Benvenute in Italia - Femminile al Plurale
Transcript
Benvenute in Italia - Femminile al Plurale
RIVISTA ANNUALE DI CINEMA ITALIANO «QUADERNI DEL CSCI» 2012/8 dossier monografico ITALY IN&OUT MIGRAZIONI NEL/DEL CINEMA ITALIANO a cura di Vito Zagarrio Maria Coletti Benvenute in Italia. Donne migranti e G2 in cerca d’autore Cronologia: viaggio in una terra ferma Le statistiche Istat sui cittadini non comunitari regolarmente soggiornanti in Italia al 1º gennaio 2012 indicano che le donne rappresentano la metà circa delle presenze. Proporzioni che ritroviamo anche nei film: sui 95 lungometraggi di finzione dal 1980 ad oggi presi in esame, 42, ovvero quasi la metà, hanno donne migranti come protagoniste. La quantità non vuol dire però qualità: è facile individuare nei film italiani di migrazione, fin dagli inizi, ricorrenti stereotipi e modalità di presentazione del personaggio femminile migrante che ne limitano le potenzialità espressive, riducendolo spesso alla figura della vittima da salvare o, al contrario, allo specchio delle nostre stesse fobie. Áine O’Healy ha recentemente affrontato proprio la questione del femminile nel cinema italiano di migrazione e conclude la sua analisi mettendo a confronto la ricorrente fascinazione per le immagini di donne straniere vulnerabili o ferite con le immagini – e l’attuale presenza – di donne italiane forti e piene di risorse nel panorama sociale post-femminista: i racconti sulla migrazione femminile servirebbero così a compensare l’inconscio maschile, che troverebbe sfogo nei meccanismi sadici del dispositivo cinematografico.1 E forse non solo nel dispositivo cinematografico, visto l’allarmante aumento di casi di femminicidio in Italia. Ma questa è un’altra storia. Ripercorrere le immagini delle donne migranti nei film ci aiuta ad orientarci nel panorama sociale e antropologico italiano – come quei “Voi siete qui” sui cartelli delle metropolitane – per poi farci chiedere se si possa parlare di una evoluzione o, piuttosto, di uno stallo. Nel 1980 Un’altra donna di Peter Del Monte, capostipite del genere ma spesso dimenticato, riesce nel delicato compito di unire rivendicazioni femministe, memorie coloniali e condizione migrante attraverso una singolare storia di amicizia e complicità femminile. Nel 1993 Un’anima divisa in due di Silvio Soldini affronta con un disperato road-movie e una storia d’amore impossibile con un 1 Áine O’Healy, Border Traffic: Reimagining the Voyage to Italy,in Katarzyna Marciniak, Anikó Imre, Áine O’Healy (ed.), Transnational Feminism in Film and Media, Palgrave Macmillan, New York 2007, p. 51. gagè l’eterna condizione sospesa dei rom italiani. Nel 1997, dopo le prime immigrazioni di massa in Italia in seguito al crollo del blocco comunista e ad un passo dalla Legge Turco-Napolitano che avrebbe istituito i Centri di Permanenza Temporanea, è Terra di mezzo di Matteo Garrone a risvegliarci per un momento dal torpore, a farci scoprire persone dimenticate, sommerse, ai margini delle nostre vite e che pure ne sono sempre più spesso al centro, sulle nostre strade (come le prostitute africane). Un decennio dopo, nel 2008, ecco Mar Nero di Federico Bondi: ancora una volta due donne a confrontarsi nel clima della Legge Bossi-Fini e della schizofrenica realtà di un Paese sempre più razzista che rinchiude i clandestini nei Centri di Identificazione e di Esplusione e però ha bisogno degli aiuti domestici e familiari, e conia il termine, ormai di uso comune, di ‘badante’. Infine eccoci al 2011 con Terraferma di Emanuele Crialese: l’emergenza è quella degli sbarchi sulle nostre coste, dei profughi costretti a superare il deserto, le carceri libiche e il Mediterraneo per una speranza di vita migliore, ma nell’isola sull’isola in cui si trovano a loro modo intrappolate due donne (un’italiana e una africana) cogliamo tutto il senso del film e il peso di una esistenza stagnante da cui si può fuggire solo sognando, ancora una volta, il mare aperto e poi, forse, una terraferma su cui posare i piedi. Stereotipi, generi e nuove visioni In più della metà dei film di migrazione con protagoniste femminili, le donne sono prostitute (13) o collaboratrici domestiche (11), ma non è solo questione di numeri: anche in molti altri film la donna immigrata è presente innanzitutto come corpo, come una sorta di Venere esotica da ammirare o da abusare, oppure come aiuto domestico, presenza rassicurante tra le mura di casa e fuori, in ogni caso al proprio servizio. Anche quando la controparte italiana è rappresentata da una donna e non ha connotazioni erotiche, la sua presenza ha essenzialmente la funzione di deus ex machina. Molti film dagli anni ’90 a oggi rientrano in questa categoria (fatte salve ovviamente le diversità di genere, di stile, di sguardo dei registi): da Un’altra vita (1992) di Carlo Mazzacurati a Portami via (1994) di Gianluca Maria Tavarelli; da Cominciò tutto per caso (1992) di Umberto Marino a L’uomo giusto (2007) di Toni Trupia; da Princesa (2001) di Henrique Goldman a La doppia ora (2009) di Giuseppe Capotondi. Come sottolinea O’Healy, “la protagonista femminile intraprende un difficile processo di sfasamento e di scoperta e ogni volta il suo pericoloso viaggio viene reso possibile, almeno in parte, da un maschio italiano, il cui intervento può rivelarsi benevolo, futile o semplicemente distruttivo”2. Un tratto comune alla maggior parte di questi film è l’ambiguità del personaggio femminile, mostrato come vittima innocente e insieme come invitante oggetto erotico che in qualche modo è complice della sua vittimizzazione. Il caso forse più emblematico rimane quello di Vesna va veloce (1996) di Carlo Mazzacurati, il primo film in cui la protagonista è una prostituta dell’Est. Il regista costruisce un personaggio di donna forte e decisa che rimane impressa nella mente dello spettatore ma il cui destino di sconfitta è, nello stesso tempo, segnato fin dal principio: se l’unica strada per raggiungere la tanto agognata libertà sembra dover passare attraverso il sesso a pagamento, l’unica via di fuga finisce per essere inesorabilmente la morte, reale o simbolica che sia. Dieci anni più tardi Giuseppe Tornatore, con La sconosciuta (2006), gioca apertamente con gli stereotipi e costruisce nello stesso tempo un thriller e una riflessione metalinguistica sulla rappresentazione del corpo femminile della straniera, mettendo in questione il punto di vista morale dello spettatore, ma 2 Ibid., p. 41 (traduzione mia). senza essere didattico, come sottolinea Vetri Janak Nathan.3 Il film mette in risalto una doppia minaccia: quella diegetica provata dalla protagonista, che cerca di fare i conti con i traumi del proprio passato, e quella extradiegetica sottilmente percepita dallo spettatore, che non può non essere turbato dall’attaccamento ossessivo della straniera alla famiglia italiana. Allo stesso modo, “lo spettatore è messo nella scomoda posizione di chi è commosso dalla disumanizzazione e dalla sofferenza del corpo di Irena/Ksenia e nel contempo prende parte attiva a quello stesso processo”4. Un altro luogo comune è quello della relazione amorosa di un italiano con una straniera: in alcuni casi la storia d’amore interrazziale – e la sua (im)possibilità – diventa il centro della costruzione narrativa. Se L’assedio (1999) di Bernardo Bertolucci rispecchia le personali ossessioni del regista e insieme rivela – soprattutto per l’ambientazione internazionale: un inglese e una “africana” nella cornice cinematografica di Piazza di Spagna – un substrato di immaginario (post)coloniale, in Sud Side Stori (2000) di Roberta Torre e Bianco e nero (2007) di Cristina Comencini i generi (il musical e la commedia) dovrebbero servire a mettere in discussione gli stereotipi razziali dominanti. Anche se, come sottolinea O’Healy, 5 rimane una ambiguità di fondo nella costruzione narrativa del personaggio femminile, refrattario ad essere incasellato in un qualsivoglia genere (le nigeriane a Palermo raccontate dalla Torre) o al contrario annullato in una somiglianza di fondo con la controparte italiana (la borghese romana e la borghese senegalese della Comencini). Un interessante saggio di Derek Duncan evidenzia inoltre come le relazioni sessuali e affettive tra migranti e italiani mostrate nel cinema italiano siano in genere sterili, a parte l’eccezione, per quanto ci riguarda, di La sconosciuta, in cui le gravidanze indotte fanno parte della violenza e della schiavitù sessuale subite dalla protagonista, che acquista così un forte valore produttivo e insieme riproduttivo.6 Un discorso a parte meritano alcuni film in cui il personaggio di donna migrante sfugge a ogni tentativo di classificazione perché assorbito in un più ampio e personalissimo percorso autorale di ricerca stilistica ed esistenziale, dai film erratici di Corso Salani (Gli occhi stanchi, 1996; Occidente, 2000) alla più recente e astratta opera dei fratelli De Serio (Sette opere di misericordia, 2011). In Come l’ombra (2006) di Marina Spada gli spazi grigi e anonimi della città, come le superfici pulite e altrettanto anonime dello spazio domestico con la loro ingombrante presenza, diventano il luogo deputato di un non-incontro, in cui, come recita il titolo ispirato a una poesia russa, la donna migrante non è che lo specchio, l’altra faccia della protagonista italiana. Un’ombra che chiede di essere dimenticata. Questa poetica del confine, del doppio, ritorna in maniera più direttamente politica, ma non meno lirica, in Civico 0 (2008) di Citto Maselli, in cui tre storie vere, ai margini della città, vengono messe in scena e rivissute da tre attori dopo averle ascoltate dalla viva voce dei protagonisti: l’odissea senza fine dell’etiope Stella e della sua famiglia, la solitudine della romena Nina segregata in casa come badante e i vagabondaggi dell’italiano Giuliano, divenuto senza fissa dimora dopo un lutto e uno sfratto. Gli “altri”, in questo caso, sono gli immigrati ma anche gli italiani, entrambi resi invisibili e marginalizzati dalla povertà.7 3 Vetri Janak Nathan, Nuovo cinema inferno: The affect of ambivalence in Giuseppe Tornatore’s La Sconosciuta, in Grace Russo Bullaro (ed.), From Terrone to Extracomunitario. New Manifestations of Racism in Contemporary Italian Cinema, Troubador Publishing, Leicester 2010, p. 267. 4 Ibid., p. 276 (traduzione mia). 5 Áine O’Healy, “[Non] è una somala”: Deconstructing African femininity in Italian film, «The Italianist», 29, 2009, pp. 175-198. 6 Derek Duncan, “Loving Geographies”: queering straight migration to Italy, «New Cinemas: Journal of Contemporary Film», 3, 2008, p. 169. 7 “Insieme, l’italiano povero e l’immigrato rendono visibili la dissonanza e la frammentazione esistenti nella società italiana, così come la natura fluida e instabile dell’identità nazionale” (Luciana Ciavola, The “other” images of immigrants and Italians in contemporary Italian cinema: Civico 0 and Cover Boy, in Grace Russo Bullaro (ed.), op. cit., p. 282, traduzione mia). Le seconde generazioni e la rivoluzione del documentario Come abbiamo accennato, le straniere in Italia non sono solo le immigrate ma anche le giovani donne o le bambine arrivate da piccole in Italia o addirittura nate qui e ancora considerate migranti da regolarizzare una volta raggiunta la maggiore età. Nonostante l’evidenza di un’identità nazionale sempre più ampia e fluida le cosiddette seconde generazioni sono poco presenti nella finzione cinematografica. Se ancora siamo lontani dal poter parlare di un accented cinema anche in Italia,8 sono soprattutto i documentari a narrare la generazione G2. Dei 26 documentari presi in esame dal 2006 ad oggi ben 15 hanno al centro figure femminili. Un ruolo importante di sensibilizzazione è stato innanzitutto svolto da alcuni documentari sulla scuola italiana come luogo di sperimentazione interculturale, da Sei del mondo (2007) di Camilla Ruggiero a Fratelli d’Italia (2009) di Claudio Giovannesi, da Sotto il Celio Azzurro (2009) di Edoardo Winspeare a Una scuola italiana (2010) di Giulio Cederna e Angelo Loy. Tutto al femminile, e per questo più unico che raro, è il caso di Laura Halilovic che in Io, la mia famiglia Rom e Woody Allen (2009) racconta in prima persona – e proprio in quanto donna, rom e adolescente – le difficoltà insite nella ricerca della propria identità, fra i ricordi di famiglia e le complesse relazioni con i gagè, in un quartiere popolare alla periferia di Torino dove vive cercando di superare insieme i pregiudizi e le tradizioni. Un vero e proprio caso mediatico è poi quello sollevato dall’infaticabile Fred Kudjo Kuwornu in 18 Ius Soli (2011): 18 storie di ragazze e ragazzi nati e cresciuti in Italia da genitori stranieri. Kuwornu ha costruito un pamphlet sulla necessità di una nuova legge sulla cittadinanza in Italia, con cui sta girando l’Italia (e il mondo) in lungo e in largo per generare dal basso una campagna sociale di cambiamento. Perché il nostro domani inizia da oggi. In Alysia nel paese delle meraviglie (2010) di Simone Amendola, a Cinquina, alla periferia di Roma, una giovanissima coppia mista (lui di origine capoverdiana, lei italiana) ha appena avuto una bambina e si interroga sul suo futuro. Anche le due donne di Magari le cose cambiano (2009) di Andrea Segre, ambientato a Ponte di Nona, si interrogano sul proprio futuro e insieme ci danno una lucida radiografia del presente (e del nostro passato): le assurde scelte urbanistiche rivelano la gerarchia insensata del potere e la necessità, per la “romana de Roma” come per la giovane di seconda generazione, di vedersi riconosciute identità e dignità di cittadine. Io sono qui: lo sguardo al centro della periferia Rari sono i film di finzione con protagoniste donne migranti in cui il punto di vista è quello di due stranieri.9 Due interessanti, ancorché imperfetti, titoli sono accomunati dall’essere rimasti a lungo 8 Con il termine accented cinema, coniato dal teorico postcoloniale Hamid Naficy, si fa riferimento ai cineasti diasporici, che vivono e producono i propri film in paesi diversi da quelli di origine. Purtroppo praticamente nessuna donna migrante è passata finora dietro la macchina da presa. L’unica eccezione, speriamo di buon auspicio, è quella della rifugiata curda Hevi Dilara, che firma uno dei cinque episodi del documentario collettivo Benvenuti in italia (2012), prodotto dall’Archivio delle Memorie Migranti. 9 Il primo film di finzione a mostrarci l’Italia totalmente dal punto di vista di due migranti è Elvjis & Merilijn (1997) di Armando Manni, in cui due sosia dei grandi divi del titolo (bulgaro lui, rumena lei) cercano il successo nella “dolce vita” della costiera romagnola ma finiscono vittime di un sottobosco senza scrupoli. Una singolare e più recente eccezione, anche perché si tratta di una docufiction ambientata per lo più in Marocco, è quella rappresentata da Corazones de mujer (2008), in cui due italo-marocchine, una giovane di seconda generazione e una transessuale, fanno i conti con il proprio passato e prendono in mano il proprio futuro in un viaggio on the road da Torino a Casablanca. I due registi Pablo Benedetti e Davide Sordella, che si firmano con lo pseudonimo di Kiff Kosoof, riescono a superare ogni possibile etichetta e a riflettere in maniera ironica e insieme poetica sull’idea stessa del femminile e sui confini sempre più labili dell’identità culturale e sessuale. invisibili: L’appartamento (1997) di Francesca Pirani e La straniera (2009) di Marco Turco.10 Nel primo caso, Lejila, una donna delle pulizie bosniaca scappata dalla guerra nella ex Yugoslavia, ritrova la propria identità e la speranza di un futuro meno alienato grazie all’incontro con Mahmud, un immigrato egiziano che lavora in una pizzeria e che, nonostante sia costretto a vivere alla giornata, decide di “rapire” da un istituto religioso sua figlia, avuta da una donna italiana e poi da lei data in adozione. Mahmud finisce per essere arrestato, ma la sua dolcezza e la sua voglia di vivere contagiano Leijla, rimasta sola con la neonata: è lei a raccogliere il testimone di Mahmud e una sorta di possibile nuova famiglia si delinea con timidezza, all’interno di uno spazio italiano claustrofobico e minaccioso. Con La straniera Turco costruisce una storia romantica che racconta l’amore ai tempi dei CIE e che convince grazie alla splendida resa attorale degli interpreti, il tunisino Ahmed Hafiene e la olandese di origine marocchina Kaltoum Boufangacha. Nel film, l’architetto maghrebino Naghib, ormai torinese d’adozione, e la marocchina Amina, immigrata clandestinamente e finita nel giro della prostituzione per necessità, si incontrano e si innamorano. Ma gli stereotipi e i pregiudizi sono difficili da superare, anche fra due stranieri, soprattutto quando in gioco è il corpo femminile. Naghib finisce per ferire e disprezzare Amina, al pari dei tanti uomini italiani e marocchini, ma proprio quando sta per perderla riesce a riabbracciarla, tra le reti metalliche di un campo di detenzione ed espulsione. L’incontro delicato e poetico di due solitudini è invece quello narrato in Io sono Li (2011) di Andrea Segre, uno degli esordi italiani più belli e convincenti degli ultimi anni. Il film, dopo un breve prologo romano, è ambientato a Chioggia, una piccola città-isola della laguna veneta, ed è in questo luogo sospeso e dominato dall’acqua che i due protagonisti si incontrano: la cinese Shun Li (Zhao Tao), che lavora in un bar per poter far arrivare in Italia anche suo figlio, e lo slavo Bepi (Rade Sherbedgia), ormai veneto d’adozione e ribattezzato dagli amici pescatori “il Poeta” per la sua abilità nel comporre rime all’impronta. Segre riesce magistralmente a unire locale e globale, mescolando il cinese con il veneto e utilizzando un linguaggio universale che è quello della poesia. In questo film la migrante non è una vittima e non è di passaggio: è una donna consapevole, una madre che sa aspettare, ed è qui per restare. Semplicemente è una persona che sa andare al cuore delle cose, che si perde nei paesaggi e nei dettagli, nell’incontro con l’Altro, che non si ferma di fronte all’apparenza e che trova la forza della propria identità anche nell’essere un po’ sospesa, fra due mondi, come l’acqua di Chioggia che è mare e insieme laguna, ferma e in movimento. Come dovrebbe essere sempre il cinema. Come dovremmo essere sempre noi, spettatori, se vogliamo restare umani. Lo sguardo libero e partecipe di Shun Li è carico di futuro: nei suoi occhi ci sono le mille donne, le mille storie che attendono di essere narrate da occhi altrettanto liberi e partecipi. 10 Nato per la televisione, prodotto dalla Rai e da Marco Bellocchio – all’interno di una serie di quattro film sul tema dell’immigrazione in Italia: “Un altro paese nei miei occhi” – L’appartamento è il primo lungometraggio di Francesca Pirani e non è mai stato distribuito, finché non è stato finalmente editato in home video dieci anni dopo da Cecchi Gori Home Video, nel 2008. Girato tra il 2005 e il 2009, dopo quattro anni di tormentata lavorazione e dopo l’anteprima al Torino Film Festival, La straniera di Marco Turco, libero adattamento dell’omonimo romanzo di Younis Tawfik, non ha trovato distribuzione in sala, ma è stato editato solo in home video, e poi finalmente è stato trasmesso in prima visione su Rai Uno il 6 luglio 2012.