali
in effettivo benessere per gli uomini (super sviluppo con disoccupazione nei paesi ricchi; n. 28).
Il processo di sviluppo è mosso dalla coscienza e responsabilità del bisogno, proprio e del
prossimo
La definizione dei bisogni cui si intende dare risposta (si potrebbe dire: la definizione del
contenuto di bene comune) non sono date a priori; si possono solo cogliere nell’azione. Detto in
un altro modo, non esiste una predefinizione di bene comune che possa essere assunta come il
traguardo cui tendere. La dimensione etica appartiene all’azione concreta nello spazio e nel
tempo, non alla definizione del fine cui l’azione dovrebbe tendere.
Questo ha implicazioni ovvie per quanto riguarda l’azione delle persone e dei gruppi,
ispessimento delle relazioni fra persone (l’azione afferma il valore che la muove); ma non manca
di implicazioni per il funzionamento delle istituzioni, che obbediscono ad un sistema di regole
predefinite e non modificabili istantaneamente e che possono essere «strutture di peccato» (n.
16, ma soprattutto n. 37). L’assolutizzazione della brama esclusiva del profitto e la sete di potere
sono la vera natura del male nella questione dello sviluppo; si tratta di un male morale, frutto di
molti peccati, che portano a «strutture di peccato»; diagnosticare così il male significa indicare
esattamente il cammino da seguire per superarlo.
Dal punto di vista dello studioso dei processi di sviluppo economico, questo è uno spunto di
lavoro potentissimo. Occorre lavorare sistematicamente per comprendere le ragioni per cui la
capacità di prendere, comprendere, connettere e informare mette in moto un processo di
sviluppo; tali ragioni non sono meccanicamente inscritte nella dotazione di risorse, nel grado di
istruzione, nella qualità del sistema giuridico o in quant’altro, ma hanno a che fare con la virtù
degli uomini e, in qualche senso che merita di essere approfondito, anche delle istituzioni.
Lo sviluppo è il concreto svolgersi, nello spazio e nel tempo, di azioni che producono un
cambiamento nella realtà
La partecipazione dell’uomo all’opera della creazione non è per sua natura un processo
lineare: l’uomo fa, disfa, sbaglia, corregge; è tuttavia un percorso oggettivamente sperimentabile
e, per certi aspetti, misurabile.
Su questo versante, le discipline economiche non mancano di essere provocate. In primo
luogo, se lo sviluppo è definito come percorso di cambiamento, nello spazio e nel tempo concreti,
gli approcci di equilibrio rischiano l’inadeguatezza dal punto di vista analitico. Spazio e tempo
fanno molta fatica a stare, contemporaneamente, nell’analisi economica dello sviluppo. La
dinamica dei sistemi economici non segue un funzionamento meccanicistico, e su questo molti
sarebbero d’accordo; ma si può forse dire che neppure gli approcci che applicano allo sviluppo
economico concezioni e modelli derivati dalle scienze biologiche o dalla termodinamica possono
portare lontano nella comprensione del fenomeno dello sviluppo.
Le implicazioni analitico-pratiche della definizione di sviluppo come percorso, come strada,
possono partire dalla riflessione che la strada rappresenta ad un tempo il condizionamento (il
percorso precedente non è irrilevante nelle decisioni economiche relative allo spazio e al tempo
presenti) e l’esito dell’azione. Il processo di sviluppo parte da un dato per modificarlo, ma il dato
non determina ciò che lo seguirà, perché lo sviluppo, partecipazione all’opera della creazione, è
per sua natura il frutto dell’attività umana, esercizio della libertà.
Ecco alcune implicazioni di quanto detto per l’analisi economica della crescita, intesa come
dimensione economica dello sviluppo.
a) le decisioni economiche, in ogni istante, sono azioni condizionate dal dato: la struttura
economica e le istituzioni sociali e politiche. Struttura e istituzioni rappresentano il contesto in cui
l’attività umana si svolge; sono date, in ogni istante, ma sono nel tempo plasmate dall’azione.
L’analisi economica delle istituzioni è peraltro ancora ai suoi primi passi.
b) soggetto della crescita economica sono le persone: individui, gruppi (parentali o di coalizione
di interessi) e anche, in un senso particolare, le istituzioni.
c) le caratteristiche dello sviluppo economico (natura cumulativa, non linearità) attendono di
essere comprese e non solo descritte. Un esempio di suggerimento analitico che proviene dal
prendere sul serio la concezione antropologica che sta alla radice di come la dottrina sociale
comprende il fenomeno dello sviluppo. Le scienze economiche tendono a mettere in risalto la
caratteristica della cumulatività dei processi di sviluppo (spesso riducendo l’osservazione e la
comprensione di questo fenomeno al funzionare di un meccanismo); ora, l’esistenza di
connessioni (relazioni personalizzate e potenzialmente durature) fra i decisori (gli uomini, storici e
concreti, in azione) è una ragione fondamentale della cumulatività, chiarissima nella impostazione
della dottrina sociale e quanto mai trascurata nell’analisi economica.
Corollario: la valutazione del grado di sviluppo in termini relativi (come se gruppi e nazioni
occupassero diverse posizioni sulla medesima strada, lineare e predefinita) è estremamente
pericolosa.
Nello stesso tempo, è invece profondamente vero che il mondo è uno, ed è sempre più
evidentemente interdipendente (n. 19). Con una immagine, si può dire che la strada è di fatto
una, e che il prossimo chilometro è da costruire. In che direzione andrà, per tutti, dipende dalle
azioni libere dell’uomo.
Lo sviluppo, come ogni cambiamento, comporta dei rischi e rende necessaria la solidarietà
fra persone e fra gruppi.
La solidarietà nasce da una appartenenza, talvolta imposta dalle circostanze (interdipendenza),
talvolta scelta e costruita (gruppi di interesse, nel significato pieno della parola interesse e non
nella sua accezione riduttiva di tornaconto). Nella dottrina sociale, infatti, la solidarietà non è un
sentimento che sopraggiunge (o dovrebbe sopraggiungere) alla realtà spazio-temporale, non uno
slancio di benevolenza: è la virtù morale che risponde alla «interdipendenza, sentita come sistema
determinante di relazioni nel mondo contemporaneo... e assunta come categoria morale» (n. 38).
L’appartenenza ad un gruppo di interesse e la solidarietà fra i membri che ne deriva non sono
categorie opzionali nella comprensione e nella valutazione dei processi di sviluppo; anche su
questo le discipline economiche sono provocate a investigare.
Una forma di solidarietà è certamente il disegno e la realizzazione di politiche per lo sviluppo
realistiche e giuste. Il fatto che il primo connotato di qualunque processo di sviluppo sia il
cambiamento (e non l’estensione, più o meno proporzionata, dell’esistente) ha implicazioni sul
modo d’essere delle politiche, che non possono essere l’applicazione meccanica e indifferenziata
di linee di intervento predefinite: se non altro, la storia illustra ampiamente che qualunque
intervento di politica economica teso a raggiungere obiettivi di efficienza e di giustizia
esclusivamente attraverso l’individuazione e la realizzazione di meccanismi provvidenziali
(trasferimenti di capitali, potenziamento di una esportazione-staple, e così via) è destinato al
fallimento.
La definizione di sviluppo come partecipazione all’opera della creazione, cioè come percorso
ambivalente tracciato dall’azione umana, suggerisce il contenuto fondamentale di una realistica
politica per lo sviluppo: il potenziamento della libertà di aggregazione e di intrapresa. Questa
libertà non garantisce di per sé di procedere spediti nel percorso dello sviluppo, ma certamente
pone le condizioni facilitanti la partecipazione all’opera della creazione. La strada dello sviluppo
la si percorre nello stesso momento in cui la si costruisce.
GIORGIO BERTI
L’EVOLUZIONE COSTITUZIONALE.
Mai come nell’ultima enciclica, il papa era intervenuto in maniera così vigorosa a richiamare
l’attenzione su alcune contraddizioni paradossali che sembrano affliggere la nostra epoca e
mettere in crisi concetti e idee che pure fanno irrimediabilmente parte del nostro patrimonio
culturale, come quelli di democrazia, diritti dell’uomo, libertà di coscienza.
Di fronte a prese di posizione su temi che attengono al fondamento stesso della convivenza
civile, appare d’altra parte ben giustificata la legittimazione della Chiesa ad affrontare i problemi
della società, con la pretesa di indirizzarne il cammino; domanda classica, quella su questo tipo di
legittimazione, con la quale il card. Etchegaray aveva aperto il Convegno su «Insegnamento
sociale della Chiesa: principi e nuovi contenuti», tenutosi a Milano, presso l’Università Cattolica,
dal 14 al 16 aprile del 1988, e alla quale egli stesso rispondeva osservando che il contributo della
Chiesa - tra rischio di sottovalutazione della dottrina sociale e speculare rischio di una sua
sopravalutazione - «è, essenzialmente, quello d’educare le coscienze e di fortificare così la base
morale della società».
Se, dunque, il ruolo della dottrina sociale della Chiesa è quello di educare e formare le
coscienze, si può, già a questo livello, individuare il primo punto di contatto tra essa e le discipline
scientifiche che indagano la vita economica, politica e giuridica. Dall’altra parte, si deve
registrare un’influenza che il diritto pubblico ha esercitato sulla dottrina sociale e cioè l’attenzione
nei confronti delle forme in cui l’attività politica e giuridica si esplica, in quanto capace di
indirizzare e determinare i contenuti.
Oggi si parla sovente nel nostro paese di seconda repubblica, quasi con il piacere sottile di
lasciare andare la prima, tanto predicata, quanto tradita, e sopratutto negletta nella sostanza,
quando non nella forma, da quanti dovevano occuparsene, come una cosa troppo scomoda e
difficile. Gli avvenimenti si sono poi sovrapposti alla cattiva coscienza ed alla pessima volontà
degli uomini, e ci troviamo di fronte ad un edificio (che non è però solo quello degli uffici pubblici)
che richiede una ristrutturazione che non sia solo nella facciata. Come sempre, bisogna prendere
le mosse da un atto di cultura, di consapevolezza profonda che va certo oltre le singole idee o i
singoli propositi, oppure le preferenze di persone e di gruppi.
Ci sono molte cose delle quali tener conto e tutte debbono essere ricondotte ad un’unità di
ispirazione. Lo stato non può venire riedificato sul solo potere politico, ma deve essere ripensato
e rifatto sulle libertà e sui doveri delle persone. Non interessa tanto la divisione dei poteri pubblici,
ma l’unità della persona umana, e vogliamo che lo stato sia al servizio di questa unità
fondamentale
Perché questo avvenga, lo stato deve ottenere non tanto consensi, quanto fiducia, deve cioè
essere un complesso di cose in sé affidabile. La fiducia poi non basta dichiararla, occorre
conquistarla giorno per giorno. Allora la legittimità dello stato nasce da questa fiducia, non dalla
forza o dal potere stabilito. Il contrario può essere ancora sostenuto da chi si attarda in vecchie
credenze.
Pertanto non si deve coltivare neppure la ricerca della legittimità o della legittimazione dei
governi o degli stati. Anche questo è un problema superato dai tempi: ogni società è politicamente
responsabile e consapevole e neppure l’uso legale della forza potrebbe incidere in qualche modo
in questa consapevolezza, che deriva dalla coscienza delle libertà e dalla necessità di viverle in
comune con gli altri. Ognuno ha dentro di sé, direbbe Nagel3, il personale e l’impersonale, se
3
T. Nagel, Equality and Partiality, Oxford 1991.
stesso e la società in cui vive. Il primo e decisivo foro della politica è dunque la persona. Fino a
che punto e in quale modo e in quale misura possia mo allora esteriorizzare il sentimento o la
parte di comunità o di collettività che è in ciascuno di noi? Come possiamo metterci sulla strada
che conduce ad una uguale sollecitudine per tutti?
Non si costruisce un ordine accettabile al di fuori del principio di solidarietà. Questa è la
condizione perché dalla persona e dalla sua alterità sia fatto defluire un ordine sociale accetto a
tutti. C’è dunque, all’inizio, l’esigenza di alcunché di unanime, di accetto da tutti. Le separazioni o
le divisioni in maggioranza e minoranza non sono che passaggi-mezzi per ritrovare questa
fondamentale unanimità.
Nessuna delega perpetua, dunque, ad istituzioni; nessun procedimento di approvazione
collettiva dà legittimità alle istituzioni, che non divengono buone solo perché in esse si incarna una
certa maggioranza di persone di persone e di opinioni o di interessi.
«La libertà rinnega se stessa, si autodistrugge e si dispone all’eliminazione dell’altro quando
non riconosce e non rispetta più il suo costitutivo legame con la verità» si legge nell’ultima
enciclica del papa Giovanni Paolo II, che continua la sua critica al relativismo dei valori
giungendo ad affermare che il diritto cessa di essere tale, quando non è più solidamente fondato
sull’inviolabile dignità della persona, ma viene fatto dipendere dalla volontà del più forte.
È su questo terreno che si colloca una prima indicazione di approfondimento scientifico che il
diritto pubblico può ricavare oggi dalla dottrina sociale, l’invito cioè a riflettere seriamente sui fini
della città dell’uomo. Da questo punto di vista, in realtà, il papa, seppure marcando i toni, si
mantiene nel solco della tradizione della dottrina sociale se è vero che lo stesso tipo di
preoccupazione e di atteggiamento morale e intellettuale sembra essere agevolmente
riscontrabile in tutto il pensiero cattolico di questo secolo circa il fondamento e i fini dello stato.
«Il valore di uno stato non dipende dalla forma del suo governo, ma dalla virtù dei cittadini che
ne fanno parte» si legge nel discorso di apertura del card. Dalla Costa alla Settimana sociale del
1945 che aveva per tema «i cattolici e la Costituente», frase che riassume forse nel modo più
trasparente l’atteggiamento morale e intellettuale con il quale i pensatori cattolici si apprestavano
ad affrontare l’esperienza costituente. I cittadini, appartenenti ad un popolo per definizione
cattolico, forse in virtù di tradizione più che per consapevole e fattiva adesione di tutti, dovevano
finalmente entrare nell’agone politico. La politica, diceva il Dalla Costa «è il governo del popolo;
è l’amministrazione dello stato, è la scienza tanto necessaria di procurare il bene comune».
Fatte queste affermazioni di principio, che già peraltro contenevano in se stesse il nucleo
fondamentale di un preciso indirizzo culturale, quel convegno andò però oltre e più in profondità.
Si poneva anzitutto l’interrogativo se dalla Costituzione dovesse essere escluso il fine dello stato
e se la Costituzione stessa dovesse essere puramente formale, non incorporando in sé il fine dello
stato, appartenente all’ambito materiale. Il formalismo allora doveva essere ripudiato, giacché
«La Costituente e la Costituzione cadono anch’esse sotto il dominio dei fini dello stato» (G.
Graneris). Lo stato, società inferiore, doveva rendere sensibile in tutto la sua appartenenza alla
societas generis humani. Il fondamento spirituale dello stato risiedeva nell’unità cosmica, la
quale non doveva subire attentati dalle società minori, e quindi dallo stato. Quest’ultimo perciò
non doveva vivere in un assurdo isolamento, fonte di odio e di oppressione, e, solo rinsaldando
nelle sue leggi fondamentali la superiore unità del genere umano, esso avrebbe aiutato la persona
umana nel raggiungimento dei propri fini.
Quali allora i compiti dello stato? Il primo in successione sarebbe quello di procurare il
benessere dei cittadini nell’ordine economico e nella forma giuridica. Il secondo, servire alle
superiori finalità, tutelando i valori della persona e vegliando sulle esterne condizioni indispensabili
alle altre forme di vita umana (morali, religiose, ...). Il terzo, funzionare da anello di congiunzione
tra gli individui e la superiorità del genere umano (G. Graneris).
La Settimana del 1945, nell’articolazione e nella successione delle varie lezioni, compone un
quadro completo e suggestivo non solo dei problemi di fondo allora affrontati nella nuova realtà
politico-istituzionale, ma anche dei diversi sentimenti, sensibilità e professionalità e competenza
scientifica dei relatori: quasi la registrazione dell’indagine sullo stato e sul diritto della parte
cattolica della dottrina italiana specializzata nello studio delle istituzioni. Questo fu certo un
avvenimento da apprezzarsi non solo sotto il profilo storico ma anche in relazione all’esperienza
di oggi, nella quale riemergono così frequentemente gli interrogativi affrontati allora. Per la
prima volta infatti la cultura cattolica si è trovata a misurarsi con immediatezza con le difficoltà
della ricostruzione dello stato; ha dovuto cioè affrontare la traduzione in formule, o soltanto in
proposte, dei principi o dei postulati della coscienza, della cultura e dell’esperienza del mondo
cristiano.
Si comprende così come da parte di tutti, ma di alcuni in particolare (ad es. Messineo e
Lanza), la prospettiva della nuova Costituzione sia stata vissuta e pensata anzitutto, se non
soprattutto, in chiave di relazione tra diritto naturale e diritto positivo. Chi era il signore del potere
costituente? Se questo signore era il popolo pensato come sovrano, occorreva mettere a nudo la
fonte primaria di questa sovranità, proprio per razionalizzarla nella sua origine e per conoscerne la
legittimazione rispetto al grande compito da affrontare: il che voleva dire scoprire anzitutto la
relazione profonda tra l’investitura sovrana e i compiti e gli obblighi coerenti con questa
investitura. Lo stato diviene così l’ambito nel quale questa sovranità trova, più che la sede, la sua
struttura sensibile, ed esso allora deve recare evidenti le tracce dell’origine sovrana ed esserle
costantemente fedele nel corso del processo storicizzante.
Si insiste molto dunque sui fini dello stato: non già nella scia dello stato etico ovvero dello stato
nazionale che domina la società alla stregua di principi artefatti o ricavati da interpretazioni
spesso arbitrarie del principio di nazionalità o della storia nazionale, ma perché lo stato ha ragione
d’essere in quanto esso tuteli i valori autentici del popolo e realizzi nei rapporti giuridici i principi
fondamentali della convivenza. Questa è una linfa ben viva nel popolo italiano, che trova una
fondamentale ragione di unità proprio nella tradizione cattolica.
Prendendo le mosse da tutto ciò, si fanno emergere dei principi di fondo: il carattere naturale e
comune a tutti gli stati; la subordinazione dei poteri ai fini dello stato; il carattere naturale della
comunità internazionale e dei rapporti tra le nazioni. E subito ne derivano le linee maestre del
processo di conoscenza: stato e diritto sono in rapporto di derivazione, il secondo dal primo, in
quanto però lo stato sia l’espressione di una società naturale; sono i diritti della persona umana
che danno giustificazione della funzione protettiva e della funzione integrativa e coordinatrice
dello stato. La negazione della tirannia e della subordinazione dell’uomo al potere va di pari passo
con l’apertura dello stato ai rapporti reciproci nell’ambito di una comunità universale.
2. Diritti fondamentali
Il potere costituente appartiene dunque al popolo come diritto a determinare la forma di
governo e la legge di investitura del potere, ossia l’assetto costituzionale dello stato. Pertanto il
potere costituente incontra dei limiti nell’ordinamento naturale, il quale precede ogni altro limite,
nonché nella volontà del popolo, e nei rapporti con le altre società sovrane. La volontà popolare
limita le facoltà dell’assemblea costituente, però la stessa volontà popolare è limitata in quanto
subordinata all’ordinamento naturale e alle esigenze del bene comune.
A questa visione del potere costituente si riattacca la configurazione dello stato come funzione
di giustizia nei rapporti economico-sociali: si afferma espressamente che la struttura organica
dello stato, espressione della società civile e quindi del popolo organicamente inteso, non può
andare disgiunta dalla protezione della persona umana secondo un intento di giustizia sociale e
attraverso l’interazione dell’ordinamento giuridico-politico e di quello economico-sociale.
Si fanno avanti così i diritti fondamentali dell’uomo, che sono originari e poggiano anzitutto sul
dovere etico generalizzato. Questi diritti sono intoccabili e anche irrinunciabili da parte dei loro
stessi portatori. Si collocano in questa prospettiva le sofferte parole dell’ultima enciclica laddove
si segnala la «sorprendente contraddizione» di «un’epoca in cui si proclamano solennemente i
diritti inviolabili della persona e si afferma pubblicamente il valore della vita» e nel contempo «lo
stesso diritto alla vita viene praticamente negato e conculcato, in particolare nei momenti più
emblematici dell’esistenza, quali sono il nascere e il morire». Gli attentati alla vita, dice il papa,
rappresentano «una minaccia frontale a tutta la cultura dei diritti dell’uomo… una minaccia
capace, al limite, di mettere a repentaglio lo stesso significato della convivenza democratica: da
società di “conviventi”, le nostre città rischiano di diventare società di esclusi, di emarginati, di
rimossi e soppressi».
Da queste premesse di fondo si fa sgorgare la distinzione tra ciò che è assoluto e ciò che è
essenzialmente storicizzabile. La classificazione dei diritti dell’uomo costituisce già un passaggio
alla storicizzazione che avviene appunto attraverso la loro definizione e la loro attuazione. Si
misura allora, anche in questa versione della storicità dei poteri e dei diritti, la distanza non solo
dalle concezioni totalitarie (nessuno può asservire i diritti umani), ma anche dalle dottrine liberali,
giacché i diritti che lo stato deve proteggere e coordinare sono appunto innati e sono tra loro
coerenti non secondo un criterio di potere politico, ma appunto nella luce della persona.
Sembrerebbe che, riflettendosi sull’integrità della persona umana, questi diritti si aggiustino a
vicenda, in modo che nessuno diventi così pesante da scompensare la coesistenza delle chances
dell’uomo. È assai significativo che il diritto al lavoro compaia fin dall’origine nella dottrina
sociale come attuazione e potenziamento della personalità e strumento di esplicazione della
missione dell’uomo. Ed è significativo che le libertà ottocentesche vengano, per così dire,
raccolte in un superiore e riassuntivo diritto alle libertà (sane e oneste): e che il rispetto della
coscienza altrui possa esprimersi nella «prudente tolleranza di ciò che non è obiettivamente
conforme a verità e giustizia».
Questa impostazione, tutta tenuta sul piano dell’ascendenza naturale o divina dello stato, rende
già in un certo senso secondario il discorso sulla forma istituzionale e sulle strutture organizzative.
Prima si debbono enunciare i principi (lo aveva già rilevato il Mortati nello scritto sulla Costituente
del 1945), e poi da questi principi debbono dedursi le norme secondarie per opera dell’interprete.
I principi hanno assolutezza e quindi esprimono una barriera in confronto alla volontà dello stato:
enunziare diritti e doveri delle persone nei confronti dello Stato è pertanto preliminare alla
definzione delle forme organizzative. Passando a queste, il loro principio ispiratore nasce dalla
composizione di due cose apparentemente contradditorie: il controllo del potere senza esautorarlo
e il conferimento ad esso di forza e di garanzie.
3. Forme organizzative
Il passaggio più importante è però quello nel quale l’attività dell’assemblea costituente viene
posta al confronto del principio rappresentativo. Non basta invero che il popolo elegga i suoi
rappresentanti, ma occorre che esso sia messo in grado di esprimere continuamente ed
estesamente il proprio pensiero politico. La volontà popolare insomma non può soddisfarsi della
rappresentanza, ma deve rispecchiare il diritto originario del popolo di imporre delle norme e dei
limiti all’assemblea, la quale così non esaurisce in sé la struttura costituente, giacché questa
comprende anche il popolo ed è quindi una struttura complessa. Democrazia rappresentativa e
democrazia diretta debbono perciò comporsi saggiamente.
Che la volontà popolare non debba degenerare in una dittatura della maggioranza, ma debba
conciliarsi con i diritti delle minoranze e dei più deboli, proprio in ragione della democraticità dello
stato e dell’osservanza dei diritti, appare nella dottrina sociale come alcunché di implicito
nell’organicità del popolo, colta nel momento in cui esso si affaccia alla politica attiva. Egidio
Tosato affermò nel 1945 che «il governo della maggioranza è sopportabile solo se i diritti della
minoranza vengono rispettati»; anzi questi ultimi diritti dovevano essere costituzionalmente e
rigidamente garantiti; donde la rigidità della costituzione e la necessità di un procedimento che
includesse un numero di voti superiori a quello necessario per la legislazione ordinaria, appunto
perché la decisione finale comprendesse anche la volontà della minoranza.
Inoltre, proprio perché «il governo della maggioranza non si tramuti nella dittatura della
maggioranza e la minoranza non venga perseguitata, calpestata e soppressa» è fondamentale la
funzione giurisdizionale anche come giustizia costituzionale.
Il progetto costituzionale era un’occasione troppo importante per la riflessione sullo stato
anche dal punto di vista della tradizione culturale cattolica: fare la Costituzione significava dare la
prima e fondamentale evidenza storica allo stato e al suo ordinamento ed è chiaro che tutti i
motivi e i passaggi di una teoria e di una pratica dello stato andassero tenuti presenti in tale
circostanza.
Il problema costituzionale di fondo che la dottrina sociale si trovò ad affrontare fu allora quello
di proporzionare la Costituzione alla struttura della sovranità e di far seguire l’ordinamento alla
persona umana, secondo gli insegnamenti del personalismo.
Lo stato è il tutore del bene comune, ma è nel popolo che risiede originariamente il potere
statale. In quali forme poi concretamente il potere venga esercitato non è questione su cui la
dottrina sociale si pronuncia: «quando si tratta di questioni puramente politiche, ad esempio della
forma migliore di costituzione dello stato o della sua amministrazione, si possono avere opinioni
diverse senza con questo andare contro la legge morale» (Immortale Dei; cfr. anche Gaudium
et spes), purché siano rispettati i limiti invalicabili al potere statale posti dal diritto naturale e
divino. Viene qui in rilievo il problema della tolleranza e il diritto a non eseguire le leggi che una
coscienza morale rettamente orientata giudica inaccettabili. In questa direzione si colloca l’invito
rivolto anche da ultimo con la Evangelium vitae ad «obbedire a Dio piuttosto che agli uomini»
(n. 68; cfr. anche Pacem in terris), il che dovrebbe tradursi sul piano giuridico nella salvaguardia
per chi ricorre all’obiezione di coscienza non solo da sanzioni penali, ma anche da qualsiasi danno
sul piano legale, disciplinare, economico e professionale (n. 74).
Per quanto riguarda invece la resistenza attiva si richiede coerentemente con detta
impostazione che «dove i cittadini sono oppressi da un’autorità pubblica che va al di là delle sue
competenze, essi non rifiutino ciò che è oggettivamente richiesto dal bene comune» rimanendo
però «lecito difendere i diritti propri e dei concittadini contro gli abusi dell’autorità, nel rispetto dei
limiti dettati dalla legge naturale e dal vangelo» (Gaudium et spes, n. 74), perché «lo sappiamo:
l’insurrezione rivoluzionaria - salvo nel caso di una tirannia evidente e prolungata che attentasse
gravemente ai diritti fondamentali della persona e nuocesse in modo pericoloso al bene comune
del paese - è fonte di nuove ingiustizie, introduce nuovi squilibri e provoca nuove rovine»
(Populorum progressio, n. 31).
4. Democrazia e bene comune
L’influenza della dottrina sociale, fattasi particolarmente sentire nel momento della
preparazione della Costituente, riemerge sotto angolature più specifiche e in qualche misura più
limitate negli anni dell’attuazione costituzionale. Si potrebbe dire che essa si giochi tutta tra gli
orizzonti vasti dei problemi di carattere pregiudiziale, di principio e le problematiche interne alla
società in quanto rivolta all’azione politica, e cioè nel processo interiore di passaggio dalla società
allo stato formale e quelle dei rapporti tra questo stato e la comunità internazionale. Non si
concede nulla o quasi alla cosiddetta ingegneria costituzionale e ai giochi formali che impegnano i
politici nell’esperienza di governo e nelle discussioni intorno agli assetti politici, al rapporto
maggioranza-minoranza, anche se, beninteso, questi dibattiti svolti nelle sedi dei partiti e in quelle
ufficiali dello stato non mancano di influire nell’evoluzione della stessa dottrina sociale.
La nota costante rimane quella del bene comune di cui si continua a discutere non solo come
se si trattasse di un punto di riferimento obbligato e, per così dire, rituale, ma proprio perché dal
relativo principio scaturivano imperiosamente delle direttrici di pensiero e di azione. Era
certamente arduo, e lo è tuttora, coordinare il principio-fine del bene comune con una piattaforma
democratica, dove i contrasti ideologici non si sopiscono ed anzi obbligano a decisioni e prese di
posizione necessariamente parziali, o quanto meno dirette a far prevalere interessi di parte,
tramutati o riletti come interessi della generalità.
Sul terreno pratico, l’idea del bene comune deve anzi mettersi alla prova in confronto alla
persistente ideologia dell’interesse generale, così familiare alle impostazioni filosofico-politiche
del liberalismo e delle sue prosecuzioni socialistiche. Quanto meno il bene comune ha il suo
campo di coltura nella sostanza della vita sociale, quando invece l’interesse generale scaturisce
da una meccanica istituzionale, dove ha sommo risalto proprio il contrasto tra maggioranza e
minoranza e tutto viene fatto dipendere dalla sottomissione della minoranza a ciò che la
maggioranza vuole e impone.
Il bene comune, una volta messo a fuoco nell’agone culturale e politico di forze contrastanti,
doveva necessariamente imporre la fuoriuscita della progettazione istituzionale dai consueti
campi di battaglia dello stato liberale borghese, dove tutto si risolveva in un rapporto cittadinostato che premiava comunque il governo della maggioranza e che rendeva privilegiate formule
istituzionali, di solito di stampo accentrato e comunque assai poco coordinate con le autonomie
sociali e con quelle comunitarie. Non la politica in quanto tale, e cioè come campo di lotta e di
sopraffazione di ideologie e di intenti disancorati da ogni prova di coerenza con ispirazioni ideali e
con interessi sociali effettivi, ma una politica che sortisca appunto da una coralità di forze culturali
e sociali, perché solo questo consentirebbe il dialogo occorrente a scoprire nella vita di tutti i
giorni le approssimazioni più veraci al bene comune.
Il passaggio alla dimensione politica esprime anche una richiesta attuale dell’uomo: una ripartizione più
grande delle responsabilità e delle decisioni. Tale legittima aspirazione diventa più manifesta man mano che
cresce il livello culturale e aumenta il senso della libertà, e l’uomo si rende meglio conto che, in un mondo
aperto su un avvenire insicuro, le scelte d’oggi condizionano già la vita di domani. Nella Mater et magistra,
Giovanni XXIII sottolineava che l’accesso alle responsabilità è un’esigenza fondamentale dell’uomo, un
esercizio concreto della sua libertà, una via per il suo sviluppo, e indicava come, nella vita economica e in
particolare nell’impresa, tale partecipazione alle responsabilità debba essere assicurata. Oggi la sfera è più
vasta, estendendosi essa al settore sociale e politico dove deve essere istituita e intensificata una
ragionevole partecipazione alle responsabilità e alle decisioni. Certo, le scelte proposte alla decisione sono
sempre più complesse; molteplici le considerazioni da tener presenti, aleatoria la previsione delle
conseguenze, anche se scienze nuove cercano di illuminare la libertà in questi momenti importanti.
Tuttavia, sebbene talvolta si impongano dei limiti, questi ostacoli non devono rallentare una più diffusa
partecipazione al formarsi delle decisioni, come alle stesse scelte e al loro tradursi in atto. Per creare un
contrappeso all’invadenza della tecnocrazia, occorre inventare forme di moderna democrazia non soltanto
dando a ciascun uomo la possibilità di essere informato e di esprimersi,. ma impegnandolo in una
responsabilità comune. … La libertà che si afferma troppo spesso come rivendicazione di autonomia
opponendosi alla libertà altrui, si sviluppa così nella sua realtà umana più profonda: impegnarsi e
prodigarsi per costruire solidarietà attive e vissute (Octogesima adveniens, n. 47).
Sono chiari in questo intervento del magistero i nuclei del dibattito che si svilupperà negli anni
successivi e che dura tuttora: la nascita di un’idea di responsabilità per le decisioni che
impegnano l’umanità tutta intera e le generazioni future, la ripartizione delle responsabilità, la
connessione sempre più avvertita tra libertà e responsabilità individuale e sociale, il fiorire delle
esperienze di volontariato, il nascere e crescere dell’idea di una solidarietà che si estende oltre i
confini del gruppo di appartenenza e oltre la propria generazione. Sotto questo profilo l’impegno
dei cattolici non è rimasto sempre infruttuoso anche sul piano delle acquisizioni giuridiche.
5. Partiti, corpi intermedi, organizzazione internazionale.
Il prevalere della visione sostanziale del rapporto stato-società allontana prospettive di governo
o di strutture di governo capaci di per se stesse di imporre precise direttive allo svolgersi della
vita collettiva. Si scopre in tutto ciò una democraticità di fondo, forse più indotta che voluta con
determinazione, secondo la quale ogni scelta politica finale doveva essere tributaria verso molte
mediazioni, e cioè verso molte interpretazioni; figlia, in altri termini, del protrarsi del colloquio tra i
soggetti sociali e le istituzioni politiche.
Le premesse culturali proprie della dottrina sociale portavano alla valorizzazione sostanziale
della politica, alla sottomissione delle figure giuridiche formali a quei principi di diritto naturale
che, indipendentemente da accentuazioni organicistiche, miravano alla fine alla persona umana
come punto di partenza e di arrivo del ciclo giuridico dello stato: non possiamo sbarazzarcene
proprio ora, quando la caduta dei vecchi credi politici mette a nudo ciò che è essenziale e
universale nei rapporti interindividuali e nel processo di mantenimento, di difesa e di
miglioramento delle condizioni della società.
La riflessione, nel tempo successivo alla Costituzione, fu condotta da un canto sui partiti, i
sindacati e le formazioni sociali, ad iniziare da quelle più elementari e perciò stesso più importanti
come la famiglia, e dall’altro sulle dimensioni internazionali del vivere sociale e quindi della stessa
esperienza dello stato. Sono queste le strutture più sensibili alla funzione della persona e
dell’aggregazione sociale nel suo svolgersi verso la dimensione politica. Ciò che viene prima dello
stato formale (formazioni sociali) e ciò che viene dopo di esso (società internazionale o
universale) si congiungono direttamente, dimostrando come l’esperienza dello stato nazionale
liberal-borghese e del diritto come emanazione esclusiva di questo stato sia transeunte e caduca
proprio al confronto delle intense dinamiche delle società storiche.
Del resto, l’ingresso dei valori nell’agone politico avviene per circuiti diversi da quelli propri
delle istituzioni formali, e soprattutto mediante le espressioni immediate della politicità dell’uomo
che sono le forme associative, nella più larga accezione di quest’espressione. Forse non ci sono
valori e diritti personali che, prima di attendere la protezione delle strutture dello stato, non
abbiano il loro referente immediato, o il loro specchio, in figure di tipo associativo, le quali alla
fine ne esprimono la razionalità, la forza di espansione, i limiti e la dimensione ultraindividuale.
La stessa sovranità dello stato va perciò intesa come l’espressione di una serie di poteri diffusi
e tutti originari, proprio perché manifestazioni della società come intreccio di relazioni dinamiche
che hanno come punto di riferimento la persona in quanto portatrice di diritti e di doveri e cioè di
responsabilità. Il lavoro cui fa esplicito richiamo l’art. 1 della Costituzione rappresenta il distacco
dell’organizzazione sociale e politica da ogni potere derivante da privilegi economici e politici e lo
svincolo dello stato da un predominio della politica inteso come esercizio di potere libero e
irresponsabile. Di fronte a questa sovranità, si attenua anche il peso o la funzione della
democrazia parlamentare, giacché questa non riesce a raccogliere le espressioni delle
organizzazioni sociali e politiche e delle comunità locali, che non si subordinano altro che in parte
ad autorità centrali. Il corpo elettorale, nel quale si concentra la funzione sovrana, finisce così
con l’essere l’insieme delle forze sociali determinate e organizzate attorno ai loro centri e distinte
secondo le varie attività, i vari fini e i vari interessi a patto che queste non diventino però delle
società «totalmente chiuse», vittime di quello spirito di esclusività intollerante nei confronti delle
differenze e delle minoranze. Sotto questo profilo risulta particolarmente significativo
l’atteggiamento della Chiesa circa la presenza dei cattolici in politica, che da affermazioni
inizialmente orientate a favore dell’unità dei cattolici4 ha presto avvertito gli «inevitabili limiti e un
certo logoramento» dell’esperienza unitaria appellandosi al pluralismo per orientare su strade
diverse l’impegno dei cristiani5.
6. Governo, sovranità, società
Secondo l’ispirazione giusnaturalistica, il diritto raggiunge la società e prima di tutto gli uomini,
non necessariamente attraverso la sovranità positiva dello Stato: anzi, questa sovranità positiva si
è nel passato contrapposta all’ingresso nella società dei principi fondamentali del diritto naturale e
dei valori da esso espressi.
Si può quindi ben ipotizzare una sorta di nuova democrazia fondamentale che riveli, attraverso
i principi della Costituzione, le sue radici giusnaturali. Le carte internazionali dei diritti umani
riconoscono implicitamente dal canto loro l’universalità di questi diritti (e correlativi valori) e la
loro matrice extra-statale.
La dottrina sociale d’altra parte, per la natura stessa della Chiesa, era stata fin dall’origine
improntata ad una visione universalistica del diritto e dell’organizzazione sociale e non poche
indicazioni di ulteriori approfondimenti scientifici potrebbero in questo campo essere ricavati dal
diritto pubblico in una prospettiva di sempre più deciso abbandono del monismo a pro appunto
dell’universalismo, attraverso gli strumenti della cooperazione giuridica internazionale.
Una nuova e moderna democrazia fondamentale si pone dunque in correlazione immediata
con questi presupposti di fondo, i quali del resto vogliono un nuovo realismo: come potremmo oggi
espungere dalla politica (in senso largo) non solo i partiti e i sindacati, ma con questi il grande
spazio della comunicazione? Il discorso semmai sta proprio nell’allontanare il pericolo che tutte
queste forze si riversino a loro volta negativamente sulla libertà e sui diritti delle persone, se non
altro con la manipolazione delle opinioni. Bisogna quindi combattere questi effetti allo stesso
modo in cui si debbono respingere istituzioni astratte ed eteroimposte.
7. Politica sostanziale e principio etico
Mentre la visione liberale o borghese, ma anche quella marxiana, approdavano a concezioni
formali dello stato e del rapporto stato-società, con conseguente predominio di legittimazioni
formali e valorizzazione dei processi rappresentativi pure formali, la concezione cattolica mette in
evidenza e accredita razionalmente e anche storicamente il valore sostanziale dell’organizzazione
politica. L’essere stato di un popolo è un fatto naturale regolato da leggi non positive, e da ciò si
estrae immediatamente il concetto che il perfezionarsi storico dello stato si produce attraverso la
piena interazione delle aggregazioni sociali, secondo una linea che potremmo ancora ben dire di
democrazia fondamentale. E poiché questa fondamentale linea è penetrata nella Costituzione,
attraverso il riconoscimento delle formazioni sociali e delle autonomie locali, potremmo anche
raggiungere la conclusione che gli stati di oggi vivono sull’intersezione tra una democrazia diretta
sostanziale e una democrazia rappresentativa formale. Infatti, nella Costituzione, tramite la
centralità parlamentare e la rappresentanza popolare, avvertiamo anche l’eco di quest’interazione
essenziale, o se vogliamo di una dialettica, che non si supera se non in parziali e forse occasionali
approdi, tra la democrazia sostanziale e quella formale.
L’espansione della personalità umana nella società e nello stato non potrebbe certo soddisfarsi
degli istituti della rappresentanza politica formale, e sarebbe addirittura soffocata se.la
4
5
L’unità dei cattolici nella vita politica, in Enchiridion Cei, vol. I, 163 ss.
Consiglio permanente Cei, La Chiesa italiana e le prospettive del Paese, 23 ottobre 1981, in
Enchiridion Cei, vol. III, 788.
legittimazione politica, come del resto si ricava dalla storia passata, si producesse
indipendentemente dalla partecipazione totale delle persone. Onde potremmo osservare che la
democrazia sostanziale ovvero fondamentale costituisce la base indefettibile della democrazia
formale o rappresentativa. Questa, alla fine, è legittima fintanto che non si distacchi e si renda
indipendente dalla democrazia sostanziale. Potrà alterare le sue forme, ma dovrà sempre rendersi
compatibile con la base reale della sua legittimità. Così la forma dello stato o la forma del
governo può anche venire mutata fino al punto in cui lo stato formale non rompa gli ormeggi che
ne assicurano l’aderenza allo stato sostanzia le. Lo stato formale può adempiere al suo compito di
garanzia e anche, quando sia necessario, di promozione e di sviluppo, purché rispetti i limiti della
sua legittimità; esso può circoscrivere o limitare le libertà dei singoli solo in quanto rispetti a sua
volta i limiti della sua libertà e quindi del suo potere.
Per tornare alla rappresentanza, non può certo approvarsi il perdurare di un’esclusiva e
solitaria relazione tra cittadino e stato attraverso un meccanismo elettorale fatto operare in modo
del tutto indipendente dalla funzione dei corpi intermedi: non sarebbe altro che una via per
ripristinare una sorta di autolegittimazione del potere politico, cui la società sarebbe chiamata a
dare né più né meno che un consenso o un’approvazione. Né le istituzioni formali potranno mai
essere tanto neutrali e per così dire sospese sopra la società, da inseguire un sogno di efficienza,
che sarebbe pur sempre esenzione da responsabilità e indifferenza all’etica dei rapporti. Ciò che
conta semmai è che i corpi intermedi, e soprattutto i più importanti di essi, tra i quali i partiti, i
gruppi, i sindacati, le centrali dell’opinione pubblica e della comunicazione e le stesse imprese si
facciano permeare dal dovere etico e dal principio di giustizia, onde i loro comportamenti
sostanziali non trasgrediscano le regole fondamentali, che la Costituzione ha posto in evidenza ma
che nascono nel rapporto essenziale dell’uomo con la società.
Dal punto di vista dello stato, viviamo certamente ora un momento drammatico, giacché
proprio quelle aggregazioni sociali sulle quali ricade la responsabilità della buona vita sociale
sembrano aver perduto la consapevolezza della loro ragion d’essere e, anziché trasmettere i
flussi vitali ai corpi dello stato, si sono abbarbicate ad essi, quasi profittandone ed ammorbandoli,
in un giuoco perverso delle parti. Di qui tutti i mali del centralismo politico, della corruzione, della
perdita di identità e di consapevolezza della propria origine e motivazione fondamentale. Sembra
inutile, oppure ingenuo e illusorio, confidare su riforme operate nei terminali, in luogo di
trasformazioni radicali che dovrebbero invece avvenire in quella democrazia sostanziale, la cui
funzionalità resta affidata alle coscienze e alla fedeltà culturale e comportamentale alle
immodificabili regole della convivenza responsabile 6.
6
Con la collaborazione di M. Agostina Cabiddu.
G IANFRANCO B ETTETINI
LA COMUNICAZIONE SOCIALE
1. Influsso della Dottrina sociale della Chiesa sulla società alla luce delle discipline
relative alla comunicazione
1.1. La debole eco dei messaggi della Chiesa
Soprattutto a partire dagli anni ’70 i mezzi di comunicazione di massa sono stati ben presenti
nella riflessione della Chiesa, anche se non sempre esplicitamente e specificatamente tematizzati:
la loro presenza costante, il loro essere ormai divenuti parti dell’ambiente in cui i soggetti si
formano e crescono è una consapevolezza che traspare da molti dei documenti del magistero. Si
può citare, a titolo di esempio, un passo significativo dell’istruzione pastorale Communio et
progressio (1971) che insieme sottolinea l’importanza della comunicazione e la relativizza,
collocandola nella sua giusta dimensione: la donazione. Dopo avere sottolineato la natura di
«comunicatore perfetto» di Cristo, che incarnandosi si è fatto vicino a chi doveva accogliere il
suo messaggio, l’istruzione pastorale prosegue:
Egli parlava pienamente inserito nel suo popolo, proclamava perciò a tutti, con fortezza e perseveranza, il messaggio divino, ma
adeguandosi al loro modo di parlare e alla loro mentalità, al loro stato e situazione. Del resto “comunicare” comporta qualcosa di più della
semplice manifestazione ed espressione di idee e sentimenti. Infatti, la comunicazione è piena quando realizza la donazione di se stessi
nell’amore; e la comunicazione di Cristo è spirito e vita. (Communio et progressio, n. 11).
«Comunicare», nella sua accezione più autentica, contiene quindi l’idea di comunione, di
partecipazione piena. Questa sottolineatura, insieme alla consapevolezza della pervasività e
accessibilità dei media, porta la Chiesa a una presa di posizione chiara:
sull’esempio degli apostoli, che ricorsero ai mezzi di comunicazione di cui il loro tempo disponeva, oggi la missione apostolica deve essere
espletata anche mediante i mezzi e gli strumenti oggi in uso. Sicché si dovrà dire che non ottempera al mandato di Cristo chi trascurasse gli
enormi vantaggi che questi strumenti apportano nel recare a numeri stragrandi di uomini la dottrina e i precetti evangelici (Communio et
progressio, 126).
Nonostante la chiarezza e la modernità di queste posizioni (più aperte di quelle di molti studiosi
cattolici: la loro eco, e quindi la loro capacità di incidere effettivamente, nel contesto produttivo,
distributivo e sulla riflessione teorica sono state piuttosto limitate.
Se si considerano infatti i quattro settori tradizionali degli studi massmediologici (ovvero
l’emittenza, con lo studio degli apparati produttivi e distributivi e della regolazione dei flussi di
informazione; la ricezione, con lo studio dei comportamenti e degli atteggiamenti di consumo, che
determinano l’interpretazione dei messaggi; i testi, ovvero i messaggi con il loro contenuto e il
loro progetto comunicativo; la riflessione teorica, con la sua tendenza modellizzante e il suo
tentativo di operare delle connessioni tra gli ambiti sopra citati e fenomeni sociali più generali), si
può osservare infatti che non si è verificato un ripensamento, o seppure anche una critica della
dottrina sociale della Chiesa rispetto ai media.
Se a livello teorico si riscontra uno scarso impatto (dovuto probabilmente a scarsa conoscenza,
da parte dei cattolici stessi, prima ancora che da scarso interesse), non si può non riconoscere
alla riflessione della Chiesa sui media la capacità di avere fatto da stimolo, in contesti determinati,
all’impegno di singoli o piccoli gruppi e alla nascita di iniziative di un certo rilievo. Si possono
citare, a questo proposito, tre importanti settori in cui tale contributo si è espresso, spesso con
importanti risultati: l’influenza della cultura cattolica sulla televisione italiana delle origini e
l’importante contributo che l’umanesimo cattolico ha apportato all’idea di servizio pubblico; la
creazione di media cattolici (stampa, radio, televisioni); l’importante ruolo, svolto dai cattolici alla
luce della dottrina della chiesa, nella formazione del pubblico (attraverso cineforum, teleforum),
nella creazione di gruppi di opinione capaci di costituirsi come interlocutori dell’emittenza, nella
formazione a diversi livelli di specializzazione (università, scuole di giornalismo).
1.2. Cultura cattolica e servizio pubblico
Nel breve periodo che va dalla metà degli anni Cinquanta alla metà degli anni Sessanta, il
sistema televisivo italiano sembra ispirarsi nei suoi progetti e nelle sue scelte a quei principi che
comunemente si designano con una felice formula: umanesimo cristiano. Ancor prima che con il
pontificato di Paolo VI l’umanesimo integrale maritainiano informasse dei suoi principi la cultura
cattolica e ispirasse le linee fondamentali del magistero della Chiesa riguardo al problema dei
media (v. Inter Mirifica), un atteggiamento di stampo umanistico era diffuso nelle proposte e
nella gestione della televisione italiana. Ve lo aveva portato Filiberto Guala a cui era stata affidata
la direzione della Rai, amministratore delegato dell’Ente pubblico radiotelevisivo dal ’54 al ’56.
Le linee fondamentali lungo le quali si esprime l’umanesimo cristiano nella cultura televisiva di
quegli anni sono essenzialmente tre:
1) La prima è un atteggiamento mentale alquanto originale nella cultura di quegli anni. È quello
che uno storico laico, Peppino Ortoleva, ha accuratamente sottolineato in un saggio
recentemente apparso sulla rivista «Storia e dossier». Ortoleva sostiene che, a differenza della
cultura laicista e di quella marxista, che esprimevano nei confronti del mezzo televisivo soltanto
diffidenza (la Tv è l’America, è la depressione culturale, è la perdita di valori), nella cultura
cattolica le posizioni nei confronti del nuovo mezzo sono ispirate a una maggiore profondità e
complessità ideologica: proprio quella complessità che si esprimerà compiutamente nelle distinzioni
operate sui problemi dei media e del loro utilizzo nell’Inter Mirifica. Nel pensiero cattolico a
questo riguardo convivono, in una dimensione di contrasto e, quindi, di ricerca continua, il timore
e la speranza. Al timore dell’appiattimento e dello sconvolgimento culturale che la televisione può
produrre si affianca sempre la speranza di poter utilizzare il mezzo a fini pedagogici. Una
speranza alla quale non si può mai rinunciare in nome di quei timori.
2) Un secondo punto nel quale si esprime con assoluta concretezza l’umanesimo cristiano è
l’idea di servizio a cui si rifanno le azioni della politica televisiva degli anni Cinquanta e Sessanta.
Ancora un volta non si può dimenticare la personalità di Filiberto Guala. Egli arrivò in Rai dalla
grande esperienza dell’Ina Casa, il progetto di edilizia popolare che intendeva dare una casa a
tutti gli italiani. Erano quelli tempi di grandi e generosi progetti. Lo spirito dell’Ina Casa fu lo
stesso della Rai. Era lo spirito di un servizio, un servizio messo a disposizione del Paese. In nome
del quale ci si poteva anche indebitare con le banche (come fece Guala) purché fosse salvo il
fine ispiratore di tutta l’operazione che non era il profitto, ma appunto il servizio. Guala lo disse
espressamente, come ha ricordato Gennarini nel primo convegno rievocativo delle origini della Tv
italiana 7, che la televisione non poteva essere un mezzo di divisione tra gli italiani, ma un mezzo di
unione. È molto importante osservare oggi il modo in cui fu concepito, nel primo decennio di vita
della televisione italiana, il suo pubblico. Ben lontani dalle attuali ipotesi mercantili sull’agorà
elettronica, dalle idee di «produzione dello spettatore» che ispirano la filosofia della Tv
commerciale, ma anche dalle tentazioni di organizzazione dell’opinione pubblica, gli spettatori
televisivi venivano considerati una comunità. Comunità creata dalla programmazione televisiva,
ma anche preesistente a essa, organizzata cioè in base ad altre comuni esperienze di ordine
culturale e spirituale. Nei confronti di questa comunità la televisione operava per la sua ulteriore
crescita culturale e spirituale attraverso i programmi che erano un mezzo e non un fine
dell’apparato televisivo. Erano, appunto, un servizio. Non erano certo programmi in cui fosse
7
Si veda Televisione: la provvisoria identità italiana, a cura di G. Bettetini e A. Grasso, Fondazione
Agnelli, Torino 1985.
riconoscibile una precisa ispirazione cristiana, anche se - citiamo sempre Gennarini - un punto
accomunò Guala ai suoi successori, fino a Bernabei: «la convinzione che non dovesse essere
vietato l’ingresso a Dio nei programmi televisivi e che invece si dovesse il più possibile frenare
l’immanentismo etico e il conseguente realismo che, come un’onda in piena, stava montando
nella società italiana». Ma più ancora che nei programmi, nei loro contenuti, l’ispirazione cristiana
di quella televisione si manifestava nel suo progetto generale, in una visione teleologica
dell’attività culturale.
3) Il terzo punto qualificante della gestione del mezzo televisivo negli anni Cinquanta fu quello
della formazione della professionalità. È questo un problema fondamentale per la comunicazione
televisiva, come ci rivela una proposta arrivata recentemente alla ribalta, quella elaborata da
Popper poco prima della sua morte. Se è l’uso del mezzo televisivo da parte dei produttori a
determinarne il valore, non è dunque indifferente all’esito finale la formazione non solo tecnica
ma anche intellettuale ed etica dei produttori. Nella nascita della televisione italiana è noto che
questo problema fu affrontato in maniera radicale con la selezione e la formazione in azienda di
un gruppo di giovani professionisti della comunicazione televisiva. Lo spirito a cui si ispira questa
operazione e che lasciò un segno profondo e duraturo sulla televisione italiana fu quello spirito
cristiano che qualche anno dopo si sarebbe definito conciliare, autenticamente cristiano, cioè, ma
aperto al dialogo con le altre esperienze culturali che ponessero al centro della loro attenzione
l’uomo. È ancora una volta preziosa, al proposito, la testimonianza di Mimmo Gennarini, tra i
protagonisti della vicenda che egli così ricorda: «Guala incitò gli ambienti cattolici e i suoi amici
perché fossero numerose le partecipazioni di giovani dell’area cattolica, ma si rivolse anche alle
Università… Così assieme a un gruppo di portatori di una ispirazione religiosa entrarono anche
numerosi altri meritevoli per ragioni intellettuali e culturali, non del tutto estranei a una concezione
cristiana»8.
La delicatezza dell’operazione leggibile e letta all’epoca, a seconda dei punti di vista, come
integralista o come tatticista non ne mise in pericolo la profondità e la complessità: si trattava,
secondo le testimonianze di Gennarini, non di un’operazione politica, ma di «un tentativo di
inculturazione della fede, in modo tale che dal grande minestrone televisivo sorgessero valori
determinanti, criteri di giudizio e linee di pensiero di un umanesimo cristiano».
I risultati di questo vasto, generoso progetto si sono manifestati nell’ambito della
comunicazione televisiva italiana più a lungo della presenza del suo iniziatore.
1.3. Cattolicesimo e mass media
Il rapporto tra Chiesa e mass media, o più in generale tra cultura cattolica e mass media, si
sviluppa principalmente in tre direzioni, che assumono nell’era contemporanea una diversa
rilevanza. La prima consiste nella possibilità di disporre di spazi di intervento presso i media
«laici», sia con una presenza di operatori (giornalisti, conduttori, programmisti, registi)
cristianamente ispirati, come è accaduto per la Rai delle origini, sia con la richiesta di spazi per
programmi a contenuto formativo e religioso, che è oggi la meno praticata. Una seconda
direzione è quella della creazione di media cattolici, esplicitamente e intenzionalmente ispirati al
magistero della Chiesa e principalmente (benché non esclusivamente) rivolti a un’informazione
intra-ecclesiale; è questo l’ambito in cui si riscontrano i risultati più evidenti, soprattutto nel
settore della stampa cattolica.
Una terza modalità è quella dell’utilizzo dei media come veicoli del messaggio della Chiesa:
nonostante la progressiva secolarizzazione, infatti, non si può non osservare come tanto i viaggi e
i discorsi del pontefice, quanto l’opinione dei vescovi su alcuni importanti fatti della vita civile o su
controverse questioni etiche siano quasi costantemente presenti nei testi dei media. Al di là delle
8
Ibid.
valutazioni sulla strumentalizzazione e/o spettacolarizzazione cui spesso si assiste, in un panorama
mediale in cui prevale nettamente una «visione radicalmente immanentistica dell’esistenza» (per
usare le parole del card. Ruini) e in cui la corsa all’audience è l’imperativo principale, è
innegabile che il Vaticano e i vescovi siano divenuti interlocutori imprescindibili della vita sociale,
culturale e politica, e che i media dedichino loro uno spazio crescente e costante (quasi del tutto
assente dalla copertura dei media, peraltro, è la dimensione comunitaria della Chiesa e il suo
essere radicata nella dimensione locale: questo aspetto emerge invece con grande chiarezza nella
stampa cattolica).
Ci concentreremo qui sul secondo aspetto, dato che il primo è già stato affrontato, e che il
terzo implica più il riconoscimento di una tendenza che effettive possibilità di intervento.
L’istruzione pastorale Aetatis novae del 1992, del Pontificio consiglio delle comunicazioni
sociali, afferma che «il lavoro dei media cattolici non è soltanto un’attività supplementare che si
aggiunge a tutte quelle della Chiesa», e sottolinea la necessità che «la comunicazione sia parte
integrante di ogni piano pastorale perché essa, di fatto, ha un contributo da dare a ogni altro
apostolato, ministero o programma» (n.17).
Al riconoscimento, da parte della Chiesa, della imprescindibilità dell’utilizzo dei media,
corrisponde una solida e longeva tradizione di media, per la maggior parte pubblicazioni, che
fanno riferimento alla Chiesa.
Il panorama della stampa cattolica è ampio e articolato, e un censimento delle testate si rivela
problematico: secondo una stima approssimativa si tratta infatti di circa 3.000 pubblicazioni,
raggruppabili in alcune categorie generali:
a) i quotidiani: i quotidiani cattolici sono tre: «Avvenire», a carattere nazionale, con una
diffusione giornaliera di circa 90.000 copie; «L’Eco di Bergamo», diffuso nella diocesi di
Bergamo, e «Il Cittadino di Lodi», nel territorio lodigiano, rispettivamente con circa 62.000 e
6.000 copie vendute.
È significativo sottolineare che nel 1904 i quotidiani cattolici erano ben 29.
b) i periodici: è questa una categoria variegata, che comprende una serie di realtà eterogenee,
tra cui: - 134 settimanali diocesani, alcuni dei quali hanno più di un secolo di vita e che diffondono
complessivamente 1.200.000 copie la settimana. Tali settimanali possono oggi beneficiare di un
consorzio di servizi tecnico-amministrativi (Consis) creato dalla Fisc (Federazione italiana
settimanali cattolici, nata nel 1966), e di un supplemento dell’agenzia di stampa Sir (si veda sotto)
appositamente realizzato per la stampa delle 227 diocesi di tutta Italia;
- il Gruppo delle edizioni Paoline, con «Famiglia Cristiana», il settimanale illustrato più diffuso
in Italia (più di un milione di copie la settimana) e altre importanti riviste, tra cui «Jesus», mensile
di cultura, e «Il Giornalino», settimanale per ragazzi;
- il Gruppo Messaggero di S. Antonio, la cui omonima rivista mensile sfiora il milione di copie;
- le pubblicazioni associative dell’Azione Cattolica (circa un milione di copie complessive);
- numerose importanti riviste culturali di approfondimento, alcune delle quali godono di
prestigio internazionale, come «La Civiltà Cattolica», «Vita e Pensiero», «Studium», «Studi
Cattolici», «Aggiornamenti Sociali» e altre;
- numerose riviste settoriali di teologia, spiritualità, psicologia, pedagogia, scienza e etica etc.
- alcuni periodici per ragazzi;
- una quarantina di riviste missionarie;
- oltre 300 pubblicazioni devozionali, legate a santuari mariani e altro;
- oltre un centinaio di riviste diocesane (per gli atti di curia, o come organi di informazione
intraecclesiali)
- numerose (oltre 200) riviste e pubblicazioni legate ad associazioni, gruppi e movimenti
ecclesiali
- circa 15.000 informatori parrocchiali (su 25.834 parrocchie esistenti in Italia).
c) le case editrici: l’editoria religiosa è costituita da oltre 200 case editrici, di cui una ventina a
carattere nazionale. Le pubblicazioni raggiungono i 2.000 nuovi titoli l’anno, su 30.000 novità
complessive del mondo editoriale italiano.
L’editoria cattolica pubblica attualmente oltre l’8% dei libri in commercio e ha un fatturato di
300 miliardi rispetto ai 3.500 complessivi del mondo editoriale. I titoli finora editi sono 22.000 su
226.000 della produzione nazionale. Tra le case editrici più prestigiose si ricordano: La Scuola,
Sei, Edizioni Paoline, Piemme, Marietti (oggi però culturalmente trasformata), Città Nuova, Ares.
d) le agenzie di stampa: un importante contributo all’unità tra le testate locali è legato alla
presenza di un’agenzia di servizi giornalistici comuni sorta nel 1951 con il nome di «Servizi
informazioni settimanali» (Sis), che dal 1989 è diventata «Sir» (Servizio Informazione Religiosa);
essa opera in stretta collaborazione con la Federazione italiana settimanali cattolici (Fisc) e con
l’approvazione della Cei. L’agenzia, che esce bisettimanalmente, attua lanci quotidiani via telefax
ai giornali abbonati. Gli utenti sono diverse centinaia, tra giornali, televisioni nazionali e locali,
radio, operatori pastorali e studiosi.
Per quanto riguarda il settore degli audiovisivi si può distinguere:
a) il settore video-cinematografico: l’impegno delle realtà cattoliche nel settore produttivo di
questo settore è ancora, tutto sommato, piuttosto limitato. Ci sono però alcune eccezioni: alcune
società come la San Paolo Audiovisivi, la Elle Di Ci, l’Audiovideo Messaggero di S. Antonio e
altre sono infatti attivamente inserite nel mercato della produzione di videocassette e di strumenti
multimediali (in particolare Cd-Rom). Finora la produzione si è concentrata soprattutto sui
programmi di video-catechesi e di cultura religiosa, ma il settore è in grande sviluppo.
b) emittenti radiotelevisive: le emittenti radiofoniche ecclesiali sono circa 450, riunite nel
Co.Ra.L.Lo. (Consorzio radiotelevisioni libere locali), che produce direttamente (in
collaborazione con l’Ufficio Nazionale per le Comunicazioni Sociali della Cei) la rubrica
settimanale «Ecclesia» messa in onda da tutte le emittenti. Il consorzio ha anche promosso, dal
1992, un’agenzia di informazione radiofonica («New Press»).
Anche le emittenti radiotelevisive fanno riferimento al Co.Ra.L.Lo. Le emittenti che hanno
ottenuto le concessioni sono circa 30. In Lombardia trasmettono «Telenova» e «Bergamo TV».
Da segnalare che dal 1992 «Telepace» (che copre Veneto, Trentino, Romagna, parte della
Lombardia e della Liguria e ha una rete «gemella» a Roma) ha inaugurato un servizio di
diffusione via satellite del magistero del papa, realizzato in collaborazione con il Centro televisivo
vaticano e con Radio vaticana. Il servizio raggiunge tutta l’Europa, il Medio Oriente e parte
dell’Africa settentrionale.
La tendenza, condizionata anche dai piani di assegnazione delle frequenze da parte del
Ministero e dalla necessità di razionalizzare i costi per potenziare gli apparati, è comunque quella
di una sempre maggiore interconnessione e, dove opportuno, di una fusione di testate che
recuperi in una struttura più articolata e organizzata le diverse esperienze locali.
Da questo panorama, piuttosto sintetico rispetto ai caratteri delle specifiche realtà elencate,
emerge la ricchezza e articolazione del contributo che le realtà ecclesiali apportano allo scenario
mediale nazionale (un contributo significativo, ma quantitativamente limitato: il settore della
stampa, che è quello di più antica tradizione e più sviluppato, rappresenta solo il 3% della stampa
nazionale, secondo una stima riportata da «Aggiornamenti Sociali» del 1993).
Due aspetti meritano in particolare di essere sottolineati qui: lo strettissimo legame tra dottrina
sociale della Chiesa e sviluppo dei media cattolici (soprattutto la stampa, come si è visto) e il
forte radicamento dei media cattolici sul territorio, con una valorizzazione non particolaristica
della dimensione locale.
Quanto al primo punto, si può osservare come l’editoria di ispirazione cattolica abbia tratto
ispirazione e ricevuto grande impulso in seguito all’enciclica di Leone XIII Rerum novarum, nel
1891, che porta in primo piano la questione sociale e la necessità, per il cristiano, di impegnarsi
per il miglioramento delle condizioni di vita delle classi più povere. Il giornale diventa così uno
strumento importantissimo di quel movimento sociale cattolico che, ispirandosi alla dottrina
sociale della Chiesa, ha tanto contribuito al miglioramento delle condizioni materiali e spirituali di
vita tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX.
Da più parti è stato sottolineato come la storia dei settimanali cattolici coincida con la storia
del movimento cattolico e rifletta la preoccupazione per una pedagogia cristiana e insieme
l’esigenza di un impegno concreto di solidarietà (impegno che si è tradotto, per esempio, nel
tessuto delle strutture cooperativistiche e nella costituzione delle casse rurali, con cui i cattolici
impegnati nel sociale hanno contribuito a far fronte ai disagi e ai cambiamenti introdotti
dall’industrializzazione). G. Garancini sottolinea, a questo proposito, in un intervento sul volume
per i 25 anni della Fisc dal titolo Informazione e territorio, che i modelli culturali fondamentali di
fine ’800, imperniati sulla dimensione del pluralismo, erano tre: il modello liberale, basato su un
pluralismo concorrenziale; il modello social-marxista, sostenitore di un pluralismo conflittuale; il
modello cattolico, fondato su una tradizione popolare di autonomie locali, fautore di un pluralismo
organico.
Nella Centesimus annus, del 1991, si riassumono e si esplicitano i principi che devono guidare
l’operato dei giornalisti e dei mezzi di comunicazione di ispirazione cattolica, nella direzione di
quella formazione sociale che così intensamente ha caratterizzato la stampa cattolica delle
origini. I due principi fondamentali sono quelli della solidarietà sociale e della sussidiarietà, alla
luce dell’idea centrale della dignità della persona umana (una dignità che rispetta la verità della
persona come essere relazionale, aperto agli altri): una solidarietà territoriale, centrata
sull’impegno a rispondere ai bisogni realmente emergenti, e una sussidiarietà che stabilisce
l’intervento delle istituzioni a sostegno dell’iniziativa sociale.
La stampa cattolica, e questo è il secondo punto da sottolineare, si fa fin dall’inizio portavoce
di un impegno consapevole di traduzione dei valori cattolici in una rete di attività sociali e di carità
operante e operosa: una impostazione fedele e intransigente sui principi, ma appassionata e
coinvolta nella pratica, che il card. Martini ha definito «carità politica». Un impegno
inscindibilmente legato a quella realtà (locale, territoriale) in cui l’azione dei cattolici si sviluppa, e
rispetto alla quale la stampa cattolica fa da punto di riferimento. L’impegno, soprattutto dei
settimanali cattolici, per le culture locali è ben lontano dal particolarismo, poiché l’attenzione è
costante nel richiamare, accanto alla dignità e alla ricchezza che nella dimensione locale si
sviluppano, il collegamento e i comuni valori di cui le diverse realtà locali si nutrono. Una
dimensione locale che nella Centesimus annus viene definita come «la soggettività della
società».
La capacità di elaborare una cultura del territorio, rispettosa delle realtà, dei soggetti, della
cronaca ma anche in grado di rileggere tutto ciò alla luce della dottrina sociale della Chiesa è una
sfida che tutti i media cattolici, non solo la stampa, devono raccogliere dopo un periodo di crisi dei
valori (si pensi alle critiche alle «metanarrazioni totalizzanti» mosse dalla corrente culturale,
dominante negli anni ’80, del postmodernismo) e di eccessiva sudditanza da paradigmi culturali
molto lontani dal messaggio cristiano che ha investito la società nel suo complesso e che tuttora è
dominante.
Una sfida che, insieme alla formazione e alla partecipazione sempre più attiva dei cattolici nei
diversi settori della comunicazione, va raccolta perché la più autentica vocazione dei mezzi di
comunicazione e quella dei cattolici si incontrino i media consentendo maggior forza e visibilità
alla riflessione e all’operare dei cattolici, i cattolici conferendo dignità e spessore al lavoro dei
media.
1.4. La formazione del pubblico
Se, dal punto di vista storico, l’impegno della cultura cattolica nella produzione massmediale si
differenzia significativamente a seconda dei singoli strumenti di comunicazione 9, è però possibile
individuare un ambito più omogeneamente riconosciuto dal concreto agire sociale dei cattolici
come un ambito proprio: quello della formazione e, più precisamente, della formazione degli
autori e degli utenti, come richiamato con chiarezza a proposito dei diversi media anche dal
decreto conciliare Inter mirifica (nn. 15 e 16), e come confermato anche dai successivi
interventi del magistero; ed è soprattutto sotto il secondo aspetto - quello della formazione degli
utenti come contributo alla promozione di una comunicazione autenticamente umana - che la
dottrina sociale sembra aver inciso con maggiore evidenza, non solo perché l’organizzazione e la
formazione relative al momento della ricezione sembrano rispondere più immediatamente di altri
ambiti dell’universo massmediale alla preoccupazione educativa che anima la pastorale, ma
anche perché esse rivestono un’importanza strategica sviluppata con considerevole pragmatismo
fin dagli anni Venti, di fronte al diffondersi del medium cinematografico10.
Nel dettaglio, quattro sembrano essere gli ambiti di intervento più interessanti che hanno dato,
nel tempo, parziale realizzazione a questa indicazione del magistero.
1) Il primo, anche storicamente, si sviluppa a partire dal riconoscimento dell’importanza della
comunicazione cinematografica; pur senza trascurare direttamente la produzione e l’investimento
di capitali nella realizzazione di pellicole destinate al grande pubblico e capaci di svolgere una
funzione evangelizzante, le energie del laicato cattolico si muovono, infatti, sin dall’inizio
soprattutto nella direzione della distribuzione e della organizzazione del consumo. La comunità
ecclesiale sviluppa così, soprattutto nelle campagne e nelle periferie dei grandi centri urbani, una
rete di sale parrocchiali11 che costituiscono il luogo deputato alla fruizione di cinema intesa come
educazione al cinema stesso: educazione del gusto e della sensibilità del pubblico, potenziamento
delle sue capacità critiche ed estetiche, ma anche come formazione della domanda in grado di
condizionare positivamente l’offerta; nello stesso tempo il laicato cattolico agisce sui versanti dei
nascenti organismi istituzionali12, della distribuzione e dell’esercizio 13, nonché della critica14,
anch’essi interpretati come strumenti di moderazione del mercato e insieme come occasioni di
formazione culturale e spirituale del pubblico mediante la promozione della produzione
artisticamente più significativa. Da questo punto di vista non si può dimenticare come lo sviluppo
della pratica del cineforum, articolato anche istituzionalmente 15, si caratterizzi nella sua
9
Come si è visto, televisione, cinema e stampa offrono terreni diversi tanto all’influenza diretta della
dottrina sociale quanto all’azione dei laici professionalmente impegnati
10
Si pensi alla nascita del Cuce (Consorzio utenti cinematografici educativi) nel 1926 e a quella della
«Rivista del Cinematografo» nel 1928.
11
Alla fine della seconda Guerra mondiale sono ancora attive 559 sale cinematografiche parrocchiali; nel
corso degli anni Cinquanta esse diventano più di 5.000; a tutt’oggi nella sola Milano esse sono ancora una
quarantina.
12
Nel 1944 viene costituito l’Ente dello spettacolo.
13
Si pensi al già citato Cuce e all’Acec (Associazione cattolica esercenti cinema), fondata nel 1949.
14
Si pensi, per esempio, alle segnalazioni cinematografiche del Ccc (Centro cattolico cinematografico),
inaugurate a metà degli anni Trenta e alla già citata «Rivista del cinematografo», nonché ai successivi
strumenti critici ospitati spesso sui vari bollettini diocesani. Nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta, e
fino ai giorni nostri, numerose sono le riviste di cultura che, come «Letture», svolgono sistematicamente
una importante funzione di critica cinematografica.
15
L’esperienza italiana del cineforum ha avvio con padre Morlion già sulla fine degli anni Quaranta, e si
sviluppa pienamente nei decenni successivi. Molte le realtà associazionistiche e le pubblicazioni che
raccolgono il lavoro dei cattolici in questa direzione, dalla stessa rivista «Cineforum» (che poi assume un
suo indirizzo extraecclesiale) all’attività dei Cinecircoli giovanili salesiani, del Centro studi cinematografici,
dell’Associazione nazionale circoli cinematografici italiani.
realizzazione culturale di matrice cattolica per una attenzione equamente ripartita tra dimensione
linguistica e dimensione dei contenuti, sviluppando anche una strumentazione critica che si avvale
di discipline che, come la semiotica, vengono inizialmente rigettate dalla critica contemporanea di
estrazione marxista in quanto formaliste, a fronte di una più rigida attenzione ai contenuti
ideologici delle pellicole.
Ma la sala della comunità, che conosce soprattutto negli anni Sessanta e Settanta un grande
sviluppo legato proprio al fenomeno del cineforum, è destinata a subire, negli anni Ottanta e
Novanta, le sue stesse trasformazioni: mentre alcune istituzioni, come - a Milano - il Centro san
Fedele, proseguono la propria attività a livello cittadino, le sale parrocchiali affrontano la crisi del
cinema differenziando la propria attività; in questo contesto strutturale si inserisce, a cavallo della
fine degli anni Ottanta, l’avvio della pratica del teleforum, che tende ad applicare alla
programmazione televisiva il patrimonio di conoscenza teorica e di esperienza educativa
sviluppato nei decenni precedenti nell’ambito dei cineforum e approfondito, nel corso degli ultimi
quindici anni, dallo sviluppo scientifico e accademico delle discipline della comunicazione .
2) Il secondo ambito significativo è, infatti, quello relativo alla formazione dei formatori e degli
operatori; si tratta, in altre parole, dell’opera di insegnamento svolta all’interno dei corsi
universitari e post-universitari che hanno riconosciuto dignità disciplinare ai diversi fenomeni della
comunicazione e dei media non solo in prospettiva scientifica16, ma anche in funzione
dell’approfondimento delle competenze critiche e operative dei professionisti della formazione (in
primo luogo gli insegnanti e gli educatori) e della stessa comunicazione (nella molteplicità delle
figure professionali dei diversi ambiti dell’informazione e dello spettacolo). A questo proposito è
doveroso segnalare due esempi particolarmente significativi: il primo è quello della Scuola di
specializzazione in comunicazioni sociali dell’Università Cattolica, nata negli anni Sessanta su
iniziativa di Mario Apollonio come Scuola di giornalismo con sede a Bergamo, promotrice, negli
stessi anni, dei primi convegni nazionali di studio sulla comunicazione, e attualmente articolata
nelle sezioni di spettacolo, giornalismo e pubblicità presso la sede di Milano: la solida impostazione
teorica che la caratterizza contribuisce alla formazione - anche etica e deontologica - tanto dei
professionisti quanto degli educatori operanti nell’ambito dei media. Il secondo, e più recente,
esempio è quello dell’Iscos, l’Istituto di scienze della comunicazione sociale, fondato in seno
all’Università Salesiana nel 1988 proprio al fine di dare risposta agli interrogativi sollevati dagli
educatori nei confronti del rapporto con i mass media.
3) Un terzo ambito di intervento è, in parte, connesso con quello appena ricordato, di cui
costituisce una sorta di fenomeno di ricaduta; si tratta infatti dello sviluppo di progetti di media
education da attuarsi nella scuola media e media superiore, sia sfruttando tempi e spazi previsti
dai programmi ministeriali, sia anticipando questi ultimi mediante diverse forme di
sperimentazione, spesso rese più agevoli dalla natura privata delle istituzioni scolastiche; i
soggetti protagonisti di questo tipo di azione educativa sono gli stessi insegnanti, spesso in
collaborazione con qualche docente universitario o con altre realtà di ricerca17 coinvolte in vista
dell’aggiornamento necessario, a volte si olatamente, a volte in riferimento ad associazioni di
docenti o di utenti. La tipologia di intervento, abbastanza diversificata seppur finalizzata sempre
allo sviluppo delle capacità critiche degli studenti in relazione ai testi e ai messaggi dei media,
prevede tanto la realizzazione di corsi di aggiornamento per insegnanti quanto la formulazione di
veri e propri percorsi curriculari, mono o interdisciplinari, dedicati ai mezzi di comunicazione di
massa e ai loro linguaggi18.
16
Si veda a questo proposito il punto 2 di questo documento.
17
Si veda, per esempio, l’attività del Centro studi per l’educazione all’immagine.
18
Lo sviluppo della media education in Italia, sia dal punto di vista della elaborazione teorica e
bibliografica, sia da quello della pratica didattica è abbastanza in ritardo rispetto ad altri paesi europei; uno
4) Infine, l’ultimo ambito in cui si riconosce l’azione del laicato cattolico è quello che ha come
protagonisti l’associazionismo e il volontariato; anche in questo caso l’esigenza iniziale è, spesso,
quella di costituire degli spazi auto-formativi nei quali il confronto tra genitori, ni segnanti o
semplici utenti in merito ai problemi sollevati dai mass media sia occasione di un aumento di
consapevolezza critica nei confronti dei loro messaggi e di una personale maturazione umana. Si
tratta, soprattutto, di associazioni familiari, spesso espressione della ricchezza di movimenti
ecclesiali sviluppatisi in Italia dopo il Concilio Vaticano II o, ancora, di insegnanti, accomunati ai
genitori dalla preoccupazione nei confronti dell’erosione che i media, e in particolar modo la
televisione, stanno operando nei confronti delle tradizionali agenzie di socializzazione quali la
famiglia e la scuola.
Associazioni di utenti (come l’Aiart), di genitori (Age, Agesc, Faes, Famiglie nuove, Sidef), di
insegnanti (Adasm, Aimc, Fism, Uciim) e di volontari (Avam) hanno sviluppato, negli ultimi anni,
una considerevole capacità di coordinamento, senza per questo rinunciare a strategie di
intervento diversificate, specifiche di ogni realtà: alle iniziative del Coordinamento nazionale per la
comunicazione sociale e delle sue declinazioni regionali19 si affiancano così le singole iniziative
delle associazioni, che possono essere riassunte nei diversi ambiti della produzione di strumenti
culturali (sussidi, quaderni, materiali per cine e teleforum, convegnistica specializzata), dell’azione
diretta sull’opinione pubblica o sulle stesse rappresentanze parlamentari e, soprattutto, della
partecipazione a quelle forme di controllo delle o di negoziazione con le emittenti televisive che
assumono la forma del Comitato consultivo degli utenti attivato presso l’Ufficio del garante
dell’editoria o del Comitato di attuazione del Codice convenzionale di autoregolamentazione in
difesa dell’utenza minorile sottoscritto dalle emittenti aderenti alla Federazione radio televisioni e
da una ventina di associazioni, cattoliche e laiche.
2. Consonanze tra la ricerca sui media e il magistero della Chiesa
Osservando panoramicamente lo sviluppo del magistero postconciliare sui mezzi di
comunicazione sociale e la riflessione teorica sui mass media dal dopoguerra a oggi, è possibile
cogliere le tracce di un reciproco avvicinamento, benché ciò non implichi una precisa
corrispondenza cronologica, né rimandi a un immediato influsso dell’uno sull’altra. Sul versante
del magistero ecclesiastico possia mo osservare come lo sguardo rivolto ai media sia venuto via
via arricchendosi secondo due direzioni. Da un lato, la riflessione ha acquisito una maggiore
profondità. Al di là della più immediata e superficiale fenomenologia dei media, è stata rinvenuta
una relazione tra mass media e fondamenti teologici della comunicazione.
Questa direzione di riflessione, già evidente nel passaggio dall’Inter Mirifica alla Communio
et progressio, costituisce un motivo presente «sotterraneamente« nei pronunciamenti papali in
occasione delle Giornate mondiali delle comunicazioni sociali e riemerge più di recente nel
magistero del card. Martini (in particolare nelle lettere pastorali Effatà, del 1990, e Il lembo del
mantello, del 1991). In base a questa linea di riflessione, appare chiaro che una corretta lettura
dell’universo dei media - e, conseguentemente, una corretta delineazione dei principi etici
dell’operare nell’universo mediale - deve partire da una collocazione di tali mezzi all’interno del
più ampio orizzonte antropologico e teologico della comunicazione umana: il comunicare umano
strumento utile per fare il punto della situazione e per fornire alcune ipotesi concrete di lavoro è il recente
volume Teleduchiamo. Linee per un uso didattico della televisione, a cura di R. Giannatelli e P. C.
Rivoltella, Elle Di Ci, Torino 1994.
19
Si veda, per esempio, la nascita del Coordinamento lombardo per la comunicazione sociale cui
aderiscono attualmente diciassette associazioni nonché gli Uffici diocesani della comunicazione sociale;
nato anche sulla spinta del piano pastorale diocesano del card. Martini (1990-91 e 1991-92), ha promosso
recentemente il convegno Mass media protagonisti del Duemila (Milano, 12 novembre 1994).
rivela, nelle sue tensioni a una costitutiva autenticità e perfino nelle sue limitazioni, una radice
teologica. A essa occorre risalire per acquisire criteri di lettura e di discernimento etico da
applicare ai mezzi di comunicazione sociale.
Dall’altro lato, lo sguardo del magistero sui media ha guadagnato in ampiezza e articolazione:
esso ha superato l’idea semplicistica dei media come strumenti neutrali di trasmissione di una
realtà predeterminata, nonché l’idea (connessa alla prima e parimenti semplicistica) del recettore
come punto di arrivo passivo dei messaggi mediali.
Da parte sua, la teoria ha gradualmente rinunciato all’idea di un approccio deterministico, sia
rispetto all’uso dei media che ai loro effetti. Mano a mano che maturava un’idea di
comunicazione non più come passaggio meccanico di informazioni da un polo all’altro, ma
piuttosto come una interazione comunicativa tra due soggetti, entrambi attivi, anche la
comunicazione mediale si allontanava da un’idea di immediatezza di effetti. Per un verso, si
sottolineava la presenza operativa di soggetti attivi all’interno dei processi comunicativi mediali,
per altro verso si insisteva sulla capacità dei media di agire sul contesto e di sostituirsi a esso con
la mediazione di influssi molteplici. Infine, si metteva in rilievo l’importanza degli aspetti linguistici
dei media e dunque la loro capacità di costruire una realtà piuttosto che di mediarla.
Attorno a questa serie di idee venivano a raccogliersi differenti discipline tese a costituire
proficui interscambi: sociologia, psicologia, semiotica, etnografia del consumo, ecc.
Considerando più da vicino lo studio dei media, è possibile individuare alcune aree tematiche
che si impongono all’attenzione dei teorici e che presentano profonde consonanze con il
magistero della Chiesa.
Tali tematiche acquistano un significativo rilievo a partire dall’ampliamento dell’ambito di
interesse che ha caratterizzato l’orizzonte semiotico dall’inizio degli anni ’80.
Se infatti la prospettiva precedente - quella della semiotica testuale - assumeva a proprio
oggetto d’indagine il testo, inteso come struttura autonoma dal momento produttivo e da quello
ricettivo, la svolta pragmatica implica una apertura dei confini testuali. Da un lato, si considerano
i rimandi interni alle dinamiche che presiedono alla realizzazione e alla comunicazione del testo,
dall’altro, alcune linee di ricerca arrivano a considerare pertinente la concreta situazione
comunicativa in cui esso viene scambiato.
Sul primo versante, l’idea centrale è che il testo contempli al proprio interno la
rappresentazione simbolica di due figure - che rimandano rispettivamente al trasmittente e al
ricettore - e dello scambio di sapere che avviene tra le due20.
Ciò significa che il momento di costruzione di un testo coincide con l’organizzazione di un
progetto comunicativo, che comprende la definizione delle caratteristiche, del ruolo e delle azioni
del ricettore. Nell’ambito di tale lavoro di definizione, è insita la possibilità di costruire un ricettore
posto in posizione di pariteticità rispetto allo scambio o, invece, un destinatario soggiogato o
addirittura truffato dal progetto comunicativo. Anche nell’ambito di un orizzonte puramente
teorico si configura quindi una chiara responsabilità etica dell’emittente nei confronti dello
spettatore.
Se dunque il testo presenta al suo interno il progetto del percorso di decodifica «ottimale»,
l’analisi semio-pragmatica sottolinea anche l’esistenza di un ruolo attivo del destinatario, che si
manifesta nella libertà di adeguarsi o meno a tale prefigurazione. Per esercitare questa sorta di
controllo rispetto alla monodirezionalità della comunicazione, lo spettatore deve acquisire un
adeguato livello di competenza nei confronti del linguaggio audiovisivo. Si configura quindi un
orizzonte di responsabilità non solo nei confronti dell’emittente, ma anche del destinatario,
chiamato a darsi una formazione che gli consenta di esercitare consapevolmente la propria libertà
di scegliere.
20
Il rinvio è a G. Bettetini, La conversazione audiovisiva, Bompiani, Milano 1984.
Queste considerazioni evidenziano, a un livello più generale, il concentrarsi dell’attenzione non
più soltanto sulla dimensione strutturale del testo, bensì, piuttosto, sulla sua vocazione
comunicativa, sul suo esserci per qualcuno e non solo fine a se stesso. Vero fulcro e punto di
orientamento del processo comunicativo è dunque il ricettore, che si trova investito, nella
prospettiva pragmatica, di una inedita centralità.
Sul secondo versante, la centralità del momento ricettivo appena richiamata può condurre a
focalizzare l’attenzione sul contesto in cui avviene il consumo testuale. In tale orizzonte si colloca
la ricerca etnografica, dedicata all’analisi delle dinamiche della fruizione mediale in diverse
situazioni ambientali. L’assunto di base21, ripreso e sottolineato da questa branca teoricoapplicativa, è che i mass media siano uno degli elementi del sistema ambientale che circonda
l’individuo.
Il processo fruitivo dipende, quindi, anche dal complesso delle sollecitazioni conoscitive e
comunicative a cui sono sottoposti gli utenti. In questo senso, anche la sociologia si è
progressivamente orientata verso una visione più complessa degli effetti provocati dai media. Tali
effetti sono il risultato di articolate interazioni tra i mezzi, le istituzioni, le condizioni
socioeconomiche, ecc. che caratterizzano l’ambiente ricettivo.
Questa complessificazione dell’interpretazione del rapporto tra media e ambiente fa sì che si
prendano in considerazione anche quelli che si potrebbero definire «effetti di ritorno», ovvero i
fenomeni per cui la variazione delle dinamiche del consumo può indurre una variazione delle
caratteristiche della produzione mediale.
Un ulteriore ambito di riflessione, trasversale rispetto a quelli appena ricordati, si configura
come punto di intersezione tra la riflessione semiotica e quella etica.
Si tratta dello studio dei linguaggi audiovisivi: in particolare della specificità del linguaggio
iconico e della messa in discorso della realtà rappresentata. Da un lato, l’uso di immagini dotate
di un elevato grado di somiglianza con il mondo reale (come per esempio quelle televisive) può
indurre il ricettore ingenuo ad attribuire alla rappresentazione audiovisiva lo stesso grado di
evidenza che pertiene alla realtà e quindi a ritenere ciò che vede in Tv altrettanto vero rispetto a
ciò che vede nel mondo reale. D’altro lato, queste immagini così evidenti non sono frutto di un
atteggiamento neutrale, speculare, puramente riproduttivo della realtà: costruire un testo che parli
del mondo implica una «messa in scena»22, che comporta operazioni di selezione, di
decontestualizzazione e di successiva ricontestualizzazione, connotate dall’assunzione di uno
specifico punto di vista sul rappresentato.
Benché apparentemente evidenti, le immagini dei media sono quindi caratterizzate da scelte
interpretative che filtrano la realtà e ne orientano la lettura. Tali operazioni, di per sé non
necessariamente di segno negativo, chiedono comunque un atteggiamento di correttezza etica, al
fine di non spingere il ricettore a credere vero ciò che può essere anche soltanto probabile o
verosimile 23.
Non si vuole qui sostenere una diretta e reciproca influenza tra riflessione teorica e
insegnamenti della Chiesa in materia. Tuttavia le aree di interesse appena individuate, attinenti
alla centralità e responsabilità del ricettore, alla presenza ambientale dei media e alla complessità
del rapporto tra linguaggio audiovisivo e realtà significata, trovano numerosi e interessanti
riscontri negli interventi del magistero.
21
L’idea dei media come agenti di forte determinazione sull’ambiente è già presente in un autore come
McLuhan (cfr. in particolare il concetto di «villaggio globale» e l’idea di un «nuovo umanesimo» a esso
collegata), la cui riflessione è antecedente al consolidamento dell’interesse della semiotica per i media.
22
23
Cfr. su questo tema G. Bettetini, Produzione del tempo e messa in scena, Bompiani, Milano 1975.
Sulla dimensione etica della comunicazione mediale si veda G. Bettetini, L’occhio in vendita, Marsilio,
Venezia 1985.
Non è possibile, in questa sede, compiere una ricognizione sistematica dei documenti del
magistero al riguardo. Ci si limiterà, quindi, a indicare alcuni esempi significativi tratti dai
messaggi pontifici per le Giornate delle comunicazioni sociali di Paolo VI e Giovanni Paolo II e
dalle lettere pastorali Effatà e Il lembo del mantello del cardinale di Milano Carlo Maria
Martini.
È innanzitutto la centralità della figura del ricettore, intesa nell’ottica della duplice responsabilità
indicata, a essere sottolineata anche nell’ambito del magistero ecclesiale.
Già a partire dal 1967, emerge nella riflessione di Paolo VI l’indicazione di una serie di diritti e
doveri dell’emittente, tra i quali spicca quello di costruire un «colloquio con il pubblico [che] esige
il rispetto per la dignità dell’uomo e della società» 24. La figura del ricettore acquisisce centralità,
quindi, in prima istanza come oggetto imprescindibile di attenzione da parte dei soggetti
responsabili delle scelte contenutistiche e dell’organizzazione linguistica dei messaggi. In un
secondo tempo, Paolo VI indica come elemento centrale del processo comunicativo mediale
anche le tensioni proprie del ricettore in quanto tale e non solo in quanto prefigurato
dall’emittente: «la tensione alla verità, l’esigenza dello svago e, soprattutto, l’aspirazione al
colloquio»25.
Ma la centralità del ricettore, in modo congruente con alcune delle acquisizioni degli studi
pragmatici indicate in precedenza, acquista nel messaggio del 1978 anche un’altra dimensione:
quella della responsabilità. In questo contesto, infatti, il papa afferma che la «triplice
responsabilità che il “recettore” deve oggi acquisire per essere un cittadino maturo e responsabile
- la capacità, cioè, di comprendere il linguaggio dei mass media, di scegliere opportunamente e di
saper giudicare - determina il dialogo con il comunicatore»26.
Nell’ottica di una riflessione globale sul comunicare, oggetto del primo anno dell’omonimo
programma pastorale, il card. Martini sottolinea, in linea con le indicazioni papali citate, la
necessità di un dialogo paritetico, in cui la soggettività dell’interlocutore sia pienamente rispettata:
«…la persona non può essere avvicinata se non nel rispetto della sua soggettività e iniziando un
dialogo rispettoso che permetta una comunicazione autentica»27.
Nel Lembo del mantello, dedicato più specificamente alla comunicazione mediale, ampio
spazio è riservato all’indagine del ruolo attivo, e quindi responsabile, dei soggetti coinvolti nello
scambio. In particolare, sul versante della ricezione si dice che
usarli bene [i media] vuol dire anzitutto acquisire una coscienza critica, cioè la capacità di distinguere il vero dal falso, la zizzania dal buon
grano, la capacità di essere obiettivi, di non demonizzare i media né di idolatrarli. Bisogna crescere nella libertà interiore, nel distacco dalle
sensazioni troppo immediate e coinvolgenti, bisogna imporsi una certa ascesi, essere capaci anche di fare dei sacrifici e delle rinunce. Sono cioè
emerse le responsabilità di quello che si chiama in gergo il “recettore”, il consumatore, l’utente dei media 2 8 .
Queste acquisizioni teoriche trovano un riscontro anche sul piano educativo, con una cospicua
serie di inviti alla istituzione di occasioni di apprendimento dei meccanismi di funzionamento della
comunicazione mediale 29.
L’ipotesi dell’esistenza di una responsabilità del ricettore nella comunicazione mediale è
profondamente legata a un modo di intendere il rapporto tra media e società, che vede procedere
su binari paralleli, soprattutto negli ultimi anni, la riflessione teorica e quella ecclesiale.
24
Messaggio pontificio per la Giornata delle comunicazioni sociali del 1967.
25
Messaggio pontificio per la Giornata delle comunicazioni sociali del 1978.
26
Ibid.
27
C.M. Martini, Effatà, lettera pastorale, Milano 1990, pag. 29.
28
C.M. Martini, Il lembo del mantello, lettera pastorale, Milano 1991, pag. 41.
29
Cfr., per esempio, le indicazioni del card. Martini contenute nella lettera pastorale Il lembo del
mantello a proposito della necessità di istituire all’interno delle parrocchie e delle diocesi iniziative di
teleclub o teleforum (p.69).
Già nel messaggio del 1978, infatti, è presente l’idea di un effetto di ritorno dell’attività del
ricettore su quella dei media. A essa si affianca, poi, l’ipotesi - introdotta nell’ambito del
magistero di Giovanni Paolo II - che i mass media siano parte di un’industria culturale e, quindi,
che non agiscano in modo autonomo rispetto al contesto che li circonda. Nell’ambito del
messaggio pontificio per la Giornata delle comunicazioni sociali del 1982, poi, il papa ribadisce
l’esistenza di un reciproco rapporto di influenza tra i media e la cultura contemporanea
affermando che: «se è vero che gli strumenti di comunicazione sociale sono il riflesso della realtà
in cui operano, non è meno vero che essi contribuiscono a modellarla».
La dimensione ambientale dei media è poi individuata, dal card. Martini, nella costruzione di
una modalità percettiva e cognitiva che arriva a valicare i confini del contesto strettamente
mediale: «I media non sono più uno schermo che si guarda, una radio che si ascolta. Sono
un’atmosfera, un ambiente nel quale si è immersi, che ci avvolge e ci penetra da ogni lato» 30.
Non manca, infine, anche un’attenzione particolare rivolta ad alcune caratteristiche specifiche
del linguaggio audiovisivo, lette in chiave di un’etica della responsabilità dell’emittente.
Già nel messaggio del 1967, e più tardi in quello del 1970, Paolo VI sottolinea la natura dei
media non tanto di finestra sul mondo, quanto di veicolo di segni interpretativi del mondo stesso,
espressi in un linguaggio «emotivo, proprio dei suoni, delle immagini, dei colori, del movimento» 31,
in grado di conferire verosimiglianza al contenuto della comunicazione sociale e indurre, così, a
un’interpretazione di questo linguaggio come analogo alla percezione del reale.
Tale attenzione si conferma anche nel magistero di Giovanni Paolo II che ribadisce, nel
messaggio del 1983, l’impossibilità di un’informazione assolutamente neutra poiché essa
«risponde sempre, almeno implicitamente e nelle intenzioni, a scelte di fondo… [e che] abili
sottolineature o forzature, come pure dosati silenzi, rivestono un profondo significato
[interpretativo]»32.
In sintonia con la rifiessione teorica sono infine le osservazioni avanzate dal card. Martini a
proposito della complessa articolazione del linguaggio audiovisivo:
Lo slogan della TV “fìnestra aperta sul mondo”, in presa diretta con la realtà, è solo in parte vero. Il mondo che il piccolo schermo ci porta
in casa è un’immagine elettronica che solo parzialmente corrisponde alla complessità della realtà inquadrata dalla telecamera. (…). Tra la
telecamera che riprende un fatto e me seduto davanti al mio televisore, c’è un complicato e artificioso processo di selezione e costruzione delle
immagini. (…) I media “in-formano” soprattutto perché danno una certa forma alla realtà, reinterpretandola secondo ben precisi e interessati
criteri3 3 .
Tra le responsabilità dell’emittente si configura, così, anche quella di un corretto uso delle
forme espressive mediali e tra quelle del ricettore l’acquisizione di una lucida consapevolezza
della non neutralità del linguaggio dei mezzi di comunicazione.
3. I1 futuro della ricerca e della teoria alla luce della dottrina della Chiesa.
Sembra possibile affermare che - nelle sue linee generali - la ricerca sui media e i
pronunciamenti magisteriali su questo settore della vita sociale siano andati negli ultimi anni in
direzioni convergenti. Nei documenti del magistero si nota una coscienza sempre più esplicita del
fatto che i media non si limitano ad amplificare messaggi, ma che già la loro stessa esistenza
contribuisce alla creazione di una certa cultura34. Dal canto suo, la ricerca sui media negli ultimi
anni ha lavorato su alcune tematiche che sono presenti anche nella dottrina socia le: i media come
costruttori di realtà sociale, creatori di repertori di significati, i cui linguaggi hanno una forte
30
Il lembo del mantello, cit., pag. 34.
31
Messaggio pontificio per la Giornata delle comunicazioni sociali del 1970.
32
Messaggio pontificio per la Giornata delle comunicazioni sociali del 1983.
33
I1 lembo del mantello, cit., pag. 25-28.
34
Cfr. Giovanni Paolo II, Redemptoris missio, n. 37
influenza modellizzante; è stata rimessa a fuoco, per esempio, la nozione mcluhaniana di
«villaggio globale» (cfr. per es. il lavoro di Joshua Meyrowitz), studiandone più analiticamente le
varie articolazioni; sono stati analizzati dalla sociologia dei media i problemi legati all’identità
culturale, alla rappresentazione, al rispetto e al dialogo fra le diverse culture.
Raccogliamo qui di seguito alcuni spunti che ci sembra siano offerti nell’attuale panorama, con
nuovo o rinnovato valore, alla ricerca sui media (intesa sia come ricerca pura, sia come ricerca
applicata, che in questi campi è intrecciata strettamente ai diretti interventi operativi) dalla
dottrina sociale.
La prima idea, sempre presente negli interventi del magistero sui media, è quella di impegnarsi
a far assumere ai ricettori un ruolo attivo, non riducibile a quello di puri consumatori. Un’idea
basilare, in apparenza forse anche banale, ma la cui forza è effettivamente grande, se solo si
decide di prenderla sul serio. Una rivistazione del concetto di utente attivo è poi tanto più
importante oggi, in quanto essa è stata scoperta dagli operatori di marketing come plus da offrire
al consumatore nel rapporto con il prodotto. Esso ha così portato allo sviluppo di varie tecniche
di interattività nel rapporto fra azienda e consumatore di beni (anche quei beni che sono giornali o
programmi audiovisivi), e, nel campo televisivo e radiofonico, alla messa in scena di forme
dialogiche (es. attraverso l’uso del telefono), in cui però la possibilità di risposta e di dialogo del
pubblico è limitata a una forma simulacrale, delegata ad alcuni rappresentanti - a volte casuali,
più spesso scelti o controllati dall’emittente stessa -: una messa in scena, appunto. Oggi la
dimensione interattiva viene proposta ed enfatizzata nelle azioni di lancio dei prodotti multimediali
delle nuove tecnologie.
Da un lato, infatti, c’è, da parte di educatori, genitori, operatori sociali, l’intuizione forte del
fatto che nei media elettronici ci sia una spinta verso la passività. Dall’altro ci sono operatori e
anche alcuni studiosi che sostengono che la fruizione degli audiovisivi è attiva, perché coinvolge
capacità percettive, competenze di decodifica, una certa cultura necessaria a comprendere il
montaggio, le ellissi, i rimandi, le allusioni che sono presenti, in misura maggiore o minore, in ogni
testo audiovisivo o comunque mediale. Questa dimensione dell’attività e della libertà del ricettorefruitore è poi, come accennavamo, fortemente sottolineata oggi nelle campagne pubblicitarie e di
marketing riguardanti i new media (giochi elettronici, Cd-Rom ecc.), che enfatizzano in modo
assai marcato il concetto di interattività.
È quindi importante una messa a fuoco di che cosa significhi ruolo attivo del ricettore. Sembra
assai opportuno a questo scopo mantenere viva una chiara distinzione fra interattività e
interazione: se per interazione si intende un’azione sociale dei soggetti nei loro rapporti con altri
soggetti l’interattività è invece l’imitazione dell’interazione da parte di un sistema meccanico o
elettronico, che contempla come suo scopo principale o collaterale anche la funzione di
comunicazione con un utente 35. Ne consegue che, secondo queste definizione, ciò che fanno i
media cosiddetti interattivi è simulare interazioni comunicative.
L’interattività comporta quindi un ruolo attivo da parte dell’utente nella selezione di
informazioni e nella scelta all’interno di alcuni menu, ma se da qui ci si chiede se sia favorita una
vera e propria creatività la risposta non può che essere prudente: la creatività viene consentita,
almeno in alcune limitate dimensioni. Dal punto di vista invece di una maggiore libertà e di una
maggior interazione sociale, il discorso si fa più complesso, e dai nuovi media la risposta può
arrivare a ricomprendere la fruizione di media più tradizionali come la televisione e il cinema.
Parlare di fruizione attiva in effetti non è immediatamente lo stesso che parlare di libertà nella
fruizione. Qui va infatti messa in luce la differenza - che per la libertà è costitutiva - fra attività
percettiva e attività propriamente razionale. È innegabile che ci sia una forte richiesta di attività
35
Cfr. Le nuove tecnologie della comunicazione, a cura di G. Bettetini e F. Colombo, Bompiani, Milano
1993.
nella percezione di uno spettacolo audiovisivo, che richiede movimenti oculari, integrazioni
fantastiche, riempimento di ellissi, interpretazioni di segnali. Ma il punto per qualificare una
fruizione veramente libera sta nel coinvolgimento della dimensione propriamente razionale nella
fruizione e nella possibile seguente autodeterminazione a cui può essere chiamato il fruitore: una
scelta che non è solo pro o contro la fruizione dell’audiovisivo, ma anche interpretazione e
adesione oppure rifiuto delle scelte presentate-proposte dal soggetto enunciatore del testo. Non si
può parlare infatti di libertà solo per l’assenza di costrizioni esterne o per la presenza di una
qualsiasi determinazione proveniente dal singolo. Se invece si intende la libertà non come arbitrio
ma come autodeterminazione razionale 36 si vede che:
1) per il fruitore di uno spettacolo audiovisivo classico la sua libertà e, quindi, la componente
veramente importante e decisiva del suo essere attivo, si giocherà nella componente razionale
maggiore o minore che è presente nella fruizione e nella conseguente adesione ad aspetti
cognitivi o di scelta etica presentati e proposti dal testo. Non è qualificante quindi, perché
avvenga una fruizione libera di un testo, l’eventuale componente di indeterminazione
nell’apparato significante del testo (libertà di fruizione-interpretazione per assenza di univocità
nella componente significativa del testo): essa non è decisiva per la dimensione di libertà del
fruitore. È invece qualificante per la libertà della fruizione una relazione in cui sia messa
significativamente in luce la componente razionale; questa relazione è naturalmente ottimale
laddove il testo faccia appello alla dimensione razionale al di sopra di altre dimensioni e l’utente
risponda su questa stessa linea alle proposte del testo stesso.
2) l’interattività tecnologica offerta dai nuovi media è solo un presupposto, non ancora decisivo,
per una fruizione degli apparati tecnologici che sia creativa, ma soprattutto libera e responsabile.
In altre parole, l’interattività tecnologica non è di per sé garanzia di una maggiore attività
umana in senso pieno, né di una maggiore interazione sociale: anzi, se gestita in modo squilibrato,
potrebbe andare a loro detrimento, provocando un calo di tensione veramente partecipativa nelle
interazioni sociali in soggetti soddisfatti da un surrogato, vale a dire da un’interazione simulacrale
che soddisfa alcune istanze per la propria accessibilità e la facilità con cui dispensa gratificazioni
immediate. Una società in cui si gioca molto, e si ha l’impressione di essere veri protagonisti, ma
in cui l’interesse per la comunità di appartenenza e per l’intera polis viene anestetizzato, è una
società in cui la stessa nozione di democrazia è minata nelle sue fondamenta, perché le viene a
mancare il principio di responsabilità e di partecipazione che ne è l’anima 37.
Questa messa a fuoco del concetto di attività dell’utente-fruitore ci riporta a un secondo punto
forte della dottrina sociale della Chiesa, che fa da cerniera fra etica personale ed etica sociale e
che viene a giocare un ruolo importante anche nei confronti dei media: è la sottolineatura della
centralità della famiglia in tutti i processi formativi e di socializazione.
Si sta in effetti notando nel mondo dei media una certa maggiore attenzione alla famiglia, che
tuttavia non è ancora ben chiara nei suoi fini. Ci potrebbe infatti essere una valorizzazione della
famiglia, intesa nel senso borghese di nucleo chiuso, secondo una concezione che mette a fuoco
soprattutto la sua valenza di target consumistico: la famiglia come soggetto di consumo da
conquistare per gli investitori pubblicitari (che è il concetto di famiglia che sembra ogni tanto
affacciarsi su Canale 5 e Raiuno). Nella dottrina sociale della Chiesa la famiglia è intesa invece
come comunità naturale, costituita da relazioni significative, soggetto di comunicazione al suo
interno e verso l’esterno, istitutrice di reti di legami e di solidarietà con le comunità sociali che
essa costituisce e di cui fa parte, pur trascendendole 38. Il problema che nel campo dei media la
36
Cfr. Gaudium et spes, n. 17; Veritatis splendor, n. 42.
37
Cfr. Centesimus annus, n. 46
38
Cfr. Familiaris consortio; cfr. anche Giovanni Paolo II, Lettera alle famiglie, 2 febbraio 1995.
dottrina sociale mette a fuoco è quello di come dare spazio a un maggior protagonismo della
famiglia come soggetto attivo di comunicazione, come interlocutore delle emittenti, degli editori e
anche degli investitori pubblicitari, che sono la vera anima - o il sangue, se si preferisce - di molte
imprese di comunicazione.
Emerge nettamente anche in questo campo l’importanza del principio di sussidiarietà, che
qualche volta potrebbe magari essere stato inteso e interpretato come una semplice negazione
del collettivismo: al contrario, la sua radice -e di conseguenza la sua portata- antropologica è
assai vasta e offre ambiti di piena applicazione anche nel settore della comunicazione.
C’è infatti una dimensione vitale che è la radice del senso di tutte le attività strutturali, (quelle
che potremmo ricondurre ai due grandi ambiti dello stato e del mercato): è questo fondo vitale
che costituisce, nel suo significato più proprio, la società; ed è di questo fondo, che è ethos,
cultura39, che vivono gli uomini, mettendo in discussione le pretese dirigistiche del tecnosistema in
cui sono inserite anche le grandi imprese di comunicazione. Questo ambito dell’ethos si struttura
in «provincie finite di senso», in comunità solidali, in società intermedie di cui la famiglia è la
prima e la più importante. È proprio dalla famiglia come forma radicale di solidarietà e come
primo motore di un insieme di comunità intermedie che può venire l’energia sociale che si
opponga alla spersonalizzazione e al dominio delle grandi strutture, anche di quelle comunicative.
Nel passaggio, che alcuni sociologi stanno descrivendo per questi anni ’90, dal Welfare State
alla Welfare Society c’è un forte cambio di accento sulla stessa nozione di Welfare che le viene
dal sostantivo che la accompagna: si passa dalla connotazione passivista di prestazioni ricevute a
una nozione di qualità della vita che è intesa, soprattutto, come attiva partecipazione alla
costruzione del bene comune. Il fallimento dell’ideologia del Welfare Stafe ha reso ormai chiaro
che la vita sociale acquista qualità non quando è garantita una erogazione paritaria di servizi
burocratizzati, ma quando ai suoi attori viene permesso di realizzare i loro progetti vitali, e se
necessario essi vengono aiutati a portarli a termine. Questo mette in luce l’importanza - anche
nel settore dei media, dove qualcosa si è mosso, ma si può fare molto di più - dello sviluppo della
partecipazione, attraverso tutti i tipi di forme intermedie: dalle associazioni di ascoltatori al
Consiglio consultivo degli utenti, dal cineforum di quartiere a una pay-tv in cui i soci-abbonati
abbiano davvero la possibilità di intervenire sulla scelta e la progettazione dei programmi. Da
questo punto di vista, anche le strutture a rete, con diversi livelli di integrazioni successive, che si
stanno costituendo nel campo del giornalismo (quando per es. si integrano diverse strutture, dalle
più capillari e localistiche via via verso le più centralizzate, collaborando in modo che ciascuna
mantenga un proprio livello di autonomia), si presentano come un’interessante attuazione - fra le
molte possibili - di questi principi.
Un altro campo di sviluppo possibile - qui forse più direttamente rivolto al lavoro teorico
segnalato, almeno implicitamente, dalle indicazioni della dottrina sociale, è l’opportunità di una più
approfondita comprensione del rapporto fra narrativa (scritta e audiovisiva) e proposta-diffusione
di valori. È un tema intuito chiaramente e più volte richiamato negli interventi magisteriali40 e
nelle sue linee di fondo è certamente patrimonio comune anche dell’intuito critico di operatori e
commentatori. Tuttavia si tratta di un tema che - poiché non è stato oggetto di un particolare
approfondimento teorico (con precisi motivi di storia delle idee su cui non ci soffermiamo) - è
stato messo un po’ in secondo piano dalla critica più colta, che nelle sue analisi testuali si è
piuttosto fermata sulla componente cognitiva dei testi, indagando poi le strategie del darsi del
testo ai fruitori (componente pragmatica). Questo ha fatto passare in secondo piano la
componente etico-valoriale, che non solo è sempre presente all’interno di un testo, anche
narrativo, ma è anche una dimensione assai importante -spesso anzi prevalente- della fruizione
39
Cfr. Giovanni Paolo II all’Unesco, 2 ottobre 1980.
40
Cfr. Giovanni Paolo II, Messaggio per la Giornata delle comunicazioni sociali, 24 gennaio 1995.
ingenua. Il risultato è stato un certo distacco fra le analisi dei ricercatori e le dimensioni della
fruizione degli spettatori, dimensioni assai rilevanti sia in sé, sia anche per i loro esiti sociali. Una
maggiore attenzione quindi, in linea con le preoccupazioni della dottrina sociale, sull’impatto dei
valori proposti e presentati, con una messa a punto di strumenti analitici che non annullino
pregiudizialmente questa dimensione, oltre a consentire una maggiore assunzione di responsabilità
da parte dell’operatore dei media, può di riflesso portare a un riavvicinamento delle pratiche di
analisi alle modalità prevalenti nella fruizione del pubblico.
Si vede, inoltre, l’opportunità di un lavoro teorico di sintesi, di confronto e poi di alta
divulgazione sui risultati della ricerca specialistica sugli effetti sul pubblico della violenza e della
pornografia nei media. Ci sono ormai molti dati e molte ricerche empiriche, ma in questo settore
teorico si avverte l’esigenza di alcune operazioni di raccordo, che seguano una elevata via media
fra ricerca fortemente specialistica e intervento occasionale, per elaborare sintesi documentate e
accessibili da mettere a disposizione di studiosi, associazioni, famiglie - in una parola, dei
principali attori che devono portare la loro voce nelle decisioni sociali, legislative e
giurisprudenziali su temi di tale delicatezza. Si tratta anche, in fondo, di spostare l’attenzione
ossessiva dagli aspetti di influsso politico-partitico del singolo medium o del singolo giornalista a
tematiche di ben più vasta rilevanza: passare cioè dal minutaggio delle presenze televisive dei
leader di partito alla diffusione di una maggior coscienza sociale sui risultati delle ricerche che
evidenziano i gravi rischi di una comunicazione spesso violenta e irrispettosa della dignità della
persona umana.
Sin dai primi interventi magisteriali sul mondo dei media 41 non è mancato un richiamo molto
esplicito alla loro dimensione economica e alla necessità di un intervento imprenditoriale
coraggioso, ispirato al rispetto dei valori umani e trascendenti. Quanto afferma la Centesimus
annus42 sul rapporto fra etica e profitto, sulla necessità di non spingere a forme dissennate di
consumismo e di subordinare sempre le dimensioni materiali e istintive dell’uomo a quelle interiori
e spirituali, apre un campo di intervento operativo di grande vastità per chiunque è impegnato nel
settore. Si tratta di una sfida a realizzare modalità produttive e distributive autosufficienti,
qualitativamente ed economicamente competitive, che operino nel rispetto della dignità della
persona. Si tratta cioè di affermare non solo in teoria, ma anche nella pratica, i! primato della
dimensione morale. In una società che tende a considerare l’etica solo come una messa a punto
di tecniche procedurali -invocate spesso solo quando rischiano di essere toccati i propri interessi-,
si tratta di vivere e diffondere, attraverso comunità vitali (scuole, università, associazioni, aziende,
agenzie di stampa e di pubblicità, case di produzione, canali televisivi), il primato dell’etica come
dimensione radicale e unitaria, espressiva del vero bene dell’uomo: ciò che non è etico non è
degno della persona umana. Ma essendo profondamente unitaria già l’etica in se stessa - come
fra gli altri ha messo in rilievo recentemente MacIntyre, riprendendo una tradizione aristotelica
finora per lo più interpretata razionalisticamente - un eventuale insegnamento dell’etica è assai
poco efficace se l’etica non è vissuta come ethos all’interno di una comunità educante prima, e
poi all’interno di team di lavoro, o almeno all’interno di una comunità che, facendo da sponda
all’ambiente strettamente lavorativo, consenta a chi lavora di formarsi alle scelte giuste e di
correggere i propri errori.
Pensiamo a quanto sia importante riproporre costantemente a quanti operano
nell’informazione la necessità di mettere la verità al di sopra degli interessi particolari, ma anche
di avere presente che se più radicalmente non si accetta la verità come «dipendenza» costitutiva
41
Cfr. Inter mirifica; ma anche le indicazioni assai concrete della recente istruzione del Pontificio
consiglio per le comunicazioni sociali, Aetatis novae, 22 febbraio 1992.
42
Cfr. n. 36.
dell’uomo43, ci si può facilmente illudere che il compito del giornalista sia quello di porsi in una
neutralità priva di valori. A prescindere dal fatto che una totale avalutatività è impossibile (ci può
essere imparzialità solo su alcune linee, ma ogni atto informativo dà per scontati e quindi rinforza
alcuni valori), l’imparzialità e l’oggettività di un professionista onesto sta invece proprio
nell’adesione disinteressata alla verità conosciuta, pur con tutti i limiti e le imperfezioni della
nostra condizione. Questa adesione disinteressata alla verità fa sì che, mentre ripudia ogni
menzogna e ogni partigianeria, egli avverta come dovere irrinunciabile quello di assumere una
posizione inequivocabilmente chiara, pur nei limiti del proprio ruolo, tutte le volte che si vedano
minacciati i valori fondamentali della vita umana e della convivenza civile. Non assumere questa
posizione - pur nel più limpido rispetto delle persone che pensano diversamente - significherebbe
non solo rinunciare a ogni valore deontologico, ma, prima ancora, rinunciare alla propria umanità.
Uno dei problemi principali della nostra società è invece il fatto che l’ideologia relativista (nelle
sue varie espressioni, che vanno da un relativismo illuminista classico alle forme più estreme di
relativismo libertario) vuole legittimarsi come l’unica posizione teorica che possa garantire il
pluralismo, il rispetto e la tolleranza. Ma in realtà non è possibile che riesca in questo obiettivo. Il
volto tollerante e permissivo del relativismo è infatti solo una superficie: è in qualche caso una
maschera, in altri - dove non c’è dolo, ma solo inconsapevole autoinganno - una delle due facce,
quella superfìcialmente più attraente, di una medaglia in cui sta, dall’altro lato, la porta che il
relativismo non riesce a chiudere allo sfruttamento dei deboli da parte dei forti, dei poveri da
parte dei ricchi, degli emarginati da parte dei potenti. È una dinamica che è esemplarmente
realizzata nella questione dell’aborto, in cui dietro la pretesa dell’autodeterminazione e della
asserita impossibilità di sindacare su ciò che viene presentato come libertà di scelta di un
soggetto, sta nei fatti la messa in atto di una brutale violenza contro un innocente indifeso. Solo
l’adesione salda a principi etici irrinunciabili, derivati dalla conoscenza della verità della nostra
condizione44 - un’adesione continuamente riaffermata e attuata pur nella mutabilità della vitaconsente di opporsi, nella professione giornalistica come in ogni attuazione sociale, a queste e a
tutte le altre forme di sfruttamento. Se non si accetta una verità assoluta e il conseguente
riferimento a comuni valori fondamentali, tutto diventa convenzionale, tutto diventa negoziabile:
anche il piano dei diritti fondamentali, che possono essere facilmente scardinati laddove si riesca
a esercitare una sufficiente pressione di interessi sociali, economici o politici45.
La strada suggerita più e più volte dagli interventi magisteriali, che sottolineano l’importanza
della formazione etica degli operatori, è una strada ancora pienamente attuale e quanto fatto
finora non può che stimolare a una maggiore diffusione di iniziative e di impegno in questa
direzione.
In conclusione, per sintetizzare quanto detto finora, possiamo forse raccogliere in due obiettivi
generali la strategia dell’attenzione ai mezzi di comunicazione sociale per il futuro.
Il primo obiettivo potrebbe essere espresso come l’elaborazione di una cultura in grado di
assorbire i media - i loro linguaggi e parte dei loro contenuti - al proprio interno. Una delle
caratteristiche fondamentali dei mezzi di comunicazione di massa è infatti quella di alfabetizzare
apparentemente da sé al proprio uso: nessun bambino sembra aver bisogno di un particolare
insegnamento per capire i messaggi forniti dalla televisione o per giocare con soddisfazione ai
videogiochi. Tuttavia le forme della conoscenza che i media garantiscono non possono essere
esportate facilmente in altre dimensioni della vita: i media consentono di apprendere, ma non
insegnano ad apprendere; inoltre essi ampliano alcune possibilità vitali, ma di per sé non
insegnano a utilizzarle. Il celebre personaggio interpretato da Peter Sellers in Oltre il giardino
43
Cfr. Giovanni Paolo II, Ai giornalisti dell’Associazione stampa estera, 17 gennaio 1988.
44
Cfr. Veritatis splendor.
45
Cfr. Evangelium vitae, nn. 18-20
ha sempre conosciuto soltanto la televisione. Nel momento in cui viene proiettato nel mondo si
porta dietro il telecomando e reagisce alle situazione sgradevoli cercando di cambiare canale. È
una metafora, certamente, ma assai indicativa del limite intrinseco dei media. Paradossalmente
questo limite agisce anche rispetto ai contenuti dei media stessi, che non riescono sempre a
penetrare, anche quando sono utili e positivi, in una dimensione propriamente e profondamente
culturale della persona. Si limitano a offrire poco più che procedimenti, ma non producono
relazioni vitali, che sono l’ambito in cui si costituisce una cultura come dimensione unitaria
dell’esistenza dell’uomo storico. Vi è dunque la necessità di rifondare una dimensione
autenticamente culturale che si confronti con i media senza moralismi ma anche senza cedimenti,
e che riscopra l’importanza mai venuta meno del radicamento della persona in un sapere e in una
visione del mondo coerente e non eterodiretta.
A partire da qui si potrà immaginare una strategia verso i media che recuperi i loro contenuti
positivi inserendoli in una visione complessiva e in una capacità autentica di discernimento.
Questa capacità diviene tanto più importante nel momento in cui la risorsa che maggiormente
viene a mancare nella fruizione di comunicazione è il tempo, che i media spesso conducono a
sperperare in una fruizione poco attenta e poco parsimoniosa della propria vita; non a caso uno
dei messaggi di Giovanni Paolo II invitava proprio a una fruizione dei media autonoma e libera sia
nei tempi che nei modi, una fruizione che non ostacoli lo svolgimento di attività e lo sviluppo di
interrelazioni più fondamentali, come quelle che si giocano all’interno della famiglia.
Il secondo obiettivo fondamentale è costituito dal ripensamento del ruolo e dell’organizzazione
del sistema formativo. Nel momento in cui la rapidità di informazione e di accesso ai media
surclassa le potenzialità della scuola; nel momento in cui i parametri della scuola moderna sono
messi in crisi da un nuovo rapporto fra media e istituzioni formative, non ci si può illudere di
risolvere ogni problema semplicemente rivendicando oltre ogni evidenza la centralità della scuola.
La realtà è che oggi al centro del processo formativo non vi sono più istituzioni salde, ma
l’individuo. Occorre dunque al più presto formulare un progetto formativo integrale che
redistribuisca tra famiglia, media e istituzioni formative classiche il compito dell’educazione.
Questo non significa, naturalmente, dare ai media i compiti che devono essere della scuola;
semmai chiedere a quest’ultima, ma prima ancora alla famiglia, e a quelle comunità solidali che
dalla famiglia sono generate, un ruolo sempre più marcato di diffusione della cultura viva e di
forme che consentano una dimensione di unitarietà vitale (che ben si accorda con il pluralismo, a
patto che esso sia inteso in senso non contraddittoriamente relativistico) di apprendimento: la
provenienza dei contenuti e la loro articolazione verrebbero così proiettate in un’orbita più
marginale, a tutto vantaggio degli autentici valori formativi46.
Milano, novembre 1995
46
Hanno discusso e collaborato alla stesura di questo testo Piermarco Aroldi, Fausto Colombo,
Ruggero Eugeni, Armando Fumagalli, Barbara Gasparini, Chiara Giaccardi, Anna Manzato, Cristiana
Ottaviano, Giorgio Simonelli, Marina Villa, Nicoletta Vittadini.
EDOARDO TEODORO B RIOSCHI
LA COMUNICAZIONE D’AZIENDA
1. Premessa
La comunicazione d’azienda si trova alla confluenza di due particolari ambiti disciplinari: da un
lato, quello della comunicazione e, in modo particolare, della comunicazione sociale; dall’altro,
quello dell’economia dell’azienda, da cui l’attività suddetta viene ad essere impiegata quale
componente delle proprie strategie e, di conseguenza, quale fattore delle diverse combinazioni
produttive.
Da rilevare, altresì, che la trattazione della comunicazione d’azienda nella sua vastità ed
unitarietà - da cui l’espressione «comunicazione totale» - risale al più agli anni Settanta nel nostro
paese come pure in altri ritenuti pubblicitariamente più avanzati - tra cui l’ambiente anglosassone,
peraltro attestato sul concetto più strumentale che strategico di «comunicazione integrata».
Va in ogni caso qui richiamato che, quando si ricorre all’espressione «comunicazione totale»,
si vuole mettere in rilievo che qualsiasi elemento (a partire dalla denominazione stessa
dell’azienda), aspetto (a cominciare dalla stessa sede) ed attività dell’azienda contribuisce al
comunicare di questa - e non solo, quindi, le più note e citate attività (di pubblicità anziché di
relazioni pubbliche o di promozione delle vendite) - e, pertanto, alla definizione di una sua identità
e, tramite questa, di una sua immagine 47.
Se tutto comunica, se cioè, più esattamente, è l’istituto aziendale nei suoi caratteri e nelle sue
manifestazioni all’origine della comunicazione, allora l’esigenza di finalizzare e di coordinare sia i
primi che le seconde - affinché venga appunto offerta dell’azienda una specifica identità e
promossa una adeguata immagine - condurrà a governare l’istituto in esame secondo una
particolare ottica, che viene appunto definita «ottica di comunicazione»48.
Le considerazioni qui svolte, mentre intendono chiarire l’ambito che verrà di seguito
investigato, si propongono altresì di anticipare le possibili sovrapposizioni od integrazioni con la
trattazione riguardante gli altri ambiti disciplinari, nonché di sottolineare lo stato di progressivo
consolidamento in cui ancora si trova la trattazione scientifica concernente la comunicazione
d’azienda.
2. L’incidenza della dottrina sociale sulle attività di comunicazione dell’azienda
Il ricorso crescente e sistematico dell’azienda alle attività di comunicazione - ad iniziare dalla
pubblicità - avviene nella seconda metà dell’Ottocento (in particolare con gli anni Ottanta e
Novanta) ad opera dell’impresa sorta dalla rivoluzione industriale di circa un secolo prima.
47
La comunicazione d’azienda negli anni Novanta, a cura di E. T. Brioschi, numero monografico di
«Comunicazioni Sociali», 3/4, 1990, pp. 225 ss. e 295 ss.
48
E. T. Brioschi, Marketing e comunicazione: evoluzione di un rapporto, in Attualità del pensiero di
Antonio Renzi nel contesto evolutivo della tecnica economica, Atti della Giornata di studi in corso di
pubblicazione.
È, in modo specifico, l’impresa industriale di beni di largo consumo (saponi, detersivi, lieviti,
alimenti per l’infanzia,ecc.) ad identificare nella comunicazione rivolta a vasti pubblici lo
strumento basilare per una rapida ed estesa diffusione delle produzioni attuate 49.
Accesa appare, di conseguenza, la situazione concorrenziale con riferimento a mercati, che si
strutturano spesso in oligopoli con frange concorrenziali.
A differenza, tuttavia, dell’utenza pubblicitaria che aveva prevalso fino ad allora (costituita
principalmente da aziende di spettacolo - a cominciare dai circhi - e da laboratori o pseudolaboratori farmaceutici), la moderna impresa industriale - che destina risorse economiche
consistenti quando non addirittura eccezionali alla pubblicità - si propone di fondare la sua azione
su una base razionale, introducendo pertanto i temi della programmazione e del controllo anche
all’interno della comunicazione.
Alle poche regole empiriche, che avevano fino ad allora retto l’uso del fattore di produzione in
esame, viene così storicamente a contrapporsi la richiesta di una precisa tecnica di impiego della
pubblicità.
Questa inizia ad essere elaborata negli Stati Uniti, ma anche in Europa tra gli anni Novanta del
secolo scorso e gli anni Venti di quello attuale 50: i formulatori di questa prima impostazione
tecnica appartengono all’ambiente universitario o, più in generale,al mondo della scuola così
come a quello delle aziende che offrono servizi pubblicitari, a cominciare dalle agenzie di
pubblicità. Indicativo dell’indirizzo di impiego dello strumento pubblicitario è il titolo del primo testo
tecnico in materia che risale al 1893: Building business. An illustrated manual for aggressive
business men51.
Pertanto, allorché prende avvio - con la famosa enciclica leoniana - la dottrina sociale della
Chiesa, la comunicazione d’azienda - e, per essa, la sua attività principale, cioè la pubblicità
(relazioni pubbliche e promozioni delle vendite svolgono a quell’epoca una funzione
indubbiamente limitata) - non dispone ancora nè di una elaborazione teorica di base, nè di una
sistematica impostazione tecnica. Entrambe, lo ribadisco, si svilupperanno nei decenni successivi.
L’intervento della dottrina sociale poteva dunque in quegli anni rivolgersi esclusivamente come di fatto è avvenuto con la citata enciclica - all’impresa in quanto tale, ai principi generali
cui si ispirava ed alle sue modalità di intervento sul mercato e nella società.
La crescita, quantitativa e qualitativa, della comunicazione d’azienda è consentita ed anzi
stimolata dall’avvento dei mezzi audio e audiovisivi, che - seppure scoperti (mi riferisco al cinema
e alla radio) negli anni Novanta del secolo scorso - si affermeranno come «mass media» negli
anni Dieci e Venti di questo secolo. Come è noto, l’iniziale affermazione della televisione risale
invece agli anni Trenta e ancor più Quaranta, cioè a mezzo secolo fa.
L’avvento e la crescente affermazione di tali mezzi non è certo sfuggita al magistero, che è
più volte intervenuto al riguardo dall’enciclica di Pio XI Vigilanti cura del 1936 all’enciclica di
Pio XII Miranda prorsus del 1957.
L’attenzione, in questi casi, appare però principalmente rivolta ai mezzi in questione, alla loro
potenzialità, ai loro operatori ed all’utenza ultima degli stessi e cioè al pubblico e non all’azienda o
alla sua attività di comunicazione, anche se non mancano accenni e richiami52.
49
E. T. Brioschi, Elementi di economia e tecnica della pubblicità, vol. I: Dai primordi alla pubblicità
moderna, prima ristampa, Vita e Pensiero, Milano 1994, pp. 102 ss.
50
Ibid., pp. 104 ss.
51
N. C. Fowler jr., Building business. An illustrated manual for aggressive business men, The Trade,
Boston 1893.
52
Pio XII, Lettera enciclica «Miranda prorsus» circa la cinematografia la radio e la televisione,
Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1957, p. 21. Il richiamo si riferisce, nella fattispecie, a «la
pubblicità commerciale insidiosa o indecente» a favore di spettacoli cinematografici.
La crescita sotto il profilo quantitativo e con ritmi via via accelerati dell’attività di
comunicazione - pubblicitaria in grande misura, come già si è osservato - aveva d’altronde
condotto lo stesso settore professionale ad intervenire decisamente a favore di una
autoregolamentazione o a recepire, in ogni caso, i principi ed i documenti in materia elaborati da
fonti autorevoli già nei primi decenni di questo secolo.
Ciò era avvenuto dapprima negli Stati Uniti (basti ricordare The truth-in-advertising
movement del 1911 e la conseguente nascita dei Better Business Bureaus, che stanno appunto
alla base dei sistema di autoregolamentazione di quel Paese53) e successivamente in Europa con
la Camera di commercio internazionale e la proposta da parte di questa del primo di una serie di
codici etici nel campo della comunicazione: il Côde des pratiques loyales en matière de
publicite (1937) 54.
L’incidenza della dottrina sociale appare accrescersi - come tendenza più che come riflesso
immediato ed operativo - con il secondo dopoguerra: mi riferisco, in modo specifico, all’Inter
mirifica, il decreto conciliare sugli strumenti della comunicazione sociale (1963) e all’istruzione
pastorale relativa Communio et progressio (1971), cui avrebbe - a distanza di oltre vent’anni fatto seguito l’altra istruzione pastorale Aetatis novae (1992).
Ciò avviene - pur fermandosi ai primi due dei citati documenti - per diversi motivi: perché la
dottrina sociale affronta il problema dei mass media e dei loro effetti in generale e non più con
riferimento a questo o a quell’altro mezzo per quanto rilevante; perché la dottrina in esame
introduce un’espressione - quella appunto di strumenti della comunicazione sociale - che non
rappresenta semplicisticamente una traduzione di mass media, ma inserisce e sottolinea una
istanza etica (la missione degli strumenti in esame non consiste nel massificare, ma nel facilitare
il processo di socializzazione dell’individuo); perché la dottrina sociale propone in tutta la sua
rilevanza il problema della responsabilità sociale della comunicazione d’azienda e, in particolare,
della comunicazione commerciale (a partire, una volta ancora, dalla pubblicità); perché tale
dottrina suscita interventi sistematici nell’ambito della formazione degli operatori, di coloro cioè
che sarebbero stati preposti o addetti con varie competenze ai processi di produzione della
comunicazione in esame; perché la dottrina considerata promuove iniziative ricorrenti - purtroppo
ancora, però, assai limitate nella loro effettiva incidenza - di sensibilizzazione del pubblico nei
confronti degli strumenti di comunicazione sociale e delle loro problematiche. Mi riferisco, in
modo specifico, alle Giornate mondiali dedicate annualmente a tali strumenti.
Con specifico riguardo al quarto dei motivi sopra indicati, non posso non ricordare il contributo
recato all’attuazione delle istanze del magistero in campo formativo dall’esperie nza della Scuola
di specializzazione in comunicazioni sociali della nostra università.
Avviata come Scuola superiore - con distinte sezioni, tra cui una specificamente dedicata alla
pubblicità - con l’anno accademico 1961/62, essa muta successivamente la propria
denominazione (quella originaria era «Scuola superiore di giornalismo e mezzi audiovisivi») in
rispondenza piena al citato decreto conciliare, sottolineando sempre più la rilevanza della
dimensione etica del comunicare nel campo della formazione , e ciò allo scopo di fornire alla
società - secondo un’espressione cara al fondatore e primo direttore, prof. Mario Apollonio -
53
54
E. T. Brioschi, Elementi di economia e tecnica della pubblicità, cit., p. 132.
Sul ruolo di tale primo codice a livello europeo si rinvia a E. T. Brioschi, The Principles of Advertising
Self-regulation in Europe, in Working Across Cultures, a cura di H. Lange - A. Löhr - H. Steinmann,
Kluwer, Dordrecht 1997 (in corso di pubblicazione). Più in generale si veda Venticinque anni di
autodisciplina pubblicitaria in Italia (1966-1991), Istituto dell’Autodisciplina pubblicitaria, Milano
1992.
«uomini di scienza e di coscienza»55. Tale scuola ha altresì promosso di recente (1994) il centro
di ricerche denominato «Osservatorio sulla comunicazione».
Nel frattempo i codici di autodisciplina - proposti, oltre che dalla Camera di commercio
internazionale, da altri enti ed associazioni di norma internazionali ed espressione di specifici
settori della utenza e della professione del comunicare - si erano grandemente diffusi. In Italia il
Codice della lealtà pubblicitaria entra in vigore nel 1966, facendo specifico riferimento al modello
della citata Camera di commercio, mentre fin dal 1970 la Federazione relazioni pubbliche italiana
adotta il Codice di etica della International Public Relations Association.
Gli interventi del magistero vengono dunque ad incidere sulla società, intrecciandosi anzitutto e
in particolare con i codici suddetti, che prevedono altresì strutture e procedure atte alla concreta
e cogente applicazione delle regole introdotte presso gli operatori che - direttamente o
indirettamente - si sono obbligati a rispettarle (un caso esemplare per il nostro paese è
rappresentato dall’Istituto della autodisciplina pubblictaria e dagli organismi preposti alla
applicazione del codice relativo).
Un tale intrecciarsi si verifica anche nei confronti dei principi e dell’operato dei movimenti
consumeristici, cioè a difesa dei diritti dei consumatori, che si affermano in ambiente statunitense
già negli anni Sessanta: emblematico di tale affermazione è il Messaggio al consumatore,
pronunciato da Kennedy davanti al Congresso appunto nel 1962.
Al di là di organizzazioni storiche per il nostro paese (si pensi, ad esempio, all’Unione nazionale
consumatori o al Comitato difesa consumatori), una crescente rilevanza è andata poi assumendo
in epoca recente l’Associazione consumatori utenti (Acu), le cui origini risalgono alla metà del
passato decennio e che ha tra l’altro promosso nel 1992 l’«Osservatorio della pubblicità e della
comunicazione di massa», che si propone in modo specifico di segnalare i casi di pubblicità
ingannevole sia all’Istituto della autodisciplina pubblicitaria, sia all’Autorità garante della
concorrenza e del mercato56.
A quest’ultimo proposito, un aspetto particolare dell’incidenza del magistero riguarda la nascita
o il consolidamento di associazioni cattoliche che rivolgono una particolare attenzione alle
problematiche educative suscitate dalla diffusione e dall’uso degli strumenti della comunicazione
sociale, diverse delle quali hanno di recente dato vita ad un Coordinamento delle associazioni per
la comunicazione.
3. Contributi della disciplina offerti e/o utilizzati dalla dottrina sociale della Chiesa
Il tema in esame può essere affrontato, prendendo avvio dall’istruzione pastorale Communio
et progressio, che, a differenza del decreto conciliare Inter mirifica, richiama esplicitamente la
pubblicità e le problematiche relative (nn. 59-62). Al centro di tale richiamo vi è il problema di
fondo della responsabilità sociale della comunicazione tramite i mass media in generale e di quella
d’azienda in particolare, colta ed esemplificata nella pubblicità.
Non si può che riconoscere - si afferma al riguardo - il valore di questo processo economico [di
comunicazione e di scambio, innescato dalla pubblicità], purché sia tutelata la libertà di scelta
dell’acquirente e nell’opera di persuasione venga data la preferenza ai beni di prima necessità piuttosto che
ad altri prodotti. La pubblicità deve poi essere veritiera, tenendo conto naturalmente delle sue specifiche
forme espressive (n. 59).
Ora, le tre condizioni sopra richiamate, affinché il contributo economico della pubblicità risulti
socialmente accettabile, coinvolgono concetti propri della teoria e della tecnica della
55
E. T. Brioschi, Alle origini di una dottrina italiana della pubblicità: Mario Apollonio,
«Comunicazioni Sociali», 3/4, 1986, pp. 217 ss.
56
Associazione consumatori utenti, Profilo e statuto, testi ciclostilati, Milano 1995.
comunicazione d’azienda, quali il processo di comunicazione posto in essere dalla pubblicità e
l’efficacia dello stesso. Valga al riguardo qualche breve commento. Inizio dal rispetto della libertà
di scelta dell’acquirente.
È qui appena il caso di ricordare che tale condizione richiama alla mente l’ipotesi, che ha
purtroppo trovato ampia divulgazione a partire dagli anni Cinquanta, che la pubblicità e i suoi
messaggi possano sempre e senz’altro condizionare l’individuo e, quindi, il pubblico, che sarebbe
caratterizzato soprattutto dalla propria passività. È questa, come noto, un’ipotesi che si pone in
contrasto con l’assunto teorico, d’altronde ampiamente verificato, che la comunicazione è un
processo che si attua fra due soggetti attivi, un comunicatore e un ricevente, il quale ultimo è in
grado di esporsi o meno alla comunicazione, di recepirla o meno e, in ogni caso, di interpretarla
alla luce dei suoi bisogni e delle sue motivazioni. Se mai vi è da rilevare che il ruolo attivo del
ricevente può assumere concretamente una diversa intensità a seconda di una serie di fattori
(momento in cui viene diffusa la comunicazione pubblicitaria, classe di prodotto pubblicizzata,
ecc), fra cui vanno inseriti anche i caratteri che contraddistinguono il ricevente. La presunzione
di responsabilità riguarderebbe allora in modo specifico - secondo una prima applicazione di una
teoria elaborata dall’Ardigò, che abbisognerebbe in ogni caso di ulteriori sistematici
approfondimenti - i riceventi meno provveduti, quali, a titolo di esempio, i bambini o gli anziani,
mentre, di contro, la pubblicità non assumerebbe presumibilmente alcuna responsabilità quando
venisse rivolta a soggetti provveduti, quali, sempre a titolo d’esempio, il giovane universitario o
l’uomo impegnato nel mondo del lavoro57.
Quanto alla veridicità dei messaggi pubblicitari - altra delle citate condizioni da rispettare - v’è
da ricordare anzitutto che la pubblicità è soggetta a disposizioni legislative, a codici di
autodisciplina, a regolamentazioni concernenti l’impiego dei vari mezzi. Pertanto i margini di
responsabilità specificamente connessi a questo aspetto, quando disposizioni legislative, codici e
regolamentazioni relative ai vari mezzi trovino concreta e tempestiva applicazione, appaiono assai
ridotti. Semmai la responsabilità nel caso in questione consisterebbe nel rilievo ingiustificato
attribuito talvolta nei messaggi ad affermazioni pur veritiere riguardanti in modo specifico il
prodotto, ovvero in un perseguito ed inidoneo equilibrio fra verità e rilevanza della stessa.
La problematica considerata rientra, in ogni caso, in un’area estremamente delicata ed
importante - quella dei contenuti dei messaggi pubblicitari - su cui ritornerò tra breve.
Particolarmente significativa appare, infine, la condizione relativa alla individuazione di
determinate priorità nella pubblicizzazione dei prodotti (beni o servizi), condizione tuttavia il cui
effettivo rispetto non riguarda solo e tanto la pubblicità quanto e in modo specifico la realtà
produttiva che sta a monte della stessa e gli eventuali indirizzi di programmazione nazionale dei
paesi in cui la pubblicità si attua.
Ulteriori aree di responsabilità sociale - sempre secondo l’istruzione pastorale in esame riguardano: la pubblicità in quanto elaboratrice e diffonditrice di messaggi aventi particolari
caratteristiche; la pubblicità come fonte di finanziamento dei mezzi di comunicazione di massa.
Aree, entrambe, suscettibili di ulteriori approfondimenti e di conseguenti puntualizzazioni.
Concetti propri della disciplina relativa alla comunicazione d’azienda appaiono poi - ad un
ventennio circa dal documento esaminato - in due fondamentali testi. Si tratta - più esattamente dell’enciclica Centesimus annus di Giovanni Paolo II (1991) e della già citata istruzione pastorale
Aetatis novae.
57
A. Ardigò, Responsabilità sociali della pubblicità. Relazione al Congresso nazionale della pubblicità
su «La pubblicità per lo sviluppo economico e sociale degli anni ’70», Confederazione generale italiana
della pubblicità, Milano 1972, p. 204.
«I pubblicitari - si afferma chiaramente in quest’ultimo documento - oltrepassano il loro ruolo
legittimo, consistente nell’identificare i bisogni reali e nel rispondervi, e, spinti da motivi di
mercato, si sforzano di creare bisogni e modelli artificiali di consumo» (n. 5).
Mentre, da un lato, è opportuno osservare che nel ruolo citato confluisce - con la
comunicazione pubblicitaria e a monte di questa - quella particolare ottica di governo dell’azienda
che si denomina marketing, dall’altro va ricordato che la stessa enciclica richiamata aveva in
precedenza rilevato che «nei Paesi sviluppati si fa a volte un’eccessiva propaganda dei valori
puramente utilitaristici, con la sollecitazione sfrenata degli istinti e delle tendenze al godimento
immediato, la quale rende difficile il riconoscimento e il rispetto della gerarchia dei veri valori
dell’umana esistenza» (n. 29).
Ora, entrambe le citazioni - come già ricordavo - si richiamano a concetti rientranti nella
disciplina che si occupa della comunicazione d’azienda, in particolar modo con riferimento alla
cosiddetta strategia creativa, ovvero all’identificazione e alle modalità di espressione dei contenuti
dei messaggi.
Al riguardo è stato anzitutto rilevato come la pubblicità consideri sovente il consumatore come
disgiunto dalla persona nella sua globalità, accentuando di conseguenza l’indirizzo ed il contenuto
materialistici dei suoi messaggi. Più in generale, l’analisi di tali messaggi e della relativa struttura
mette in evidenza il prevalere, in un numero consistente di casi, della componente persuasivosuggestiva su quella informativa, il che richiama direttamente il tema del livello di
responsabilizzazione proposto dai messaggi pubblicitari e, con esso, il problema del rapporto tra
contenuto responsabilizzante ed efficacia della pubblicità.
Ora, se il prevalere nei messaggi in esame della componente persuasivo-suggestiva fosse non
solo un carattere, ma il carattere fondamentale della pubblicità, non solo una condizione, ma la
condizione per il manifestarsi della sua efficacia, allora si potrebbe anche affermare che
l’efficacia della pubblicità sarebbe tanto maggiore quanto minore fosse il contenuto in termini di
responsabilità nei confronti della società assunto dalla pubblicità stessa, quanto minore fosse cioè il
livello o il grado di responsabilizzazione proposto dai suoi messaggi. Evidentemente, ove tale
ipotesi, d’altronde riferita solo ad una parte per quanto consistente dei messaggi in questione,
fosse ulteriormente approfondita e dimostrata, la responsabilità della pubblicità consisterebbe
proprio in questa sua proposta di deresponsabilizzazione. Ne deriverebbe l’esigenza di un nuovo
stile pubblicitario, ovvero di più idonee formule di comunicazione, incentrate su un differente
rapporto con il consumatore e sul conseguente contributo da offrire a quella che viene definita
come la sua educazione.
Ritornando al tema fondamentale della responsabilità sociale della pubblicità, si può concludere
osservando come essa si incentri su una interpretazione inattuale del rapporto da instaurare con il
consumatore e, in modo specifico, su una inadeguata partecipazione alla evoluzione dello stesso
(in termini di valori, razionalità, coerenza, ecc.), anche se evidentemente un contributo in tal senso
potrà essere offerto dalla pubblicità solo all’interno di un differente indirizzo di conduzione delle
aziende e sulla base di idonee indicazioni provenienti dalla ricerca.
Come ho avuto occasione di sottolineare,
nuovi compiti ed ulteriori responsabilità attendono il nostro comunicatore e per affrontarli sarà
indubbiamente indispensabile una sempre più perfezionata preparazione tecnica ed una crescente
sensibilità e comprensione umana. L’uomo infatti è, e deve rimanere, al centro di ogni fatto,
indipendentemente dall’evoluzione tecnologica e dagli sviluppi economici e sociali58.
«Tutti, in ogni caso- come è stato autorevolmente affermato - abbiamo interesse che l’altro - il
pubblico - cresca, perché a lungo termine sarà più capace di distinguere il vero dal falso, i
58
G. Mengacci - E. T. Brioschi, Il pubblicitario: evoluzione di un uomo dalla intuizione alla
professione, Relazione al Congresso nazionale della pubblicità, cit., p. 388.
prodotti buoni dai meno buoni e quindi la pubblicità aiuterà veramente il bene a imporsi, le cose
migliori a essere riconosciute tali, attraverso un’educazione e una maturazione del pubblico» 59.
4. Stimoli all’approfondimento disciplinare offerti dalla dottrina sociale.
Nel nostro paese - come d’altronde a livello internazionale - si avverte l’esigenza di elaborare
una cultura della comunicazione d’azienda, intesa quale comprensione vera e piena del ruolo e
delle potenzialità di tale comunicazione colta nella molteplicità delle sue componenti
(comunicazione interna ed esterna, istituzionale e di marca, locale e internazionale, ecc.).
Ora, con particolare riguardo a tale cultura, sarebbe opportuno approfondire: il grado di
conoscenza e di recepimento della dottrina sociale da parte del top management delle aziende o,
più realisticamente, il recepimento dell’istanza etica da parte di tale management; le prospettive
di sviluppo della comunicazione d’azienda e della cultura relativa offerte dalla tecnologia più
evoluta; il contributo che la comunicazione interna è in grado di recare all’azienda intesa quale
«comunità di uomini» (Centesimus annus, n. 35).
Con riferimento poi, a problematiche specifiche di ampio respiro, risulterebbero utili
approfondimenti circa: le influenze e/o i rapporti concretamente esistenti tra la dottrina sociale e
l’attività di autodisciplina della comunicazione d’azienda; le influenze e/o i rapporti concretamente
esistenti tra la dottrina sociale ed i movimenti consumeristici; gerarchie di valori ed incidenza
effettiva della comunicazione d’azienda (con riguardo a specifici pubblici o stili di vita); modelli di
consumo ed incidenza effettiva della comunicazione d’azienda (con riferimento a specifiche
classi di beni e di servizi); l’influenza della comunicazione d’azienda sui contenuti dei mezzi di
comunicazione non commerciale (ad esclusione, dunque, delle radio e delle televisioni
commerciali) 60.
59
C. M. Martini, Necessità e difficoltà del discernimento etico, Intervento al Convegno sul tema «Il
comunicatore: professionista adulto», promosso dall’Associazione italiana tecnici pubblicitari, Milano, 22
marzo 1991, testo ciclostilato, p. 11.
60
Il presente testo è stato steso nel dicembre 1996 e, pertanto, precedentemente l’uscita del documento
del Pontificio consiglio delle comunicazioni sociali, Etica nella pubblicità, Libreria Editrice Vaticana, Città
del Vaticano, 1997. A tale documento è esplicitamente dedicato un contributo in via di pubblicazione.
A GOSTINO GIOVAGNOLI
LA STORIA
1. L’incidenza della dottrina sociale nella società contemporanea
Fin dalle sue prime formulazioni, nell’ultima parte del XIX secolo, la dottrina sociale della
Chiesa è entrata nelle elaborazioni teoriche e nelle opzioni pratiche di molti cattolici per ciò che
riguarda le principali questioni sociali contemporanee. Tale dottrina ha largamente ispirato
pensieri, scelte, azioni di singoli credenti, ma ancora maggiore è stata l’influenza sui cattolici
organizzati in movimenti, partiti, sindacati. L’esistenza di una dottrina sociale della Chiesa ed i
suoi sviluppi siano stati spesso all’origine di tali aggregazioni e della loro attività. Il legame tra
dottrina sociale e movimento cattolico è stato perciò molto stretto. Si tratta di un’influenza che si
è svolta principalmente all’interno dei singoli contesti nazionali, ma non sono mancati
collegamenti internazionali fra cattolici ispirati da tale dottrina. Va anche considerata l’esistenza
di una influenza per così dire diretta - e cioè anche a prescindere dalla mediazione svolta dai
cattolici - della dottrina sociale della Chiesa sulle opinioni pubbliche nazionali ed a livello
internazionale, su singole personalità e su formazioni politico-sociali, su governi e su
organizzazioni sovranazionali. Sotto questo profilo, perciò, l’analisi dell’influenza della dottrina
sociale oltrepassa l’ambito della storia del movimento cattolico e si estende alla storia
dell’istituzione ecclesiastica, alla storia socio-religiosa, a quella delle relazioni internazionali e via
dicendo.
Un bilancio di tale influenza rappresenta un’impresa assai vasta ed impegnativa, che urta
contro un problema metodologico ancora parzialmente irrisolto in campo storico: il problema di
una storia della Chiesa contemporanea à part entiere, in grado di collegare gli aspetti istituzionali
a quelli socio-religiosi, la storia del movimento cattolico a quella dei rapporti fra stato e Chiesa,
ecc. Una storia di questo genere corrisponde ad un’esigenza sempre più sentita, dopo l’intensa
successione di differenti approcci storiografici maturata negli ultimi decenni. Non a caso, tale
esigenza appare assai viva in opere come il Dizionario storico del movimento cattolico in
Italia, tentativo di tracciare il bilancio complessivo di una esperienza nazionale particolarmente
ricca. L’opera curata da Campanini e Traniello, affianca diverse prospettive storiografiche e
tiene in particolare considerazioni approcci inusuali per la storia del movimento cattolico, come
l’ottica socio-religiosa. Ma l’esigenza di una storia della Chiesa à part entiere non ha ancora
trovato uno sbocco totalmente soddisfacente e non è neppure certo che possa trovarlo, date le
grande difficoltà metodologiche di una prospettiva di questo tipo. Appare perciò necessario
ricorrere a diversi approcci storiografici, cercando di raccogliere e collegare i risultati di differenti
metodologie di ricerca.
Una prima questione rilevante riguarda il nodo delle origini. Su questo terreno appare anzitutto
necessario ricorrere alla storia della Chiesa precedente l’età contemporanea. Sono infatti evidenti
i legami fra la dottrina sociale ed una vasta eredità raccolta dai secoli precedenti, riguardante
questioni di fondo come lo sviluppo dell’ecclesiologia cattolica e la conformazione istituzionale di
tale Chiesa, i rapporti con le istituzioni politiche, le tradizioni di esegesi, predicazione, morale
riguardanti la carità ed i poveri, le opere sviluppate in questi campi dai credenti… Tali legami
appaiono sempre più rilevanti con la diffusione di una sensibilità più ricca e di una conoscenza
storica più completa. Negli scorsi decenni, ad esempio, era emersa la tendenza ad attribuire un
significato almeno parzialmente negativo al termine carità per indicare l’azione dei credenti a
favore dei poveri, altro termine oggetto di molteplici diffidenze ma di fatto insostituibile sul piano
dell’analisi storica. Una cultura religiosa più matura e una maggiore dimestichezza con le
prospettive della storia sociale di lungo periodo hanno ispirato un atteggiamento meno impoverito
dalle schematizzazioni ideologiche e più rigoroso sul piano storico. Appare oggi più chiaro che,
per molti aspetti, la dottrina sociale della Chiesa e ciò che essa ha suscitato direttamente o
indirettamente si collegano ad una lunga tradizione precedente e ne esprimono l’adattamento
all’epoca contemporanea. Anche in questa epoca infatti la storia della dottrina sociale della
Chiesa e della sua influenza si collega ad una complessa sedimentazione: si pensi ai legami con
aspetti come l’universalismo cattolico, il centralismo romano, il magistero pontificio. Per ciò che
riguarda i contenuti, la dottrina sociale ha tratto vasto alimento da una sensibilità peculiare della
tradizione religiosa cristiana e che, dopo il Vaticano II, è stata indicata con l’espressione di
«scelta preferenziale per i poveri».
Questo inquadramento storico più ampio ha però fatto anche meglio risaltare le effettive
specificità della dottrina sociale, strettamente collegate a nuovi problemi posti alla chiesa dall’età
contemporanea. Si è a lungo insistito sul rapporto fra questa dottrina e le principali ideologie
contemporanee, in particolare il liberalismo ed il socialismo. In chiave prevalentemente negativa,
sono stati sottolineati la refrattarietà della Chiesa verso gli aspetti positivi di tali ideologie, i
collegamenti con i progetti di un impossibile ritorno ad un regime di cristianità (Miccoli) e la
sostanziale antimodernità di molte posizioni (Menozzi). La dottrina sociale, tuttavia, non è sorta
solo per reazione, imitazione, contrapposizione alle nuove ideologie dominanti. Essa si è inserita
all’interno di un più vasto tentativo della Chiesa cattolica di ridefinire la sua collocazione nel
contesto della società contemporanea soprattutto europea. Emile Poulat ha parlato ad esempio di
un conflitto triangolare fra Chiesa, borghesia e proletariato, paragonando la Chiesa alla Polonia,
la cui integrità territoriale e la cui espressione statuale sono state tante volte negate, ma che ha
continuato tenacemente ad esistere come specifica identità nazionale. Anche la Chie sa, ha
assunto problematiche, linguaggi, modalità tipiche dei nuovi interlocutori: le ideologie, gli stati, i
partiti, i movimenti, ecc. Ed anche la dottrina sociale ha rappresentato un aspetto della complessa
rete delle esigenze di identità, di visibilità, di collocazione che nel corso del XIX e del XX secolo
hanno caratterizzato il rapporto fra Chiesa e società. Tuttavia, come la Polonia, la Chiesa ha
anche costantemente mantenuto una sua diversità dalla società circostante: ed è proprio in questa
diversità che, complessivamente, si radica la principale influenza della Chiesa cattolica e della
stessa dottrina sociale in età contemporanea.
Storicamente, la ridefinizione del rapporto fra la Chiesa e gli stati ha rappresentato una
fondamentale premessa per la nascita della dottrina sociale e ha interagito con i suoi sviluppi. E
la diffusione di tendenze laiciste ed anticlericali ha suscitato il problema di una «difesa degli
interessi cattolici» ad opera di un laicato cattolico organizzato (Taparelli d’Azeglio) che ha
rappresentato un destinatario privilegiato di tale dottrina. Ampia ed abbondante, com’è noto, è la
massa di studi su questi temi a proposito di Italia, Francia, Belgio, Spagna, Germania, Austria ed
altri paesi europei, ma anche di Nord e Sud Americ a. Le ricerche hanno appurato che l’influenza
sugli orientamenti liberali della tradizione cristiana - ed anche in parte di quella cattolica - è stata
rilevante. Esistono numerose tracce di una profonda radice cristiana di alcune delle più
significative istanze espresse dalla nuova sensibilità per i temi della libertà, dell’uguaglianza, della
fraternità affermatisi in Europa dopo la Rivoluzione francese (Scoppola). Ma è anche noto che le
scelte dell’istituzione ecclesiastica si sono spesso rivolte contro le dottrine, le istituzioni e le classi
dirigenti che si sono riconosciute nel liberalismo. Sul piano dei principi, come ad esempio si
evince dal Sillabo, la contrapposizione al liberalismo è stata totale.
Tuttavia, anche nella fase della più dura contrapposizione fra Chiesa cattolica e liberalismo
europeo, gli sviluppi della dottrina sociale cattolica, per esempio sotto il pontificato di Leone XIII,
hanno accompagnato una significativa articolazione dell’atteggiamento cattolico, di cui è rimasto
famoso l’esempio del rallíement nella Francia di fine secolo. Proprio riferendosi a questa
esperienza, De Gasperi, in polemica con Croce ma anche con altri cattolici, sostenne che in una
prospettiva storica più ampia il contributo della istituzione ecclesiastica al progresso della libertà
appariva rilevante in ogni epoca. Egli ammonì in particolare a non guardare l’impatto immediato
degli atteggiamenti ecclesiastici sulle istituzioni politiche, ma a cogliere un più profondo contributo
della Chiesa alla storia umana, a motivo dagli indissolubili legami che costantemente collegano la
sua opera al messaggio evangelico da essa proposto. Va inoltre osservato che, nel tempo,
l’evoluzione del movimento cattolico verso un’azione sociale e politica più incisiva ha spinto i
cattolici verso un crescente inserimento in istituzioni politiche in definitiva originate dal
liberalismo. In Italia, in una prima fase, la dottrina sociale cattolica si è inserita nel dissidio fra
Stato e Chiesa, alimentando la contrapposizione fra paese reale e paese legale, e sostenendo le
masse cattoliche contro ordinamenti liberali fortemente segnati anche da una connotazione di
classe (Fonzi). Ma lo sviluppo del movimento cattolico, anche ad impulso di questa dottrina, è
stata anche all’origine della vicenda del Partito popolare, un’esperienza preziosa per la
maturazione del laicato cattolico italiano (De Rosa).
Molto è cambiato, naturalmente, con l’avvento della società di massa e con la diffusione di
ideologie autoritarie o totalitarie come il fascismo ed il nazismo. Il rapporto fra dottrina sociale
cattolica e fascismo è stato studiato con particolare attenzione per alcune questioni specifiche,
come il corporativismo, attraverso cui è stato colto un qualche appoggio della Chiesa a questo
regime. Per dare un giudizio più completo sul rapporto fra dottrina sociale e fascismo occorre
però tener presente anche altri aspetti, forse ancora più caratterizzanti del corporativismo, come
il problema del nazionalismo o la questione del razzismo, qualificanti anche per cogliere il
rapporto con il nazismo. Ed è noto l’atteggiamento critico su tali questioni, emerso soprattutto
nell’ultimo scorcio del pontificato di Pio XI.
A questo periodo risale anche un significativo sviluppo del tema della unità della famiglia
umana, in nome del quale il magistero della Chiesa ha assunto, con sempre maggior frequenza,
posizioni critiche verso conflitti e guerre. Rilevante appare pure la condanna, nel 1926,
dell’Action Française, che ha avuto grande importanza nello svincolare il cattolicesimo dalle
strumentalizzazioni politiche e nel separare i suoi interessi da quelli di una certa logica di ordine e
conservazione e dal primato della civilizzazione europea nel mondo. Indirettamente, tale
condanna ha influenzato anche la dottrina sociale ed il movimento cattolico - si pensi alla
parabola di Maritain -, facilitando un approdo più convinto alle prospettive della democrazia e
favorendo un nuovo approccio teologico alle realtà temporali (Chenu). Nell’insieme, pur con
fatica e certo fra contraddizioni, già durante il pontificato di Pio XI vennero poste le premesse di
sviluppi della dottrina sociale cattolica verso nuove direzioni, emerse poi più compiutamente con il
Vaticano II.
Per quanto riguarda invece il rapporto fra dottrina sociale della Chiesa, socialismo e
comunismo non si può negare un qualche influenza delle prime tendenze socialiste su aspetti
fondamentali della dottrina sociale cattolica, le cui prime formulazioni organiche - anzitutto la
Rerum novarum - appaiono radicate nella esigenza di indicare limiti e correttivi dello sviluppo
industriale. Nel complesso però l’atteggiamento della dottrina sociale della Chiesa è stato
piuttosto critico verso queste correnti, soprattutto quando esse sono entrate sotto l’influenza
marxista o hanno assunto una più radicale fisionomia comunista. Alcuni studiosi hanno
sottolineato i legami tra movimento cattolico e borghesia capitalistica, denunciando i limiti della
dottrina sociale cattolica nel campo di una effettiva tutela degli interessi del prole tariato
industriale (Mario G. Rossi). Tuttavia, anche su questo terreno, lo schema triangolare indicato da
Poulat coglie una verità più profonda.
Molto è poi cambiato dopo il 1917, quando tali correnti ideali e sociali hanno trovato
espressione nell’esperimento sovietico. Appare perciò necessario tener conto dei rapporti più
complessi fra la Chiesa, l’Urss e gli altri stati comunisti sorti successivamente, per comprendere
gli sviluppi della dottrina sociale della Chiesa in questo campo. Alla radice di molti atteggiamenti
negativi verso il comunismo v’è stato infatti anzitutto il carattere ateo o almeno antireligioso ed
anticattolico di questi regimi. Tale radice rivela l’esistenza di una specifica valenza religiosa
prima che politica dell’opposizione cattolica al comunismo. La ricerca storica ha ad esempio
documentato che il momento culminante di tale posizione, la scomunica del 1949, è da porre in
diretta relazione con le persecuzioni allora in corso nei paesi dell’Europa orientale (Riccardi). La
radice religiosa dell’anticomunismo ha indirettamente influenzato anche gli apporti più specifici
della dottrina sociale sul sistema socialista realizzato in Urss ed altrove. E ciò ha avuto rilievo
anche per le vicende del movimento cattolico, che si è sviluppato spesso in relazione a queste
correnti ideologiche e a regimi e partiti che ne sono stati espresslone .
Malgrado il rilievo di queste vicende, come si è già accennato, il rapporto fra dottrina sociale e
ideologie contemporanee non solo non ha esaurito i contenuti, gli orientamenti, gli scopi di questa
dottrina, ma non ha neppure assorbito tutte le prospettive del movimento cattolico. Oltre alla
difesa degli interessi della Chiesa, fin dagli inizi tale movimento ha cercato di farsi carico di
principi e valori cristiani, dalla scuola alla famiglia, dalla difesa del lavoro alla distribuzione delle
ricchezze, sul piano sociale, politico, giuridico. Con il tempo, i cattolici hanno cercato di andare
ancora oltre, spingendo la loro attenzione verso tutti i principali problemi sociali contemporanei e
facendosi portatori di un progetto globale sulla società. Ciò è avvenuto più facilmente dopo che
questioni a lungo irrisolte nei rapporti fra Stato e Chiesa erano state superate e quando
l’affermazione di sistemi democratici ha offerto loro nuove chances: in concreto, dopo il declino
dell’esperienza liberale ed il superamento dei regimi fascisti.
Ciò è accaduto ad esempio nell’Italia del secondo dopoguerra, dopo che nel ’29 la questione
romana era stata definitivamente risolta. Qui si è sviluppato forse il maggior tentativo, sul piano
storico, di realizzare una «guida cattolica» della società. Per la prima volta nella storia italiana, si
è imposta una classe dirigente cattolica, nella cui formazione la dottrina sociale aveva avuto un
ruolo rilevante. Il bilancio di tale esperienza appare oggi prevalentemente negativo e ciò getta
molte ombre almeno sulle vicende ultime del movimento cattolico italiano e sul suo rapporto con
la dottrina sociale della Chiesa. In realtà, non disponiamo ancora di una soddisfacente
ricostruzione storica dell’Italia repubblicana, in grado anche di dar conto in modo esauriente degli
esiti di questa esperienza. Sicuramente, il bilancio negativo non riguarda tutta la realtà del
cattolicesimo organizzato allo stesso modo: le correnti che sono rimaste più legate alle esperienze
sociali come quelle del sindacalismo cattolico (Zaninelli), ad esempio, hanno conservato un
legame più autentico con la dottrina sociale della Chiesa. Tuttavia, l’esperienza della «guida
cattolica» è stata, o almeno è apparsa, troppo rilevante per il cattolicesimo italiano e per il paese
nel suo complesso perché si possa eludere l’esigenza di un giudizio storico globale su di essa.
Probabilmente, la storia di questa vicenda va inquadrata nei vasti cambiamenti complessivi che
negli ultimi cinquant’anni hanno profondamente modificato la situazione complessiva della società
contemporanea in Italia ma non solo. Sono cambiati anche gli orientamenti della Chiesa e la
stessa dottrina sociale. Qualcuno ha parlato di fine della dottrina sociale cattolica. Ma queste
voci si sono rivelate premature: il pontificato di Giovanni Paolo II, ad esempio, è stato
caratterizzato da numerosi pronunciamenti in questo campo. Tuttavia, qualcosa è effettivamente
cambiato in profondità, in particolare con Giovanni XXIII ed il Concilio Vaticano II.
Naturalmente, questa cesura non deve essere assolutizzata: per esempio, già nel pontificato di Pio
XII si possono trovare intuizioni poi raccolte dai testi conciliari e riprese da Paolo VI. Ma il
pontificato giovanneo ha davvero introdotto importanti elementi di novità, come una dilatazione
della dottrina sociale della Chiesa nella direzione di una lettura complessiva delle tendenze della
storia - «i segni dei tempi» - ed un decisivo allargamento dei suoi destinatari - tutti «gli uomini di
buona volontà» -. Già nella Mater et magistra, inoltre, si affermava che la questione sociale
aveva ormai assunto dimensioni mondiali.
Il pontificato di Giovanni XXIII sembra aver portato ad esplicita maturazione tendenze già da
tempo presenti all’interno della Chiesa cattolica. Gli storici hanno segnalato alcune linee portanti
della crescente evoluzione, soprattutto nel corso di questo secolo, del rapporto fra Chiesa e
mondo contemporaneo (Riccardi). Sempre più coinvolto nei grandi problemi che hanno afflitto i
popoli nel XX secolo, il papa è ad esempio diventato anche una voce sempre più ascoltata,
seppure non sempre seguita. Non si tratta propriamente, come talvolta si è creduto, di una
dilatazione dell’azione della diplomazia vaticana, ma piuttosto di un riconoscimento spontaneo
sempre più diffuso di una grande autorità morale con cui anche i governanti hanno dovuto fare i
conti, malgrado le ironie di Stalin sull’assenza di «armate» al servizio del papa.
Collegata all’evoluzione dei rapporti tra Chiesa e società, emblematicamente espressi dal
mutato rapporto fra il papa ed il mondo, è stato anche l’allargamento delle tematiche affrontate
dalla dottrina sociale. Tale allargamento è ad esempio testimoniato dalla raccolta delle Fonti
documentarie curata dal Centro di ricerche per lo studio della dottrina sociale della Chiesa
dell’Università cattolica, che rinvia giustamente ad una serie molto ampia di documenti pontifici
riguardanti non solo questioni più tradizionali come quelle legate all’industrializzazione, allo
sviluppo sociale, ai rapporti fra le classi, ma anche ad altre tematiche, dalla giustizia nelle
relazioni internazionali alla situazione dei paesi sottosviluppati, dalla condizione della donna ai
problemi dei rifugiati. Si registra in questo senso un costante allargamento dell’attenzione della
Chiesa verso problemi e materie che oltrepassano il campo più strettamente religioso e
l’abbandono di talune preoccupazioni apologetiche o difensivistiche, nella direzione di un interesse
sempre più esplicito per l’uomo e la società umana in quanto tali.
A partire da Giovanni XXIII, i temi della guerra e della pace - peraltro già toccati in
precedenza, fin dal pontificato di Benedetto XV - hanno acquistato un rilievo crescente, mentre
si delineava una nuova collocazione della Chiesa nei rapporti con gli stati, le organizzazioni
internazionali, l’opinione pubblica mondiale. In seguito, encicliche come la Populorum
progressio o la Octogesima adveniens di Paolo VI sono state considerate tappe importanti
nell’evoluzione della dottrina della Chiesa, in rapporto ai temi dello sviluppo ed al rapporto NordSud ed alla ridefinizione del senso e delle modalità dell’impegno politico dei cattolici. Un capitolo
nuovo si è aperto con Giovanni Paolo II, con il rilancio della dottrina sociale della Chiesa, «che
sembrava essersi alquanto ridotta con Paolo VI». Questo papa ha sentito il bisogno di ridare al
cattolicesimo un linguaggio suo proprio per parlare delle ingiustizie e delle miserie del mondo
(Riccardi). Il magistero di Karol Woityla ha cercato di sottrarre alcune categorie come popolo,
poveri, storia ad una lettura marxista. Tuttavia questa ripresa della dottrina sociale cattolica non è
stato un ritorno al passato: Giovanni Paolo II ha tenuto conto dello spostamento emerso nel
magistero di Paolo VI dalla questione operaia ai rapporti fra Nord e Sud del mondo e ha ribadito
che la Chiesa non ha soluzioni tecniche da offrire ma che è soprattutto «esperta di umanità».
Questo papa ha tenuto anche a marcare le distanze della Chiesa cattolica dal modello capitalista.
Egli ha inoltre promosso nuove prospettive, introducendo nella Chiesa una ampia riflessione sul
problema della difesa della vita e del rispetto dei diritti umani.
Con il pontificato di Giovanni Paolo II, durante il quale è finita la guerra fredda e si è dissolto il
blocco sovietico, per i credenti si sono posti nuovi interrogativi e si sono aperte nuove prospettive.
La fine delle ideologie non sembra aver coinciso con la scomparsa della dottrina sociale della
Chiesa. Già nel 1987, Giovanni Paolo II scriveva che la dottrina della Chiesa non è «un’ideologia
ma l’accurata formulazione dei risultati di un’attenta riflessione sulle complesse realtà
dell’esistenza dell’uomo, nella società e nel contesto internazionale, alla luce della fede e della
tradizione ecclesiale» (Sollicitudo rei socialis). Ed il collasso del marxismo, sembra aver
rilanciato tale dottrina come espressione di un impegno contro la miseria e le ingiustizie, al di là
della critica di sistemi sociali erronei. Negli ultimi decenni, insomma, per la dottrina sociale della
Chiesa sembra esserci stata una dilatazione di prospettive, interlocutori ed argomenti. Liberata
dai condizionamenti di un confronto ravvicinato con i grandi sistemi ideologici, tale dottrina si è
inoltre trovata davanti alla possibilità di riscoprire meglio le sue radici. E mentre l’interesse per la
società e per l’uomo in quanto tali hanno acquistato nel magistero della Chiesa crescente
evidenza, anche per l’influenza della dottrina sociale si sono delineati nuovi orizzonti.
2. Influenze della storia contemporanea sulla dottrina sociale
Il contributo della disciplina «storia contemporanea» alla dottrina sociale della Chiesa si
colloca nel contesto della più ampia questione del rapporto fra approccio storico e cultura
cattolica. È noto che a partire dalla seconda metà dell’800, cultura cattolica ed in particolare
quella ecclesiastica sono diventate più impermeabili all’influenza delle discipline storiche
(Traniello). Questa tendenza ha coinvolto anche la dottrina sociale, anche se questa si è spesso
occupata di questioni specifiche della società contemporanea e dei suoi sviluppi. Su tale dottrina
hanno pesato in modo particolare i legami con l’approccio lammenaisiano ai principali problemi
contemporanei che, seppure colpito da condanne pontificie, ha esercitato comunque larga
influenza sulla cultura cattolica XIX secolo.
Il momento di maggior tensione è stato raggiunto con il modernismo, quando l’irrigidimento
disciplinare ha colpito una effervescenza culturale molto sensibile agli apporti del metodo storico.
La temperie modernista ha posto soprattutto in modo acuto il problema del rapporto fra analisi
storica ed ispirazione scritturistica: in questa fase, cioè, è emerso soprattutto il problema del
confronto con la storia antica e con discipline affini come l’archeologia, l’orientalistica, l’esegesi
e via dicendo. Anche nel modernismo però - malgrado l’attenzione verso tendenze specifiche
della società contemporanea, dal socialismo al pacifismo, dal cosmopolitismo all’«americanismo»
- il problema del rapporto con la storia moderna o contemporanea non è stato affrontato in modo
organico.
Gradualmente, la storia ecclesiastica ha cominciato a riconquistare uno spazio maggiore in
istituzioni formative come i seminari e le facoltà teologiche. Particolare rilievo ha avuto ad
esempio l’esperienza romana, caratterizzata da figure come quella di mons. Pio Paschini.
Altrove, dalla storia ecclesiastica si è passati ad un’ampia serie di studi sulla storia medievale (lo
stesso Pio XI aveva effettuato ricerche in questo campo prima di diventare papa). Nella
direzione di un nuovo interesse per la storia hanno cominciato intanto a convergere filoni
importanti del rinnovamento cattolico del XX secolo, come il movimento liturgico o quello biblico.
Molteplici sollecitazioni - come quelle provenienti dal campo missionario e dalla questione della
decolonizzazione - hanno portato a considerare con attenzione le diverse configurazioni assunte
dalla Chiesa nei diversi contesti storici. Lo stesso lavoro dei teologi si è avvalso con più
frequenza di un ricco materiale storico (Congar, Chenu, De Lubac). A suggestioni provenienti dal
mondo protestante ha corrisposto anche in campo cattolico una intensa discussione su fede e
storia. Particolarmente in Germania, la storia della Chiesa è stata assunta in modo centrale da
una riflessione teologica che l’ha valorizzata in una prospettiva incarnazionista, pneumatologica,
trinitaria (Kasper). Ulteriore impulso è venuto poi dal recupero della tensione escatologica
(Metz). Nel corso del XX secolo, inoltre, le nuove problematiche socio-economiche
contemporanee hanno sollecitato, soprattutto da parte dei laici, una nuova attenzione per la
dimensione storica: si pensi alla tradizione di storia economica fiorita all’interno dell’Università
cattolica. Ed infine, il ritorno dei cattolici all’impegno politico in vari paesi ha favorito anche una
larga produzione di ricerche sulla storia del movimento cattolico. Dagli anni ’20 agli anni ’60,
insomma, per molte vie i cattolici sono tornati ad interessarsi di storia, con una inedita attenzione
anche per quella contemporanea.
Questi diversi filoni sono giunti a maturazione con Giovanni XXIII - in gioventù studioso di
storia e sempre attento a questa dimensione - e con il Concilio. Il ritorno della Chiesa alla storia,
per così dire, non è però avvenuto principalmente per impulso di un’esigenza culturale, ma è
stato animato soprattutto da una tensione pastorale. In Giovanni XXIII, il senso che la Chiesa era
un «giardino» più che un «museo» e le esigenze di «aggiornamento» spingevano verso una
ricomprensione sia della precedente storia della Chiesa che della sua collocazione attuale nel
mondo. Anche sotto il profilo dell’influenza della storia sulla dottrina sociale, il pontificato di
Giovanni XXIII ed il Concilio hanno rappresentato uno snodo importante. È noto il rilievo, anche
per questa dottrina, della sensibilità giovannea per i «segni dei tempi». Il collegamento fra
aggiornamento della Chiesa e attenzione a questi segni è stato poi recepito dalla Gaudium et
spes sotto l’influenza del tema montiniano del «dialogo» (Campanini). «Con il mondo, si aprivano
le porte alla storia: “la Chiesa nel mondo d’oggi”; e con la dimensione storica dell’economia
cristiana, entravano i segni dei tempi che sono necessari non soltanto per scandire i momenti del
suo cammino, ma per definirne la costituzione» ha scritto Chenu. Una delle maggiori novità del
linguaggio conciliare, ha notato Alberigo, è stata rappresentata dall’abbandono di un riferimento
esclusivo a prospettive dogmatiche e giuridiche e dal frequente riferimento alla dimensione della
storia.
Nei testi conciliari era soprattutto presente un recupero dell’approccio patristico alla storia
(Campanini). Tuttavia, la svolta impressa dal Concilio ha rappresentato l’inizio di un vasto
intreccio fra cultura cattolica e dimensione storica che ha preso poi molteplici direzioni. Ed in
questo multiforme sviluppo anche la questione del rapporto fra storia contemporanea e dottrina
sociale ha acquistato maggior rilevanza. Per analizzare questo rapporto, va però ricordato che
non è facile definire in modo univoco la disciplina «storia contemporanea», anche se essa ha alle
spalle una storia molto breve e non solo da un punto di vista accademico. Tuttavia, in campo
contemporaneistico è maturata negli ultimi anni se non una metodologia univoca quantomeno una
sensibilità diffusa che ha contribuito a differenziarla, almeno in parte, da altre discipline storiche.
A ciò hanno contribuito elementi specifici come la prossimità cronologica dell’oggetto di studio e
la quantità e la qualità delle fonti utilizzabili, ma anche le evoluzioni più recenti della stessa
vicenda storica. Per lungo tempo, com’è noto, negli studi di storia contemporanea hanno avuto
grande rilievo forti influenze filosofiche, come quelle esercitate dall’idealismo e dal marxismo, ed
un primato della storia politica su altre ottiche. Ma anche la storia contemporanea è stata sfidata
e rinnovata dalla rivoluzione metodologica delle «Annales». Ed oggi i contemporaneisti appaiono
spesso diffidenti verso impostazioni ideologiche troppo rigide mentre si mostrano più aperti verso
gli apporti di altre discipline - come la geografia, l’economia, la sociologia, il diritto - utili per
cogliere e descrivere connessioni e interdipendenze che caratterizzano in modo peculiare la
vicenda contemporanea.
Indubbiamente, dopo Giovanni XXIII e Paolo VI, il magistero della Chiesa ha mostrato
maggior familiarità con la storia contemporanea. L’esigenza di un approccio storico
contemporaneistico era ad esempio già presente, almeno implicitamente, nella Mater et
magistra. Quest’enciclica si apriva con una considerazione degli sviluppi attraversati dalla
dottrina sociale sotto l’influenza degli avvenimenti contemporanei e sottolineava l’esistenza di
altri più recenti evoluzioni in campo scientifico-tecnico-economico, sociale e politico. Il legame
con la dimensione storica era ancora più evidente nella Pacem in terris, particolarmente attenta
a cogliere i principali «segni dei tempi» presenti nella società contemporanea. Con Paolo VI la
Chiesa ha operato un vasto ripensamento della propria collocazione in un mondo segnato dal
tramonto della civiltà agricola e dalle tensioni dell’urbanizzazione, mentre l’emersione di popoli
nuovi nel Terzo mondo cambiava gli scenari mondiali. Ed è nota la stretta compenetrazione fra il
pensiero di papa Montini e molte tematiche che hanno agitato l’uomo contemporaneo.
L’attenzione di Giovanni Paolo alla storia contemporanea si inserisce in una più ampia
considerazione per la storia in generale: questo papa appare ad esempio vivamente consapevole
delle eredità, sia positive che negative, lasciate dalla storia della Chiesa dei secoli passati. Nella
lettera apostolica Tertio millennio adveniente, egli ha tracciato un panorama complessivo della
vicenda della Chiesa nel XX secolo. Il suo interesse riguarda anche la storia del mondo. È nota
la sua conoscenza della storia europea e la sua sensibilità per alcune costanti di questa storia,
come i temi della nazione e delle nazionalità, emerse frequentemente nei pronunciamenti sulla
guerra in Jugoslavia ma presenti anche negli interventi sulle radici cristiane della vocazione
unitaria dell’Italia. Questa sensibilità storica è presente anche nella dottrina sociale di questo
pontificato. Nella Sollicitudo rei socialis, scritta a venti anni dalla Populorum progressio, ad
esempio, Giovanni Paolo II ha rilanciato la prospettiva di un autentico sviluppo umano di fronte a
tanti segni negativi che sembravano aver interrotto una ottimistica marcia verso il progresso.
Nella Centesimus annus, egli ha poi ripercorso brevemente la storia mondiale dell’ultimo secolo,
sviluppatasi fra guerre e ideologie, segnata dal fallimento del socialismo e dalla disumanità del
consumismo. In questa enciclica egli ha anche offerto un’interpretazione storica degli eventi del
1989, «fatto unico in un documento papale» (Riccardi).
3. Suggestioni della dottrina sociale per lo studio della storia contemporanea
Dalla dottrina sociale della Chiesa sono venuti molteplici stimoli allo studio della storia
contemporanea. In alcuni casi ciò è particolarmente evidente, ad esempio per quanto riguarda la
storia del movimento cattolico, per tanti motivi strettamente connessa a questa dottrina. Il
problema si pone in modo particolarmente interessante per l’oggi. Le evoluzioni più recenti di
questa dottrina hanno influito sugli ultimi sviluppi della storia contemporanea o comunque
indicano a questa nuove prospettive? Conviene probabilmente collocare anche questo problema
in un contesto più vasto, quello dell’influenza che viene dalla Chiesa e dal suo magistero verso lo
studio della storia contemporanea.
Si può rilevare anzitutto che la Chiesa - ed in particolare la dottrina sociale - esercitano una
influenza su tale disciplina come oggetto di studio. Le peculiarità dell’oggetto di ricerca hanno
infatti spinto quest’ultima ad affinare i suoi strumenti e ad allargare le sue prospettive. La atipicità
e la complessità della Chiesa come oggetto di indagine hanno ad esempio avuto, negli scorsi
decenni, un effetto positivo su uno studio storico troppo spesso condizionato da schematizzazioni
ideologiche. La necessità di addentrarsi in profondità nella Chiesa come oggetto di studio e quella
di sottoporre questo oggetto ad una analisi sempre più rigorosa hanno insomma probabilmente
avuto un effetto incrociato: una sorta di «laicizzazione» della storia contemporanea, sollecitata a
liberarsi da incrostazioni ideologiche, e di «deideologizzazione» dello studio della Chiesa, spinta ad
alleggerirsi da approcci confessionali o anticlericali. Al centro di questa influenza reciproca e per
certi aspetti similare c’è una maggiore consapevolezza della complessità, tanto della società
contemporanea quanto della realtà della Chiesa cattolica. Ed una dottrina sociale profondamente
aggiornata sembra oggi spingere la storia contemporanea ad interrogarsi su aspetti e problemi di
particolare ampiezza, quali le implicazioni morali dei processi economici e politici, i fattori di
interdipendenza fra piani e fenomeni diversi, le dimensioni sempre più mondiali della questione
sociale, la centralità dei diritti umani rispetto agli assetti istituzionali nazionali o sovranazionali e
via dicendo.
Oltre agli stimoli che sono venuti dalla Chiesa in quanto oggetto di ricerca, la storia
contemporanea ha ricevuto molteplici suggestioni anche dal magistero cattolico. Già a partire da
Giovanni XXIII, distinzioni come quelle fra l’errore e l’errante e tra ideologie e movimenti da
esse ispirati sono rimaste giustamente famose. Questo pontefice, pur senza contrapporsi alle
esigenze di scientificità proprie della ricerca storica, ha saputo suggerire una visione
misericordiosa della storia, particolarmente importante per la vicenda contemporanea, così
profondamente segnata da contrasti e tensioni e rispetto alla quale molti «profeti di sventura»,
anche in campo ecclesiastico, non sapevano trovare atteggiamenti positivi. Dal magistero di
Paolo VI sono venuti impulsi significativi per una riconsiderazione di alcuni problemi importanti,
come quelli dei rapporti fra stato e Chiesa, religione e politica, clero e laicato. Ancora più
profonda è stata l’influenza di questo pontificato in campo ecumenico e sulla ricostruzione della
storia delle relazioni fra diverse confessioni cristiane. Forse però il suo contributo più incisivo si è
espresso nel favorire una maggior percezione della intrinseca storicità della Chiesa e dei profondi
legami di questa con la storia del mondo.
A Giovanni Paolo II, si può poi forse attribuire se non una vera e propria interpretazione della
storia contemporanea almeno una sua visione dei problemi principali di tale storia. Nel suo
magistero gli eventi dell’ultimo secolo non appaiono accostati casualmente, ma alcuni assumono
un ruolo più rilevante degli altri e contribuiscono ad illuminarne il significato. È il caso della
Seconda guerra mondiale, intesa come una sorta di avvenimento epocale, ed all’interno di questa
di alcuni eventi particolarmente carichi di significato, come quelli legati ad Auschwitz ed
Hiroshima. Questi luoghi, infatti, le memorie che rappresentano, il loro spessore simbolico non
sono solo evocati per sostenere un appassionato magistero di pace ma anche assunti come
tragica rivelazione del volto e della condizione dell’uomo contemporaneo. Per questo papa, alcuni
avvenimenti contemporanei e la storia contemporanea nel suo insieme diventano cioè spunti per
una visione sapienziale e per certi aspetti profetica, in cui l’uomo assume una fortissima
centralità.
Tutto ciò interroga gli studiosi e li spinge a riconsiderare la guerra ed il suo ruolo nella storia
contemporanea. L’interpretazione della Seconda guerra mondiale come evento epocale è ad
esempio illuminante riguardo a problemi la cui analisi ha ricevuto nuovi impulsi dalla fine della
guerra fredda, che per molti decenni ha indirettamente limitato una libera discussione
storiografica su molti eventi cruciali del XX secolo. Superando abituali confini metodologici
spesso troppo angusti, il contemporaneista viene sollecitato dal magistero di questo pontefice ad
affrontare tutte le dimensioni della «guerra totale», esperienza tragicamente esclusiva dell’età
contemporanea. E nel cuore di questa esperienza si colloca anche una problematica di grande
rilievo morale come quella del rapporto tra sterminio e modernità, presente, sia pure in modo
molto diverso, sia nell’evento di Auschwitz che in quello di Hiroshima. Gli interrogativi posti da
questo rapporto gettano una luce inquietante su tutta la vicenda contemporanea ed in particolare
sulla natura profonda dell’azione umana nel suo complesso, che molti considerano caratteristica
specifica dell’uomo moderno.
Più in generale, tra le principali sollecitazioni recenti che vengono dalla dottrina sociale della
Chiesa allo studio della storia contemporanea c’è soprattutto «l’opzione preferenziale per i
poveri». Nella Centesimus annus Giovanni Paolo II ha scritto:
L’amore della Chiesa per i poveri, che è determinate ed appartiene alla sua costante tradizione, la spinge
a rivolgersi al mondo nel quale, nonostante il progresso tecnico-economico, la povertà minaccia di
assumere forme gigantesche. Nei paesi occidentali, c’è una povertà multiforme dei gruppi emarginati, degli
anziani e malati, delle vittime del consumismo e, più ancora, dei tanti profughi ed emigrati; nei paesi in via
di sviluppo si profilano all’orizzonte crisi drammatiche, se non si prenderanno in tempo misure
internazionalmente coordinate.
Con questa sintesi, Giovanni Paolo II si collega alle origini più antiche della dottrina sociale e
spinge lo sguardo verso gli sviluppi più recenti della società contemporanea. Sottratta a molte
interpretazioni sociologiche strumentali, la multiforme realtà dei poveri si presenta infatti come un
vasto campo di ricerca ed un problema capace di illuminare indirettamente squilibri e
contraddizioni del mondo attuale. In questo modo, Giovanni Paolo II coglie e rilancia le nuove
possibilità aperte dalla fine del periodo delle ideologie e suggerisce ampie prospettive di ricerca
alla storia contemporanea.
M ICHELE GRILLO
LA MICROECONOMIA
1. Oggetto del mio intervento è una breve riflessione intorno alla domanda b): « Quali impieghi
delle risultanze scientifiche della disciplina ha fatto la dottrina sociale della Chiesa; ovvero quale
contributo di conoscenza la disciplina ha dato al corpo dottrinale complessivamente
considerato?» Quanto alla domanda a), sull’incidenza o la fecondità che la dottrina sociale ha
avuto nella storia della nostra società in base alle risultanze scientifiche della disciplina tenderei a
rispondere che esse sono state genericamente deboli, soprattutto se, per le ragioni che cercherò
di chiarire più avanti, si tiene esplicitamente conto del metodo con cui l’economia moderna
affronta le questioni teoriche più astratte ed essenziali. Ancora più difficile è, date le stesse
premesse, offrire una risposta alla domanda c) che è in sé orientata in chiave direttamente
positiva. In verità, anche con riferimento alla domanda b) la riflessione che esporrò di seguito non
può, né intende, configurarsi come una risposta, neppure in forma indiretta. Ma le questioni sulle
quali la domanda ci interroga non possono essere eluse da chiunque voglia confrontarsi con il
proprio ruolo di ricercatore sociale nel dibattito contemporaneo; così, benché incapace di una
risposta nella forma probabilmente attesa, non mi sottrarrò alla richiesta e cercherò di esplicitare
un percorso, personale e inconcluso, di ricerca.
2. La disciplina nella quale ho qualche competenza è la teoria microeconomica, ossia, in
termini stilizzati, lo studio delle relazioni sociali che assumono la forma di relazioni di scambio tra
soggetti economici descritti come individui razionali. La microeconomia contemporanea sta
attraversando da circa venti anni un travaglio metodologico che si accompagna all’ambizione,
neppure tanto segreta, di costituirsi come la disciplina teorica fondativa di ogni scienza sociale: il
microeconomista chiede oggi cittadinanza al giurista per una teoria economica del diritto; al
politologo per una teoria economica delle forme di governo; al sociologo per la teoria economica
dell’organizzazione e l’analisi economica delle convenzioni sociali. E così via. Questo
orientamento imperialistico può essere ricondotto a due momenti essenziali dello sviluppo della
disciplina:
a) l’estensione di una teoria del comportamento razionale del soggetto sociale, dallo studio
dell’individuo in isolamento allo studio di un individuo esplicitamente trattato come attore sociale.
La teoria del comportamento razionale in un contesto di interazione sociale - convenzionalmente
nota come teoria dei giochi - dopo un lento avvio a partire dalla pubblicazione nel 1944 del libro di
J. von Neumann e O. Morgenstern si è sviluppata con grande accelerazione negli ultimi venti
anni, permeando di sé qualsiasi indagine in economia; essa ha nel contempo offerto gli strumenti
per una riconduzione, appunto imperialistica, di ogni problema relativo ai meccanismi di
convivenza sociale a un proble ma di scelta razionale, e quindi a un problema economico;
b) la riconduzione di ogni relazione sociale a una relazione contrattuale, cioè una relazione che
presuppone da un lato il perseguimento di un mutuo vantaggio a fondamento di ogni rapporto
sociale; e dall’altro riconosce che l’ottenimento di tale vantaggio reciproco non è problema
banale, ma richiede il disegno di appropriati meccanismi organizzativi.
3. Non è tuttavia l’elemento imperialistico in sé quello sul quale vorrei concentrare la mia
attenzione, bensì l’approccio metodologico che lo guida. Di questo approccio metodologico
vorrei ricostruire brevemente la genesi, affidandomi evocativamente a una pagina de I fratelli
Karamazov (libro sesto, II, d) nella quale Dostoevskij offre un affresco potente che compendia
in poche parole un secolo - il suo secolo - di storia del pensiero economico. Il personaggio del
brano citato afferma, a un certo punto, quanto segue: «Queste cose...» - e intende la capacità
degli uomini di condivisione, di farsi fratelli; una capacità il cui sviluppo, a giudizio dello scrittore,
non può essere affidato al progresso tecnologico e produttivo, all’aiuto della scienza e del profitto
- «si avvereranno, ma prima deve concludersi il periodo dell’isolamento umano».
L’isolamento di cui Dostoevskij parla è una potente metafora del mercato, ossia di un assetto
ideale della società che l’autore ricostruisce presentandolo congiuntamente come premessa e
come progetto antropologico. Tale ricostruzione rende conto con grande sintesi di un percorso
culturale che, iniziato nel XIX secolo, ha permeato di sé la ricerca economica anche nella prima
metà del secolo XX. Nell’elaborazione teorica portata a compimento negli anni ’50 di questo
secolo l’homo oeconomicus è, nel mercato, un individuo totalmente estraniato da ogni relazione
sociale: nulla che possa concernere i suoi affetti, nulla che abbia a che vedere con la soluzione
dei suoi problemi pratici, può essere posto in relazione con una esperienza condivisa con gli altri
uomini. Il mercato è infatti, per definizione, l’ambito nel quale le azioni che il soggetto economico
è posto in grado di compiere sono irrilevanti sotto ogni aspetto per ciascun altro soggetto con cui
entra in relazione. Queste azioni non hanno alcun effetto su ciò che è bene o male per gli altri
uomini; nel mercato solo a se stesso egli può - in termini di fatto - fare bene o fare male.
Nel linguaggio della teoria economica contemporanea, il mercato è un contesto nel quale ogni
effetto esterno delle azioni che un soggetto compie è interamente rimosso, in quanto
completamente interiorizzato attraverso il meccanismo dei prezzi. Il mercato realizza allora le
condizioni nelle quali ciascun soggetto economico rimane unico parametro di giudizio delle proprie
azioni: poiché infatti con il suo agire può arrecare bene o male soltanto a se stesso, il soggetto nel
mercato può lasciarsi guidare nelle proprie azioni solamente dalla valutazione del bene e del male
che tali azioni arrecano a lui. Ciascun soggetto, si postula allora, è in grado di discernere ciò che
è bene e ciò che è male - in termini delle conseguenze sociali delle proprie azioni - distinguendo
ciò che è bene o male per sé. Posto così in grado di valutare le conseguenze del proprio agire, e
scegliendo ciò che per lui è bene, il soggetto sceglie ciò che è bene; e in questo senso infine, in
questa capacità di valutare e di scegliere, egli è razionale , almeno nel significato che la teoria
economica attribuisce a questo termine.
La ricostruzione analitica del mercato si fonde nella storia delle idee con un elemento
normativo e con una istanza progettuale. In primo luogo, nel mercato, ciascun soggetto sociale
può avere individualmente pieno dominio dei propri valori: non solo non c’è per lui necessità di
valori condivisi, ma non c’è necessità neppure di interrogarsi sul senso di questi valori; o
comunque tale interrogarsi non ha alcun rilievo dal punto di vista dell’analisi delle forme
organizzative della società. In secondo luogo, il risultato analitico principale della teoria economica
del mercato è che l’esito sociale - dell’agire di individui guidati ciascuno dall’obiettivo di
realizzare un proprio sistema di valori sul quale ha pieno dominio - è collettivamente desiderabile,
sia pure alla luce dello stesso criterio interno che guida la scelta di ciascun individuo: il cosiddetto
Primo teorema dell’economia del benessere afferma infatti che, partendo dall’esito di mercato,
non è possibile arrecare del bene ad alcun soggetto sociale senza nel contempo arrecare del
male ad altri soggetti. Il mercato è in altri termini concepito come quell’assetto astratto nel quale
nessuna restrizione nel profilo dei valori individuali, nessuna metanoia, si rende necessaria
affinché la convivenza sociale sia non solo possibile, ma si realizzi anche in forme desiderabili,
ottimali .
4. Il dibattito teorico in economia tra la seconda parte del secolo scorso e la prima parte di
questo secolo ha perseguito consapevolmente il seguente obiettivo: fino a che punto è possibile
spingere il progetto del mercato come progetto integrale. Quando negli anni ’50 la risposta a
questa domanda cominciò a materializzarsi, apparve evidente che molte istanze della divisione
sociale del lavoro si realizzano in contesti nei quali il mercato non può operare nemmeno come
contesto ideale o perché semplicemente i mercati non esistono, o perché non sono comunque in
grado (la circostanza richiamata consuetamente è quella di informazione incompleta tra i
soggetti) di internalizzare adeguatamente gli effetti esterni delle relazioni sociali.
Per un verso, ma per un verso solamente, questa consapevolezza ha posto termine
all’isolamento dostoevskiano: le relazioni sociali nelle quali ciascun soggetto è coinvolto devono
essere esplicitamente prese in considerazione quando il soggetto si ni terroga sul suo agire,
cercando la soluzione dei suoi problemi pratici. La teoria dei giochi, ossia la teoria del
comportamento razionale in un contesto di interazione, ha fornito esattamente lo strumento per
questa modifica di prospettiva. Per altro verso, tuttavia, un ingrediente essenziale del progetto
culturale del secolo XIX è rimasto e si è anzi potenziato: nel determinare l’azione da compiere in
un contesto irriducibile di interazione sociale il soggetto continua ad essere descritto come
guidato da un proprio ordinamento di preferenze individuali (e quindi di valori) sugli esiti delle
proprie scelte. È ben vero che tali esiti dipendono ora non più dalle proprie azioni soltanto - come
era possibile per l’individuo isolato nel contesto di mercato - ma anche dalle azioni di ciascun
altro soggetto sociale. E certamente, in tali circostanze, la cogenza normativa che era stato
possibile derivare dalla teoria del mercato si presenta in termini almeno in parte più deboli: nel
mercato infatti il bene e il male che conseguono all’azione di un soggetto coincidono con ciò che
soltanto per quel soggetto è bene o male, cosicché del tutto naturale appariva in quelle
circostanze che di tali esiti, che soltanto quel soggetto coinvolgevano, il suo individuale benessere
diventasse l’unico criterio di giudizio. In un contesto di interazione invece il bene e il male che
consegue all’azione di un soggetto in parte ricade sul soggetto che ha compiuto l’azione, in parte
ricade sugli altri soggetti. Tuttavia la prospettiva ideale dell’indagine teorica dell’economia
contemporanea è più elaborata, ma non è differente da quella della teoria del mercato: ci si
chiede infatti se e a quali condizioni, anche in un contesto irriducibile di interazione, l’esito sociale
che consegue dalla circostanza che ciascun soggetto risolve razionalmente il proprio problema di
scelta lasciandosi guidare da un proprio ordinamento di preferenze sulle conseguenze delle
proprie azioni, possa essere valutato come collettivamente desiderabile o «ottimale».
L’interpretazione delle relazioni sociali come relazioni di scambio può essere infatti facilmente - e
forse in modo ancora più agevole - estesa dal contesto di mercato (che, può essere opportuno
richiamare, è un contesto ideale di isolamento) a un contesto di esplicita interazione. E poiché in
tale contesto sembra lecito presumere che i soggetti saranno razionalmente guidati a entrare in
una relazione di scambio solo se questa è in grado di garantire loro un mutuo vantaggio, l’esito di
tale interazione non potrà non essere collettivamente desiderabile.
Così l’analisi economica estende il proprio dominio a ogni forma di meccanismo sociale
interpretandola come l’esito di una relazione, mutuamente vantaggiosa, di scambio; l’elemento
cruciale in questa costruzione, dal punto di vista delle premesse antropologiche, è che tali
meccanismi coordinano verso fini collettivamente desiderabili comportamenti di soggetti guidati sia pure nella consapevolezza di un contesto di interazione - da sistemi di valori (ordinamenti di
preferenze) individuali. In altri termini, l’individualismo metodologico resta la base su cui la teoria
economica costruisce la propria analisi sociale anche dopo avere abbandonato il progetto di un
mondo costituito da individui in isolamento; anzi, appunto attraverso questa estensione del suo
dominio finisce con l’assumere una valenza infinitamente più cogente.
5. In che rapporto questa evoluzione si pone con la dottrina sociale della Chiesa? Poiché il mio
discorso è essenzialmente relativo al metodo, mi asterrò dal riferirmi ai contenuti limitandomi a
identificare nella dottrina sociale della Chiesa la ricerca della definizione di un insieme di valori
condivisi che possano servire da guida nel disegno degli assetti organizzativi delle relazioni sociali.
Ma, per le ragioni messe in evidenza nell’esposizione precedente, la teoria economica
contemporanea rivolge il suo interesse alla comprensione di forme organizzative indipendenti
dall’accettazione di valori etici condivisi, perseguendo così un progetto che è nel contempo
analiticamente più debole e normativamente più ambizioso. È infatti analiticamente meno
esigente nella spiegazione degli assetti sociali partire da una posizione di relativismo morale
(riducendo al minimo la restrizione sui valori come precondizione per il disegno delle forme di
organizzazione sociale); ed è normativamente più ambizioso chiedersi se, e a quali condizioni,
esiti collettivamente desiderabili possano conseguire da comportamenti sociali che non
presuppongono necessariamente da parte di ciascun soggetto una preventiva metanoia.
L’idea illuministica secondo la quale - parafrasando Goethe - le teorie sociali possono fare
ricorso a forze che «perseguono continuamente il male» e «operano continuamente il bene» è
stata almeno parzialmente recepita dalla dottrina sociale della Chiesa quando ha accettato di
riferirsi al mercato come il luogo nel quale, mediante lo scambio, soggetti autointeressati pongono
le basi per un assetto sociale dove tutte le istanze benefiche di divisione sociale del lavoro
possano essere colte. D’altro lato il mercato perfettamente concorrenziale rappresenta nelle sue
premesse e nei suoi esiti una idealizzazione estrema; cosicché l’accettazione dell’idea del
mercato ha potuto essere contemperata nella storia della dottrina sociale dal riferimento a valori
di giustizia, di cooperazione e di sussidiarietà invocati ogniqualvolta il mercato (perfettamente
concorrenziale) fallisce o si rivela particolarmente esigente in termini distributivi.
Ma la teoria tradizionale dei mercati perfettamente concorrenziali è oggi un oggetto ormai
pressoché scomparso dall’agenda dell’economista. Oggi la teoria economica entra nell’analisi
della politica, del diritto e della sociologia (al fine di disegnare meccanismi di coordinamento
sociali diversi dal mercato) con un progetto che si presenta come interamente e irriducibilmente
costruito su un approccio di individualismo metodologico e su un principio di relativismo etico
come pre condizione analitica. La sfida che tale costruzione teorica pone nei confronti della
dottrina sociale della Chiesa allora va bene al di là dell’accettazione, temperata, di un
meccanismo inevitabilmente imperfetto di mercato; un meccanismo imperfetto da temperare
appunto con una attenzione alla persona umana, che deve trovare necessario fondamento in una
preliminare metanoia individuale. La sfida è oggi se e fino a quale punto tale attenzione alla
persona umana possa essere concepita non come una premessa, o un vincolo esogeno, ma come
l’esito di un meccanismo la cui molla possa essere interamente affidata a un sistema non ristretto
di valori individuali. Tale progetto, così pervasivo e ambizioso, è appunto allo stato attuale
solamente un progetto: sarebbe illusorio estendere questa valutazione a risultanze (cui si fa
riferimento nella domanda) che non ci sono; e tuttavia tale progetto è estremamente coinvolgente
nella definizione dell’approccio analitico ai problemi, e condiziona l’intero apparato teorico della
economia contemporanea.
A causa di queste premesse metodologiche il confronto e la valutazione del travaglio oggi
attraversato dalla teoria economica - nelle forme che ho cercato di sintetizzare - e l’evoluzione
della dottrina sociale della Chiesa è tema certamente di grande fascino. Ma la mia opinione è che
esso richiede forze immani e profonda meditazione, già nella definizione delle forme di avvio
dell’indagine; certamente non esiste alcun riferimento ordinato di cui rendere facilmente conto.
Vi è infine un’ultima considerazione, anch’essa di natura metodologica, che vorrei richiamare.
Ed è che, nonostante la - o forse appunto a causa della - vastità e ambizione del progetto,
l’orientamento scientifico oggi prevalente nella teoria economica incentiva nella pratica
quotidiana una parcellizzazione talmente fine delle conoscenze e delle competenze da non
consentire, se non in momenti ormai sempre più rari, la capacità di rappresentarsi un quadro nel
quale collocare in modo organico e coerente le grandi questioni; le quali vengono
sistematicamente lasciate sullo sfondo. Così l’analisi delle questioni inevase, delle risposte che
non ci sono o che appaiono francamente insufficienti a una semplice introspezione, viene oggi,
nella pratica quotidiana della ricerca, tralasciata come indagine sterile, mentre la convenzione
diffusa è che i problemi che si intende affrontare vadano innanzi tutto circoscritti in ambiti definiti
e limitati, e attaccati in modo tale che, come con un laser, tutto il contorno possa rimanere intatto.
La regola convenzionalmente accettata è in altri termini quella di «provare a vedere cosa vien
fuori facendo», mentre l’ indagine astratta sulle grandi questioni generali è rifiutata come
inconcludente.
Credo che anche questo approccio introduca ulteriori e non piccole difficoltà nella strada della
comprensione adeguata di una possibile fertilizzazione incrociata tra l’analisi economica
contemporanea e la dottrina sociale della Chiesa.
GIAMMARIA M ARTINI
DECISIONI INDIVIDUALI E STRATEGICHE
1. Introduzione
Il presente contributo è articolato in tre parti. Nella prima vengono brevemente illustrati
l’origine della teoria economica moderna ed i contributi prevalenti in termini di comportamento
individuale, per evidenziare come la paternità della disciplina economica giochi un ruolo rilevante
nello spiegare una certa differenza antropologica tra le teorie economiche e la tradizione cattolica
e i contributi del magistero. La seconda parte del lavoro ha per oggetto un aspetto della teoria
economica che recentemente ha avuto un notevole sviluppo, ed ha consentito di raggiungere
risultati rilevanti in diverse discipline economiche: la teoria dei giochi [TG].61 In particolare questa
sezione intende sottolineare come proprio lo studio dell’interazione strategica tra gli individui,
così come viene formalizzata nella TG, costituisca uno dei settori dove maggiormente i contenuti
della dottrina sociale (almeno sotto il profilo metodologico) potrebbero risultare particolarmente
pertinenti. Infine nella terza parte del lavoro vengono enfatizzati, a scopo provocatorio, alcuni
aspetti metodologici dell’attuale letteratura economica che sembrano essere paradossali: vale a
dire analisi in cui il metodo proprio delle scienze economiche viene applicato a materie che
andrebbero invece indagate utilizzando un metodo diverso. Vale a dire, se il metodo serio per ogni
attività di ricerca viene imposto dall’oggetto di indagine, in alcuni casi esistono contributi
economici che saltano questo requisito fondamentale, applicando ad un oggetto particolare di
studio un metodo non pertinente.62
2. L’anima anglosassone delle scienze economiche e la teoria del comportamento
individuale
Ogni corso di economia parte dai contributi degli autori cosiddetti «classici»: Adam Smith,
David Ricardo, John Stuart Mill e Karl Marx. Questi autori hanno tutti un comune denominatore:
la cultura protestante inglese. In essa l’accento principale nella costituzione e nella formazione
della personalità è riposta nella persona intesa come individuo e non come soggetto inserito
(appartenente) ad un contesto comunitario63. Un individuo la cui prospettiva storica e morale è
tutta giocata nella risposta diretta ed individuale alla chiamata ricevuta.
Nella misura in cui la prospettiva individualistica appena accennata viene progressivamente ad
interessare l’ambito proprio della nascente scienza economica, la conseguenza metodologica è
coerente: si studia il comportamento partendo esclusivamente dall’ipotesi che l’individuo agisca
61
La teoria dei giochi è stata inizialmente sviluppata nei contributi di Von Neumann e Morgerstern
presso l’Università di Princeton (USA).
62
È opportuno sottolineare che questo scritto deluderà senza ombra di dubbio il lettore per quanto
riguarda le conoscenze ed i riferimenti alle cosiddette encicliche sociali. L’approfondimento dell'autore
riguardo a questi contributi è decisamente lacunoso e non possiede i caratteri di scientificità richiesti, ed
inoltre è limitato alle encicliche sociali più recenti.
63
A questo proposito è sufficiente analizzare i capitoli introduttivi dei manuali moderni di
microeconomia, che sono utilizzati nella maggior parte delle Università italiane. Non solo, è interessante
notare come la maggioranza di questi testi, anche per quanto riguarda lo studio della macroeconomia, siano
traduzioni italiane di testi inglesi o americani.
per massimizzare il proprio benessere personale. In quest’ottica i rapporti con gli altri individui
sono totalmente esclusi. Questo è chiaramente, almeno in partenza, piuttosto lontano dalla
concezione di solidarietà propria del magistero sociale della Chiesa, ovvero, come recita la
Sollicitudo rei socialis: «la determinazione ferma e perseverante ad impegnarsi per il bene
comune: ossia il bene di tutti e di ciascuno, perché tutti siamo veramente responsabili di tutto» (n.
38).
A questo proposito, anche per dovuta autocritica, occorre sottolineare che, nonostante sia ben
conscio dei limiti dal punto di vista antropologico, del suddetto approccio individualista, l’autore di
questo contributo lo utilizza ampiamente nell’insegnare agli studenti la microeconomia, ossia lo
studio dei comportamenti dei soggetti economici secondo una prospettiva di analisi il più possibile
disaggregata. Non solo, lo ritiene attualmente lo strumento di indagine più idoneo per spiegare
alcuni comportamenti economici peculiari, come le decisioni di consumo dell’individuo, le
decisioni di impiego dei fattori da parte dell’imprenditore e così via. In questo senso, l’approccio
individualista ha dei limiti nella concezione dell’uomo ma è molto potente dal punto di vista
analitico.
I contributi degli economisti, che hanno come base l’interesse individuale, hanno poi bisogno di
un ambito dove l’agire per il soddisfacimento dei proprio bisogni possa confrontarsi con
l’effettiva possibilità di soddisfarli. In altre parole, in una società moderna, dove non è più
possibile auto-soddisfare i bisogni, ma piuttosto acquistare da altri individui i beni per il
soddisfacimento personale, occorre identificare un ambito in cui questo avvenga. Questo ambito
è il mercato: il luogo in cui le decisioni singole degli individui si confrontano, fino a giungere ad un
compromesso (lo scambio), in cui entrambe le parti ottengono un beneficio. È chiaro dunque che
il mercato non rappresenta l’ambito di riferimento della teoria economica (come potrebbe essere
se fosse utilizzata l’analisi per incrementare le disponibilità dei beni nel mercato, la distribuzione
delle risorse tra gli individui, la maggiorazione degli scambi), ma piuttosto il metodo per risolvere i
problemi individuali. In altre parole, l’analisi dell’equilibrio in un determinato mercato parte dal
presupposto che le decisioni fondamentali degli individui (siano essi venditori o compratori) sono
già state prese (sia come disponibilità a pagare per comprare un certo bene, che come costo di
compensazione richiesto per privarsi della disponibilità del bene). Il mercato non è il luogo dove
l’individuo discute, impara, cambia e precisa meglio le sue preferenze: è solo l’ambito dove
verifica se le sue preferenze possono essere soddisfatte.
A questo punto è necessaria una precisazione: quando si afferma che le discipline economiche
hanno un’idea dell’uomo decisamente individualistica non si vuole aprioristicamente contestare gli
aspetti positivi di questa concezione nella misura in cui vengono ad essere sollecitate la
responsabilità e l’iniziativa personale nel tentativo di soluzione dei problemi. Piuttosto si vuole
evidenziare come, accanto a questi aspetti positivi, esiste la possibilità di una antropologia diversa
(ed in antitesi) da quella del magistero della Chiesa. Con ciò non si vuole affermare una «via
cattolica dello studio dell’economia»; questo sarebbe pura astrazione e condurrebbe con forti
probabilità ad incorrere nel rischio dell’ideologia. L’economia è senza ombra di dubbio lo studio
della realtà nell’aspetto della produzione dei beni, del loro scambio, del lavoro offerto per poterli
acquistare, dell’organizzazione di imprese e fattori produttivi (scarsi) per produrli e così via.
L’oggetto dell’analisi non può essere cambiato. Anche il metodo per l’analisi difficilmente può, al
momento attuale delle conoscenze matematiche e statistiche, essere modificato. Le relazioni tra
gli agenti economici vengono infatti investigate sulla base di relazioni matematiche non per
meccanizzare il comportamento degli individui, che difficilmente può rispettare la rigorosità
espressa in tali relazioni, ma per evidenziare l’esistenza di alcune leggi fondamentali che regolano
il comportamento nel campo economico. In questo senso, è ormai da tutti accettata la legge della
domanda, per cui esiste una relazione inversa tra prezzo di un bene e quantità domandata dello
stesso.
Quello che si vuole invece sottolineare è che, per inserire nell’analisi una concezione di
individuo diversa da quella precedentemente evidenziata, non basta inglobare, come asserito da
molti economisti moderni, nella funzione obiettivo (la ragione per cui un individuo si muove
realizzando delle scelte) una variabile in più rispetto a quelle tradizionali (solitamente identificate
nelle quantità consumate dei beni o nella massimizzazione del profitto), la variabile «bene
comune» ad esempio, per cui il benessere individuale cresce se aumenta il benessere collettivo.
Per approfondire questo concetto senza scendere troppo nei dettagli, spesso nelle discussioni
seminariali di vari lavori scientifici in cui il tema etico o la concezione non utilitaristica
dell’individuo vengono marginalmente discusse, si tenta di risolvere il problema inserendo nella
funzione da massimizzare una variabile in più rispetto ad esempio, alle sole quantità consumate
dei beni. Questa variabile potrebbe, ad esempio, essere le quantità consumate da altri individui,
così che l’utilità dell’individuo cresce se crescono le quantità consumate dagli altri individui.
Questa è chiaramente una soluzione giustapposta. È come affermare che la solidarietà sia una
variabile da inserire tra altre variabili fondamentali. Si vuole invece sottolineare come l’economia
deve certamente studiare il comportamento individuale, ma anche l’interazione di diversi individui
possibilmente per il raggiungimento di uno scopo comune, o almeno per effettuare un giudizio
normativo relativo alla distribuzione delle risorse e all’impiego delle stesse nel modo più efficiente
possibile. In questo senso, negli ultimi anni uno degli strumenti più fecondi a disposizione degli
economisti ha consentito di approfondire con successo almeno l’analisi dell’interazione tra gli
individui, e di porne in evidenza i limiti quando il comportamento assume toni totalmente
individualistici. Questo strumento, e i suoi principali risultati, molto interessanti nella logica che
stiamo trattando, è la TG.
3. Lo studio delle relazioni tra gli individui: il contributo della teoria dei giochi
Al momento della sua nascita, nel 1944, la TG suscitò reazioni contrastanti tra gli economisti.
L’opera di von Neumann e Morgenstern Theory of Games and Economic Behavior creò
entusiasmo in economisti come Hurwicz (1945), Marschak (1946) e Stone (1948), e
disapprovazione e scetticismo in studiosi come Kaysen (1946). Molti economisti furono invece
prudenti nel valutare la nuova metodologia di analisi: in particolare Samuelson (1991) affermò
che il libro di von Neumann e Morgenstern non fu visto immediatamente di buon occhio dalla
professione per l’antagonismo dimostrato dai due autori nel tenere vari seminari di presentazione
della nuova teoria. Nel Dipartimento di scienze economiche dell’Università di Princeton, dove i
due autori lavorarono, l’ostilità fu ancora maggiore che altrove, in particolare da parte di Jacob
Viner.
L’opera di von Neumann e Morgenstern non diede subito, forse anche per le suddette ragioni,
grandi frutti in termini di ricerche. Pochi autori andarono aldilà di una rassegna critica dell’opera,
e non la utilizzarono per modellare la dinamica economica. Gli unici due centri dove la [TG] trovò
spazio in quegli anni furono l’Università di Michigan (dove in particolare si segnalò John
Shapley), e la Rand Corporation (denominata inizialmente Project Rand) a Santa Monica, dove
fu molto attivo John Williams. In questo scenario, John Nash, insignito nel 1994 del Premio Nobel
per l’economia assieme a Reinhard Selten e John Harsanyi, arrivò a Princeton, e ottenne
rapidamente, nel giro di due anni, il titolo di Ph.D. in Economics sotto la supervisione di Albert
Tucker. Il contributo principale della sua tesi è il famoso teorema dell’esistenza di un equilibrio in
un gioco con numero finito di giocatori e insieme finito di strategie, che diede origine al
famosissimo equilibrio di Nash (1950).64
64
Il concetto di equilibrio di Nash è un metodo di soluzione di un gioco in cui due individui agiscono in
modo indipendente allo scopo di massimizzare i propri guadagni individuali. In forma estremamente
Il contributo di Nash, che non rimase isolato e fu ricchissimo nell’arco di un brevissimo
numero di anni, diede l’impulso decisivo allo sviluppo della TG che a partire dagli anni Sessanta
fu applicata nelle ricerche teoriche a livello microeconomico. Ma soprattutto negli anni Settanta
la TG divenne lo strumento di analisi principale delle relazioni economiche, e consentì di ampliare
notevolmente il grado di conoscenza dei fenomeni economici e dei nessi causali sottostanti. Negli
anni Ottanta la TG ha trovato applicazione nell’economia industriale, nell’economia del lavoro,
nella macroeconomia, nell’economia internazionale. Praticamente, ogni studioso di economia
viene ormai formato ed indirizzato all’attività di ricerca tenendo presente i contributi forniti dalla
TG e i suoi principali strumenti applicativi.
Ora perché dedicare uno spazio rilevante di un contributo dell’impatto della dottrina sociale
della Chiesa sulla teoria economica alla TG? Vorrei rispondere osservando il risultato principale
del gioco più famoso della TG: il «dilemma del prigioniero». Brevemente, la situazione descritta
nel gioco è la seguente: due la dri hanno commesso un furto. Inseguiti dalla polizia, riescono a
nascondere la refurtiva prima di essere catturati. La polizia può trattenerli ed interrogarli perché
hanno commesso una pena minore (ad esempio porto d’armi abusivo). Trasferiti in questura,
sono immediatamente separati e non possono più comunicare tra loro. Da quel momento,
agiscono quindi come individui indipendenti. Gli interrogatori sono separati ed essi sono messi di
fronte al seguente dilemma: se entrambi confessano di aver realizzato il furto ottengono uno
sconto sulla pena. Se entrambi non confessano sono condannati per una pena minore. Se uno
solo confessa e l’altro non confessa, il primo viene lasciato libero mentre il secondo viene
condannato con il massimo della pena. Non potendo dilungarmi sulla descrizione della soluzione
del gioco, passo direttamente alle conclusioni principali. I due prigionieri, che si muovono in modo
indipendente e massimizzano il benessere individuale, raggiungono un esito dell’interazione
strategica che non rappresenta la situazione Pareto ottimale tra tutte quelle possibili. Cosa
significa che non è Pareto ottimale? Che l’esito del gioco non è il migliore possibile per entrambi,
vale a dire se essi potessero cooperare, ossia agire tenendo presente il benessere di entrambi e
non solo quello individuale, essi sarebbero in grado di raggiungere una soluzione migliore, più
efficiente per entrambi. Questo è proprio il punto fondamentale che vorrei sottolineare. La TG ha
consentito di evidenziare i limiti dell’interazione strategica tra agenti economici che perseguono
interessi esclusivamente individuali nel raggiungere le migliori soluzioni possibili dal punto di vista
dell’insieme degli individui coinvolti nell’interazione. In particolare, essa ha evidenziato come
spesso i giochi cooperativi (dove si tiene presente l’interesse del gruppo e non quello individuale),
danno luogo ad esiti più efficienti di quelli non cooperativi. 65
Ecco dunque un interessante ed importante anello di congiunzione tra la teoria economica e la
dottrina sociale della Chiesa, che si è sviluppato in modo autonomo. Non solo l’analisi
dell’interrelazione strategica tra gli individui ha consentito di conoscere in modo molto più
approfondito i nessi esistenti nelle relazioni economiche (in modo certamente più adeguato,
specie in alcuni settori, del metodo basato sulla massimizzazione individuale), ma ha anche
sommaria, l'equilibrio di Nash prevede che ogni giocatore, nel calcolare il possibile equilibrio di un gioco,
tenga presente soltanto quelle strategie del rivale (o dei rivali se sono più d’uno), che costituiscono le
reazioni ottimali (ossia quelle che gli massimizzano il guadagno) di quest’ultimo ad ogni possibile strategie
del giocatore. In questo modo si riduce notevolmente l’insieme delle possibile strategie da tenere in
considerazione. Inoltre, il giocatore sceglie la sua strategia anticipando la risposta del rivale. Quando la
strategia di ogni giocatore rimane la stessa anche dopo la risposta del rivale a quella strategia, allora il
gioco ha una soluzione detta «equilibrio non-cooperativo di Nash».
65
Va sottolineato che, in alcune circostanze, i giochi non cooperativi sono una soluzione più efficiente
dal punto di vista del benessere collettivo: se consideriamo due imprese, se esse possono coordinare le
loro azioni ed agire come fossero una sola impresa, costituirebbero un monopolio e questo ridurrebbe il
benessere della collettività.
evidenziato che i risultati delle relazioni tra gli individui possono essere più efficienti quando essi
si muovono tenendo presente l’interesse collettivo e non soltanto quello individuale.
4. Gli errori metodologici dei contributi economici
In quest’ultima sezione del contributo, vorrei evidenziare alcuni aspetti dei lavori svolti da
alcuni economisti che sono inadeguati dal punto di vista del metodo applicato per studiare
l’oggetto dell’attività di ricerca. Vi sono infatti contributi rilevanti che hanno studiato relazioni
fondamentali dell’esperienza umana, quali la famiglia e le nascite, applicando il metodo
economico della massimizzazione individuale. Un caso emblematico di riferimento è
rappresentato dalle ricerche sulla famiglia condotte dall’economista americano Gary Becker.
Nel corso degli anni Settanta, Becker avvia una serie di studi sulla famiglia, che lo portano a
pubblicare l’opera A Treatise on the Family [1981], che lo renderà famoso presso la
professione. Il tentativo di Becker è quello di analizzare le principali decisioni familiari, quindi
innanzitutto quella di avviare una famiglia (matrimonio), e quella di avere dei figli. Tutta l’analisi
viene formulata sul postulato per cui, ogni persona, anche relativamente alla scelta della persona
con cui avviare una famiglia ed alla decisione di avere dei figli, mira esclusivamente a
massimizzare il proprio benessere individuale. La conclusione di Becker è che una nuova
famiglia viena formata quando l’unione tra due persone porta alla massimizzazione della loro
rispettiva utilità, e che quando l’utilità viene di fatto diminuita (in ragione del fatto di continuare a
vivere con la stessa persona quando invece emergono contrasti personali, ad esempio), è
totalmente razionale separare e distruggere la famiglia; e conseguentemente, quando si
ripresenta l’opportunità, (e ancora avendo presente soltanto la massimizzazione), costituire una
nuova famiglia. Lo stesso dicasi per la procreazione: un figlio viene perseguito come oggetto di
una scelta razionale funzionale all’aumento dell’utilità dei singoli membri della (temporanea)
famiglia. Pertanto, tale contributo sembra costituire un caso emblematico di come anche la
scienza economica, al pari delle altre scienze sociali, non sia immune dal rischio di cadere in quel
«positivismo che sopravvaluta i dati empirici a scapito della comprensione globale dell’uomo»
(Orientamenti per lo studio e l’insegnamento della dottrina sociale della Chiesa nella
formazione sacerdotale, n. 68).
Ed infatti è di immediata evidenza come decisioni relative alla vocazione della persona non
possono essere studiate in modo meccanico e considerate semplicemente come la soluzione di un
problema matematico: la relazione in questo caso è certamente più complessa, e tocca
direttamente la ragione e lo scopo della vita dell’uomo. L’approccio scientifico, se vuole essere
serio ed adeguato alla realtà, deve tener conto di una visione complessiva dell’uomo, non
confinabile alla sola espressione utilitaristica. L’errore compiuto, certamente in buona fede, da
questo tipo di studi consiste nella presunzione di poter utilizzare indiscriminatamente il metodo di
analisi delle scienze matematiche-economiche estendendone indebitamente la portata
ermeneutica oltre i limiti consentiti. Infatti non tutto ciò che ha un effetto economico può ridursi
ad essere oggetto della scienza economica. Non si può affrontare con il metodo della
massimizzazione vincolata problemi che hanno certamente effetti economici, ma che però
devono essere investigati sulla base di metodi più adeguati. Eppure questo sembra essere un
errore frequente tra gli studiosi contemporanei di economia, che forti delle potenzialità di analisi
del proprio specifico metodo di indagine, sono soggetti alla tentazione di spiegare con esso tutta la
vita dell’uomo. Oltretutto questo va a discapito della scienza economica come tale, che risulta
incapace, di fatto, di cogliere lo stesso dato empirico secondo la totalità effettiva dei fattori che lo
compongono. Su questo piano si colloca il contributo che la disciplina economica può ricavare
dalla dottrina sociale della Chiesa: innanzitutto il richiamo all’utilizzo nell’attività di ricerca di
metodi di analisi proporzionati agli oggetti investigati. E in questa direzione sembra essere
pertinente e di estremo interesse, proprio per la efficacia ermeneutica di una scienza (quella
economica) che voglia mantenersi tale, il richiamo espresso nei già citati Orientamenti ad un
attento discernimento per evitare il pericolo di piegare le scienze sociali («strumento importante,
anche se non esclusivo, per la comprensione della realtà») «alla pressione di determinate
ideologie contrarie alla retta ragione, alla fede cristiana, e in definitiva ai dati stessi
dell’esperienza storica e della ricerca scientifica» (n. 68).
5. Conclusione
Il tentativo effettuato in questo contributo è stato quello di evidenziare alcuni aspetti
fondamentali della relazione tra gli studi economici ed i contenuti della dottrina sociale della
Chiesa. A questo proposito il lavoro ha concentrato l’attenzione del lettore su tre punti
fondamentali: la lontananza della visione dominante dell’uomo adottata negli studi economici da
quella invece propria della dottrina sociale. In questo senso ciò che sembra essere importante
sottolineare non è tanto la lontananza tra le due visioni dell’uomo, quanto l’opportunità di
stimolare attività di ricerca che portino al centro dell’analisi delle relazioni economiche gli individui
come centri di rapporti, come gruppi di persone, con l’obiettivo di promuovere il benessere
all’interno della popolazione e non solo nella singola cerchia personale. Da questo punto di vista,
come evidenziato nella parte del lavoro dedic ato ai contributi dalla TG, gli studi più recenti hanno
messo in luce che proprio una maggiore vocazione degli individui alla cooperazione interpersonale
potrebbe portare ad un maggiore benessere anche dal punto di vista individuale.
Riferimenti bibliografici
Becker G.S., A Treatise on the Family, Harvard University Press, Cambridge, Mass. 1981.
Hurwicz L., The Theory of Economic behavior, «American Economic Review», 35 (1945),
909-925.
Kaysen C., A Revolution in Economic Theory, «Review of Economic Studies», 14 (1946),
1-15.
Leonard R.J., Reading Cournot, Reading Nash: The Creation and Stabilisation of the
Nash Equilibrium, «The Economic Journal», 104 (1994), 492-509.
Marschak J., Von Neumann and Morgenstern’s New Approach to Static Economics,
«Journal of Political Economy», 54 (1946), 97-115.
Nash J.F.Jr., Equilibrium Points in N-person Games, «Procedings of the National Academy
of Science», 36 (1950), 48-49.
Orientamenti per lo studio e l’insegnamento della dottrina sociale della chiesa nella
formazione sacerdotale, Edizioni Paoline, 1989.
Samuelson P., Personal Communications with R. Leonard, 1991.
Stone R., The Theory of Games, «The Economic Journal», 58 (1948), 185-201.
DANIELA PARISI
RIFLESSIONI DELLO STORICO DEL PENSIERO ECONOMICO
Alcune considerazioni introduttive
La riflessione sull’attività degli uomini, l’osservazione della realtà che muta , l’analisi del
comportamento degli operatori nella realtà, è svolta nei documenti del magistero sociale della
Chiesa non con specifico interesse conoscitivo ma per indicare quali conseguenze morali tali fatti
e comportamenti abbiano per l’uomo, alla luce di un valore che deriva da una fonte esterna alla
realtà oggettiva e soggettiva. I documenti del magistero hanno come obiettivo il richiamo con
forza ad alcuni principi direttivi giudicati imprescindibili alla luce della rivelazione, per orientare il
comportamento delle persone, per rendere conforme la condotta umana ai dettami della
rivelazione, custodita e tramandata dalla Sacra scrittura e dalla Sacra tradizione66.
Il Magistero, facendo «riemergere il fondamento religioso dell’etica sociale», dà indicazioni di
esigenze di carattere morale e umano in base a cui sviluppare i contenuti delle attività terrene: ci
sono principi di carattere morale che vanno rispettati nelle cose temporali, che vanno incarnati
nella storia; non si nasconde la difficoltà insita nell’individuazione dei gradi e delle forme in cui i
principi e le direttive devono tradursi nella realtà e proprio per questo si riconosce che il problema
dell’adeguamento della realtà alle esigenze superiori non prevede mai una soluzione definitiva.
Come è stato recentemente scritto,
l’oggetto formale dell’insegnamento sociale [della Chiesa] non è il problema umano individuale e
sociale, nazionale o internazionale, in quanto tale, e le sue eventuali soluzioni tecniche, ma la luce che su
questo problema proiettano la tradizione della Chiesa e la testimonianza evangelica che la ispira [...] la
missione ed il dovere della Chiesa non sono analizzare la realtà sociale, economica e politica, per poi
proporre soluzioni sullo stesso piano di conoscenza e di analisi..., quanto piuttosto mostrare quali sono,
nelle circostanze concrete, le esigenze che derivano dalla Parola di Dio, trasmessa dalla Chiesa, rispetto alla
persona umana, al suo destino eterno,... chiamata a vivere in società con gli altri uomini e donne, con i
diritti e i doveri di tutti67.
Questo implica che nei fatti alla Chiesa non si chiede di avanzare soluzioni per i problemi che
pone il fatto di vivere in società ma più propriamente implica che la Chiesa ponga in essere
strumenti di evangelizzazione, proponendo un insegnamento sociale «unico, quanto ai principi, con
piena avvertenza dei limiti temporali e locali delle sue applicazioni» 68.
66
«Proprio con il Vangelo va continuamente confrontata l’effettiva dottrina della Chiesa... La funzione di
una suprema autorità dottrinale in un determinato presente della Chiesa può consistere unicamente nel
richiamare la cristianità, sempre distratta dalle mutevoli mode delle diverse epoche, a questo Vangelo
apostolico, che rappresenta il fondamento immutabile della sua fede... Tuttavia, in ogni caso, solo
l’accoglienza di una dichiarazione dottrinale nella coscienza religiosa dell’intera Chiesa permette di
riconoscere se tale asserzione ha realmente espresso la fede della Chiesa nella sua totalità». Queste
affermazioni sono state argomentate e discusse recentemente in W. Pannenberg, Riflessioni evangeliche
sul ministero petrino del vescovo di Roma, in occasione dell’incontro promosso dal Dipartimento di
scienze religiose dell’Università cattolica, nei giorni 15 e 22 gennaio 1997.
67
J. Mejia, Temi di dottrina sociale della Chiesa, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1996, p.
38. Ancora, l’autore afferma che da sempre la Chiesa cattolica è «depositaria di un insegnamento il cui
contenuto può essere qualificato come sociale» (p. 28), che è mostrato, insegnato, esposto dai soggetti
responsabili partendo «da ciò che essa insegna di se stessa, e dall’uomo...» (p. 54).
68
Ibid., p.35.
In questo senso, la dottrina sociale della Chiesa, appartenendo al campo della teologia, non è
direttamente oggetto della ricostruzione storica del pensiero economico. Però non si può
escludere che i documenti che costituiscono il cammino compiuto dalla dottrina sociale della
Chiesa69, il lavoro di preparazione da cui questi sono scaturiti e i dibattiti cui hanno dato luogo
rientrino nel vasto campo della storia della riflessione sui temi economici.
La produzione manualistica e le ricerche monografiche di storia del pensiero economico
sarebbero più complete se rendessero conto, insomma, sia degli stimoli che dal dibattito
scientifico la dottrina sociale della Chiesa ha colto quando ha saputo capire i termini del dibattito
in corso sul sistema economico, sia degli stimoli che alcuni economisti del passato hanno recepito
nelle proprie ricerche dalla tradizione di cui la dottrina sociale della Chiesa fa parte.
Comprendere la considerazione di queste tematiche storiche nel proprio lavoro di ricostruzione
del pensiero economico ha un significato profondo se si definisce la storia del pensiero
economico non solo come storia degli strumenti di analisi ma anche come storia degli obiettivi;
fare storia è dirigere l’attenzione sul lavoro compiuto dagli economisti del passato, anche sul loro
travaglio dell’essere economisti, cioè scienziati sociali, in precisi momenti storici.
Sull’impiego delle risultanze scientifiche dell’economia da parte della dottrina sociale
della Chiesa.
La dottrina sociale della Chiesa - si è verificato attraverso l’indagine storica - ha dimostrato
nel tempo maggiore o minore capacità di cogliere quali fossero gli interrogativi posti dalla realtà e
ha dimostrato interesse o rifiuto nei confronti del mondo della scienza. Iniziando da fine
Ottocento, quando cioè vennero abbandonate la diffidenza nei confronti della scienza e il progetto
di costruire una scienza cristiana in armonia con una morale sociale cristiana, si iniziò a
riconoscere il valore in sè del lavoro degli scienziati per la comprensione della realtà.
Così oggi Giovanni Paolo II conferma che «il bisogno di dialogo e cooperazione tra scienza e
fede è divenuto sempre più urgente e promettente» anche perché «la ricerca compiuta in
maniera autenticamente scientifica e in accordo con le norme morali non è mai realmente in
contrasto con la fede»70.
La storiografia si è impegnata su alcuni aspetti di questa problematica: le ricerche condotte
prima da Francesco Vito e poi da Francesca Duchini comprendono analisi approfondite tanto del
rapporto tra insegnamento sociale della Chiesa e scienza economica dalla fine dell’Ottocento alla
metà del Novecento quanto delle valutazioni dei sistemi economici concreti espresse da parte del
magistero71.
69
La dottrina sociale della Chiesa non si esaurisce quindi nell’insegnamento del magistero (magistero
che, in ogni caso, ha bisogno di genitivi specificativi e aggettivi qualificativi che ne delimitano l’esercizio e
l’adesione, come ci ricorda G. Ravasi in «Il Sole-24 ore», 1 giugno 1997, p. 35), perché «l’orizzonte
teologico è più vasto, perché è quello intero della rivelazione comprensivo dell’insegnamento del
magistero, che notoriamente, secondo la precisazione della costituzione Dei verbum, n. 10, sta sotto e non
sopra la Parola di Dio...». (G. Colombo, Il compito della teologia nella elaborazione dell’insegnamento
sociale della Chiesa, in Il magistero sociale della Chiesa. Principi e nuovi contenuti, Vita e pensiero,
Milano 1989, p. 31).
70
Giovanni Paolo II, Quando la ricerca sembra sfiorare misteriose frontiere, il dialogo tra fede e
scienza diviene più urgente e ricco di prospettive, Ai partecipanti ad una sessione di studio della
Pontificia Accademia delle Scienze, «L’Osservatore Romano», 30 novembre 1996.
71
Ci si limita qui a ricordare i principali contributi in materia: F. Vito, Introduzione alle Encicliche e ai
Messaggi sociali - Da Leone XIII a Giovanni XXIII, Vita e Pensiero, Milano 1962; F. Duchini,
Insegnamento sociale della Chiesa, scienza economica, attività economica. Alcune considerazioni sulle
radici storiche del problema, in Il magistero sociale della Chiesa. Principi e nuovi contenuti, Vita e
In linea generale è evidente che il magistero non sembra richiamare esplicitamente nei propri
documenti i contributi degli economisti. Io penso che semmai sia riscontrabile una consonanza tra
le sensibilità dimostrate nell’affrontare tematiche economiche da parte del magistero e da parte di
alcuni economisti, naturalmente sotto il profilo che è proprio a ciascuno dei due, quello morale e
quello scientifico. Il magistero ha considerato moralmente rilevanti certe realtà e certi
comportamenti e ha indicato i criteri imprescindibili cui la condotta umana deve ispirarsi, i confini
entro cui le scelte adottate come economiche possono essere accolte e condivise dagli uomini di
fede.
Il cammino verso il riconoscimento dell’autonomia delle realtà terrene trova espressione più
piena nella Gaudium et Spes con cui «alla scienza economica l’insegnamento sociale della
Chiesa chiede una sempre più approfondita conoscenza della complessa e interdipendente realtà
economica» e con cui «alla scienza l’insegnamento sociale propone una concezione dell’uomo e
della società sulla quale orientare gli interventi operativi» 72.
Il dovere dello scienziato è perciò quello di «scoprire, usare e ordinare» le realtà terrene, siano
esse cose create o società - le quali hanno leggi e valori propri73.
D’altro canto, se è opportuno rispettare le competenze, cioè se le dichiarazioni del magistero
devono essere espresse sulla base anche di una umile e non unilaterale richiesta di consigli
esperti, sarebbe interessante che lo storico del pensiero potesse indagare e ricostruire questo
aspetto del lavoro di elaborazione dei documenti della dottrina sociale, con una ricerca attenta
delle fonti dei documenti.
La storia comprende, infatti, anche l’analisi del ruolo che gli esperti - in quanto membri della
comunità cristiana, ma soprattutto proprio in quanto esperti - hanno ricoperto nell’elaborazione
della dottrina sociale perché solo essi sono competenti nei propri àmbiti scientifici specifici: la
dottrina sociale «non si elabora senza una riflessione critica sulla società nella sua figura storica e
complementariamente senza l’impiego delle scienze analitiche della società» 74. Questo perché la
dottrina sociale non si deve staccare dalla questione reale rischiando di diventare ideologica o
sterile.
Sugli stimoli che gli economisti hanno ricavato dalla dottrina sociale della Chiesa.
Lo studio storico evidenzia che gli economisti hanno tratto stimoli per i propri studi dalla
dottrina sociale della Chiesa almeno a due livelli:
a) quando hanno definito l’ambito della propria disciplina;
b) quando hanno scelto di orientare la propria ricerca verso alcune specifiche tematiche,
privilegiandole anche perché centrali nei documenti del Magistero e nella propria formazione.
Per quanto riguarda il primo livello, si deve osservare che quando si fa storia del pensiero
economico si studia l’evoluzione del concetto di scienza economica e si scopre che questa è stata
definita nel passato in termini diversi e molto distanti fra loro: è stata concepita come scienza
fisica, scienza della ricchezza, scienza del benessere, scienza dell’economia politica nazionale.
Pensiero, Milano 1989, pp. 115-146; Idem, Economicità ed economismo, in «La Rivista del Clero», febbraio
1983, pp. 11-123.
72
F. Duchini, Insegnamento sociale della Chiesa e problematica economica: da Leone XIII a Pio XII,
in L’insegnamento sociale della Chiesa, Vita e pensiero, Milano 1988, p. 64.
73
74
Gaudium et Spes, n. 36b.
G. Colombo, Il compito della teologia nella elaborazione dell’insegnamento sociale della Chiesa ,
cit., p. 31-32.
Fa parte della storia del pensiero economico la storia della riflessione degli economisti sulla
definizione di scienza e sul rapporto tra economia (elaborazione di teorie ma anche, per molti
economisti, di regole di politica economica) e scelta delle ipotesi e valutazione dei fini.
A puro titolo di esempio, basta ricordare alcune definizioni coeve di scienza economica. Alfred
Marshall, nel 1890, nei suoi Principi di economia, definisce l’economia come «uno studio del
genere umano negli affari ordinari della vita» e considera suo oggetto l’esame di quella parte
dell’azione, individuale e sociale, che è connessa con il conseguimento e l’uso dei requisiti
materiali del benessere; per Vilfredo Pareto l’economia è una scienza empirica che può
verificare i propri risultati nella realtà come avviene per le scienze naturali; per Ludwig von
Mises, nel 1940, la scienza economica è lo studio della struttura ideale dell’azione umana, della
logica delle scelte razionali e, nello stesso tempo, è una guida all’azione modificatrice della
politica economica75.
Attraverso lo studio storico del pensiero economico si mette in luce l’esistenza da un lato di
concezioni di scienza che richiamano problemi morali o, più precisamente, problemi di scelta e di
valutazione della sua compatibilità con la visione antropologica cristiana centrata sulla persona,
dall’altro di concezioni che non ammettono interferenze tra idee economiche e idee morali.
Alcuni economisti hanno in passato proprio derivato dal riferimento alla dottrina sociale li
proprio interesse per l’elaborazione di una dottrina che rimetta l’ «economia a servizio
dell’uomo»: certamente in questa direzione si mossero in Francia François Perroux e
l’associazione «Economie et Humanisme» (1941) e in Italia gli economisti dell’Istituto di
economia e quelli dell’Istituto di economia aziendale dell’Università cattolica, diretti da Francesco
Vito e da Pasquale Saraceno. Senza dubbio questa linea di ricerca metodologica ha trovato
stimolo nel dibattito sulla definizione di scienza economica avvenuto negli anni Trenta sulla scorta
dell’ Essay on the Nature and Significance of Economic Science di Lionel Robbins (1932).
Per quanto riguarda il secondo livello, la ricerca storica evidenzia che nel passato alcuni
economisti hanno colto direttamente l’invito contenuto nei documenti del magistero ad
approfondire l’analisi di temi economici specifici o hanno dato vita ad interessanti polemiche
attorno ai contenuti dei documenti stessi.
Tra questi economisti che hanno direttamente fatto riferimento nel proprio lavoro scientifico al
magistero, vanno sicuramente ricordati e meriterebbero di una approfondita analisi:
- i teorici europei che hanno definito i caratteri non tanto del «sistema economico corporativo»
quanto dell’istituzione corporazione come forma associativa, come risposta alla naturale socialità
dell’uomo (alla stregua dei sindacati di soli operai o misti) fin dalla fine dell’Ottocento e poi, con
rinnovato interesse, negli anni Quaranta: alcuni di questi, senza aderire né alla concezione
medievale né a quella dei corporativisti fascisti , hanno inquadrato la propria riflessione all’interno
dell’analisi delle tendenze del sistema economico capitalistico; tra questi economisti vanno
ricordati i ricercatori che si sono formati in Cattolica dai primi anni Venti sotto la guida di Angelo
Mauri e poi di Francesco Vito maturando l’analisi sui limiti dell’ipotesi teorica della concorrenza
perfetta;
- il dibattito suscitato in Nordamerica sulle critiche mosse dall’economista Henry George
all’impostazione della Rerum Novarum;
- i teorici che, stimolati dall’esigenza di un «principio direttivo», hanno approfondito l’analisi
dello strumento programmazione, all’interno di una visione della funzione ordinatrice ma
sussidiaria dello Stato;
- gli economisti che, sulla base dell’affermazione che «la Chiesa non propone sistemi o
programmi economici o politici...purchè la dignità dell’uomo sia debitamente rispettata o
75
Interessante è anche il confronto tra la concezione paretiana e quelle italiane di inizio Novecento, di
Maffeo Pantaleoni, di Luigi Luzzatti, di Ulisse Gobbi, di Luigi Einaudi.
promossa», sono passati dal progetto di una società cristiana opposta a quella secolarizzata, alla
denuncia dei sistemi che intaccano la dignità e la libertà della persona (Codice di Malines e
cosiddetto Codice di Camaldoli; dibattito alla Costituente; dibattito sul lavoro e sulla funzione del
sindacato nel sistema) e di quelli che negano i valori della solidarietà e della corresponsabilità
internazionale (teorie dello sviluppo economico e dell’arretratezza, dalle prime formulazioni di
Vito ai congressi internazionali sui problemi dello sviluppo del 1955 e 1956).
Un caso interessante nella storia dei rapporti tra lavoro dell’economista e dottrina sociale è
quello di Joseph Alois Schumpeter. Egli nel 1945 nel corso di una conferenza davanti
all’Association professionelle des industriels di Montréal, evidenzia i pericoli di «decomposizione»
in cui il sistema economico e politico può incorrere qualora continui ad essere gestito da operatori
che agiscono in base ai principi di quella filosofia utilitarista che «non riconosce altro principio
regolatore che quello dell’egoismo individuale” e che “esprime fin troppo bene lo spirito
d’irresponsabilità sociale che caratterizza la passione e lo stato laico, o meglio laicista del secolo
XIX» 76.
Egli si chiede se la «soluzione di questo grave problema scaturirà dallo statalismo ... (o) dal
socialismo democratico» e, rifiutando categoricamente queste due soluzioni, conclude
affermando:
Bisognerà ricorrere all’organizzazione corporativa nel senso auspicato dalla Quadragesimo Anno. Non
spetta all’economista fare l’elogio del messaggio morale del Papa. Ma egli potrà trarne una dottrina
economica. Tale dottrina non fa appello a false teorie. Essa non si basa su pretese tendenze che non
esistono. Riconosce tutti i fatti dell’economia moderna. E, pur portando rimedio alla riorganizzazione
attuale, ci mostra le funzioni dell’iniziativa privata in un quadro nuovo. Il principio corporativo riorganizza
ma non irreggimenta. Si oppone a ogni sistema sociale a tendenza centralizzatrice e a ogni irregimentazione
burocratica; in effetti, è il solo modo per rendere impossibile quest’ultima....[Il Papa] Ci mostrava un
metodo pratico per la soluzione di problemi pratici che, a causa dell’incapacità di risolverli del liberalismo
economico, richiedono l’intervento del potere politico......l’azione corporativa delle associazioni
professionali, per il fatto stesso che garantisce a ogni singola impresa che non sarà la sola a farsi avanti, e
che di conseguenza essa troverà nella produzione delle altre la domanda per i propri prodotti, ne è il rimedio
più naturale. Ne consegue che il corporativismo associativo eliminerebbe gli ostacoli più gravi che si
oppongono alla cooperazione pacifica tra operaio e padrone. .... Ora, il corporativismo associativo non è
una cosa meccanica. Non può essere imposto o creato dal potere legislativo. Non tende a realizzarsi da
solo. Può nascere soltanto dall’azione degli uomini liberi e da una fede che li ispiri. Per fondarlo e
garantirne il successo ci vogliono volontà, energia, un senso nuovo di responsabilità sociale....ma il suo
problema fondamentale (...) si riassume nel fatto che, più ancora che una riforma economica e sociale, esso
implica una riforma morale.
Schumpeter abbandona qui qualsiasi pretesa di neutralità e sceglie di esprimersi in termini
normativi. Nel 1949 ritornerà sull’argomento con una comunicazione al congresso dell’American
Economic Association e l’anno successivo in The march into socialism: una riorganizzazione
della società secondo le direttive dell’enciclica «fornirebbe senza dubbio un’alternativa al
socialismo che permetterebbe di evitare lo “stato onnipotente”»77, senza naturalmente
confondere il corporativismo societario da quello di stato dei regimi fascisti.
In sostanza egli, mantenendosi lontano dal modello di managerialismo tecnocratico che negli
Stati Uniti e in parte dell’Europa stava diffondendosi e prevedendo la possibilità di un esito
alternativo al socialismo, guarda ad un ordine sociale imperniato «sulla figura dell’imprenditore
del capitalismo concorrenziale, su strutture familiari solide anche se aperte ad un continuo
76
Il discorso è stato pubblicato in italiano in: J. A. Schumpeter, L’imprenditore e la storia dell’impresa.
Scritti 1927-1949, a cura di Alfredo Salsano, Bollati Boringhieri, Torino 1993, pp. 91-96.
77
Questa affermazione è riportata nell’ Introduzione di Salsano a J. A. Schumpeter, L’imprenditore e la
storia dell’impresa. Scritto 1927-1949, cit., p. XXIII.
ricambio sociale, sulla realizzazione del benessere delle masse attraverso l’accumulazione resa
possibile dal profitto imprenditoriale»78.
Questa elaborazione di Schumpeter è interessante per diversi motivi. Innanzitutto perché è
iniziata sotto lo stimolo diretto di una indicazione papale: Schumpeter si è sentito interpellato
direttamente nella sua specifica professionalità. In secondo luogo per gli anni in cui si svolge
questa vicenda: Schumpeter attribuisce a Pio XI una visione sociale che prevede una terza via
come soluzione alle distorsioni del capitalismo e alle conseguenze nefaste del socialismo; ed è
proprio con la Quadragesimo Anno che la dottrina sociale conclude il cammino delle proposte
«integraliste» di una società cristiana in opposizione alla società secolarizzata. Negli anni in cui
Schumpeter si esprime nel senso qui riportato non è ancora completamente rotto il ponte con
l’idea della società cristiana, ma si sta aprendo una fase nuova, di cui il personalismo di Maritain
e di Mounier sono espressione chiara.
La dottrina sociale inizia cioè a non identificarsi più con un sistema sociale predeterminato in
cui i principi dell’etica cristiana vengono direttamente tradotti in termini organizzativi.
Osservazione conclusiva
Se oggi la dottrina sociale si può intendere, mi pare, come un ricco ed elaborato corpus
strumento di evangelizzazione, se oggi si è chiamati a diffondere un senso della vita e a vivere
esperienze che realizzino l’uomo in senso cristiano, se oggi lo scienziato è chiamato a partecipare
a questo progetto perché anche le più alte espressioni della scienza fanno parte del vivere delle
persone e della collettività, 79 allora mi pare che lo storico del pensiero possa con curiosità
chiedersi come in passato e nelle diverse realtà sia stato espresso e colto questo messaggio che
invita - in varie forme e con diverse accentuazioni nel tempo - a recepire l’interconnessione tra
propria fede e cultura, che invita a porsi interrogativi partendo anche dalle situazioni e ad
elaborare strumenti teorici per analizzare le situazioni.
Al di là della possibilità di riconoscere che si sono stabilite nel passato relazioni dirette tra
messaggi della dottrina sociale della Chiesa e lavoro degli economisti, vi è a mio giudizio un tema
di carattere generale riguardante il rapporto tra scienza economica e concezione dell’uomo e
della società desunta dalla rivelazione: è il tema del significato del diritto inalienabile di libertà
espresso storicamente dal magistero e del rapporto tra il diritto dell’uomo di vivere libero (dai
bisogni e dagli idoli) e la scala di valori sottesa ai sistemi teorici degli economisti e alle proposte
concretamente avanzate per la risoluzione di nodi di carattere socio-economico. Mi sembra che
questo tema di ricerca rientri tra quelli fondamentali della storia della scienza.
78
79
Ibid., p. XXVI.
Le espressioni qui utilizzate sono tratte dal testo del Progetto culturale orientato in senso cristiano.
Una proposta di lavoro, a cura della Presidenza della Cei, 28-1-1997.
LUIGI PASINETTI
LA SCIENZA ECONOMICA
Cercherò in questa breve nota di dare succinte risposte ai tre quesiti che il Centro di ricerche
per lo studio della dottrina sociale della Chiesa ha proposto alla nostra riflessione.
1. Il primo quesito chiede se i pronunciamenti della Chiesa in materia di dottrina sociale
abbiano avuto incidenza e/o fecondità sulla storia della nostra società.
Mi sembra che a questo quesito non si possa che dare una risposta positiva.
Di fronte, specialmente nella prima metà dell’Ottocento, ad un capitalismo liberale sfrenato, e,
specialmente nella seconda metà dello stesso secolo, ad un diffuso disagio e malcontento nella
classe operaia, stimolata anche da una critica radicale e rivoluzionaria proposta dal movimento
socialista e da Marx, l’enciclica papale Rerum novarum ha senza dubbio aperto un vasto
orizzonte e ha dato importanti contributi mirati ad una riconsiderazione dei rapporti sociali che
non ignorasse gli abusi più preoccupanti del capitalismo ottocentesco e nello stesso tempo
invitasse ad attuare riforme significative con spirito moderato e rispettoso delle questioni morali.
2. Il secondo quesito chiede quali contributi di conoscenza scientifica la disciplina di cui sono
cultore (ossia l’economia politica) abbia reso disponibili perché potessero essere utilizzati da
parte della dottrina sociale della Chiesa.
Penso che la scienza economica dello scorso secolo, specialmente nella sua formulazione che,
in reazione al marxismo, ha dato luogo alla elaborazione della teoria marginalista, non abbia
portato grandi contributi di conoscenze utilizzabili ai fini di una effettiva applicazione della
giustizia sociale nei rapporti tra imprenditori e lavoratori e nella distribuzione del reddito e della
ricchezza.
La teoria dominante alla fine del secolo scorso, e in gran parte dominante anche nel nostro
secolo, fonda le proprie proposizioni sul principio del self-interest nel comportamento individuale
e sostanzialmente su una filosofia utilitaristica.
In altre parole, la teoria economica dominante ha fatto essenzialmente affidamento sul
comportamento egoistico dei singoli nello svolgimento dell’attività economica, lasciando fuori dal
comportamento economico il problema di come le risorse economiche sono originariamente
distribuite tra i vari individui, gruppi sociali e nazioni. Tale distribuzione originaria delle risorse
viene assunta come data. Si rimandano così alla sfera delle decisioni politiche i problemi degli
interventi ritenuti necessari ad eventuali correzioni di situazioni palesemente inique o divenute tali.
All’interno di tale impostazione risulta difficile andare oltre le raccomandazioni di volontaria
beneficenza per sanare le situazioni più scabrose dal punto di vista della distribuzione della
ricchezza, salvo integrare tali azioni con politiche fiscali dell’autorità pubblica che non penalizzino
i percettori dei redditi più bassi.
In altre parole, quando le posizioni di efficienza vengono associate al comportamento
economico egoistico dei singoli nella conduzione degli affari, mentre i problemi della giustizia
sociale e i problemi della distribuzione del reddito e della ricchezza vengono riservati ad interventi
fiscali mirati a tentativi redistributivi o affidati agli interventi del tutto volontari dei singoli, mi pare
che si tenda a cercare di riparare alle ingiustizie sociali ricorrendo semplicemente ad
atteggiamenti paternalistici. Con una battuta si potrebbe dire che l’idea sottostante tali
atteggiamenti è quella di fare affidamento sull’egoismo dei singoli individui nella conduzione degli
affari dal lunedì al venerdì, salvo poi fare affidamento sul loro altruismo il sabato e la domenica.
Da queste considerazioni dedurrei che c’è qualcosa di sbagliato o, in ogni caso, che c’è
qualcosa che non va, nella teoria economica dominante.
3. Il terzo quesito chiede quali ulteriori approfondimenti scientifici l’approccio economicopolitico possa ricavare dalla dottrina sociale della Chiesa.
Penso che le indicazioni che si possono trarre dalla dottrina sociale della Chiesa siano di forte
stimolo ad un radicale ripensamento e siano nella direzione dello sviluppo di una teoria
economica su basi diverse da quelle utilitaristiche e da quelle che fanno affidamento
esclusivamente sul comportamento egoistico dei singoli.
WALTER G IORGIO SCOTT
IL MARKETING
1. Definizione di marketing
Per poter rispondere ai tre interrogativi proposti dal Centro di ricerche per lo studio della
dottrina sociale della Chiesa, è opportuno premettere alcune note volte a definire il significato di
marketing, nonché a individuare alcuni del principali fenomeni che al termine suddetto possono
essere collegati.
Secondo una delle definizioni più diffuse, «Il marketing è il processo sociale e manageriale
mediante il quale una persona o un gruppo ottiene ciò che costituisce oggetto dei propri bisogni e
desideri creando, offrendo e scambiando prodotti e valore con altri» 80.
Occorre sottolineare come l'elemento centrale del processo in questione sia costituito dal
soddisfacimento dei bisogni e dei desideri umani.
A questo fine, nel generale processo di marketing trovano sviluppo i seguenti stadi
fondamentali:
1. identificazione e valutazione dei bisogni dei consumatori attuali e potenziali;
2. sviluppo dei prodotti più idonei a soddisfare i bisogni attuali e potenziali;
3. realizzazione di efficaci sistemi di distribuzione dei prodotti, materiali e immateriali81;
4. sviluppo di processi di comunicazione atti a favorire la diffusione dei prodotti;
5. determinazione dei prezzi e delle condizioni di vendita dei prodotti;
6. organizzazione di attività di assistenza ai clienti, prima, durante e dopo la vendita.
2. Rilevanza attuale e prospettive del marketing
Avendo definito la natura e la sostanza del termine marketing dobbiamo ora inquadrare il
concetto in questione nel contesto dell’economia e della società contemporanea. A questo fine,
va innanzitutto tenuto presente che il marketing in quanto rapporto organico fra imprese e
mercati ha origine in una specifica fase dell’evoluzione delle economie di mercato: la transizione
dall’industrializzazione di massa alla società dei consumi.
Tale transizione, avviatasi negli Stati Uniti del New Deal e sviluppatasi in tutto il mondo
occidentale nei «trent’anni gloriosi» intercorrenti fra il secondo dopoguerra e le crisi petrolifere
degli anni ’7082, ha visto la progressiva trasformazione delle imprese, sempre più impegnate ad
adattare la propria capacità di produrre valore sotto forma di beni e servizi alle situazioni di
mercato, in primo luogo le esigenze ed i comportamenti dei consumatori. In questo contesto, le
80
P. Kotler - W. G. Scott, Marketing management, Isedi, Torino 1993, 7a ed. it., p. 5.
81
Con il termine prodotto si definisce tutto ciò che può essere offerto a qualcuno per soddisfare un
bisogno o un desiderio. Un prodotto può essere costituito da elementi materiali, come un’auto o un
televisore, oppure immateriali, come nel caso di un’operazione bancaria o di uno spettacolo teatrale.
Talvolta, si preferisce limitare l’uso del termine prodotto al campo dei beni materiali, designando con il
termine servizi i beni immateriali.
82
Sull’argomento, si rinvia a: W. G. Scott, Il concetto di marketing in un’epoca post-consumistica,
«Giornale di marketing», 1 (1975); ripubblicato in W. G. Scott, Marketing in evoluzione, Vita e Pensiero,
Milano 1988.
imprese hanno dedicato un’attenzione crescente agli strumenti della non-price competition
teorizzata da E. H. Chamberlin, vale a dire l’«innovazione di prodotto» e lo «sforzo di vendita»83.
Con l'intensificarsi delle dinamiche competitive di mercato, il ruolo e la natura del marketing
tendono a modificarsi in modo sostanziale.
In un mondo avviato alla globalizzazione, cioè alla progressiva scomparsa delle barriere di
vario genere fra i mercati nazionali, il successo di un’impresa è sempre meno determinato dalle
competenze chiave di cui essa dispone - pur indispensabili ed irrinunciabili - e sempre più dalla
capacità di individuare e servire quelle manifestazioni di domanda che maggiormente apprezzano
i valori realizzati dall’impresa stessa84. Saper pensare ed operare secondo i modelli del marketing
diviene quindi la premessa dei comportamenti strategici ed operativi delle imprese.
L’impresa, in quanto luogo e strumento della trasformazione delle risorse in strumenti per
soddisfare i bisogni, non potrebbe infatti raggiungere livelli adeguati di efficienza operando al di
fuori del paradigma di marketing.
Da questo postulato deriva una importante conseguenza, e cioè la possibilità di applicare i
principi e gli strumenti propri del marketing, non solo alle imprese operanti in vista del
conseguimento del profitto, ma anche a quelle organizzazioni non profit, pubbliche e private, le
quali svolgono attività volte a soddisfare bisogni individuali e collettivi in sostituzione e a
integrazione degli esistenti meccanismi di mercato. A questo proposito, si pensi ai bisogni di
salute, di assistenza, di istruzione, di servizi pubblici di qualità, di sicurezza e difesa, e così di
seguito.
È ormai un luogo comune il porre in evidenza il divario esistente in questi campi fra domanda e
offerta, con un grado di soddisfacimento delle esigenze che in molti casi tende allo zero, se non a
toccare addirittura valori negativi. Il fallimento delle economie pianificate dal centro, nonché la
verificata impossibilità dello stato sociale di far fronte all’intero spettro di bisogni compresi fra «la
culla e la bara», stanno aprendo oggi importanti prospettive alle attività del cosiddetto terzo
settore, nella misura in cui queste siano in grado di conseguire i necessari livelli di efficienza
nell'impiego di risorse, per definizione scarse, al fine di soddisfare esigenze, per definizione
illimitate.
A questo fine, gli strumenti elaborati in oltre mezzo secolo di sviluppo teorico e applicativo
della disciplina del marketing possono fornire un contributo decisivo, come del resto pongono in
evidenza le consistenti esperienze già realizzate altrove 85.
L’introduzione del marketing nel campo delle organizzazioni senza finalità di lucro non significa
affatto aprire la strada a quei processi di privatizzazione che taluni paventano come l’anticamera
del ritorno al capitalismo più selvaggio e spregiudicato. In realtà, le esperienze di privatizzazione
sinora realizzate sono state la soluzione necessaria a porre rimedio a situazioni di clamorosa
inefficienza nel gestire processi volti a sovvenire a esigenze e bisogni diffusi. Di queste situazioni
è, purtroppo, particolarmente ricca la realtà italiana, il che conduce un numero crescente di
83
Sul rapporto fra la teoria della concorrenza monopolistica formulata da Chamberlin e la teoria del
marketing, si veda il cap. 2 di Marketing in evoluzione, cit.
84
Per un adeguato approfondimento di questi aspetti si fa rinvio ai seguenti articoli dell’autore:
Marketing più intelligente per consumatori più attenti, «L'Impresa», 1993, 2 e Oltre i confini del
marketing di massa, «L'Impresa», 1994, 10, entrambi ripubblicati in: Marketing e competizione, Vita e
Pensiero, Milano 1997.
85
Un quadro esauriente in proposito è offerto da P. Kotler - A. R. Andreasen, Strategic Marketing for
Non Profit Organizations, Prentice-Hall 1996. Tale opera, giunta ormai alla quinta edizione (la prima è del
1975), costituisce una conferma quanto mai consistente dell’ormai conseguita maturità del marketing
applicato ai settori non profit. Il volume citato - di cui è in preparazione l’edizione italiana presso Il Sole 24
Ore-Libri - può essere utilmente integrato dall’opera di uno dei coautori, A. R. Andreasen, Marketing
Social Change, Jossey-Bass, S. Francisco 1995.
osservatori ad auspicare una rapida acquisizione culturale e professionale di strumenti ed
esperienze in grado di migliorare il nostro modo di gestire le risorse, private o pubbliche che esse
siano86.
3. Incidenza della dottrina sociale sulla storia della nostra società
Dare una risposta a questo interrogativo - naturalmente sulla base dell’elaborazione scientifica
condotta nell’ambito della disciplina - non è affatto facile.
Se si assume che la maggior parte dell’elaborazione in questione è stata effettuata secondo la
visione, definita in precedenza, dell’approccio manageriale al marketing, si potrebbe rispondere
che l’incidenza in questione è stata scarsa. A tal proposito va anche ricordato come, per ragioni
che sarebbe oltremodo complesso richiamare in questa sede, lo sviluppo dottrinale della disciplina
è stato sinora realizzato prevalentemente negli Stati Uniti. Quel che è certo è che in Italia gli
studi relativi a questa area di fenomeni hanno sempre trovato ostacoli non facili da superare87.
Se si assume invece la visione del «marketing sociale» la risposta può essere modificata,
anche se di poco.
Una prospettiva più ottimistica si potrebbe aprire per il futuro, nella misura in cui la dottrina
sociale verrà ulteriormente sviluppata e, soprattutto, comunicata (nel senso di fatta conoscere,
concetto questo assai ben sviluppato nell’ambito del paradigma di marketing). Ad esempio, nel
quarto capitolo della Centesimus annus vi sono concetti di fondamentale importanza per un
orientamento delle attività d’impresa verso finalità sempre più riconosciute come corrispondenti
all’interesse generale. Si consideri, ad esempio, l’inizio del n. 34 del capitolo suddetto:
Sembra che, tanto a livello delle singole nazioni, quanto a quello dei rapporti internazionali, il libero
mercato sia lo strumento più efficace per collocare le risorse e rispondere efficacemente ai bisogni. Ciò,
tuttavia, vale solo per quei bisogni che sono «solvibili», che dispongono di un potere d’acquisto, e per
quelle risorse che sono «vendibili», in grado di ottenere un prezzo adeguato. Ma esistono numerosi
bisogni umani che non hanno accesso al mercato88.
Ed è precisamente a questo proposito che si possono trovare nuovi campi di applicazione dei
principi o delle tecniche di marketing.
86
Assai istruttiva, a questo proposito, può essere la lettura del volumetto di A. Quadrio Curzio, Noi,
l’economia e l’Europa, Il Mulino, Bologna 1996. In esso viene efficacemente descritto il «ventennio di
dissennatezza finanziaria», dall’inizio degli anni ’70 agli inizi degli anni ’90, nel corso del quale si è potuto
assistere ad uno straordinario esempio di crescita economica basata sullo sviluppo dei consumi privati,
combinato con una dissipazione finanziaria assurda e, quel che è peggio, senza alcun corrispettivo in
termini di soddisfacimento dei bisogni collettivi. Con il risultato che siamo ai primi posti nella classifica
mondiale dei consumi automobilistici - tenuto conto del numero degli abitanti, della densità demografica,
della rete stradale, ecc. - e agli ultimi posti nelle classifiche della qualità dei servizi di civiltà: sanità,
istruzione, ricerca, ecc.
87
Per una panoramica dell’iniziale sviluppo del marketing nel sistema d’impresa italiano si vedano i
capitoli quinto e settimo di Marketing in evoluzione cit.
88
Lettera enciclica «Centesimus annus», Dehoniane, Bologna 1991. Per un’approfondita analisi
dell’enciclica sotto il profilo del suo impatto sulla «cultura del mercato», si veda: D. Antiseri, Cattolici a
difesa del mercato, Sei, Torino 1995, in particolare l’introduzione e i capitoli decimo e dodicesimo.
4. Impieghi delle risultanze scientifiche della disciplina del marketing da parte della
dottrina sociale
Da quanto emerge dalla letteratura specifica, nonché dall’analisi dei maggiori documenti nei
quali viene sviluppata la dottrina sociale della Chiesa, non sembra possibile rilevare segni di
rilievo di un consimile impiego.
Ciò va considerato con preoccupazione. Infatti, nell’ambito assai vasto della disciplina possono
essere individuati filoni specifici di grande importanza per lo sviluppo della dottrina in esame,
come quello connesso allo studio dei comportamenti di consumo e della loro evoluzione in
relazione ai vari fattori rilevanti. Altro filone ragguardevole è quello connesso ai processi della
comunicazione sociale.
In altri termini, si ritiene che una miglior conoscenza della disciplina del marketing - senza che
ciò comporti in alcun modo l’integrale o parziale accoglimento delle ipotesi che ne stanno alla
base e dei postulati che ne derivano - non potrebbe che giovare a quanti si occupano da vicino
della dottrina sociale della Chiesa.
5. Indicazioni per ulteriori approfondimenti scientifici nell'ambito della disciplina del
marketing stimolati dalla dottrina sociale.
Su questo punto si può osservare che la dottrina in questione può fornire indicazioni molto
importanti per l’ulteriore elaborazione, soprattutto nell’ambito della visione sociale del marketing,
cioè ispirata al perseguimento di interessi legittimi e di rilevanza generale.
«Il concetto di marketing sociale afferma che il compito di un’impresa è quello di determinare
i bisogni, i desideri e gli interessi dei mercati; obiettivo è di procedere al loro soddisfacimento più
efficacemente ed efficientemente dei concorrenti, secondo modalità che preservino o rafforzino il
benessere del consumatore e della società» 89.
Nella suddetta definizione è contenuto un programma completo di ciò che attende gli studiosi
nei prossimi anni, e cioè la modalità in base alle quali definire il benessere del consumatore e della
società. Se queste modalità non verranno definite, l’orientamento sociale del marketing resterà
una espressione vuota di significato, ancorché altisonante e coinvolgente, come molte delle
espressioni oggi di moda.
Ma come definire queste modalità? Secondo quali modelli? Quello proprio del sistema
capitalistico americano? Oppure quello proprio dell’economia sociale di mercato di stampo
germanico? Oppure ancora quello enarchico delle «grandi scuole», basato su una stretta
integrazione pubblico-privato ad elevati livelli di efficienza del sistema francese?
In altri termini, occorre definire quelle regole del gioco che possono rendere le dinamiche
competitive delle imprese - delle quali il marketing è l’espressione prima - corrispondenti nel
contempo agli interessi delle imprese ed a quelli della società.
Ed è a tal proposito che è possibile intravvedere un interessante campo di ricerca per uno
sforzo combinato fra vari approcci disciplinari.
89
P. Kotler - W. G. Scott, Marketing management, cit., p. 43.
ENRICO MARIA TACCHI
LA SOCIOLOGIA:
NOTE SU ALCUNE «GRANDI QUESTIONI» CULTURALI E SOCIALI
Una riflessione sui rapporti che intercorrono tra la dottrina sociale della Chiesa e il proprio
specifico campo di studi (in questo caso, la sociologia) tende inevitabilmente a sollecitare
interessi che sono, ad un tempo, più estesi e più limitati rispetto agli standard usuali della ricerca
scientifica.
Da un lato infatti, al di là delle funzioni proprie di chi lavora nell’ambito universitario, la dottrina
sociale della Chiesa interpella anche le dimensioni più fondative del credente e del cittadino,
investendo così non solo l’aspetto professionale, ma anche la sfera religiosa e quella politica.
D’altra parte, se rispetto all’estensione dei temi toccati si va un po’ oltre i confini consueti degli
elaborati rigorosamente scientifici, rispetto al grado di approfondimento le pretese sono più
ridotte. Infatti, per tali studi si richiederebbe: sotto il profilo sostanziale, l’inserimento della
dottrina sociale della Chiesa in un congruo programma di ricerca (condizione questa che non si
può certamente improvvisare); sotto il profilo formale, una certa soddisfazione della tradizionale
aspettativa di esaurienti ricognizioni della letteratura sul tema, con ampio sfoggio di citazioni
erudite.
Entro questi limiti, si abbozzano qui di seguito alcune brevi considerazioni sui rapporti tra
dottrina sociale della Chiesa e sociologia, anche se in più punti emergeranno considerazioni
collegate ad insegnamenti e ad iniziative della Chiesa non strettamente riconducibili alla dottrina
sociale della Chiesa. Si farà riferimento dunque a otto grandi questioni attualmente dibattute,
pagando volentieri il prezzo di qualche schematismo, nell’intento di favorire una maggiore
chiarezza e la comparabilità con eventuali tesi alternative.
In una società complessa quale l’attuale, non meraviglieranno in questo percorso le difficoltà di
applicazione di letture deterministiche, perché in molti casi sarebbe assai poco convincente
presupporre rapporti di causa e di effetto tra dottrina sociale della Chiesa, società e sociologia (o
viceversa), mentre tutto induce ad ipotizzare piuttosto un’evoluzione congiunta di ambiti che si
influenzano reciprocamente. Nella prospettiva accennata, si cercherà comunque di rispondere ad
una duplice richiesta di valutazione: sia dell’incidenza della dottrina sociale della Chiesa sulla
società, sia dell’apporto della sociologia alla dottrina sociale della Chiesa; si metteranno altresì in
evidenza alcuni stimoli all’approfondimento scientifico, che la sociologia può ricavare dalla
dottrina sociale della Chiesa.
1. Famiglia
Vi sono pochi dubbi riguardo al fatto che il cristianesimo (e di riflesso la dottrina sociale della
Chiesa) abbia permeato profondamente i modelli familiari delle società pre-industriali
dell’occidente, con maggiore permanenza nel tempo dove l’economia e la società hanno
mantenuto più a lungo caratteri almeno parzialmente agricoli. In seguito, dapprima per la
diffusione ampia sul territorio di stili di vita urbano-industriali anche nelle zone ex-rurali, e
successivamente per l’azione pervasiva dei mass media, alcuni fattori di incidenza della
tradizione cristiana sono fortemente diminuiti, mentre altri sembrano resistere meglio. Ad
esempio:
- si riduce l’area sociale di condivisione dei modelli familiari estesi, fondati sul matrimonio
indissolubile, ad elevata prolificità (con implicita condanna delle pratiche abortive);
- resiste maggiormente il modello monogamico, l’affermazione (in linea di principio) della pari
dignità tra i sessi e della responsabilità verso i figli.
Su altri aspetti più propriamente morali (infedeltà coniugale, rapporti prematrimoniali, figli nati
fuori del matrimonio, contraccezione ecc.) non si è certi, al di là delle affermazioni di principio,
che davvero nelle pratiche sociali della cultura pre-industriale vi fosse il generale ossequio ai
principi cristiani da taluni ipotizzato. Infatti, una cultura ufficiale forse meno trasgressiva nelle sue
espressioni esterne non garantisce una corrispondente coerenza nei comportamenti concreti.
In questa prospettiva, la sociologia può offrire alla dottrina sociale della Chiesa elementi di
riflessione sul mutamento della vita familiare in ordine ad esempio:
- al passaggio da una famiglia intesa anche come unità produttiva economica a pura unità di
consumo (per cui alcune proposte contingenti, quali il reddito familiare legato alla disponibilità di
un podere per famiglia, sono state formulate quasi nel momento in cui cessavano di essere
generalizzabili);
- alla conseguente prevalenza degli elementi di costo collegati alla generazione dei figli, rispetto
alle aspettative di sostegno economico a vantaggio della famiglia di origine;
- alla valorizzazione dei momenti affettivi e dei rapporti primari interni alla famiglia, non più
collegati armonicamente con la relazionalità esterna, ma spesso a difesa di intimità, identità, calore
umano, contro ambienti resi minacciosi da produttivismo, competizione, freddezza, formalismo e
superficialità;
- alla necessità di integrare la socializzazione delle nuove generazioni e la tradizione culturale
tra agenzie educative tradizionali (ad esempio nei rapporti tra famiglia, chiesa, scuola) e nuove
(inclusi mass media, aziende, associazioni).
Alla luce della dottrina sociale della Chiesa, andrebbe predisposta una corretta lettura
sociologica di nuovi modelli familiari e di alternative alla famiglia che - per quanto discutibili - si
renderanno sempre più evidenti in una società multiculturale. Ad esempio: poligamia e
concezione della donna nel contesto islamico; convivenze eterosessuali e omosessuali; modelli di
affido e di adozione; conseguenze sociali sui figli di apprendimenti primari in contesti particolari
(famiglie mono-parentali o ricomposte; assenza di relazioni laterali con fratelli ecc.).
In sintesi, si dovrebbe ripensare al configurarsi delle cellule fondamentali della convivenza
sociale, ragionando serenamente sulla portata e sui limiti di forme alternative alla famiglia
tradizionalmente intesa, con tutte le necessarie conseguenze morali e politiche.
Infine, è appena il caso di accennare al complesso intreccio tra le problematiche familiari e
alcune questioni bioetiche, delle quali si potrebbero verificare le implicanze anche a livello sociale,
come suggerisce in modo evidente l’esito della Conferenza del Cairo90.
2. Lavoro e impresa
Si può ritenere che la dottrina sociale della Chiesa abbia inciso durevolmente (e tuttora possa
incidere molto, ad esempio nei paesi in via di sviluppo) nell’ambito della cultura economica, in
particolare con il mettere in guardia dai limiti dei modelli ad economia di mercato e ad economia
pianificata finora storicamente realizzati. La corrispondenza concreta delle indicazioni della
dottrina sociale della Chiesa ad esigenze che man mano sono emerse si legge nelle revisioni
dottrinali del capitalismo classico e nel riconosciuto fallimento di una pianificazione economica
rigida e onnicomprensiva.
Peraltro, andrebbe ben verificato e distinto:
90
Cfr. infra, n. 6.
- quanto ha avuto semplicemente il valore di una «previsione corretta» della necessaria
evoluzione dei rispettivi sistemi, magari favorita da correnti di pensiero non riconducibili alla
dottrina sociale della Chiesa;
- quanto potrebbe essere ricondotto davvero all’applicazione della dottrina sociale della Chiesa,
ad esempio nella difesa della proprietà privata, purché finalizzata socialmente nel quadro della
destinazione universale dei beni terreni.
In particolare, deve essere sottolineata una certa affermazione, almeno teorica, del principio
secondo cui «il lavoro è per l’uomo» (quindi, la persona non deve essere asservita all’economia):
tuttavia, questo appare ancor oggi un obiettivo sociale non raggiunto, nonostante il coerente
insegnamento della dottrina sociale della Chiesa fin dalle origini.
Si apre a questo punto un dibattito molto ampio sulle diverse forme di politica economica e del
lavoro sperimentate o teorizzate con tali finalità: dal sistema ad economia mista applicato anche in
Italia al sistema polacco proposto negli anni Ottanta da Solidarnosc; dal sistema tedesco a
sussidiarietà diffusa ad altri sistemi co-gestionali e partecipativi ideati nel Nord Europa
(laburismo, socialdemocrazia) e altrove (ex-Iugoslavia, Israele).
Una realistica lettura delle trasformazioni dei mercati e dell’impresa, soprattutto dopo il crollo
di quasi tutti i regimi a socialismo reale, può indubbiamente favorire l’approfondimento della
dottrina sociale della Chiesa riguardo al lavoro. La sociologia infatti è interessata all’analisi dei
cambiamenti in atto, con diretto riferimento anche agli effetti sociali indotti al di fuori del sistema
strettamente produttivo (ad esempio: l’incidenza delle tecnologie sull’uso sociale del tempo; gli
effetti della terzia rizzazione sulle pratiche abitative, familiari, ricreative; le forme di alienazione
indotte dall’attività lavorativa; il trasferimento dei modelli di gestione propri dell’impresa sulle
realtà associative, culturali, partitiche, sindacali ecc.).
Come sia possibile tradurre in pratica i principi della solidarietà e della sussidiarietà nelle
politiche economiche e nei modelli concreti di comportamento già sperimentati, o comunque
proponibili, nella società odierna appare un’indicazione di approfondimento assai feconda, che la
sociologia può ricavare dalla dottrina sociale della Chiesa.
Si pensi ad esempio agli attuali dibattiti sull’economia informale e sul cosiddetto «terzo
settore», comprendente attività non profit di self help e di mutual help; alle imprese
cooperative e allo studio dell’interazione tra partecipazione ed efficienza nelle imprese; ai
meccanismi di regolazione sociale dell’economia.
3. Organizzazione dello stato
Per valutare l’incidenza della dottrina sociale della Chiesa sulle diverse forme di
organizzazione dello stato, andrebbe premesso che la Chiesa, molto opportunamente, si è di
norma astenuta dal proporre modelli concreti di organizzazione statuale, trattandosi in linea
tecnica di soluzioni strumentali, che possono essere finalizzate a disegni politici molto diversi.
L’attenzione a tenere distinti i piani dell’azione pastorale e dell’azione politica sembrerebbe
rafforzata nei tempi più recenti, fino ad una sostanziale separazione: ad esempio, il medesimo
richiamo esplicito al principio di sussidiarietà recepito nel trattato di Maastricht e a livello di singoli
Stati sembra avere poco a che vedere con la sostanza della dottrina sociale della Chiesa.
Analogamente, la difficoltà pratica di riproporre oggi ad esempio in Italia il corporativismo dopo
l’esperienza fascista, oppure il federalismo dopo la lettura leghista, non toccano alla radice la
possibilità teorica di creare attraverso quei principi organizzazioni statuali rispettose della dottrina
sociale della Chiesa; né viceversa esperienze pratiche come quella dei gesuiti in Paraguay
assumono valore paradigmatico in altri tempi e luoghi.
Se si procede oltre i modelli organizzativi, la dottrina sociale della Chiesa di questi ultimi
decenni risulta quasi sempre, nelle sue più compiute formulazioni, chiaramente incompatibile con
regimi irrispettosi della dignità umana sotto qualunque profilo; anche se la conseguente
preferenza per ciò che si chiama spesso «democrazia« appare condizionata dalle diverse
interpretazioni e varianti che si sono attribuite e si attribuiscono a questo concetto91.
Se si osserva che l’organizzazione dello stato è oggetto di approfondimento specifico di
numerose discipline (soprattutto giuridiche, politologiche e filosofiche), si può ben comprendere
come la sociologia possa fornire un proprio specifico contributo solo raccordandosi con altre
prospettive scientifiche. Alla dottrina sociale della Chiesa potrebbe in particolare tornare utile un
contributo critico per l’individuazione di modelli sociali e culturali simili in strutture statuali
diverse, ovvero di differenze sociali profonde in strutture statuali simili: infatti, per i motivi sopra
accennati, questi risultati di ricerca possono favorire una lettura non ideologica dei diversi
ordinamenti, cogliendo all’interno di ciascuno i punti forti e le manchevolezze, ai fini della più
completa promozione umana.
Quanto alle indicazioni di approfondimento che la sociologia può ricavare dalla dottrina sociale
della Chiesa, per le considerazioni appena esposte sembra più opportuno individuare gli ambiti più
promettenti di studio empirico, anziché ricercare formulazioni teoriche di approfondimento
particolarmente originali sul tema dell’organizzazione dello stato.
Tra questi ambiti, fatta salva la solita riserva sulla esclusiva pertinenza alla dottrina sociale
della Chiesa, andrebbero quanto meno ricordate le politiche riguardanti l’educazione, come
processo che non si esaurisce nella polarità tra le famiglie e gli enti formativi pubblici, ma che si
manifesta come luogo di convergenza di molte agenzie educative, non ultime la Chiesa stessa col
suo magistero e (più modestamente, ma capillarmente) le istituzioni educative cristiane per la
formazione scolastica ed extrascolastica. Indicazioni di approfondimento analoghe potrebbero
essere suggerite per il settore socio-sanitario ed assistenziale, anche per le conseguenze relative
al passaggio dal Welfare State tradizionale ad una Welfare Society in cui trovino integrazione
corretta le diverse espressioni del privato sociale.
4. Pace e guerra
Per valutare l’incidenza della dottrina sociale della Chiesa sulla società riguardo al tema della
pace, sembra anzitutto necessario distinguere tra le conseguenze indotte nell’ambito decisionale
ristretto dei responsabili di governo e le conseguenze sull’opinione pubblica più generale.
a) Nel primo caso la diplomazia vaticana, forse più direttamente che attraverso la dottrina
sociale della Chiesa, ma ovviamente in piena sintonia, ha tentato costantemente in questo secolo
di difendere il bene della pace, attraverso il peso morale dell’autorità rappresentata.
Ancora a livello di azione statuale, si potrebbe citare dopo la Seconda guerra mondiale
l’apporto di numerosi governi europei, guidati da forze politiche di ispirazione cristiana, per
favorire attraverso varie forme di cooperazione tra gli stati il venir meno delle occasioni di guerra
che da secoli dilaniavano il continente.
Il progressivo appannarsi del riferimento alla «guerra giusta» ha portato da un lato al rifiuto
della guerra come momento di confronto tra stati (qui appare ovvio il riferimento a quanto
recepito in Italia dalla Costituzione), dall’altro al principio recente di «ingerenza umanitaria», che
presuppone però un’autorità internazionale in grado di garantire l’uso legittimo della forza in modi
assimilabili alla legittima difesa sul piano privatistico e alle operazioni di polizia sul piano
pubblicistico. Su queste linee di tendenza sembra raccogliersi un consenso importante: forse il
rinnovato prestigio delle mediazioni vaticane nelle controversie tra gli stati, ad esempio in
America Latina, si spiega anche così.
91
Cfr. infra, n. 5.
b) A proposito dell’opinione pubblica più generale, appare talvolta difficile distinguere tra
l’efficacia degli insegnamenti della dottrina sociale della Chiesa e un pacifismo di altro genere. È
appena il caso di ricordare in questo caso l’uso strumentale fatto delle posizioni umanitarie della
Santa Sede da diverse parti politiche, certamente poco interessate ad approfondire l’importanza
del legame, considerato dalla Chiesa necessario, tra la pace e la giustizia. Deve essere
comunque sottolineata in questi ultimi decenni l’enfasi sull’educazione alla pace, simbolicamente
collocata dalla Chiesa al primo posto come tema di riflessione all’inizio di ogni nuovo anno.
Sembra piuttosto arduo identificare gli apporti precisi che la sociologia potrebbe offrire alla
dottrina sociale della Chiesa sul tema della pace: si tratta forse di un argomento dove al sociologo
conviene piuttosto recepire lo stimolo all’approfondimento e alla ricerca, ad esempio sugli aspetti
più vari della conflittualità. Il conflitto sociale è peraltro un tema classico di studio, che potrebbe
essere interessante sviluppare sia a livello internazionale sia all’interno di singoli stati (si pensi
oggi alle ricorrenti guerre civili in alcuni paesi africani).
5. Democrazia
Come già accennato, i principi democratici sono riecheggiati solo indirettamente nella dottrina
sociale della Chiesa per un lungo periodo, stante la necessità di una compiuta riflessione sui
diversi significati assunti dal termine (si pensi alle «democrazie popolari» dei paesi ex-comunisti).
Ora il consolidamento dei principi democratico-formali a livello politico appare generalmente
condiviso e la Chiesa in certe occasioni ha dato un impulso decisivo (ad esempio in Polonia o
nelle Filippine) alla caduta di regimi dittatoriali. Ma ancor prima, alla fine della seconda guerra
mondiale, forze politiche di ispirazione cristiana avevano guidato in Europa la ricostruzione dei
rispettivi paesi, promuovendo in particolare il ritorno alla democrazia in Italia e in Germania.
Si può ritenere che la dottrina sociale della Chiesa abbia avuto ulteriori occasioni di incidere
sul dibattito relativo alla democrazia economica, sia accettando fin dalle origini le organizzazioni
sindacali, sia riconoscendo la validità di forme volontarie di cooperazione e mutualità, cogestione e
autogestione.
Il pensiero sociale di autorevoli scienziati sociali cattolici (si pensi per l’Italia, tra gli altri, a
Toniolo o a Sturzo) appare fortemente collegato allo sviluppo della dottrina sociale della Chiesa,
tanto che in più casi appare arduo discernere la direzione dei reciproci influenzamenti. Le
controverse interpretazioni delle forme di democrazia, dei modelli di partito, del conflitto
industriale sono state talvolta esplicitamente discusse e valutate dalla dottrina sociale della
Chiesa, che progressivamente ha sostenuto con sempre maggiore precisione i vantaggi della
partecipazione perché sia possibile superare un concetto puramente giuridico-formale dei
meccanismi democratici. Non è stata accolta invece la radicalizzazione del conflitto fino a forme
di lotta violenta, come dimostra il rifiuto delle interpretazioni sociologiche di derivazione marxiana,
mentre la resistenza civile (ad esempio attraverso lo sciopero) è stata considerata ammissibile in
certe circostanze.
Tra gli stimoli alla ricerca sui temi della democrazia che la sociologia può ricavare dalla
dottrina sociale della Chiesa, si impongono oggi i necessari approfondimenti sul sistema dei mass
media: da un lato, l’analisi di questa forma pervasiva di potere si collega direttamente al tema
della comunicazione 92; dall’altro, si colloca sulla pista già esplorata del cammino verso una
democrazia sostanziale.
Infatti la sociologia, dopo gli studi sugli aspetti problematici della democrazia politica (si pensi,
negli anni Quaranta, alle ricerche sull’autoritarismo; o ancora negli anni Cinquanta alle ricerche
sulla segregazione razziale) e sulle accennate proposte di democrazia economica (soprattutto
92
Cfr. infra, n. 7.
negli anni Sessanta e Settanta), si chiede oggi se la democrazia non corra i rischi maggiori
attraverso processi di omologazione delle coscienze, resi possibili dal controllo tecnologico
sull’informazione: si tratta di interrogativi emersi da tempo un po’ ovunque, con il coinvolgimento
di studiosi autorevoli quali Popper, quindi senza presupporre una relazione necessaria con la
situazione italiana.
6. Sviluppo
Riguardo ai temi dello sviluppo, si può affermare che la dottrina sociale della Chiesa abbia
avuto alcune importanti intuizioni, che gradualmente sono state universalmente recepite: se è
difficile valutare l’incidenza diretta di documenti quali la Populorum progressio o la Sollicitudo
rei socialis sulle società contemporanee, si può comunque ammirare la grande capacità di
cogliere e talvolta di anticipare le esigenze della realtà contemporanea: si pensi ad esempio al
rifiuto di una concezione solo economica dello sviluppo, ormai fatta propria anche dalla stessa
World Bank. Peraltro anche in questo caso è difficile attribuire questa positiva e innegabile
concordanza ad un recepimento effettivo della dottrina sociale della Chiesa, piuttosto che ad un
affinamento della gamma degli indicatori di sviluppo presi in considerazione dagli scienziati
sociali.
Come si è accennato93, il tema dello sviluppo si intreccia con aspetti culturali di base, quali ad
esempio la concezione della famiglia.
Reciprocamente, anche riguardo alla valutazione delle relazioni tra sociologia e dottrina sociale
della Chiesa in tema di sviluppo, più che di apporto disciplinare per l’affinamento della dottrina,
sembra più appropriato parlare di consonanze. Ad esempio, non è certo dalla Scuola di
Francoforte che la dottrina sociale della Chiesa ha tratto ispirazione per mettere a tema la
ricordata distinzione tra benessere economico e autentico sviluppo umano e sociale; tuttavia, le
riflessioni dei francofortesi sui rapporti tra incivilimento (tecnico-scientifico) e cultura vera e
propria (con un proprio corredo valoriale) mettono in evidenza l’assoluta irriducibilità della
seconda alla prima, come avevano potuto direttamente osservare gli studiosi tedeschi allontanati
dal regime nazista, che pure era tecnologicamente all’avanguardia.
Infine, quanto alle indicazioni di approfondimento che la sociologia può trarre dalla dottrina
sociale della Chiesa in tema di sviluppo, in una prospettiva pienamente umanistica andrebbe
ricordata l’incessante sfida lanciata a questa disciplina dall’obiettivo di riflettere sullo sviluppo
dell’intera persona e di tutta la comunità umana. Ne è un singolare riflesso la tematica, molto
attuale, della qualità della vita: dopo la ricerca dei beni e dei servizi più sofisticati, il desiderio di
soddisfare ad esigenze post-materialistiche da un lato può celare le ulteriori finalità edonistiche di
una società ormai opulenta, dall’altro può sottolineare l’insoddisfazione spirituale che permane
dove l’avere, o anche solo l’apparire, fa premio sull’essere.
7. Comunicazioni
Per quanto non abbia avuto uno spazio importante nei primi documenti della dottrina sociale
della Chiesa, il tema delle comunicazioni sociali è stato comunque affrontato dalla Chiesa con
una certa tempestività a partire dagli anni Quaranta. Si può immaginare che in Europa le
preoccupazioni per un uso distorto della comunicazione siano state enfatizzate dall’aperta
strumentalizzazione della radio da parte delle dittature dell’epoca, mentre in America il «quarto
potere» emergeva come contraltare delle autorità politiche sia nel bene (ad esempio, quando
denunciava la corruzione) sia nel male (ad esempio, quando copriva l’illegalità).
93
Cfr. supra, n. 1.
Più che a livello di dottrina sociale della Chiesa, l’argomento è stato prevalentemente trattato
all’inizio a livello di etica (e talvolta di deontologia). Si può pensare che anche per questo la
Chiesa di questo secolo non abbia all’origine assunto un ruolo di guida nel rapido evolversi delle
comunicazioni sociali, privilegiando di solito forme tradizionali di comunicazione, quali ad esempio
i fogli informativi di limitata sofisticazione tecnica. Va notato però da un lato che tali canali hanno
mantenuto una non trascurabile efficacia nella formazione popolare, mentre d’altro canto in certi
casi la comunicazione sociale di ispirazione cattolica ha saputo recepire rapidamente tecnologie
all’avanguardia e grandi capacità di gestione professionale: si pensi ad esempio al lavoro dei
Paolini. In conclusione, vi è ora in genere molta più agilità operativa e confidenza coi media (in
Italia, gli spot televisivi per le offerte deducibili ne sono un esempio) e quindi una migliore
attitudine comunicativa, testimoniata in particolare dal buon livello raggiunto dall’editoria cattolica,
da alcuni periodici e anche dai tentativi sperimentati in campo radio-televisivo. Tuttavia, per stare
sul mercato dei media , i contenuti della comunicazione di massa risultano fortemente condizionati
dalle esigenze tecniche della «notiziabilità», il che nella società contemporanea spesso non
incoraggia un’adeguata diffusione dei messaggi connessi alla dottrina sociale della Chiesa.
Quanto all’aiuto che la sociologia potrebbe fornire alla dottrina sociale della Chiesa in tema di
comunicazione, a livello macro-sociologico non sembra opportuno indicare aspetti contenutistici
particolarmente originali: per loro natura infatti le comunicazioni sociali riguardano temi di
generale interesse. Si tratta allora di valorizzare, anche sul piano metodologico, le modalità
espressive di alcuni comunicatori efficaci, capaci di educare a cogliere nei valori la possibilità di
rispondere ad esigenze perenni, quindi degne di interesse anche per l’opinione pubblica di oggi:
non si deve pensare solo al papa, ma anche a personalità quali i cardinali Martini e Tonini, padre
Gheddo o mons. Ravasi.
Enorme invece potrebbe essere, a livello micro-sociologico, l’aiuto alla Chiesa in generale per
comunicare meglio nelle relazioni locali, di gruppo e «faccia a faccia». In questi casi, l’obiettivo
può essere quello di elevare l’efficacia di forme comunicative tradizionali, ma capillarmente
diffuse, quali la stampa cattolica minore o le stesse omelie festive.
Anche riguardo alle indicazioni di approfondimento che la sociologia potrebbe ricavare dalla
dottrina sociale della Chiesa in tema di comunicazione, occorre distinguere tra le diverse modalità
comunicative utilizzate in contesti «faccia a faccia», di gruppo piccolo o grande, di massa. Si
potrebbe ad esempio applicare l’analisi del contenuto alla dottrina sociale della Chiesa,
probabilmente con qualche interessante risultato di ricerca, ma con più modesti impatti sociali.
Molto più utili sembrerebbero studi empirici sulle modalità di comunicazione diretta: nel primo
annuncio, nella predicazione, nella missione, nella catechesi dell’iniziazione cristiana, nella
formazione permanente, nella direzione spirituale…
Sotto certi aspetti, sarebbe facile ipotizzare che la comunicazione ecclesiale (ma che dire
allora della comunicazione accademica?) non risponde alle modalità, spettacolari e concitate,
diffuse nei nostri tempi: l’abitudine fin da bambini all’uso del telecomando televisivo sembra
privilegiare i messaggi brevi e sloganistici, le frasi ad effetto assai poco adatte a trasmettere
valori alla società odierna. Tuttavia, non si deve affatto concludere affrettatamente che le forme
espressive costruite nei più sofisticati laboratori comunicativi siano le migliori possibili, e
nemmeno che siano vantaggiose nel lungo periodo, anche in termini di pura efficacia. Si possono
anzi immaginare effetti di saturazione, insofferenza per la mancanza di spontaneità degli
atteggia menti, ricerca di occasioni per una personale rielaborazione di messaggi più impegnativi e
meno commerciali: non a caso, il potere non effimero dei maestri di pensiero si manifesta ancor
oggi nella tradizionale capacità di vincolare i loro ascoltatori a tempi, codici e forme retoriche
della comunicazione quasi contrapposti a quelli appena accennati.
8. Ambiente
Si può sostenere che la dottrina sociale della Chiesa abbia da sempre correttamente affrontato
le tematiche ambientali, anche se all’inizio in forma implicita, attraverso l’invito a considerare la
creazione come un sistema di risorse al servizio di tutta l’umanità, risorse che devono essere
rispettate e trasmesse alle generazioni future. Tuttavia, l’incidenza sociale di questi principi sui
comportamenti concreti appare problematica, perché non regge all’analisi critica il mito
romantico di una società tradizionale rispettosa dell’ambiente e armonicamente inserita in esso.
In forma più esplicita, come è noto, interventi papali ed episcopali recenti hanno messo a tema
l’ambiente come risorsa non rinnovabile, che l’umanità ha in custodia e che appare minacciata da
modalità scorrette di sviluppo. È evidente la necessità di rispondere con questo da un lato alle
crescenti preoccupazioni ecologiche, dall’altro all’esigenza di evitare atteggiamenti fisiocentrici,
dove la natura appare un idolo assoluto, a cui tutto va sottoposto, anche dimenticando l’uomo.
Ancor oggi, dunque, l’incidenza della dottrina sociale della Chiesa non sembra prevalere
culturalmente e socialmente nel mondo contemporaneo. Si direbbe anzi che nella società odierna
convivano schizofrenicamente: da un lato, un assoluto disprezzo e sfruttamento brutale
dell’ambiente; dall’altro, un’esaltazione sfrenata dell’ambiente in sé, senza alcuna relazione con il
bene dell’uomo. Vanno tuttavia riconosciuti alcuni risultati positivi ottenuti dalla Santa Sede nei
consessi internazionali, in particolare quando si è trattato di collocare entro contesti più corretti e
completi i dati sulla crescita demografica, rifiutando i toni catastrofistici di certo ecologismo
occidentale.
Per valutare l’entità dell’apporto della sociologia ambientale (o eco-sociologia) alla dottrina
sociale della Chiesa, occorre premettere che questo sotto-settore disciplinare di ricerca è
relativamente giovane, ed è indirizzato per il momento all’esplorazione di temi di analisi collegati
solo indirettamente alla dottrina sociale della Chiesa vera e propria. Tuttavia, nella forma
dell’ecologia umana, l’analisi sociologica ha messo in evidenza fin dalle sue origini le situazioni di
marginalità e di esclusione sociale esistenti sul territorio: si può dunque affermare che, collegando
l’ambiente fisico (naturale o urbanizzato) con l’ambiente sociale e relazionale, si pongono alcune
premesse importanti per affrontare problematiche di grande rilevanza ai fini di una promozione
umana compatibile con i diritti delle generazioni future.
Quanto alle indicazioni di approfondimento che la sociologia ambientale può ricavare dalla
dottrina sociale della Chiesa, è probabile che un miglioramento del modesto livello di interazione
si potrebbe ottenere se la sociologia mettesse maggiormente a tema aspetti etici e normativi di
base, collegati a problemi quali lo sviluppo sostenibile, la biodiversità, il consumo energetico,
l’approvvigionamento alimentare e idrico. In conclusione, l’etica ambientale appare oggi come un
ponte di importanza strategica tra la sociologia e la dottrina sociale della Chiesa. Così come
osservato per i media, anche a proposito di ambiente si intravedono per questa via alcune
strategie interessanti di politica internazionale, che aprono grandi prospettive di intervento nelle
società globali che si vanno consolidando.
F RANCESCO VILLA
LA QUESTIONE DELLA SUSSIDIARIETÀ NELLE POLITICHE SOCIALI
L’analisi dei rapporti che intercorrono tra il principio di sussidiarietà ed i criteri che regolano
l’organizzazione delle politiche sociali può essere sviluppata secondo una molteplicità di interessi
e di approcci94. In questo contesto, mi limiterò a richiamare per sommi capi:
- l’incidenza del principio di sussidiarietà nella storia di alcune società occidentali, con
particolare riguardo al settore delle politiche sociali in Italia, in Germania, nell’Unione Europea e
negli Stati Uniti d’America;
- il riferimento nel quinto capitolo della Centesimus annus ad alcune teorie di politica sociale,
con particolare attenzione all’analisi scientifica della crisi dello stato assistenziale;
- alcune indicazioni per ulteriori approfondimenti, che è possibile ricavare dall’insegnamento
sociale della Chiesa, per quanto riguarda l’approccio disciplinare delle politiche sociali, in
relazione alla tematica dell’autonomia sociale delle comunità.
1. Sussidiarietà e politiche sociali in Italia, in Germania, nell’Unione Europea e negli
Stati Uniti d’America
L’ordinamento politico e delle politiche sociali in Italia, Germania, nell’Unione Europea e negli
Stati Uniti d’America possono essere presi in considerazione come casi emblematici di
realizzazione - o meno - del principio di sussidiarietà, con diversi gradi e forme di consapevolezza
e di istituzionalizzazione. Procederemo, di seguito, ad una breve analisi delle situazioni richiamate,
cercando di individuare in ciascuna di esse gli elementi tipici e le caratteristiche più rilevanti.
1.1. Il caso italiano
Come è noto, in Italia il principio di sussidiarietà è stato in parte recepito tra gli enunciati
fondamentali della Costituzione repubblicana; in particolare l’art. 2 riconosce le formazioni sociali
(o comunità) in cui la persona è inserita come «originarie», anteriori o comunque non subordinate
- in termini assiologici - nei confronti dello Stato: ciò rappresenta una garanzia costituzionale per
la loro valorizzazione prioritaria, secondo quanto stabilito dal principio di sussidiarietà. Purtroppo,
nè questo principio, inteso come principio teologico-morale, nè i diritti delle formazioni sociali di
cui parla il secondo articolo della Costituzione sono stati tenuti troppo in conto dal legislatore, che
pure era chiamato ad ottemperare al dettato costituzionale nella sua attività di progressivo
ordinamento della vita e delle istituzioni pubbliche della nazione. In particolare, questa
inosservanza risulta evidente nel settore delle politiche sociali, dove - a partire dal secondo
dopoguerra - si possono distinguere alcune fasi di sviluppo, che è opportuno ripercorrere per
evidenziare la scarsa considerazione in cui è stato tenuto finora il principio di sussidiarietà:
a) Nel periodo che va dalla conclusione della seconda guerra mondiale fino agli inizi degli anni
’60, la società italiana rispecchia un modello di società liberale aperta ed orientata alla
ricostruzione post-bellica che, nel campo dei servizi sociali, eredita tutti gli apparati di carattere
previdenziale già messi in atto dal regime fascista, entro un modello di stato assistenziale che è
ancora residuale e che si muove lentamente verso un modello istituzionale. Si discute del
94
Vedi, a questo riguardo, quanto documentato nella tesi di diploma di Daniela Contini, Sussidiarietà e
politiche sociali, Scuola diretta a fini speciali per assistenti sociali della Università Cattolica di Milano,
Anno accademico 1993/94.
principio di sussidiarietà, anche a seguito dei lavori dell’Assemblea costituente, senza che tuttavia
esso venga preso in seria considerazione per l’organizzazione delle politiche sociali.
b) Nel periodo che va dall’inizio degli anni ’60 fino al 1970, prende avvio un processo di
transizione in cui si cominciano ad attuare nuove leggi sui diritti sociali previsti dalla Costituzione
(ad es.: obbligo scolastico) e si dibattono alcuni nodi cruciali per il successivo sviluppo delle
politiche sociali, quali i temi della programmazione e del decentramento amministrativo delle
funzioni socio-assistenziali alle autonomie locali, anche a seguito delle veementi critiche sorte
dalla contestazione sessantottesca all’assetto tradizionale della assistenza, accusato di essere
settoriale, categorizzante, paternalistico ed esclusivamente riparativo. I riferimenti al principio di
sussidiarietà diventano sempre più irrilevanti e la validità stessa dell’insegnamento sociale della
Chiesa viene messa in discussione; anche tra i teologi c’è chi ne parla come di un evento
linguistico ormai superato.
c) Nel periodo 1970-75, con l’attuazione dell’ordinamento regionale, si creano le premesse per
realizzare il decentramento delle funzioni socio-assistenziali dallo stato alle regioni, secondo
quanto previsto dalla Costituzione agli artt. 117 e 118. I decreti del 1972 (in particolare il Dpr
14.1.72, n. 1, ed altri decreti del giugno dello stesso anno, attuativi dell’art. 17 della legge n.
281/1970) già prefigurano una riorganizzazione complessiva dei servizi sociali secondo il principio
che deve essere l’ente locale (in primo luogo il comune, nell’ambito della funzione di
programmazione e coordinamento della regione) a gestire globalmente i servizi, attraverso
prestazioni uniformi, universalistiche ed orientate alla prevenzione del bisogno ed alla
partecipazione dei cittadini. Il principio di sussidiarietà rimane latente, sia in ambito teorico, sia sul
piano giuridico-applicativo. L’attenzione degli studiosi viene attratta dalla esperienza inglese del
Welfare State, in pieno sviluppo in quegli anni.
d) Con la seconda legislatura regionale (1975-80) si apre il periodo delle prime riforme
sostanziali che prende avvio con la legge nazionale n. 382/1975 («norme sull’ordinamento
regionale e sull’organizzazione della pubblica amministrazione»), la cui finalità è di dare
un’organica sistemazione alle materie trasferite alle regioni dai decreti delegati del 1972, e,
soprattutto, si concretizza con il Dpr n. 616/1977, che pone le fondamenta per la riorganizzazione
dei servizi sanitari, assistenziali e di beneficienza trasferiti agli Enti locali. La legge n. 833/1978,
istitutiva del Servizio sanitario nazionale, rappresenta in un certo senso il momento più
significativo e rilevante di questa quarta fase; a questo punto, il disegno complessivo di riforma
dei servizi sociali risulta delineato, anche se deve ancora essere completato con la legge quadro
nazionale sull’assistenza, che deve risolvere annose questioni, come quella delle Ipab e del
ministero competente in materia. C’è chi sostiene la necessità di pubblicizzare tutte le forme di
assistenza, in chiara polemica con chi difende la libertà e il pluralismo delle istituzioni in campo
socio-assistenziale. Alcuni tentativi di riparlare del principio di sussidiarietà rimangono
condizionati dalle perduranti contestazioni nei confronti della dottrina sociale della Chiesa, la cui
stessa dizione viene abbandonata o comunque relativizzata, in quanto «ormai legata ad un
periodo storico e a un contenuto ben determinato» 95.
e) All’inizio degli anni Ottanta prende avvio una fase di risperimentazione del modello
istituzionale, come conseguenza della rinuncia a livello nazionale all’attuazione di politiche
totalizzanti di Welfare State, nonché della sperimentazione negli ambiti regionali del modello
istituzionale, con la codificazione di nuovi rapporti di collaborazione e di integrazione tra pubblico
e privato. Indici di tale fase possono essere considerate le difficoltà di attuazione della riforma
sanitaria, le esigenze di una «riforma della riforma» sempre in campo sanitario, con ripetuti
95
M. D. Chenu, La dottrina sociale della Chiesa. Origine e sviluppo (1891-1971), Queriniana, Brescia
1977, p. 9.
tentativi di approvazione di nuove norme legislative, la persistente assenza di una legge-quadro
dell’assistenza a livello nazionale, il varo da parte delle Regioni di leggi di riordino dei servizio
socio-assistenziali, che danno ampio spazio alle iniziative di privato-sociale e di volontariato. Le
incertezze sul piano istituzionale e il fallimento pratico della riforma sanitaria, soprattutto per le
sue implicazioni di natura finanziaria, creano gli spazi perché si possa ritornare a parlare e a
discutere attorno al principio di sussidiarie tà.
f) Una nuova fase si apre con gli anni Novanta, a seguito dell’approvazione a livello nazionale
della legge di riforma degli enti locali (n. 142/90), di quelle sul volontariato (n. 266/91) e sulle
cooperative sociali (n. 381/91), oltre che dei decreti di riforma del servizio sanitario nazionale
(DD.LL. n. 502/92 e 517/93). Ci si rende conto dell’importanza della collaborazione tra pubblico
e privato, in particolare delle iniziative di privato sociale e di terzo settore, delle risorse del
volontariato e della cooperazione sociale. Aumenta l’attenzione nei confronti del principio di
sussidiarietà, che da taluni viene teorizzato in chiave liberista, da altri in chiave solidaristica, come
un possibile riferimento per superare la burocratizzazione, gli sprechi e le inefficienze dei servizi
pubblici, attraverso nuovi assetti istituzionali e organizzativi, da ipotizzare e predisporre per le
necessarie sperimentazioni.
In sintesi, il caso italiano può essere letto come una situazione in cui il principio di sussidiarietà
è stato in parte recepito dall’ordinamento costituzionale, per poi essere ignorato o contraddetto
nelle scelte fondamentali di politica sociale ed, infine, riscoperto di fronte alla crisi di uno stato
sociale che è degenerato in forme clientelari di assistenzialismo, di burocratizzazione e di spreco
delle risorse pubbliche.
1.2. Il caso tedesco
In Germania, l’organizzazione dei servizi sociali è esplicitamente regolamentata dal principio di
sussidiarietà. All’interno di una concezione sociale dello stato, già presente nella Legge
fondamentale della Repubblica federale tedesca (l’equivalente della nostra costituzione), una
sentenza del tribunale costituzionale federale, che risale al 1967, ha dato applicazione sistematica
al principio di sussidiarietà, stabilendo criteri di priorità e di coordinamento con le istituzioni
pubbliche per le libere associazioni di pubblica assistenza - Freie Wohlfahrtspflege96- che
rappresentano, pertanto, il canale principale di erogazione dei servizi sociali in Germania.
Va ricordato, inoltre, che il 2 dicembre 1992, in connessione con le vicende relative
all’approvazione del Trattato di Maastricht, il Parlamento federale (Bundestag) ha approvato un
nuovo articolo della Legge fondamentale (art. 23), nel cui primo paragrafo viene menzionato
espressamente il principio di sussidiarietà : «La Repubblica federale di Germania collabora alla
realizzazione di un’Europa unita sostenendo lo sviluppo dell’Unione europea, che è tenuta al
rispetto dei principi democratici e dello stato di diritto, di quelli sociali e federali e al principio di
sussidiarietà...»97. Contemporaneamente, la discussione sul principio di sussidiarietà ha trovato
riscontro in un Memorandum del governo federale (18.9.1992), nei dibattiti del consiglio federale
(Bundesrat), nella stampa quotidiana e settimanale, nelle cronache dei convegni, mettendo in
ombra tutti i precedenti dibattiti di questo tipo nella storia della Repubblica federale 98.
96
Abbiamo tradotto il tedesco Freie Wohlfahrtspflege con «Associazioni libere di pubblica assistenza»,
anziché con il più letterale «libere opere assistenziali», per meglio rendere l’attuale caratteristica
istituzionale di tale associazioni, che sono gestite da enti privati, ma svolgono un importante ruolo
pubblico nel campo assistenziale e dei servizi sociali.
97
M. Spieker, Il principio di sussidiarietà: presupposti antropologici e conseguenze politiche, in «La
Società», 1, pp. 35-50: ved. p. 37.
98
Ibid., pp. 36-37.
Tutto ciò ha ulteriormente legittimato una organizzazione dei servizi sociali regolamentata dal
principio di sussidiarietà, secondo cui gli enti pubblici - comuni, stati regionali (Länder) e stato
federale (Bund) - intervengono con proprie iniziative in settori specifici, come gli ambiti di
competenza giudiziaria, ed eventualmente in quei settori che risultano scoperti dalle
Wohlfahrtspflege, limitandosi per il resto a svolgere non trascurabili funzioni di finanziamento
(parziale) e di controllo nei confronti delle libere associazioni e delle loro attività assistenziali,
socio-pedagogiche e di servizio sociale.
Il principio di sussidiarietà viene inoltre fatto valere nei confronti di chi chiede aiuto, per
invitare i cittadini innanzitutto a cercare di risolvere da sè i propri problemi, oppure con
l’intervento di coloro che hanno legami sociali diretti con l’interessato. Attualmente in Germania
sono sei le associazioni che coprono l’intera gamma dei servizi sociali erogati in forma
organizzata. Si tratta di associazioni collegate tra di loro in forma federativa, nel senso che
ciascuna è autonoma per legge, ma fa parte di una lega che le rappresenta unitariamente nei
confronti dello stato e ne coordina l’azione sul territorio, aggregando alle sei associazioni
principali anche altre organizzazioni minori.
Queste sei associazioni attualmente sono rappresentate da una associazione di estrazione
sindacale (Awo), dalla Caritas cattolica tedesca (Dcw), da un’associazione paritetica che
raggruppa diversi enti, anche di natura politica e in particolare collegati al partito
socialdemocratico (Dpwv), dalla Croce rossa tedesca (Drk), dalla Diaconia della Chiesa
evangelica (Dw) e dalla Associazione degli Ebrei in Germania (Zwst). Tutte queste associazioni,
che hanno come fine un lavoro in comune, collaborano con i servizi pubblici per creare una rete
di risorse il più possibile rispondente alla varietà di bisogni esistenti, tenendo conto anche del
pluralismo culturale e della varietà di convinzioni e di fedi presenti nella società tedesca.
Poiché il lavoro svolto da queste associazioni rappresenta un contributo molto importante ed al
quale non si potrebbe rinunciare per l’organizzazione dei servizi sociali, esse hanno diritto a
ricevere sussidi dallo stato, dai comuni e dalle regioni. Per l’attuazione dei propri compiti, tuttavia,
le associazioni investono anche mezzi propri, reperiti tramite quote associative, donazioni, lasciti
testamentari, libere offerte dei cittadini, soprattutto in occasione di campagne pubbliche per la
raccolta dei fondi (ogni associazione ha la possibilità di fare, una volta l’anno, una raccolta di
fondi per un’intera settimana, organizzata in luoghi pubblici, oppure passando di casa in casa).
Alcune associazioni ricevono contributi da istituzioni con le quali sono collegate, come la Caritas
cattolica e la Diaconia protestante, proprio perché non si tratta solo di libere associazioni di
pubblica assistenza, ma anche di organismi appartenenti alle Chiese, dalle quali ricevono parte
dell’introito delle tasse per il culto. Un’altra fonte di finanziamento è l’emissione e la vendita di
francobolli validi per l’affrancatura della corrispondenza 99.
Va segnalato che alcuni autori interpretano e inquadrano il caso tedesco nel modello
corporatista (corporatist model), o modello neo-corporativo, in quanto lo stato delegherebbe
quasi la totalità dei compiti assistenziali ad associazioni private, incorporandole però in una
organizzazione che prevede rigide norme di finanziamento e di controllo, oltre che una scarsa o
nulla possibilità di accessione autonoma da parte di nuove soggettività socia li100. In altri termini, ci
si troverebbe di fronte ad una variante neo-corporativa dello stato liberal-democratico, il
99
Ved. M. Reinhard, Il sistema dei servizi sociali in Germania, in «Politiche sociali e servizi», 1993, 1,
pp. 203-210.
100
Ved. W. Lorenz, Social Work in a Changing Europe, Routledge, London-New York 1994, pp. 24-26;
ved. anche L. Boccaccin, Il terzo settore in Germania e in Italia: elementi per una comparazione, in
«Studi di sociologia», XXXI (1993), 3, pp. 269-281.
cosiddetto Corporate State 101 che, ben lontano dal corporativismo fascista o da altre forme
storiche di corporativismo, fa riferimento alla tendenza degli apparati pubblici ad incorporare
realtà istituzionali e associative che rappresentano interessi rilevanti della società civile, mediante
meccanismi di cooptazione e di controllo, fino ad arrivare a forme di consociazione nei processi
politico-decisionali102.
Nonostante queste considerazioni di natura critica - accanto ad altre che si potrebbero dedurre
dalle caratteristiche specifiche della società tedesca - riteniamo che le scelte di politica sociale e
di organizzazione dei servizi praticate in Germania rappresentino una realizzazione del principio di
sussidiarietà su cui valga la pena di riflettere, per cercare di risolvere almeno qualche elemento
della crisi dello stato sociale, che sta dilagando non solo in Italia, ma anche negli altri paesi
europei, con un incremento minaccioso dei rispettivi disavanzi della spesa pubblica. A questo
proposito vale la pena di ricordare che, secondo alcune interpretazioni, oltre agli indubbi benefici
che l’applicazione del principio di sussidiarietà determina per la sorte delle finanze pubbliche, in
Germania sarebbe diffusa la convinzione che le libere associazioni sono in grado di svolgere i
compiti ad esse assegnati anche meglio delle strutture pubbliche, con la ovvia conclusione che
questa sarebbe la soluzione migliore anche per i cittadini103.
1.3. Il principio di sussidiarietà nel Trattato dell’Unione europea
Il Trattato dell’Unione europea, sottoscritto a Maastricht il 7 febbraio 1992, prevede che gli
obiettivi dell’Unione siano perseguiti nel rispetto del principio di sussidiarietà. In particolare, nelle
disposizioni che modificano il Trattato che istituisce la Comunità economica europea per creare la
Comunità europea (titolo II), si precisa che
nei settori che non sono di sua esclusiva competenza, la Comunità interviene secondo il principio di sussidiarietà soltanto se e nella misura
misura in cui gli obiettivi dell’azione prevista non possono essere sufficientemente realizzati dagli stati membri e possono dunque, a motivo delle
dimensioni o degli effetti dell’azione in questione, essere realizzati meglio a livello comunitario (art. 3b).
Come è noto, va attribuito a Jacques Delors, oltre che alle pressioni del governo federale e
dei presidenti dei Länder tedeschi104, il merito di aver fatto emergere sulla scena dell’Europa,
protesa verso la propria integrazione, nonostante ricorrenti crisi e difficoltà crescenti, il principio
di sussidiarietà, facendone - con felice intuizione - uno dei cardini dell’organizzazione comunitaria
e dei rapporti tra Comunità e stati membri. Anche se è troppo presto per valutare l’efficacia
operativa di tale principio, non possiamo sottovalutare l’importanza del riconoscimento ufficiale
che esso ha avuto a livello europeo, anche per le ripercussioni che potrà avere nel dibattito in
corso sulle prospettive di unificazione del vecchio continente.
In particolare, sarà interessante verificare le applicazioni del principio di sussidiarietà nel campo
delle politiche sociali, che nell’accezione comunitaria comprendono anche le politiche del lavoro.
Il Libro Verde, redatto dalla Commissione delle comunità europee105, prevede per le politiche
sociali l’ingresso in una fase decisiva, in quanto il Trattato sull’unione avrebbe aperto nuove
101
Sul Corporate State si possono vedere i testi citati in A. Ardigò, Crisi di governabilità e mondi
vitali, Cappelli, Bologna 1980, pp. 137-139.
102
Dal punto di vista concettuale è tuttavia importante distinguere tra Corporate State, tradotto con
stato neo-corporativo, e Corporatist Model applicato all’organizzazione dei servizi sociali e tradotto con
l’italiano «modello corporatista». Va inoltre osservato che in italiano il termine «corporatista» risulta meno
equivoco dei termini «corporativo» o «neo-corporativo», per designare i processi di incorporazione nello
stato delle organizzazioni assistenziali e di servizio sociale.
103
Ved. M. Reinhard, Il sistema dei servizi sociali in Germania, cit., p. 210.
104
Ved. J. Delors, Entwiklungsperspektiven der Europäische Gemeinschaft, in «Aus Politik und
Zeitgeschichte», 1993, 1, pp. 3-18.
105
Commissione delle comunità europee - direzione generale occupazione, relazioni industriali e affari
sociali, Libro Verde, Ufficio delle pubblicazioni ufficiali delle Comunità Europee, Lussemburgo 1994.
possibilità all’intervento comunitario in campo sociale, in particolare assegnando un ruolo
maggiore alle parti sociali, mentre la situazione socio-economica in trasformazione, riflessa
segnatamente nel grave livello di disoccupazione, esige un riesame dei collegamenti tra politiche
economiche e sociali, a livello sia nazionale sia comunitario.
La politica sociale comunitaria, oltre che l’obiettivo di favorire la convergenza delle diverse
politiche sociali nazionali, comprende un’ampia gamma di aree, quali la parità di opportunità, i
problemi della sicurezza e della salute, l’occupazione e il diritto del lavoro, la protezione sociale e
la sicurezza sociale, nonché specifici problemi fatti oggetto di interventi mirati, come la lotta
contro la povertà e l’esclusione sociale (in termini sia di prevenzione sia di riabilitazione), le
opportunità e i rischi per i giovani, il ruolo sociale ed economico degli anziani, la parità di
opportunità per gli immigrati provenienti da paesi terzi, l’integrazione dei portatori di handicap.
Di fronte a questa molteplicità di obiettivi, sarà interessante - come già si osservava - analizzare
le applicazioni del principio di sussidiarietà, a partire dalle interpretazioni che ne verranno fatte
per la gestione del Fondo sociale europeo, che rappresenta già un’occasione per dimostrare che
un’unione di stati democratici non può funzionare senza strumenti che favoriscano la coesione
economica tra regioni ricche e povere, nonché la solidarietà tra categorie sociali fortunate e meno
fortunate.
1.4. L’organizzazione dei servizi sociali negli Stati Uniti d’America
Nonostante negli Stati Uniti non sia stato teorizzato alcun riferimento al principio di
sussidiarietà, può essere utile dare uno sguardo ai criteri che presiedono in questo paese la
programmazione delle politiche sociali e l’organizzazione dei relativi servizi, in quanto da tali
criteri emergono alcuni spunti interessanti di analisi e di comparazione sul piano internazionale 106.
La realtà dei servizi sociali, negli Stati Uniti, è stata organizzata in prevalenza secondo criteri più
pragmatici di quelli adottati in Europa, affidandone la gestione ad organismi che rientrano nella
vasta categoria delle non profit organization. In genere si tratta di realtà che hanno una
tradizione consolidata, risultano relativamente autonome dal punto di vista gestionaleorganizzativo e svolgono funzioni e compiti di pubblica utilità. Per questo ottengono donazioni e
contributi da parte dei privati, accanto al finanziamento pubblico, che varia secondo gli stati e la
tipologia dei servizi offerti, i cui costi gravano in parte anche sugli utenti-beneficiari.
Per questi organismi i rapporti con le autorità pubbliche non risultano affatto semplici, in quanto
gli stati tendono - attraverso un complesso meccanismo di autorizzazioni, di erogazioni di fondi e
di controlli burocratici - a concepire tali organizzazioni come strutture incorporate nello stato,
secondo il modello già richiamato del Corporate State. In tale contesto, pesantemente
condizionato dai controlli pubblici, accanto al volontariato personale, si è sviluppato un consistente
volontariato economico. Se si tiene presente, ad esempio, che solo la metà dei costi relativi ai
servizi gestiti dalle Catholic Charities di Chicago grava sulle amministrazioni locali e statali
(comuni, stato dell’Illinois e governo federale), è facile calcolare quanto il pubblico risparmi
attraverso questo sistema di organizzazione dei servizi, che vede il concorso economico degli
utenti e quello volontario di molti cittadini, di aziende e di organismi per la raccolta di fondi da
destinare a scopi assistenziali e di servizio sociale, come la United Way107.
Pur tenendo conto della varietà di situazioni presenti nella realtà complessiva degli Stati Uniti
(ad esempio, nel distretto federale di Washington esiste una discreta organizzazione di servizi
106
Un quadro esauriente, anche se purtroppo non interamente aggiornato, dell’organizzazione dei
servizi sociali negli Stati Uniti si può trovare in S.B. Kamermann - A.J. Kahn, Social Services in the United
States, Temple University Press, Philadelphia 1976: si veda in particolare il cap. VII, alle pp. 435-501.
107
Ved. E. Conway, Uno sguardo sintetico sulla storia e l’attività della Caritas di Chicago, in
«Politiche sociali e servizi», 1993, 2, pp. 141-165.
sociali pubblici), il quadro generale emergente è quello di una copertura molto parziale e
pragmatica dei bisogni sociali più rilevanti da parte degli enti pubblici, che si avvalgono comunque
della collaborazione di organizzazioni private senza fini di lucro. A queste stesse organizzazioni
spetta poi il compito di procurarsi i mezzi per far fronte ai bisogni che rimangono inevasi, secondo
la propria sensibilità, capacità e orientamento culturale. Siamo ben lontani, pertanto, dai modelli
universalistici di politica sociale che si è cercato di realizzare in Europa. L’impressione è che la
cultura dominante negli Stati Uniti, fortemente influenzata dai principi del liberismo economico e
politico, incida anche in misura consistente sui criteri e sulle modalità di realizzazione del
benessere sociale. In questa situazione, a fronte dello svantaggio derivante dal fatto che alcuni
bisogni rimangono inevasi, si registra l’indubbio vantaggio di una mobilitazione ed una
valorizzazione sul piano istituzionale di tutte le forze che possono contribuire, anche mediante
risorse autonome, a realizzare politiche ed interventi di welfare.
Si può pertanto sostenere che in molti stati dell’Unione sia praticato un principio di «liberismoinclusivo», riconducibile a tendenze corporatiste, di incorporazione cioè nello stato di organismi
assistenziali privati. La quota dell’80% dei servizi sociali dell’Illinois, gestiti dalla Caritas
diocesana di Chicago, ben documenta come lo stato, rispettando i principi del liberismo politico,
non intenda intervenire con proprie strutture in un settore dove iniziative private siano in grado di
rispondere in modo efficace e generoso ai bisogni sociali della popolazione, consentendo
oltretutto un risparmio di denaro pubblico di circa il 50% 108.
A questa posizione «liberale» corrisponde tuttavia una viva (e forse un po’ eccessiva)
preoccupazione da parte dello Stato di controllare l’autonomia e di garantire la laicità di queste
iniziative, quasi che - rinunciando ad una gestione in proprio - le autorità statali vogliano poi
assimilare nei loro apparati istituzionali almeno ciò che contribuiscono a finanziare. Se questa
interpretazione è corretta, accanto al paradosso in cui si vengono a trovare i servizi privati senza
fini di lucro, si può parlare anche di una situazione paradossale in cui versano le politiche sociali
negli Stati Uniti, che accettano la libera iniziativa in campo assistenziale, ma tendono poi ad
«incorporarla« attraverso complessi meccanismi di finanziamento e di controllo.
Può essere interessante mettere a confronto il «liberismo-inclusivo» statunitense con il
principio di «sussidiarietà» praticato in Germania, cominciando col notare come in questa nazione
esista un maggior rispetto dell’autonomia e dell’identità delle libere associa zioni di assistenza
(Freie Wolfhartspflege) da parte dello stato, che si concepisce come «stato sociale»
(Sozialstaat) in base al dettato costituzionale, a differenza di quanto avviene negli Stati Uniti,
dove il fallimento del progetto di riforma sanitaria , proposto dall’amministrazione Clinton nel 1994
(Health Security Act), ha ulteriormente confermato il carattere settoriale e residuale delle
politiche di welfare. In rapporto a queste due esperienze - che andrebbero in ogni caso
ulteriormente analizzate e descritte - l’Italia si trova nella condizione di poter evitare gli errori già
commessi e di mettere a frutto tutto ciò che di positivo è stato invece realizzato.
Una delle strade da percorrere potrebbe essere quella di reperire le modalità per migliorare la
quantità e la qualità dei servizi, anche senza ulteriori aggravi di spesa per lo stato (che in ogni
caso deve fare la sua parte, soprattutto in campo fiscale), studiando le forme più pertinenti e
idonee per consentire allo stato e agli enti locali di valorizzare le risorse solidaristiche presenti nel
nostro paese, forse in misura maggiore che non negli Stati Uniti e in Germania. Se si decidesse di
percorrere questa strada, all’interno di una concezione dello stato che non può essere diversa da
quello dello stato sociale presente nella nostra costituzione, forse saremmo in grado di trovare
modalità originali per coniugare l’intervento pubblico con i mondi della solidarietà, del volontariato
e del privato-sociale.
108
Ibid.
La stessa elaborazione giuridica del concetto di privato-sociale 109, accanto ad una legge
sull’associazionismo, dopo quelle sul volontariato e sulla cooperazione sociale, potrebbe segnare
dei decisivi passi in avanti sulla strada di una definizione della collaborazione tra pubblico e
privato, da far ruotare attorno al principio di sussidiarietà, interpretato attraverso il criterio della
«autonomia sociale delle comunità» 110. Questo criterio di politica sociale, che fa riferimento alla
necessità di valorizzare i rapporti primari nei quali l’individuo è inserito - accanto alle diverse
forme di associazionismo, di volontariato e di solidarietà sociale presenti nel terzo settore - come
prima possibilità di soluzione e/o di autogestione delle risposte ai problemi esistenti, può forse
entrare in competizione dialettica con il «liberismo-inclusivo» statunitense e con la versione
corporatista tedesca del principio di sussidiarietà, nell’elaborazione di scenari ottimali per le
politiche sociali e l’organizzazione dei servizi, in alternativa agli insuccessi e ai fallimenti dello
stato assistenziale.
2. Sussidiarietà e stato assistenziale nella Centesimus annus
I riferimenti dell’insegnamento sociale della Chiesa alle tematiche del Welfare State e della
sua crisi sono oggetto di analisi sempre più frequenti111. Tra tali riferimenti, un’importanza
particolare riveste il paragrafo 48 dell’enciclica Centesimus annus che, analizzando il ruolo dello
stato nelle moderne società industriali, rileva come si sia verificato un vasto ampliamento della
sua sfera d’intervento, che ha portato a costituire, in qualche modo, uno stato di nuovo tipo, lo
stato del benessere (o Welfare State) ed osserva:
Questi sviluppi si sono avuti in alcuni stati per rispondere in modo più adeguato a molte necessità e bisogni, ponendo rimedio a forme di
povertà e di privazione indegne della persona umana. Non sono, però, mancati eccessi ed abusi che hanno provocato, specialmente negli anni
più recenti, dure critiche allo stato del benessere, qualificato come stato assistenziale. Disfunzioni e difetti dello stato assistenziale derivano da
un’inadeguata comprensione dei compiti propri dello stato. Anche in questo ambito deve essere rispettato il principio di sussidiarietà: una
società di ordine superiore non deve interferire nella vita interna di una società di ordine inferiore, privandola delle sue competenze, ma deve
piuttosto sostenerla in caso di necessità ed aiutarla a coordinare la sua azione con quella delle altre componenti sociali, in vista del bene
comune. Intervenendo direttamente e deresponsabilizzando la società, lo stato assistenziale provoca la perdita di energie umane e l’aumento
esagerato degli apparati pubblici, dominati da logiche burocratiche più che dalla preoccupazione di servire gli utenti, con enorme crescita delle
spese (n. 48).
Abbiamo riportato per esteso questo brano perché contiene riferimenti emblematici, che
dimostrano come le critiche nei confronti dello stato assistenziale, sviluppatesi a partire dalle
analisi di politica sociale degli ultimi decenni, per irraggiarsi poi anche nel dibattito politico attuale,
siano servite all’insegnamento sociale della Chiesa per riaffermare il valore del principio di
sussidiarietà, a sessant’anni di distanza dalla sua formulazione organica nella Quadragesimo
anno di Pio XI ed a cent’anni dalla sua implicita enunciazione nella Rerum novarum di Leone
XIII. Vale la pena, allora, richiamare di seguito alcune di tali analisi per meglio evidenziare le
risultanze scientifiche utilizzate in questo contesto dalla dottrina sociale cristiana.
109
Come è noto, si tratta di un concetto formulato in ambito sociologico da Pierpaolo Donati, che
attende ancora di essere adeguatamente elaborato dal punto di vista giuridico e recepito in modo
sostanziale - e non occasionale - dall’ordinamento dei servizi. Cfr. P. Donati, Pubblico e privato: fine di
un’alternativa?, Cappelli, Bologna 1978; P. Donati, La cittadinanza societaria, Laterza, Bari 1993, in
particolare il cap. II.
110
Una iniziale trattazione di questo principio può essere reperita in F. Villa, Dimensioni del servizio
sociale, Vita e Pensiero, Milano 1992, pp. 75-93. Il tema dell’autonomia sociale è stato ampiamente
analizzato da P. Donati, La cittadinanza, cit., cap. III.
111
Ved. M. Toso, Chiesa e Welfare State, Libreria Ateneo Salesiano, Roma 1987; Welfare Society.
L’apporto dei pontefici da Leone XIII a Giovanni Paolo II, Libreria Ateneo Salesiano, Roma 1994;
Prospettive di soluzione della crisi delle Stato del benessere alla luce della dottrina sociale della
Chiesa, in «La Società» , 1995, 1, pp. 79-107. Ved. anche I. Colozzi, Le politiche sociali dopo la crisi del
Welfare State, in «La Società», 1995, 1, pp. 109-122.
Tra le prime critiche nei confronti dello Stato del benessere, possiamo ricordare quelle che
sono state formulate nell’ambito della sociologia tedesca, con analisi molto radicali e soprattutto
attente agli aspetti economici e di classe delle politiche sociali. Alcuni autori, come Habermas112
e Offe113, hanno considerato il Welfare State come il prodotto di un compromesso - più o meno
precario - tra capitalismo e democrazia di massa, ritenuti tradizionalmente incompatibili dal
marxismo. Il conflitto di classe, secondo queste analisi, si sarebbe trasferito dai rapporti di
produzione alle forme della redistribuzione sulla base del compromesso suggerito da J. M.
Keynes114 e delle sue politiche d’intervento statale in economia. Secondo queste interpretazioni, il
capitalismo non si sarebbe tuttavia modificato nei suoi principi fondamentali e le sue
contraddizioni interne e latenti sarebbero riemerse specialmente nei periodi di recessione
economica. In altri termini, lo «Stato assistenziale keynesiano» 115 non sarebbe riuscito più a
legittimare e riequilibrare il sistema, riparando i guasti prodotti dalle contraddizioni e dall’anarchia
del mercato capitalistico, per cui - secondo una visione rivelatasi storicamente inadeguata - la
crisi strutturale del tardo capitalismo non avrebbe avuto alcuna via d’uscita, anche a causa della
continua proliferazione di politiche economiche e sociali viziate dall’assistenzialismo.
Senza passare in rassegna analiticamente altre celebri critiche di diversa matrice, come quelle
di H. Wilensky, D. Bell, N. Luhmann, P. Rosanvallon, R. Nozick116, può essere utile richiamare
la distinzione tematizzata da Cesareo tra modello riformista e modello assistenziale di Stato del
benessere, che tiene conto anche di alcuni indicatori proposti dagli autori citati:
a) mentre nel modello riformista l’impegno complessivo dello stato sul piano finanziario resta
relativamente scarso per voci di spesa come l’assistenza sanitaria, le pensioni di vecchiaia e
d’invalidità, le indennità di disoccupazione, l’assitenza a famiglie e individui in stato d’indigenza,
nello stato assistenziale tale impegno si presenta elevato; in particolare crescono gli stanziamenti
per la sanità, che si configura come un settore emblematico, fino a superare gli stanziamenti
previsti per l’istruzione; non a caso l’istruzione risulta, invece, una forte voce di spesa nello stato
riformista, che mira non tanto a determinare condizioni di uguaglianza effettiva, quanto di
opportunità e di possibilità per la mobilità sociale, nella presunzione che la scuola rappresenti una
di tali possibilità.
b) La concezione duale dei bisogni distingue tra bisogni poveri, che si riferiscono a situazioni
d’indigenza, e bisogni ricchi, che riguardano la sfera affettivo-psicologica, politica, culturale;
compito dello stato, nel modello riformista, è quello d’intervenire sui bisogni poveri lasciando ai
processi di autorealizzazione personale l’appagamento dei bisogni ricchi; lo stato assistenziale,
invece, tende ad occuparsi di tutti i bisogni, materiali e non, di ogni cittadino, senza limite o
preclusione («dalla culla alla bara», come si era soliti dire a proposito del caso svedese).
c) Nello stato riformista l’erogazione delle prestazioni è commisurata al reddito dell’individuo
in quanto lavoratore ed avviene attraverso azioni protettive di tipo reintegrativo; al contrario, nello
stato assistenziale prevale una concezione degli interventi di tipo preventivo, che si basa su criteri
politico-amministrativi che portano a considerare l’individuo come cittadino e non come semplice
lavoratore, secondo criteri di razionalità meramente economica.
112
J. Habermas, La crisi della razionalità nel capitalismo maturo, Laterza, Bari 1975.
113
C. Offe, Lo stato nel capitalismo maturo, Etas Libri, Milano 1977.
114
J.M. Keynes, The End of Laissez-faire, Wolf, London 1926.
115
C. Offe, Democrazia partitica e stato assistenziale, in «Stato e mercato», 1981, 3, pp. 476-496: ved. p.
496.
116
Vedi, a questo proposito, l’analisi delle teorie degli autori citati in F. Villa, Dimensioni del servizio
sociale, cit., pp. 127-158.
d) Nello stato riformista, come già accennato, il fine delle politiche sociali è l’eguaglianza delle
opportunità offerte ai singoli cittadini; nello stato assistenziale l’obiettivo è l’eguaglianza completa
ed effettiva, con una valutazione negativa della meritocrazia tipica delle politiche riformistiche.
e) Lo stato, nel modello riformista, risulta marginale nella soddisfazione dei bisogni, rispetto ad
altre «agenzie», prime fra tutte le famiglie e le imprese (cioè, l’economia di mercato); questa
concezione residuale dell’azione statale nel modello assistenziale viene sostituita da un’altra
concezione che implica il trasferimento delle competenze, nel soddisfacimento dei bisogni, dalle
famiglie e dalle imprese verso le istituzioni politiche; lo stato occupa tutti gli spazi della società, in
analogia a quanto avviene nel modello «totale» di Welfare State 117.
Può essere utile ricordare, infine, che lo stato assistenziale, nella sua versione italiana, è stato
indagato, all’interno di una prospettiva di tipo sociologico, da diversi autori, tra i quali possiamo
ricordare Ugo Ascoli, Massimo Paci e Maurizio Ferrera; quest’ultimo utilizza un metodo di tipo
più specificatamente storico, o meglio di storia politica e socio-economica. Ascoli, riprendendo in
modo originale la tipologia di Titmuss (1958), propone di distinguere tra modello residuale,
modello meritocratico-particolaristico-corporativo, modello meritocratico-particolaristicoclientelare e modello istituzionale-redistributivo di Stato del benessere. Massimo Paci concorda
con Ascoli nel sostenere l’esistenza di una tradizione particolaristico-clientelare nel sistema
italiano di welfare, che necessiterebbe pertanto di una riforma in senso universalisticoegualitario. All’interno di un’ampia analisi storico-sociale, Maurizio Ferrera sottopone a verifica
empirica le ipotesi del particolarismo-meritocratico e dell’universalismo-egualitario, confermando
la validità euristica del modello particolaristico-clientelare - già utilizzato da Ascoli e da Paci - per
interpretare la forma storica e le caratteristiche strutturali del Welfare State all’italiana.
Senza procedere oltre nell’analisi e nella discussione delle teorie che abbiamo ricordato, ci
sembra che non sia difficile ammettere una certa connessione tra i teoremi e i paradigmi della
crisi del Welfare State, elaborati prevalentemente in ambito sociologico118, e le critiche della
Centesimus annus nei confronti di una concezione assistenziale dello stato.
3. Dalla sussidiarietà all’autonomia sociale delle comunità
Partendo dalla sussidiarietà, come principio di teologia morale 119, cercheremo di sviluppare
qualche indicazione per ulteriori approfondimenti scientifici da effettuare nel campo nelle
politiche sociali, al fine di individuare le applicazioni più pertinenti che se ne possono effettuare,
sia in termini teorici sia pratici. A questo proposito ci sembra interessante documentare la
corrispondenza tra il principio di sussidiarietà e quello dell’autonomia sociale delle comunità, già
teorizzato in Italia nel dibattito sulla costituzione 120 ed attualmente in fase di studio e di
discussione nell’ambito del servizio sociale e delle politiche sociali121.
L’ipotesi che ci guida è che dal principio di sussidiarietà si possano ricavare elementi teoricopratici di approfondimento e di confronto con il correlativo principio di politica sociale, che fa
riferimento al valore dell’autonomia sociale delle comunità. In altri termini, ci sembra che lo
117
Ved. V. Cesareo, Espansione e crisi dello “stato del benessere” in Italia, in Stato e senso dello
stato oggi in Italia, Vita e Pensiero, Milano 1981, pp.178-212.
118
Ved. P. Donati, Risposte alla crisi dello stato sociale, Franco Angeli, Milano 1984, pp. 35-53.
119
Cfr. Sollicitudo rei socialis, n. 41.
120
Ved. G. La Pira, Il valore della costituzione italiana, in «Cronache sociali», 1948, 2, pp. 1-3.
121
Ved. F. Villa, Dimensioni del servizio sociale, cit. e P. Donati, La cittadinanza societaria, cit.
stesso dibattito sulle dimensioni negative e positive del principio di sussidiarietà122 possa trovare
nel valore finalistico dell’autonomia sociale - che ovviamente non può prescindere dal bene
comune - un importante elemento concettuale di chiarimento, in stretta connessione con l’origine
etimologica del termine sussidiarietà che, come è noto, fa riferimento al latino subsidium afferre.
Da una declinazione del principio di sussidiarietà in rapporto a quello di autonomia sociale si può
forse sperare, inoltre, di ricavarne una interpretazione autonomista, da sperimentare come «via
italiana», all’interno di un confronto di natura competitiva con altre concezioni, in particolare con
quella corporatista che sembra invece prevalere in Germania e con il liberismo-inclusivo
caratteristico degli Stati Uniti.
Per questo, può essere opportuno partire da una prima definizione del concetto di autonomia
sociale, precisando che nell’orizzonte delle politiche sociali, con tale concetto ci si intende riferire,
innanzitutto, alla sfera dei rapporti sociali primari nei quali la persona è inserita ed alle risorse di
cui è possibile disporre di volta in volta per rispondere ai bisogni sociali emergenti. La famiglia e
le reti di parentela, come prime comunità naturali, gli amici, il vicinato, le comunità elettive, con
varie forme di esperienze associative e di appartenenza sociale, vengono considerate come
altrettante occasioni di autonomia e di possibile autogestione della risposta ai bisogni presenti in
ogni convivenza umana.
L’essere umano, inteso come persona, rappresenta il riferimento antropologico di questo
concetto di autonomia sociale. Ciò rende necessario essere consapevoli della complessità del
dibattito sul personalismo che si è sviluppato nell’ambito della cultura contemporanea, partendo
comunque da radici ben più remote. In tale prospettiva, è doveroso ricordare che si è soliti
definire con il concetto di persona la singolarità dell’essere umano in rapporto agli altri esseri
viventi, ma è necessario evidenziare anche che tale singolarità non è sempre stata riconosciuta
nello stesso modo123. Uno degli esiti ai quali è arrivato il dibattito sul personalismo, oggi, è la
contrapposizione semantico-critica tra i termini individuo e persona: l’individuo viene inteso,
secondo le versioni più radicali dell’individualismo, come un essere autonomo ed autosufficiente,
distinto e dotato di uno spirito ostile e di sopraffazione nei confronti degli altri individui; la persona
viene intesa, invece, come dotata di una naturale e costante apertura nei confronti degli altri,
attraverso cui si realizza l’innata socialità dell’essere umano124.
In rapporto a questi riferimenti di natura antropologica, l’autonomia sociale viene interpretata
come manifestazione della naturale e innata relazionalità della persona ed implica una dimensione
assiologica che ci induce a proporla come un valore etico, da cui possono essere ricavati i
principi giuridici per costruire l’ordinamento politico della società. In tal senso risulta correlativa al
principio di sussidiarietà che, come si è già avuto modo di notare, è stato in parte recepito dalla
nostra costituzione. Giova ricordare, infatti, che nella costituzione il principio dell’autonomia
sociale rappresenta il corrispettivo a livello sociologico della concezione metafisica che sostiene
l’anteriorità della persona umana rispetto alla società e allo Stato125. In particolare l’art. 2 della
costituzione riconosce le formazioni sociali (o comunità) in cui la persona è inserita come
originarie, anteriori o comunque non subordinate allo stato: ciò rappresenta una garanzia
costituzionale per la loro valorizzazione. A tale proposito è stato giustamente osservato che si
tratta, in definitiva, di una garanzia costituzionale che riconosce e tutela le autonomie sociali, la
122
Ved. L. Rosa, Il «principio di sussidiarietà» nell’insegnamento sociale della Chiesa, in
«Aggiornamenti sociali», 1962, 11, pp. 4-21 e M. Spieker, Il principio di sussidiarietà, cit.
123
Ved. F. Villa, Dimensioni del servizio sociale, cit., pp. 80-81 e 221-224.
124
Ved. F. Villa, Presentazione dell’edizione italiana, in H. Falk, La prospettiva dell’appartenenza nel
servizio sociale, Vita e Pensiero, Milano 1994, pp. XI-XIV.
125
Cfr. G. La Pira, Il valore della costituzione italiana, cit.
libertà delle singole comunità, allo stesso modo in cui riconosce e tutela l’autonomia personale, la
libertà delle persone singole 126.
La persona, come soggetto della relazione sociale, e le relazioni interpersonali che si
esprimono attraverso diverse forme di autonomia sociale trovano dunque un fondamento
giuridico di natura complementare nella nostra costituzione. In altri termini, l’ordinamento
giuridico dello stato riconosce e garantisce non soltanto i diritti dell’uomo singolo come inviolabili,
cioè caratterizzati da un fondamento anteriore allo stesso ordinamento giuridico positivo, ma
anche i diritti dei singoli associati nelle comunità, alle quali viene così garantita l’autonomia e il
necessario sostegno (subsidium) da parte dello stato. Questa garanzia costituzionale delle
autonomie sociali è la base del principio del pluralismo, senza il quale non è possibile parlare
seriamente di stato democratico. L’uomo nella costituzione italiana risulta pertanto qualificato
come persona e non come individuo, in quanto lo si concepisce come dotato di una naturale
apertura verso i suoi simili e gli si attribuisce un dovere inderogabile di solidarietà nei confronti
degli altri uomini.
È opportuno sottolineare, inoltre, che le autonomie sociali hanno il loro corrispettivo più
prossimo a livello istituzionale e territoriale nelle autonomie locali, con tutto ciò che questo
comporta in termini di decentramento amministrativo e nella gestione dei servizi. È necessario,
tuttavia, non confondere l’autonomia sociale con l’autonomia locale, dal momento che la seconda
deve essere concepita come derivata dalla prima, di cui è indispensabile riconoscere
l’originarietà. Interpretare, invece, l’autonomia locale semplicemente come una forma di
decentramento dello stato, anziché come risultato e sintesi delle autonomie sociali, può indurre a
negare il valore originario di queste ultime, che deve invece essere riconosciuto e legittimato
giuridicamente dagli ordinamenti dello stato, oltre che implementato dalle politiche sociali.
In termini di filosofia politica, l’autonomia sociale delle comunità, che ha il suo presupposto
nella natura personalista dell’essere umano, implica una ben precisa interpretazione della società,
contrapposta alle concezioni di tipo assolutistico, come quella di Hobbes, dell’idealismo hegeliano,
del marxismo-leninismo, di alcune forme di liberalismo idealistico e in tutte le dittature e i
totalitarismi. Secondo questa concezione lo stato è depositario dei valori della convivenza civile e
deve dettare le norme e i contenuti ai quali si deve attenere la società nel suo complesso: la
persona e i gruppi sociali risultano pertanto inferiori e sottoposti allo stato, che viene concepito nella maggior parte dei casi - come uno stato etico.
Il principio dell’autonomia sociale delle comunità presuppone invece - come già evidenziato l’originarietà e l’anteriorità della persona rispetto allo stato, con la conseguenza che anche i gruppi
sociali e le comunità «vengono prima» di qualsiasi ordinamento statale. Allo stato spetta
l’importante responsabilità e il compito di riconoscere i valori presenti nelle aggregazioni sociali e
di consentirne l’espressione, lo sviluppo e il libero confronto, finalizzato alla costruzione del bene
comune. L’anteriorità della persona rispetto allo stato risulta pertanto la discriminante filosofica
che fonda il principio dell’autonomia sociale delle comunità, che in ogni caso - giova ricordarlo risulta alternativo anche nei confronti dell’individualismo, costitutivo di varie forme di liberismo.
Passando ora a considerare in modo più specifico il campo delle politiche sociali, possiamo
innanzitutto osservare che una corretta realizzazione del principio dell’autonomia sociale delle
comunità presuppone una concezione sociale dello stato, che faccia riferimento innanzitutto ad
una corretta articolazione funzionale tra stato e società, nel senso che lo stato deve riflettere, per
quanto possibile, le diverse posizioni presenti nella società (concezione pluralista dello stato) ed
ogni gruppo o parte sociale di un certo rilievo, in partic olar modo i cittadini meno abbienti, devono
partecipare alla redistribuzione del reddito operata dallo stato. In altre parole, lo stato sociale è
126
Ved. G. Garancini, Strutture sociali e «prassi di libertà» nella costituzione italiana, in «Cristiani e
società italiana», 1978, 7, pp. 1-22.
per sua natura uno stato democratico poiché, a differenza dello stato liberale, di tipo tradizionale,
che limitava la cittadinanza attiva ai più abbienti, nel suo ambito nessun gruppo o parte sociale
può essere esclusa dalla rappresentanza politica o essere privata della possibilità di esprimere la
propria soggettività sociale e d’influire al pari degli altri sulle decisioni pubbliche.
Inoltre, lo stato sociale è uno stato interventista poiché, contrariamente allo stato liberale che si
asteneva dall’intervenire nel sistema socio-economico, quello sociale si ispira alla filosofia
opposta di svolgere un ruolo attivo nei rapporti economico-sociali, in particolare regolando e
correggendo - se necessario - il funzionamento del mercato e dei meccanismi della libera
concorrenza, nonché determinando la redistribuzione del reddito nazionale attraverso una
molteplicità di canali, tra i quali possiamo ricordare: la politica fiscale e dei prezzi, i servizi sociali
e sanitari (in particolare a favore dei meno abbienti e dei disabili) la garanzia del diritto allo studio
e gli indispensabili provvedimenti a favore dell’occupazione, sempre più minacciata dalle logiche
di mercato, dagli sviluppi tecnologici e dai processi di internazionalizzazione della economia.
Per poter realizzare forme adeguate di autonomia sociale, all’interno di una concezione sociale
dello stato, è necessario elaborare nuovi modelli di politica sociale capaci di realizzare una forte
interazione relazionale fra le tre modalità fondamentali di allocazione delle risorse: quella privata
(mercato), quella pubblica (stato) e quella di privato-sociale (terzo settore), che rappresenta per
certi aspetti la forma da privilegiare per potenziare e valorizzare l’autonomia sociale delle
comunità. Per questo occorre un accumulo di approfondimenti teorici e di sperimentazioni che
consentano la predisposizione di nuovi scenari e di inevitabili mutamenti istituzionali e
organizzativi. Inoltre, il valore della solidarietà, richiamato dalle leggi del nostro stato soprattutto
nello spazio riconosciuto al volontariato e alla cooperazione sociale, propone nuove frontiere per
la realizzazione di quegli stessi diritti civili, politici e sociali, che rischiano di impoverirsi,
deligittimarsi e regredire nell’orizzonte burocratico del stato assistenziale, ma che possono essere
implementati e valorizzati da uno stato sociale che riconosca ed attui a tutti i livelli istituzionali il
valore dell’autonomia sociale delle comunità.
I necessari approfondimenti teorici possono far riferimento alla linea di ricerche tracciata da
Donati, che ha già avviato un’indagine sul tema dell’autonomia sociale e delle sue implicazioni
«im-politiche» sulla cittadinanza, in rapporto alle dinamiche culturali del post-moderno, come
fenomeno da cui emergono nuove forme di autopoiesi sociale, nonché alle difficoltà, alle obiezioni,
alle resistenze, alle ambivalenze, ai paradossi dell’autonomia nelle società democratiche
contemporanee ed alle molteplici esigenze di riorganizzazione delle comunità personali e di nuove
soggettività sociali all’interno di una società civile delle autonomie sociali. In particolare Donati ha
individuato esigenze emergenti di autonomia nella famiglia, nella scuola, nei servizi sociali e
sanitari, nella pubblica amministrazione, nelle imprese, nelle associazioni, nel terzo settore (dove il
privato sociale potrebbe rappresentare una forma innovativa di gestione per tutti i servizi di
pubblica utilità), nel sistema dei mass-media e nelle comunità locali127.
Le sperimentazioni possono invece riferirsi in modo più immediato ad una tipologia di casi di
autonomia sociale che comprendono la famiglia, la famiglia di servizio, l’autogestione dei servizi,
il volontariato e la cooperazione. Riteniamo utile, a tale proposito, riproporre un elenco elaborato
da Raffaella Sutter128:
a) La famiglia può essere considerata come una forma di autonomia sociale e come un’unità
primaria di servizi, in quanto luogo in cui si soddisfano i bisogni personali primari e in cui il lavoro
domestico sostituisce, compensa e integra i servizi sociali. Tutta la legislazione sociale e sanitaria
attuale, «i cui principi cardine sono la deistituzionalizzazione, la territorializzazione, la
127
128
Ved. P. Donati, La cittadinanza societaria, cit., pp. 143-195.
R. Sutter, Strumenti solidaristici nelle nuove politiche sociali, in Le frontiere della politica sociale,
a cura di P. Donati, cit., pp. 373-404.
desegregazione, implica necessariamente la valorizzazione della famiglia o più in generale della
forma famiglia» 129. Gli strumenti per tale valorizzazione possono essere:
1. Strumenti monetari. Si possono citare, come esempi, l’esperienza tedesca (RFT) degli
«assegni educazione» e quella finlandese dell’indennità per allevare in famiglia i figli piccoli130.
Ricordiamo anche l’importanza degli assegni familiari, la proposta dei buoni scuola per la libera
educazione dei figli e quella degli assegni per il mantenimento presso le famiglie degli anziani
inabili.
2. Part-time. L’incremento delle forme di lavoro part-time può facilitare un’organizzazione più
flessibile della vita familiare e consentire la riorganizzazione del tempo di lavoro in rapporto alle
esigenze della famiglia e dei bisogni dei suoi membri più deboli.
3. Assistenza domiciliare. Si tratta, come è noto, di uno dei servizi di sostegno alla famiglia,
alternativi alla istituzionalizzazione, tra i più diffusi in Europa ed ormai anche nel nostro Paese. In
generale ha l’obiettivo di aiutare la persona in difficoltà (anziano, handicappato, malato mentale,
minore in difficoltà, ecc.) a rimanere nel proprio nucleo familiare e nel proprio ambiente.
Presenta i seguenti vantaggi: è meno costosa di qualsiasi forma di istituzionalizzazione; è
sufficientemente flessibile da potersi adeguare alle diverse esigenze delle famiglie; non tende a
sostituirsi alle persone, ma ad aiutarle ad essere autosufficienti. Nelle diverse realtà il servizio
può essere gestito dal pubblico o dal privato-sociale, in collaborazione con il volontariato e può
essere gratuito, semi-gratuito o a pagamento, in rapporto ai diversi criteri di redistribuzione di
volta in volta adottati dai decisori delle politiche sociali.
4. Servizi semi-residenziali. Possono contribuire a fare in modo che una famiglia con grossi
problemi possa mantenere al suo interno i propri membri: ci si riferisce in particolare alle forme di
ospedalizzazione diurna per anzia ni ed ai centri diurni per handicappati, malati di mente, ecc.
b) Famiglia di servizio: comprende diverse esperienze, quali la famiglia come alternativa al
nido, la famiglia affidataria, il gruppo famiglia:
1. Famiglia come alternativa al nido. Sutter analizza due esperienze, quella svedese del Famil
jedaghem e quella tedesca della Tagesmutter; in entrambi i casi si tratta di un’alternativa
all’asilo nido che permette alle madri con figli piccoli di accudire al proprio domicilio figli di altre
madri che lavorano, fino ad un massimo di quattro-cinque bambini. In generale, nelle
sperimentazioni considerate, è stato notato un migliore sviluppo socio-affettivo dei bambini
affidati ad altra famiglia rispetto ai bambini affidati agli asili; inoltre l’esperienza ha reso possibile
una soddisfacente elaborazione sociale del ruolo di casalinga, favorendo la possibilità di contatti
sociali, di professionalizzazione e valorizzazione delle proprie capacità, nonché il crearsi di forme
di solidarietà tra donne.
2. Famiglia affidataria. Sotto questa voce è possibile comprendere diverse forme di
integrazione e/o sostituzione della famiglia d’origine, quando questa non ci sia o sia ritenuta
inidonea a svolgere i propri compiti nei confronti dei minori:
- l’affidamento familiare come strumento privilegiato della legge per garantire la sostituzione,
limitata nel tempo, della famiglia d’origine;
- la famiglia d’appoggio come strumento alternativo all’affidamento familiare vero e proprio,
con compiti di sostituzione e/o di sostegno della famiglia d’origine per brevi periodi o per una
parte della giornata;
- la persona di riferimento, nel caso di adolescenti devianti, di minori in libertà provvisoria, di
handicappati, di etilisti che necessitano di una persona adulta con funzioni di sostegno e di
controllo; Sutter ricorda che in Svezia la persona di riferimento, regolarmente pagata, è uno
strumento molto usato nei casi di devianza minorile e di etilismo.
129
Ibid., p. 384.
130
Ibid., p. 385.
3. Gruppo famiglia. Può essere di due tipi:
- una famiglia che si rende disponibile ad accogliere individui, in prevalenza minori, in
situazione di bisogno e svolge come «professione» tale servizio, sia stabilmente, sia in situazioni
di emergenza;
- famiglia di operatori che svolgono un ruolo di educatori per piccoli gruppi (bambini,
adolescenti, handicappati, ecc.) proponendo un modello di vita familiare.
c) Autogestione dei servizi. Si ha quando un gruppo di persone che ha un problema ne gestisce
insieme le modalità di risposta. La gamma di tali modalità può andare dalle forme più pure di selfhelp alle forme di cogestione. Un esempio del primo tipo può essere un centro per handicappati
autogestito dalle famiglie interessate, mentre un esempio del secondo tipo può essere un comitato
di gestione di anziani in una casa di riposo, che si occupa di alcuni aspetti organizzativi della
struttura.
d) Volontariato. Ricordiamo le seguenti forme di volontariato socio-assistenziale, in parte
regolamentate dalla legge nazionale n. 266/91 e da diverse leggi regionali:
-volontariato che si esercita a livello istituzionale nelle strutture pubbliche;
-volontariato di privato-sociale che può esercitarsi entro istituzioni e associazioni, caratterizzato
da varie forme di convenzione con l’ente pubblico;
- volontariato riconosciuto come utile dall’ente pubblico, ma che non accede allo strumento
della convenzione e quindi non entra nei sistemi di controllo pubblico;
- volontariato privato spontaneo, non formalmente strutturato, che si muove al di fuori di
qualsiasi forma istituzionale di rapporto con il pubblico.
e) Cooperazione. Sia le cooperative di servizio in senso stretto, sia le cooperative di produzione
e lavoro di tipo solidaristico hanno trovato un supporto legislativo nella legge n. 381/91. Le prime
si sono sviluppate sul concetto di mutualità allargata, secondo il quale destinatari dell’attività
cooperativa possono essere, oltre ai soci, tutti gli appartenenti al gruppo sociale di riferimento
della singola cooperativa: anziani, minori, handicappati, tossicodipendenti, ecc. Nella seconda il
lavoro e la produzione sono strumenti per sostenere la socializzazione e la riabilitazione di fasce
di popolazione con problemi, in particolare handicappati, malati mentali, ex tossicodipendenti.
Come si può notare, con la famiglia di servizio, le varie forme di autogestione dei servizi, il
volontariato e la cooperazione sociale ci troviamo di fronte a manifestazioni dell’autonomia
sociale che possono essere considerate a pieno titolo anche elementi costitutivi del terzo settore,
la cui valorizzazione può - a sua volta - implementare ulteriormente l’autonomia sociale delle
comunità. Il terzo settore può allora essere considerato contemporaneamente manifestazione e
strumento di tale autonomia, intesa come un’attuazione finalisticamente corretta del principio di
sussidiarietà nel campo delle politiche sociali. In tal modo, è possibile evidenziare una connessione
organica tra l’insegnamento sociale della Chiesa e la necessità di valorizzare le iniziative
solidaristiche - come quelle sopra elencate - che fanno parte integrante del terzo settore.
La riscoperta e valorizzazione del terzo settore, accanto allo Stato e al mercato, può dunque
essere ricondotta ad una nuova lettura della tradizione solidaristica preesistente all’intervento
pubblico in campo socio-assistenziale, che riemerge nella società contemporanea con particolare
vigore e con espressioni variegate e molteplici. Per alcuni autori, infatti, la riproduzione del terzo
settore è inevitabile nelle attuali società complesse, sia per gli eccessivi costi di transazione di
certi servizi, sia per lo scadimento della qualità dei servizi pubblici e per l’eccessivo costo di quelli
offerti dal mercato131, sia per la continua, molteplice e differenziata espansione della domanda,
131
Ved. A.O. Hirschman, Lealtà, defezione, protesta, Bompiani, Milano 1982 (ed. or. 1970).
che rimane insoddisfatta e che fa emergere, in modo sempre più evidente, la funzione
anticipatoria e insostituibile dei gruppi di volontariato132.
In altri termini, si ha come l’impressione di trovarsi di fronte ad uno sviluppo sociale in cui si
riscopre l’importanza di alcuni elementi culturali ed operativi preesistenti, di cui si era come
dimenticata l’esistenza e che, in alcuni casi, si era anche cercato (invano) di espellere dalla
storia. Ci sembra pertanto legittimo sostenere che per poter superare l’attuale crisi dello Stato
sociale è indispensabile recuperare in modo adeguato tali elementi, secondo il vero senso del
principio di sussidiarietà. In questo contesto interpretativo, diventa legittimo sostenere che «il
terzo diventa primo» 133, in quanto le iniziative solidaristiche che nelle socie tà complesse vengono
fatte rientrare sotto la denominazione di terzo settore, non rappresentano altro che il riemergere
del protagonismo originario dei soggetti sociali, che non deve essere usurpato, bensì
implementato secondo la logica del principio di sussidiarietà e di quello dell’autonomia sociale
delle comunità -inteso in senso solidaristico134 - all’interno di contesti storici, culturali e istituzionali
spesso contraddittori, nel quadro dei grandi cambiamenti che stanno investendo la società
contemporanea135.
È importante, infine, sottolineare che con la promozione di queste forme di autonomia sociale
non si intende affatto proporre una riduzione quantitativa dell’impegno, soprattutto economico,
dello Stato nel campo dei servizi sociali, bensì una sua mutazione qualitativa, per meglio
rispondere agli innumerevoli bisogni presenti nella società, alcuni dei quali rimangono inevasi
anche a causa degli sprechi esistenti. In altri termini, rimane irrinunciabile il ruolo dell’ente
pubblico, in rapporto ai compiti di programmazione, finanziamento, sostegno, coordinamento e
controllo delle molteplici forme di autonomia e di autogestione che scaturiscono dalle aree di
intervento che abbiamo richiamato. Si tratta, allora, di trovare le forme e le modalità più idonee
per attivare forme sempre più compiute di autonomia sociale, valorizzando tutte le risorse
presenti nella società, soprattutto nel contesto attuale, connotato sempre più da un’elevata
competitività, che induce comportamenti e orientamenti di natura individualistica, oppure
marginalità, emarginazione e devianza, come spesso capita per i più deboli e per i più deprivati
dal punto di vista ascrittivo.
In questo contesto, che ovviamente implica anche una ridefinizione dei compiti dello stato,
diventa sempre più urgente «reincastrare la solidarietà nella società» 136 e «rifondare la
solidarietà» 137, al fine di conquistare orizzonti contemporaneamente post-liberali e postsocialdemocratici, meno ambivalenti e conflittuali di quelli della pura logica del mercato e meno
burocratici, anonimi ed assistenziali di quelli del Welfare State, bensì più consoni ai principi di
sussidiarietà e di autonomia sociale, nonché alle caratteristiche dello stato sociale presente nella
nostra Carta costituzionale.
132
Ved. B. Weisbrod, The Voluntary Non-profit Sector, Lexington Books, New York 1977.
133
Ved. F. Villa, I terzi saranno i primi? Terzo settore e logica della solidarietà,, in «Orientamenti», n.
8-9, pp. 53-76.
134
Ved. F. Villa, Solidarietà e sussidiarietà, in «Fogli di informazione e di coordinamento Mo. Vi.», 1,
1996, pp. 5-9.
135
Cfr. L. Boccaccin, La sinergia della differenza, Angeli, Milano 1993; A. Colozzi-Bassi, La solidarietà
efficiente, La Nuova Italia, Firenze 1995; Sociologia del terzo settore, a cura di P. Donati, Nis, Roma 1996.
136
Ved. P. Rosanvallon, Lo stato provvidenza tra liberalismo e socialismo, Armando, Roma 1984, p.
105.
137
Ved. P. Rosanvallon,
1995, pp. 13-102.
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L AURA ZANFRINI
LO SVILUPPO: INDICAZIONI PER LA RICERCA SOCIOLOGICA
Il punto di partenza per queste brevi note di riflessione è rappresentato dalla caduta del
consenso lungamente attribuito alla categoria dello sviluppo, sviluppo inteso fondamentalmente
come crescita economica perseguibile attraverso l’industrializzazione.
A partire dal secolo XIX le società occidentali, e parecchie altre al loro contatto, hanno riposto la loro speranza in un progresso
continuamente rinnovato, indefinito. Questo progresso appariva loro come lo sforzo di liberazione dell’uomo nei confronti delle necessità della
natura e delle coartazioni sociali; era la condizione e la misura della libertà umana. Diffuso dai mezzi moderni di informazione e dallo stimolo
del sapere e di consumi più estesi, il progresso diventa una ideologia onnipresente. Tuttavia un dubbio nasce oggi sia sul suo valore sia sulla
sua riuscita. Che significa questa caccia inesorabile d’un progresso che sfugge ogni volta che si è persuasi di averlo conquistato? Non dominato,
esso lascia insoddisfatti. Senza dubbio si sono denunciati, a giusto titolo, i limiti e anche i danni di una crescita economica puramente
quantitativa, e ci si auspica di raggiungere anche obiettivi di ordine qualitativo (Octogesima adveniens, n. 41).
Ma all’epoca di Paolo VI - ha scritto l’attuale pontefice nella Sollicitudo rei socialis - era
ancora diffuso un certo ottimismo circa la possibilità di colmare, senza sforzi eccessivi, il ritardo
economico dei popoli poveri, di dotarli di infrastrutture ed assisterli nel processo di
industrializzazione. La presente situazione del mondo offre invece un’impressione piuttosto
negativa, ed evidenzia un approfondimento del divario tra paesi ricchi e paesi poveri, ed altresì
una diffusione - che coinvolge lo stesso mondo sviluppato - delle situazioni di sottosviluppo «non
soltanto economico, ma anche culturale, politico e semplicemente umano» (Sollicitudo rei
socialis, n. 15).
La sociologia, e più in generale le scienze sociali, hanno indubbiamente contribuito dapprima
ad alimentare la fiducia incondizionata nello sviluppo, e poi a sopprimerne i presupposti culturali e
sociali. Dalla concezione di uno sviluppo unilineare e continuo, destinato a coinvolgere, attraverso
la diffusione della cosiddetta «modernizzazione», tutte le regioni del pianeta, si è
progressivamente lasciato spazio a una visione dello sviluppo come processo problematico,
contraddittorio, portatore di conseguenze non sempre di segno positivo. «Lo sviluppo non è un
processo rettilineo, quasi automatico e di per sé illimitato, come se, a certe condizioni, il genere
umano debba camminare spedito verso una specie di perfezione indefinita» (Sollicitudo rei
socialis, n. 27). Lo sviluppo, quindi, non può essere interamente affidato alle forze del mercato e
dell’emulazione, ma reclama la capacità di selezionare gli obiettivi e di controllarne gli effetti
perversi, cioè in sintesi reclama una capacità di regolazione politica: «Non consiste il vero
progresso» - afferma ancora Paolo VI nella Octogesima adveniens - «nello sviluppo della
coscienza morale che condurrà l’uomo ad assumersi solidarietà allargate e ad aprirsi liberamente
agli altri e a Dio?».
Nell’economia di questa nostra breve riflessione ci sembra utile concentrare l’attenzione su
alcune specifiche declinazioni di quanto precede.
1. Una prima declinazione è rappresentata dalla consapevolezza delle interdipendenze che
strutturano l’attuale sistema economico mondiale. Nella storia della dottrina sociale della Chiesa
questa consapevolezza è per la prima volta espressa in forma esplicita da Giovanni XXIII nella
Mater et magistra e poi ulteriormente sottolineata da Paolo VI nella Populorum progressio
dove lo sviluppo è assunto a nuovo nome della pace.
Le scienze sociali hanno inizialmente preteso di descrivere questa situazione attraverso le
«teorie della dipendenza», rivelatesi peraltro incapaci (al pari degli approcci più ottimisti circa le
sorti del mondo sottosviluppato, a partire dalla nota teoria degli stadi di sviluppo) di dare conto di
esperienze di sviluppo atipiche rispetto ai modelli consolidati, o impreviste.
Oggi appare vieppiù chiaro come l’interpretazione dello sviluppo - e del sottosviluppo, nella
misura in cui ha ancora senso ricorrere a questa espressione - non possa più risolversi nella
contrapposizione tra regioni e paesi ricchi e regioni e paesi poveri. La nuova geografia
economica mondiale tende a evidenziare l’esistenza di una sorta di gerarchia di territori dotati di
differenti capacità di integrare efficacemente risorse (materiali e immateriali) endogene ed
esogene e, soprattutto, di accedere ai network internazionali attraverso i quali avviene la
circolazione delle informazioni e della ricchezza. Le «città globali», quelle cioè in cui si
concentrano le funzioni terziarie maggiormente qualificate, fungono da nodi nel contesto di tali
network, ma questa loro posizione privilegiata, che rende possibile l’integrazione del sistema
economico mondiale, sembra andare a discapito della capacità di irrorare proficuamente la
periferia più immediata. La frontiera tra sviluppo e sottosviluppo, denunciano le encicliche più
recenti, attraversa gli stessi paesi ricchi: questo ammonimento delinea un ambito ancora in buona
parte inesplorato dagli scienziati sociali, e comunque non affermato con sufficiente forza. Quale
ruolo verrà ad assumere ciascun territorio nel contesto della cosiddetta «nuova divisione
internazionale del lavoro»? Quali potenzialità fertilizzatrici sono connesse con le più innovative
concentrazioni di attività ad elevata tecnologia (i parchi tecnologici, per esempio)? Qual è il grado
di reversibilità dell’attuale distribuzione della ricchezza e del sapere? Quali correttivi possono
essere adottati per contenere gli squilibri sociali e territoriali di cui sono foriere le nuove
dinamiche di sviluppo fondate sul controllo delle tecnologie più sofisticate? Qual è la reale
capacità inclusiva - o viceversa il rischio di marginalizzazione - che contraddistingue i sistemi
produttivi post-fordisti?
Un ambito in qualche modo idealtipico per l’analisi di queste proble matiche è indubbiamente
rappresentato dalle grandi città, che da un lato adempiono, come si è appena ricordato, al ruolo di
nodi connettori, un ruolo fondamentale per il funzionamento dell’economia mondiale, ma dall’altro
incarnano i limiti e le contraddizioni degli attuali modelli di sviluppo. Nelle metropoli mondiali si
contrappongono l’élite avvantaggiata dai processi di internazionalizzazione e l’underclass non
soltanto esclusa ma spesso vittima dei processi di sviluppo138. Alla luce di questa situazione, che
coinvolge le stesse capitali dei paesi più ricchi del mondo, il monito di Giovanni Paolo II acquista
il suo più pieno significato: «dovrebbe esser pacifico che lo sviluppo o diventa comune a tutte le
parti del mondo o subisce un processo di retrocessione anche nelle zone segnate da un costante
progresso. Fenomeno, questo, particolarmente indicativo della natura dell’autentico sviluppo: o vi
partecipano tutte le Nazioni del mondo, o non sarà veramente tale» (Sollicitudo rei socialis,
n.17).
2. Uno degli indicatori più emblematici delle conseguenze della globalizzazione dell’economia è
quello delle migrazioni internazionali. A questo proposito va sottolineato come i documenti
pontifici, enfatizzando la libertà di movimento che discende dal fondamentale principio della
dignità dell’uomo, implicitamente denunciano la limitatezza delle cosiddette «visioni idrauliche» di
questo problema, cioè del tipo di interpretazione che, limitandosi a un solo esempio eloquente, ha
informato lo stesso documento preparatorio ai lavori della Conferenza mondiale della popolazione
svoltasi al Cairo nel 1995. Visioni, cioè, che enfatizzano unilateralmente il ruolo dei cosiddetti
138
«Tappa indubbiamente irreversibile nello sviluppo delle società umane, l’urbanesimo pone all’uomo
difficili problemi: come determinare la crescita, regolarne l’organizzazione, ottenerne l’animazione per il
bene di tutti. In questa crescita disordinata nascono, infatti, nuovi proletariati. Essi s’installano nel cuore
delle città, talora abbandonate dai ricchi; si accampano nelle periferie, cintura di miseria che già assedia in
una protesta ancora silenziosa il lusso troppo sfacciato delle città consumistiche e sovente scialacquatrici.
Invece di favorire l’incontro fraterno e l’aiuto vicendevole, la città sviluppa le discriminazioni e anche
l’indifferenza; fomenta nuove forme di sfruttamento e di dominio, dove certuni, speculando sulle necessità
degli altri, traggono profili inammissibili. Dietro le facciate si celano molte miserie, ignote anche ai più
vicini; altre si ostentano dove intristisce la dignità dell’uomo: delinquenza, criminalità, droga, erotismo»
(Octogesima adveniens, n. 10).
«fattori di spinta», primo fra tutti la pressione demografica, trascurando il ruolo dei fattori
d’attrazione.
Porre al centro dell’analisi di questa questione l’intenzionalità del soggetto che emigra, così
come suggerisce il magistero sociale, implica viceversa lo sviluppo di un approccio relazionale.
Implica cioè la considerazione del complesso delle determinanti storiche, sociali, culturali e
psicologiche che ne sono alla base, che stabiliscono un legame tra il paese d’origine e quello di
immigrazione e che generano un complesso di aspettative in capo al soggetto migrante. Tra le
tante implicazioni di un approccio relazionale allo studio delle migrazioni se ne possono qui
ricordare due, particolarmente significative e strettamente connesse al tema dello sviluppo.
La prima è quella espressa dal concetto di «socializzazione anticipatoria», che si realizza
principalmente attraverso l’azione dei mass-media che veicolano l’immagine di società opulente
ed eccezionalmente inclusive, un’immagine che si ripercuote sull’immaginario del potenziale
migrante (i ripetuti sbarchi di albanesi in Italia ne costituiscono una drammatica testimonianza).
Di qui un certo tipo di progetto migratorio - peraltro fortunatamente non generalizzabile -,
orientato all’emulazione dei modelli di consumo occidentali più che al risparmio e al
reinvestimento in patria; un progetto che esprime una rottura con l’ambiente d’origine
acriticamente giudicato inferiore a quello d’adozione (salvo poi dovere affrontare le tante
difficoltà e le disillusioni che un simile progetto inevitabilmente porta con sé).
La seconda implicazione è rappresentata dalla funzione di specchio che l’immigrazione
adempie, mettendo a fuoco le caratteristiche positive e negative, e soprattutto le contraddizioni,
della società ospite e del suo modello di sviluppo. Evidente, nell’esperienza italiana, il dato
dell’eterogeneità territoriale della condizione degli immigrati (che riflette la differente dotazione di
risorse economiche e progettuali delle varie aree del paese) nonché quello del crescente scarto
tra modello economico e modello sociale di sviluppo, che spiega come migliaia di lavoratori
stranieri abbiano potuto trovare una collocazione nel mercato del lavoro regolare pur in presenza
di significativi tassi di disoccupazione autoctona. D’altro canto, è questo stesso attributo del
fenomeno migratorio a configurarlo come una risorsa, oltre che economica e culturale, in termini
di policy, offrendo alle società ospiti una peculiare occasione di ripensare su se stesse e di
progettare il proprio futuro; dal punto di vista delle comunità ecclesiali la presenza straniera
costituisce, come ha avuto modo di sottolineare il card. Martini, una «formidabile occasione
salvifico-profetica».
Come verrà più avanti precisato, l’analisi della struttura delle relazioni possiede una valenza
euristica di assai ampia portata, ben oltre la fenomenologia migratoria, e attualmente giustamente
rivalorizzata dagli scienziati sociali. Da questo punto di vista, l’attenzione che la dottrina sociale
da sempre sollecita per le dimensioni sociali ed umane della fenomenologia economica appare
precorritrice di una sensibilità che solo ora comincia a dimostrare le sue reali potenzialità
interpretative.
3. Un altro tema che merita di essere ricordato è quello della regolazione politica e sociale
dell’economia.
Un motivo costante, nel magistero sociale della Chiesa, è rappresentato dalla sottolineatura
della necessaria presenza dello stato nella vita economica, ed accanto ad esso del ruolo dei c.d.
«corpi intermedi» - a partire dalla famiglia - a sostegno dell’integrazione sociale. Dalla
compresenza di queste due categorie di attori della regolazione discende l’indicazione del
principio di sussidiarietà inteso come criterio fondamentale per la distribuzione delle competenze
tra i vari livelli di governo e tra le varie agenzie della socializzazione.
Rispetto alle prospettive della riflessione sociologica numerosi sono indubbiamente i temi che
meriterebbero un particolare approfondimento. Ne ricordiamo solo alcuni.
Un primo tema è strettamente connesso con l’evoluzione, più sopra richiamata, che produce la
diffusione di situazioni di sottosviluppo anche nel contesto del mondo sviluppato: la Sollicitudo
rei socialis individua tra gli indici specifici di questo fenomeno la crisi degli alloggi e il fenomeno
della disoccupazione e della sotto occupazione. Queste questioni configurano un terreno
ampiamente battuto dagli scienziati sociali, ma tuttora degno di attenzione. Importa soprattutto
sottolineare il dibattito in corso sulla riformulazione del modello di assistenza e di protezione
sociale, nella direzione di un passaggio dal Welfare State - la forma tipicamente associata
all’epoca fordista - alla Welfare Community, con tutte le implicazioni che questo passaggio
comporta nei vari ambiti di tradizionale intervento dello stato sociale (politiche del lavoro, politiche
alloggiative, politiche socio-sanitarie e così via).
In un senso più ampio, i meccanismi di regolazione costituiscono al giorno d’oggi una
componente fondamentale del funzionamento dell’economia, la cui rilevanza appare rafforzata,
rispetto all’epoca fordista, in considerazione del non determinismo delle nuove tecnologie. Il
quadro istituzionale, la fisionomia assunta dalle relazioni tra i diversi attori, la configurazione
internazionale dei rapporti tra le nazioni, le opzioni politiche di fondo disegneranno in gran parte il
futuro dell’economia e della società in forme che potranno risultare più o meno egualitarie e
democratiche.
È opportuno, in particolare, sottolineare la necessità che l’azione degli attori politici si qualifichi
tramite l’assunzione di obiettivi di interesse generale, ciò che indubbiamente garantisce una
maggiore capacità inclusiva a un determinato modello di sviluppo, svincolando questa stessa
azione dalle richieste particolaristiche - situazione che, come eloquentemente dimostra
l’esperienza del Mezzogiorno d’Italia, produce gravi effetti perversi. Il perseguimento di interessi
collettivi appare tuttavia vieppiù difficile, data l’attuale evoluzione in direzione di una crescente
diversificazione dei bisogni e delle aspettative: risulta pertanto necessario ed urgente
approfondire la riflessione degli scienziati sociali in ordine ai criteri atti all’individuazione di ciò
che le encicliche definiscono tradizionalmente come bene comune 139.
Un’attenzione particolare merita, da questo punto di vista, il già richiamato principio di
sussidiarietà, idoneo a regolare l’attribuzione dei poteri in funzione di un contenimento degli
squilibri presenti a livello locale, nazionale e internazionale. Nella sua accezione più modesta,
quello di sussidiarietà è un principio tecnico, funzionale all’efficace suddivisione delle competenze
tra i diversi livelli territoriali. Ma, assunto in un’accezione più profonda, la nozione di sussidiarietà
possiede un’indubbia dimensione etica e politica. Anche questo principio deve però essere
ripensato, in ragione di una progressiva perdita di pertinenza dei tradizionali livelli di governo, e
della necessità di sostituire una suddivisione basata su territori fisici con una basata sugli spazi,
eventualmente virtuali, nei quali si strutturano le reti relazionali. Se infatti si assume, secondo
139
«L’attività economica (...) rischia di assorbire, se eccede, le forze e la libertà. È la ragione per cui si
palesa necessario il passaggio dall’economia alla politica. È vero che sotto il termine “politica” sono
possibili molte confusioni che devono essere chiarite, ma ciascuno sente che nel settore sociale ed
economico, sia nazionale che internazionale, l’ultima decisione spetta al potere politico.
Codesto, in quanto è il vincolo naturale e necessario per assicurare la coesione del corpo sociale, deve
avere per scopo la realizzazione del bene comune. Esso agisce nel rispetto delle legittime libertà degli
individui, delle famiglie e dei gruppi sussidiari, al fine di creare efficacemente e a vantaggio di tutti le
condizioni richieste per raggiungere il vero e completo bene dell’uomo, ivi compreso il suo fine spirituale.
Esso si muove nei limiti della sua competenza, che possono essere diversi secondo i paesi e i popoli; e
interviene sempre nella sollecitudine della giustizia e della dedizione al bene comune, di cui ha
responsabilità ultima. Tuttavia non elimina così il campo d’azione e le responsabilità degli individui e dei
corpi intermedi, onde questi concorrono alla realizzazione del bene comune (...).
Conforme alla propria vocazione, il potere politico deve sapersi disimpegnare dagli interessi particolari
per considerare attentamente la propria responsabilità nei riguardi del bene di tutti, superando anche i limiti
nazionali» (Octogesima adveniens, n. 46).
l’insegnamento che proviene dalla dottrina sociale della Chiesa, che il fondamentale compito della
politica sia quello di edificare il massimo bene possibile per l’uomo, si deduce che tale compito
richiede la capacità di discernere - certamente col supporto degli uomini di scienza - gli spazi
d’azione storicamente e geograficamente più efficaci. La stessa mitizzazione delle società locali,
in cui sembra essere incorsa parte della letteratura elaborata nel recente passato dalle scienze
sociali, deve allora essere problematizzata, segnatamente alla luce di una rinnovata esigenza di
solidarietà che limiti e corregga la selettività - territoriale e sociale - delle attuali dinamiche di
crescita.
4. Un’ultima provocazione che può essere tratta dalla dottrina sociale della Chiesa - e che sta
sullo sfondo di tutte le considerazioni che qui abbiamo svolto - è la necessità di non limitarsi a
considerare la dimensione economica dello sviluppo, approfondendone viceversa altresì i
presupposti e le conseguenze di diversa natura. Questa necessità è strettamente connessa, come
ha bene posto in evidenza l’enciclica Populorum progressio, con la consapevolezza
dell’interdipendenza universale che costringe a modificare la concezione stessa dello sviluppo: «Il
vero sviluppo non può consistere nella semplice accumulazione di ricchezza e nella maggiore
disponibilità di beni e servizi, se ciò si ottiene a prezzo del sottosviluppo delle moltitudini, e senza
la dovuta considerazione per le dimensioni sociali, culturali e spirituali dell’essere umano»
(Sollicitudo rei socialis, n. 9).
Ora, questa multidimensionalità della questione dello sviluppo è stata generalmente indagata
soprattutto con riguardo agli effetti perversi di una concezione strettamente economicista dello
sviluppo stesso, oppure con riguardo alla possibilità di coniugare proficuamente sviluppo
economico e sviluppo sociale dando vita ad iniziative imprenditoriali atipiche (si pensi al vasto
settore della cosiddetta economia sociale) e comunque considerate di importanza marginale
rispetto ai percorsi di crescita del sistema economico complessivo.
È significativo invece sottolineare come negli ultimi anni stia sempre più prendendo piede la
consapevolezza dell’importanza delle relazioni - e quindi, se si vuole, dello sviluppo sociale - in
ordine alla stessa crescita economica. Non si tratta soltanto di decretare il definitivo superamento
della divisione tra la fabbrica e la società imposta dal modello produttivo fordista, ma altresì di
riconoscere come l’intera fenomenologia economica non possa essere adeguatamente compresa
prescindendo da un’analisi delle componenti umane e sociali che ne sono alla base, e in
particolare da un’analisi delle relazioni, non soltanto di natura mercantile, che strutturano il
funzionamento dei sistemi economici contemporanei.
L’ipotesi, ancora in gran parte da esplorare, concerne la proponibilità di una sorta di
«paradigma relazionale» dello sviluppo, cioè di un modello interpretativo, costruito sull’importanza
dell’elemento relazionale, nel quale si possano fare convergere una serie di processi che vanno
dall’evoluzione delle concezioni dell’imprenditorialità e dell’innovazione all’affermazione di
modalità organizzative post-fordiste, dalle nuove configurazioni spaziali dei sistemi produttivi al
ripensamento del ruolo della regolazione politica dell’economia e così via 140. Un modello, in altri
termini, che definisca un sistema economico e la sua competitività a partire dalla sua dotazione di
beni relazionali.
La stessa fenomenologia delle cosiddette nuove povertà può in gran parte essere letta
attraverso una condizione di esclusione dalle reti di relazioni: i nuovi poveri sono gli homeless, gli
immigrati stranieri privi del sostegno dei connazionali, ma sono anche gli abitanti delle periferie
urbane degradate, i disoccupati di lunga durata, gli psicolabili incapaci di relazionarsi agli altri in
140
La natura squisitamente relazionale dell’agire economico è suggestivamente espressa da questo
passo contenuto nella prefazione della Laborem exercens: «Il lavoro porta su di sé un particolare segno
dell’uomo e dell’umanità, il segno di una persona operante in una comunità di persone».
maniera normale, e così via, cioè in definitiva chi non ha voce, neppure per esprimere richieste
d’aiuto. Per altro verso, le stesse politiche assistenziali, nella misura in cui tendono verso il
modello che abbiamo ricordato della Welfare Community, investono strategicamente sulla
promozione delle relazioni quali strumenti privilegiati di inserimento socioeconomico.
EUGENIO ZUCCHETTI
LAVORO E RUOLO DELLE ISTITUZIONI
1. Quella del corretto rapporto tra istituzioni e attori economici e sociali costituisce una
questione di indubbia rilevanza in ordine al lavoro e alla sua regolazione.
Da qualche tempo si è operata una ridiscussione dei paradigmi tradizionali, per approdare ad
una lettura della regolazione dei processi economici e del lavoro che va oltre la considerazione
esclusiva del mercato. Accanto e insieme a quest’ultimo, come hanno insegnato Polanyi e altri
studiosi di discipline sociologiche, agiscono altri istituti regolatori come lo stato e la comunità. Con
riferimento più specifico al mercato del lavoro, gli agenti regolatori sono costituiti certo dal
mercato individualistico ma insieme, e forse più, dalla contrattazione collettiva, dall’istituzione
statale, dalle relazioni comunitarie. Tali istituti regolatori della distribuzione e dell’organizzazione
del lavoro agiscono contestualmente dentro una formazione sociale in un mix variabile sotto il
profilo temporale e spaziale.
Per altro verso, tutto il dibattito attorno alla degenerazione assistenziale dello stato sociale ha
messo in luce il rischio di uno slittamento in senso statalistico del modello di organizzazione
sociale, per cui lo stato stesso diventa produttore, erogatore, gestore e amministratore. Sul
versante della politica del lavoro, in particolare, esso ha agito secondo un disegno centralizzatore
e monopolistico.
La pluralità dei soggetti coinvolti e interagenti nella complessità organizzativa delle società
avanzate e l’esistenza quindi di processi di forte interdipendenza nelle economie moderne
costituiscono, d’altra parte, gli aspetti maggiormente evidenziati dal recente dibattito in sede
scientifica. Anche rispetto al lavoro e al suo governo è stata adottata un’ottica pluralista,
mettendo in luce il ruolo dei diversi soggetti sociali, privati e pubblici. La complementarietà tra le
diverse azioni e competenze si specifica nel senso del riconoscimento/valorizzazione della
soggettività sociale e del ripensamento del ruolo della stato, come definitore di ambiti, garante di
orizzonti di bene comune, compensatore di squilibri, oltre una sua declinazione in termini
assistenziali ed erogatori. Proprio i più recenti orientamenti in tema di politiche del lavoro fanno
propri l’assunzione di una metodologia di cooperazione tra i soggetti sociali, che privilegia un
gioco cooperativo e non conflittuale per la soluzione dei problemi concreti del mercato del lavoro
e della formazione professionale, e la ricerca dell’integrazione tra le istituzioni coinvolte e/o
competenti141.
È questa una tematica che sta al centro della dottrina sociale della Chiesa, se è vero che il
senso dell’insegnamento in merito al rapporto tra lavoro e istituzioni può essere racchiuso nella
parabola, temporale e di riflessione, esplicitata dalle affermazioni seguenti:
- l’organizzazione del lavoro spetta ai soggetti direttamente interessati, datori di lavoro e
operai, non allo stato, se non in via di supplenza 142;
- l’economia di mercato è pienamente accettabile a patto che essa sia opportunamente
controllata «dalle forze sociali e dallo stato, in modo da garantire la soddisfazione delle esigenze
fondamentali di tutta la società» (Centesimus annus, n. 35);
- esiste, accanto a un datore di lavoro diretto, un datore di lavoro indiretto, ovvero persone e
istituzioni, ma anche principi di comportamento capaci di determinare l’intero sistema socioeconomico e quindi di influire sui rapporti e sulle condizioni di lavoro (Laborem exercens, n. 16).
141
Cfr. E. Zucchetti, Politica del lavoro e dimensione locale, Angeli, Milano 1996.
142
Cfr. Pio XII, Radiomessaggio nel 50° della «Rerum novarum».
Viene pertanto affermato il primato della persona, titolare del diritto-dovere al lavoro, e si indica
nel riferimento al bene comune ciò che giustifica l’intervento dello stato: si potrebbe dire che vi si
afferma il ruolo regolativo della politica, e non meramente sanzionatorio dei processi sociali e dei
rapporti di forza esistenti. Emerge, dunque, l’immagine di uno stato che si rivolge verso la società
e l’economia ricercando un rapporto equilibrato, capace di fornire un quadro di riferimento solido
e una guida politica, ma senza indulgere a dilatazioni dei propri compiti foriere di confusioni e
problemi. Usualmente si denomina tale presunto equilibrio come principio di sussidiarietà, che non
a caso viene diffusamente fatto proprio anche a livello dell’Unione europea, come nel Libro
bianco di Delors dedicato appunto alle tematiche della competitività economica e
dell’occupazione nelle società avanzate dell’Europa.
2. Una seconda questione può essere introdotta e riguarda l’approccio da assumere nella
lettura dei problemi economici, del mercato del lavoro e del governo di quest’ultimo. Negli ultimi
anni si è molto insistito sull’adozione di un’ottica locale che valorizza le risorse, economiche e
metaeconomiche, esistenti e quindi i diversi soggetti sociali e istituzionali.
Quella locale appare l’ottica privilegiata da assumere, in specie per quanto concerne il governo
dei problemi economici e del lavoro. D’altra parte, l’ipotesi in merito all’esistenza di mercati del
lavoro locali è stata da tempo formulata 143. Il mercato del lavoro, più di altri mercati, deve essere
considerato una vera e propria istituzione sociale: il suo funzionamento dipende essenzialmente
da quanto ritenuto accettabile da entrambi le parti in causa nelle relazioni di lavoro e nelle
questioni occupazionali144. Nel funzionamento del mercato del lavoro operano vincoli dovuti alle
regole di comportamento sociale, che differenziano il mercato stesso sul piano territoriale e sotto
il profilo temporale.
Nel momento presente le politiche del lavoro promosse dalle istituzioni pubbliche tendono così
a un ricentraggio su base locale e a perdere i caratteri universalistici e garantisti rispetto
all’offerta. Esse diventano promozionali e si specificano in rapporto ai sistemi di
vincoli/opportunità rappresentati dai diversi contesti locali145. C’è ragione di ritenere dunque che
le politiche del lavoro si configurino come «un mix di azioni sempre più radicate nel livello locale,
rispetto al quale l’intervento da parte dei governi centrali assume come obiettivi limitati la
definizione degli ambiti di azione e gli interventi compensativi diretti ad evitare il rischio di
un’accentuazione della regionalizzazione degli squilibri preesistenti» 146.
In generale non sembra esplicitamente assunta nell’insegnamento sociale la prospettiva locale,
pur se sono diversi i riferimenti che richiamano in qualche modo il senso e i paradigmi
dell’approccio locale. Può essere qui opportunamente riproposta la sottolineatura operata dalla
dottrina sociale circa il ruolo regolativo della politic a a salvaguardia del bene comune, che
conduce a porre attenzione alle interdipendenze (tra regioni diverse, tra nord e sud) specialmente
nel programmare la politica economica e del lavoro. Così come l’assunzione di un modello di
sviluppo pluralistico non fa che valorizzare quella soggettività sociale e ricchezza istituzionale
enfatizzate dalla stessa dottrina sociale della Chiesa a proposito dell’organizzazione societaria.
3. Qualche ulteriore considerazione è possibile formulare circa le caratteristiche e i contenuti
delle politiche del lavoro. Nell’ultimo decennio le difficoltà sul versante economico e soprattutto la
gravità e i nuovi termini assunti dalla crisi occupazionale hanno certamente indotto profonde
modificazioni per ciò che concerne le politiche del lavoro. In primo luogo, si registra il passaggio
143
Cfr. E. Zucchetti, Il legame ritrovato, Vita e Pensiero, Milano 1991.
144
Cfr. R.M. Solow, Il mercato del lavoro come istituzione sociale, Mulino, Bologna 1994.
145
Cfr. E. Zucchetti, Politica del lavoro e dimensione locale, cit.
146
Ved. M. Colasanto, Paradigmi dello sviluppo, Vita e Pensiero, Milano 1993, p. 126.
da politiche regolative a politiche promozionali: alle politiche tradizionalmente prevalenti di tipo
burocratico-garantista e di tipo assistenziale si sono sostituite le cosiddette politiche attive del
lavoro, ovvero interventi miranti a favorire l’incontro fra la domanda e l’offerta di lavoro e a
sostenere i soggetti più deboli (giovani, donne, cassintegrati, disoccupati di lungo periodo).
La politica attiva del lavoro si è andata inoltre sviluppando attraverso un’ampia gamma di
interventi; selettività e differenziazione si sono affermate in maniera crescente come elementi
essenziali delle azioni realizzate. La disomogeneità e la frammentazione della domanda e
dell’offerta di lavoro aprono un vasto campo di azione e richiedono ormai sul piano delle politiche
una cassetta degli attrezzi variegata e ricca: orientamento e formazione professionale,
innanzitutto; contratti di formazione e lavoro; contratti di lavoro atipici; osservazione del mercato
del lavoro; incentivazione economica e normativa delle assunzioni dei soggetti deboli; lavori
socialmente utili; sostegno alla nuova imprenditorialità.
Il livello locale, in terzo luogo, è divenuto progressivamente, come si è osservato, quello
privilegiato per gli interventi di politica attiva del lavoro. La consapevolezza della specificità dei
diversi mercati del lavoro locali produce provvedimenti flessibili, adattabili cioè ai differenti
contesti territoriali; provvedimenti che comunque dovrebbero mirare ad attivare risorse locali,
umane e finanziarie, altrimenti inutilizzate, e a promuovere altresì la capacità dei soggetti locali di
assumere un atteggiamento attivo nei confronti del problema del mercato del lavoro. C’è ragione
di ritenere che è il contesto locale a determinare sia la tipologia dell’intervento di politica del
lavoro sia soprattutto le modalità e l’assetto organizzativo dell’intervento stesso. La variabile
interveniente è costituita dal ruolo svolto localmente dagli attori sociali: oltre al soggetto
istituzionale locale promotore, gli altri enti locali competenti, le parti sociali imprenditoriali e
sindacali, camere di commercio, associazioni, ecc. In tale quadro si profila un ulteriore aspetto,
ovvero la consistente mobilitazione di risorse in materia di politica del lavoro da parte della
pubblica amministrazione, a tutti i suoi livelli: dal potere centrale alle regioni, che hanno dato vita
a una vera e propria politica regionale del lavoro, alle province fino ad arrivare ai comuni.
L’attenzione alle fasce deboli del mercato del lavoro, come compito privilegiato dell’istituzione
pubblica, costituisce, come è noto, un’opzione forte dell’insegnamento sociale: lo stato, come
primo datore di lavoro indiretto, deve condurre una giusta ed eticamente corretta politica del
lavoro, che rispetti cioè i diritti oggettivi del lavoratore e di tutti i lavoratori e che metta al centro il
compito fondamentale della promozione dell’occupazione. Il termine politica del lavoro, tuttavia,
viene usato in un’accezione molto ampia e generale, fino a farla coincidere con le politiche
economiche e dell’occupazione a livello macro, aventi a che fare con gli squilibri su scala
mondiale tra paesi industrializzati e paesi in via di sviluppo. Per contro non si trova un riferimento
specifico alle politiche attive del lavoro, che si inscrivono peraltro dentro una prospettiva
promozionale, non assistenziale, dell’intervento pubblico, teso quindi a quella promozione della
persona (in particolar modo quella più debole) e dei differenti soggetti sociali così cara alla
dottrina sociale
Non è inutile ribadire inoltre la necessità di distinguere tra politiche del lavoro e politiche
dell’occupazione. La distinzione consente di fare ordine sul piano concettuale e di offrire criteri
per un uso più corretto delle risorse attivate. La distinzione non può essere intesa nel senso di
una posizione ancillare delle politiche del lavoro stesse rispetto alle politiche dell’occupazione
impostate e realizzate a livello macroeconomico147. Come ha ricordato il Libro bianco di Delors,
la strada per creare occupazione passa dalla ripresa della crescita economica, dagli interventi
strutturali per accrescere la competitività dell’industria europea, ma anche dagli interventi
regolativi di tipo micro garantiti da una adeguata politica attiva del lavoro. Una politica attiva che,
147
Cfr. L. Frey, Significato e limiti delle politiche del lavoro , in «Quaderni di economia del lavoro», 46
(1993), pp. 11-44.
come spesso si è sottolineato in questi anni, faciliti l’accesso all’occupazione della forza lavoro
disponibile, sviluppi le competenze e le professionalità richieste nei processi di ristrutturazione,
migliori il funzionamento del mercato del lavoro rendendo più efficaci le attività di ricerca del
posto da parte dei lavoratori e dei lavoratori da parte delle aziende 148.
4. Il riconoscimento del ruolo delle risorse umane nell’impresa e nella crescita dei sistemi
economico-produttivi avanzati appare un tratto caratteristico negli scenari prospettati dagli
analisti sociali. Il panorama europeo offre una serie di indicazioni utili e convergenti; la
prospettiva generale che emerge è quella di contemperare in modo contestuale due linee di
intervento: da una parte, l’esigenza di contrastare una disoccupazione di nuovo allarmante,
puntando l’attenzione sulle forme di possibile reinserimento delle fasce deboli e di sostegno
all’assunzione dei giovani; dall’altra, la necessità di favorire la ripresa, attraverso forme di
abbattimento del costo del lavoro, strumenti di flessibilizzazione dell’orario di lavoro, azioni di
formazione e di consulenza perché le imprese trovino le competenze di cui necessitano, sostegni
all’innovazione. In altri termini, accanto a una permanenza e anzi a una ripresa di interventi
finalizzati all’incentivazione dell’assunzione di soggetti deboli in cerca di lavoro, si fa strada e
acquista consistenza un intervento finalizzato a sostenere la ripresa delle imprese in una fase di
difficoltà.
La centralità delle strategie formative appare negli anni novanta l’elemento caratterizzante
delle politiche del lavoro. L’obiettivo fondamentale non è solo la lotta contro la disoccupazione,
bensì quello di favorire la partecipazione attiva di tutti al sistema economico e sociale: la
valorizzazione delle risorse umane disponibili e l’investimento in capitale umano, attraverso la
formazione di base e gli interventi di qualificazione e riqualificazione professionale, diventano
pertanto linee strategiche decisive per i prossimi anni149. La spinta è certamente verso risorse
umane sempre più qualificate, pur se non si possono trascurare i segnali ambivalenti emergenti
nei contesti produttivi più avanzati, come la crescita anche dell’area dei lavori scarsamente
qualificati e al limite precari. D’altra parte, come è stato notato, le relazioni industriali e il sistema
formativo non sono probabilmente le uniche variabili istituzionali esplicative delle divaricazioni
delle diverse regioni forti; ve ne sono altre, inerenti ai differenti modelli di sviluppo locale e
precisamente ai diversi modelli di strategia delle imprese sul mercato e alla conseguente
differenziazione delle risorse umane di cui esse hanno bisogno150. Ciò comporterebbe non solo la
garanzia di un’istruzione formale più lunga, quanto piuttosto la differenziazione, nel senso del
policentrismo e della discontinuità, del sistema formativo, così che ad ogni livello di ingresso nel
mercato del lavoro sia assicurato un adeguato grado di formazione professionale.
Non è mancato certo nel più recente insegnamento sociale della chiesa il riconoscimento del
ruolo e del valore delle risorse umane nelle economie avanzate, ma debole sembra la percezione
delle implicazioni che conseguono da tale centralità. Emblematico, ad esempio, è il riferimento nella forma di debole accenno, appunto - al ruolo del sistema di istruzione in relazione ai processi
lavorativi e all’occupazione 151. Per contro, decisivo si rivelerebbe l’investimento da parte delle
politiche pubbliche in tale direzione, se è vero soprattutto che necessita la coltivazione
dell’integrazione tra gli strumenti di intervento, per la complementarietà che esiste tra i servizi per
148
Cfr. Dell’Aringa C., La disoccupazione nelle società avanzate, in «Il Mulino», XLIII (1995), 1, pp.
103-111.
149
Cfr. L. Frey, Significato e limiti delle politiche del lavoro , cit.; cfr. anche M. Colasanto, La
formazione professionale come governo del mercato del lavoro, in «Professionalità», 20, 1994, pp. 15-22.
150
Cfr. M. Regini, Domanda di risorse umane e istituzioni formative, in «Impresa e Stato», 28, 1994, pp.
20-26.
151
Cfr. Laborem Exercens, n. 18.
l’impiego, le funzioni di orientamento e formazione professionale e le misure di politica
dell’occupazione.
Riferimenti bibliografici
Colasanto M., La formazione professionale come governo del mercato del lavoro, in
«Professionalità», 20, 1994, pp.15-22.
Colasanto M., Paradigmi dello sviluppo, Vita e Pensiero, Milano 1993.
Dell’Aringa C., La disoccupazione nelle società avanzate, in «Il Mulino», XLIII (1995), 1,
pp.103-111.
Frey L., Significato e limiti delle politiche del lavoro, in «Quaderni di economia del lavoro»,
46, 1993, pp.11-44.
Regini M., Domanda di risorse umane e istituzioni formative, in «Impresa e Stato», 28,
1994, pp.20-26.
Solow R.M., Il mercato del lavoro come istituzione sociale, Il Mulino, Bologna 1994.
Zucchetti E., Il legame ritrovato, Vita e Pensiero, Milano 1991.
Zucchetti E., Politica del lavoro e dimensione locale, Angeli, Milano 1996.