Relazione Dott

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Relazione Dott
La morte come tabu, la morte come risorsa
Di Anna Zanardi Cappon, Phd
“A cosa ti serve, Socrate, imparare a suonare la lira? Tanto devi morire!”
“Mi serve per suonare prima di morire”
Diogene Laerte
“Vedeva che stava morendo, ed era in uno stato di disperazione continua. In fondo alla
sua anima sapeva che stava morendo, ma non riusciva a capirla, non ci riusciva
assolutamente. Il sillogismo elementare che aveva studiato nel manuale di filosofia. Caio
è un uomo, gli uomini sono mortali; Caio è mortale. Per tutta la vita gli era sembrato
sempre giusto, ma solo in relazione a Caio, non in relazione a sé stesso. Un conto era
l’uomo Caio, l’uomo i n generale, ed allora quel sillogismo era perfettamente giusto; un
conto era lui, che non era né Caio, né l’uomo in generale, ma un essere particolarissimo,
completamente diverso da tutti gli altri esseri: era stato il piccolo Vanja, con il suo papà e
la sua mamma, i suoi giocattoli, la governante e tutte le gioie e le amarezze, gli
entusiasmi dell’infanzia, dell’adolescenza, della giovinezza … Aveva mai sentito Caio
l’odore del pallone di cuoio che il piccolo Vanja amava tanto? Aveva mai baciato la mano
della mamma, Caio, aveva mai sentito frusciare le pieghe della seta del vestito della
mamma, Caio? … E Caio era mai stato innamorato? … Caio è mortale, certo, è giusto che
muoia. Ma per me, per me piccolo Vanja, con tutti i miei sentimenti ed i miei pensieri, per
me è tutta un’altra cosa. Non può essere che mi tocchi morire, sarebbe troppo orribile .”
Da “La morte di Ivan Illich” Tolstoj
Sembra un trattato di psicologia del morente, ma è Tolstoj che ce lo
dice con crudele sicurezza, è la morte di un essere umano medio, un
borghese, che di fronte al suo processo di morte non ha più alcun punto di
riferimento. La negatività d’essa, il non essere o il non sapere cosa
divenire, riporta l’importanza degli affetti, fa risalire l’insostituibile
individualità da cui non siamo quasi mai in grado di distaccarci.
È un problema di identità. Passiamo tutta la vita a costruirci
un’identità univoca, ad incastrare le nostre varie parti in un disegno più
ampio e consono alle aspettative che nella vita apparente gli altri
esprimono su di noi; perdiamo tempo ed energia per definirci, precisarci,
esserci come individui; ci sembra insopportabile dimenticare il nostro ego
e distrarre lo sguardo da esso per guardare in altre dimensioni, dove la
centralità dell’umano diventa marginale. E dunque facciamo fatica a
morire, a ragionare sulla morte, che cancella ogni individualità ed ogni
sforzo di identificazione.
La razionalità che applichiamo, soprattutto nella nostra cultura
occidentale moderna, ad ogni ambito della nostra vita avverte e
comprende la verità della finitezza, ma non riesce a tradurla in processo di
morte, sembra solo subirlo. E qui si genera la confusione; la comprensione
razionale non diventa accettazione, ma terrore esistenziale in fin di vita.
Siamo abituati ad etichettare e definire in maniera univoca e precisa
le varie situazioni; spesso in questi casi parliamo di malato grave e di
malato terminale come se si trattasse di due mondi diversi, sequenziali,
divisi da stati sanitari precisi. Il passaggio da malato grave a malato
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terminale, è un processo evolutivo della persona ammalata e comprende
varie dimensioni: fisiche, psicologiche, emotive, sociali, familiari.
La nostra cultura rifiuta la morte relegandola al di fuori delle città,
nei cimiteri in periferia, negli ospedali, nelle istituzioni che con zelo
accelerano, dopo la morte e, spesso, dopo un inutile accanimento
terapeutico, la sparizione del cadavere. Insomma, una cultura che rende la
morte, una morte snaturata. Come afferma Jean Jacques Prevost
nell’introduzione al libro “Mourir accompagnè” di Reneè Sebag Lanoe,
pubblicato in Francia, vi sono due principali paradossi che
contraddistinguono l’argomento morte: il paradosso relazionale e quello
istituzionale.
Il paradosso relazionale riguarda il personale medico e paramedico,
che sempre più spesso è chiamato a svestirsi delle competenze e dei
comportamenti tecnici per affermare con il paziente la dimensione
emotivo-relazionale. È una professione difficile nella quale il momento più
importante è il passaggio dal corpo all’anima che riguarda il proprio
assistito. È caratterizzato da due momenti: l’impoverimento del linguaggio
e la sensazione d’estraneità da parte del malato che sa essere uno
sconosciuto per chi gli è intorno. Questo doppio aspetto del paradosso
relazionale ingabbia la comunicazione con il malato, anche quando si trova
una via che va diritta al suo cuore, perché la consapevolezza dell’essere
ascoltati per mestiere è la contraddizione di tutte le pratiche psicologiche;
ti guariscono o alleviano con l’ascolto, ma l’ascolto non è spontaneo,
rientra in un ruolo professionale, retribuito, condizionato.
Inoltre, l’aspetto organizzativo-istituzionale limita l’interazione, la
medicalizza, la disumanizza ulteriormente. Il malato spesso viene delegato
all’istituzione, poiché non vi sono in famiglia le risorse tecniche,
psicologiche ed umane per assisterlo. La morte terrorizza i vivi, ma sfaterei
questa convinzione: la morte terrorizza chi, credendosi vivo, lascia
sfuggire il tempo senza viverlo davvero ed ha dunque timore di specchiarsi
in colui che sta morendo, gli dimostra la finitezza, l’irrimediabilità,
l’irreversibilità di un processo evolutivo che ha come fine la morte. Se
fossimo maggiormente consapevoli della nostra morte, della costante
possibilità di non esserci più fra qualche secondo, finalizzeremmo la nostra
vita ad una buona morte ed all’accettazione della finitezza della nostra
esistenza, paradossalmente vivremmo con molta più attenzione e gioia,
moriremmo con maggiore accettazione e serenità.
Jung soleva dire: “la mancanza di significato impedisce la pienezza
della vita, ed è pertanto equivalente alla malattia. Il significato rende
molte cose sopportabili, forse tutte.” Negli in cui ho assistito malati
terminali oncologici e d’Aids, ho imparato la pesantezza dei rimorsi che
trattiene il morente dal morire, la sorpresa di chi, morendo
inaspettatamente, ripensava al suo percorso e rivedeva cose non fatte,
parole non dette, carezze non spese.
Perché ciò che rende difficile accettare che stiamo morendo è, nelle
testimonianze che ho raccolto e negli studi che ho analizzato, la
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consapevolezza di non aver vissuto. Quindi verrebbe da aggiungere un
terzo paradosso, forse banale, che riguarda l’accettazione della morte: la
persona deve passare necessariamente da un lavoro su di sé, costante e
continuo, che parte dalla nascita e l’accompagna per tutta la vita sino alla
morte; lavoro che gli permetta di vivere appieno, affrontando le sue
angosce di finitezza. Come il solito, dunque, la morte non è altro che un
problema che riguarda i vivi: i vivi familiari, i vivi operatori, i vivi di tutto il
mondo che necessiteranno prima o poi di affrontare la morte propria o
altrui.
Quando il malato passa da una situazione grave ad una situazione
“terminale” sfugge al potere medico e si affaccia ad un territorio indefinito
ed angoscioso, dove affiora la richiesta metafisica. Spesso il malato che
sta morendo si rende conto che nella sua testa, nella sua mente, nei suoi
modelli mentali non vi è nulla che decodifichi il significato della parola
“morte”. Viviamo così paurosamente distanti da questo concetto che
quando ci investe non sappiamo come affrontarlo. Soprattutto per
quest’ignoranza difensiva e, nella nostra cultura occidentale, ahimè, temo
insanabile, chi circonda il morente deve essere particolarmente attrezzato
dal punto di vista relazionale ed emotivo.
Di fronte al morente due atteggiamenti sono spesso evocati e
realizzati da egli stesso: la lucidità depressiva che evidenzia la mancanza
di senso o la rimozione che nega la morte ed accantona tutti i suoi segni e
simboli. La prima necessita un coinvolgimento personale, un’elaborazione
del lutto, una ricerca del senso della morte derivato dal senso che si è
dato alla propria vita; la seconda da alla medicalizzazione ed al medico il
ruolo onnipotente ed ultimo.
La prima via è sicuramente la più difficile e percorsa fino in fondo
mette in discussione la solidità del legame con l’altro, con chi ci ama, con
chi amiamo. Ci costringe in un luogo degli affetti e dell’abbandono che è
indefinito, ma vero, doloroso e ricco, vago e sconosciuto. Gioia e
tenerezza si mutano in tristezza, nostalgia, malinconia e la paura di
perderci e perdere l’altro diventa inevitabile. Affiora la paura del tempo; il
tempo che scorre inesorabile, che è irreversibile, che non riporta il
desiderio, ma solo la futura assenza. Il malato terminale conosce
l’inevitabilità dell’amare e la difficoltà della consapevolezza, conosce la
mortificazione degli affetti che portano dentro l’uccisione della vita.
Ciò che differenzia l’incontro con il malato grave e con quello
terminale, è l’emergere nella fase di terminalità di desideri sconosciuti
prima.
Da una recente ricerca fatta dal CNR su “I fattori della coscienza di
malattia nel malato oncologico”, emerge che nella maggioranza dei casi
non si parla francamente al paziente e, quando avviene, è il medico a
farlo.
In quasi la totalità degli intervistati emerge la sensazione che il
comportamento del personale svii la consapevolezza della morte;
complementariamente la maggioranza dei medici è d’accordo nel rivelare
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la diagnosi dicendo che essa diviene un mezzo di facilitazione per
accettare la terapia, ma nel personale paramedico la percentuale
diminuisce. Non vi è omogeneità di comportamento nel personale medico
e paramedico all’interno dello stesso reparto. La maggioranza dei medici
afferma altresì che i criteri di rivelazione e comunicazione al paziente
variano dipendentemente da fattori come l’età, il sesso, la condizione
sociale e culturale; prevale nettamente il criterio dell’età. In termini
relazionali, le comunicazioni più dirette si fanno alla famiglia del malato.
Nella maggioranza delle risposte fornite dal campione analizzato, vi è
un’ammissione rispetto al fatto che nell’istituzione, nonostante vi sia
un’attenzione all’ascolto, vi è poca capacità di comprensione della
domanda del paziente, così, alla fine, nelle risposte non vi è chiarezza.
Quando il paziente non
conosce il suo stato, cerca conferme e
rassicurazioni in maniera indiretta; quando ne è cosciente si chiude in uno
stato di isolamento. Per il personale medico e paramedico è difficile che
una persona riesca ad accettare il suo stato di gravità che poi si trasforma
in terminalità, ma la maggioranza non riesce nemmeno a dare una
risposta, resta incerto. La maggioranza del personale è convinto che le
proprie esperienze personali non incidano sulla modalità di comunicazione
al paziente; si preferisce un paziente psicologicamente indipendente.
L’angoscia si rivela essere lo stato d’animo più comune fra il personale
che assiste malati gravi con menomazioni fisiche. Ci si dichiara d’accordo
sul fatto che il sopravvivere nella terminalità modifica le comunicazioni con
il paziente. La maggior parte degli operatori considera utile un’assistenza
psicologica del malato terminale e preferirebbe fosse attuata tramite un
intervento specialistico, ma non da parte degli operatori già esistenti.
Un’alta percentuale del personale dichiara di aver pensato al modo di
morire e si dichiara contraria al morire in ospedale. Nell’operare quotidiano
del personale molti hanno avuto esperienza di pazienti che volevano
morire, un numero elevato hanno testimoniato di pazienti che mettevano
in atto comportamenti autoeutanasici attivi e passivi. Nella maggioranza
degli operatori c’è il riconoscimento della modificazione dei processi
comunicativi con il paziente: la comunicazione diventa più involuta, chiusa
e difensiva.
Questi dati ci inducono a delle riflessioni inquietanti, soprattutto sui
fabbisogni formativi e psicologici degli operatori e sui fabbisogni emotivocomunicazionali del paziente.
Un ultimo aspetto riguarda i desideri che nascono nel paziente nella
fase di terminalità e che caratterizzano la fine del suo percorso
esistenziale. Il malato terminale esprime:
1. Il bisogno di sapere;
2. Il bisogno di non sapere;
3. Il bisogno di capire;
4. Il desiderio di morire dignitosamente;
5. Il desiderio di morire eroicamente;
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6. Il desiderio di morire dopo che la vita ha esaurito tutte le sue
potenzialità;
7. Il desiderio di una bella morte;
8. Il desiderio di eutanasia ed auto-eutanasia;
9. Il desiderio d’immortalità;
10. Il desiderio d’essere padroni di sé fino alla fine.
Tutti questi desideri si riassumono in quello che Rimbault sottolinea
come i tre aspetti fondamentali del processo di morte: la minaccia di
rottura dei legami sia con le attività investite che non possono più essere
svolte, sia con le persone amate ed in cui ci si identifica; la riattivazione
d’angosce arcaiche legate alle pulsioni distruttrici con conseguente senso
di colpevolezza; la perdita di un momento importante per il soggetto, cioè
l’illusione di una vita senza limite. L’aspetto catastrofico della morte è
legato a quest’ultimo aspetto e comporta generalmente una soluzione
regressiva, come la definisce Berger, caratterizzata da pesanti richieste
d’aiuto, a manifestazioni di risentimento nei confronti dei medici e
paramedici che hanno fallito, d’invidia nei confronti di chi vive, ma anche
di fenomeni trasferenziali nei confronti del personale curante buono ed
onnipotente.
E mi viene alla mente la definizione di morte di Fernando Pessoa, uno
dei più geniali letterati del novecento: “La morte è la curva della strada,
morire è solo non essere visto.”
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