FONTE Fanon - La violenza contrapposta di coloni e

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FONTE Fanon - La violenza contrapposta di coloni e
FONTE
Fanon - La violenza contrapposta di coloni
e di colonizzati.
Una forte critica alla società capitalistica venne negli anni sessanta da
Frantz Fanon, medico e scrittore nato in Martinica - allora sotto la
dominazione francese - ma a lungo residente in Algeria. Fanon mostra
nel suo libro I dannati della terra (1961) quale fosse il compito
rivoluzionario dell'intellettuale nativo di un paese colonizzato, che
volesse stare realmente dalla parte del suo popolo. Questi passi
presentano il rapporto di contrapposizione tra la città dei colonizzati e
quella dei colonizzatori. Il colonialismo ha seminato violenza e
violenza raccoglierà: il colonizzato aspetta solo l'occasione propizia
per vendicarsi dei torti subìti.
Il mondo coloniale è un mondo scisso in due. Lo spartiacque, il confine è indicato dalle caserme e
dai commissariati di polizia. In colonia l'interlocutore valido e istituzionale, il portavoce del colono
e del regime di oppressione è il gendarme o il soldato. [...].
La città del colono è una città di cemento, tutta di pietra e di ferro. È una città illuminata, asfaltata,
in cui i secchi della spazzatura traboccano sempre di avanzi sconosciuti, mai visti, nemmeno
sognati. I piedi del colono non si scorgono mai, tranne forse in mare, ma non si è mai abbastanza
vicini. Piedi protetti da calzature robuste mentre le strade della loro città sono linde, lisce, senza
buche, senza ciottoli. La città del colono è una città ben pasciuta, pigra, il suo ventre è pieno di cose
buone in permanenza. La città del colono è una città di bianchi, di stranieri.
La città del colonizzato, o almeno la città indigena, il quartiere negro, la medina, la riserva, è un
luogo malfamato, popolato di uomini malfamati. Vi si nasce in qualunque posto, in qualunque
modo. Vi si muore in qualunque posto, in qualunque cosa. È un mondo senza interstizi, gli uomini
si stanno ammonticchiati, le capanne ammonticchiate. La città del colonizzato è una città affamata,
affamata di pane, di carne, di scarpe, di carbone, di luce. La città del colonizzato è una città
accovacciata, una città in ginocchio, una città a testa in giù. È una città di sporchi negri, di luridi
arabi. Lo sguardo che il colonizzato getta sulla città del colono è uno sguardo di lussuria, uno
sguardo di bramosia. Sogni di possesso. [...] Non c'è colonizzato che non sogni almeno una volta al
giorno di impiantarsi al posto del colono.
Ecco il mondo coloniale. L'indigeno è un essere chiuso in un recinto, l'apartheid non è che una
modalità della divisione in scomparti del mondo coloniale. La prima cosa che l'indigeno impara è a
stare al suo posto a non oltrepassare i limiti. Perciò i sogni dell'indigeno sono sogni muscolari,
sogni di azione, sogni aggressivi [...] Di fronte all'assetto coloniale il colonizzato si trova in uno
stato di tensione continua. Il mondo del colono è un mondo ostile [...] Di fronte al mondo sistemato
dal colonialista, il colonizzato è sempre supposto colpevole, una specie di maledizione, una spada di
Damocle. È dominato, ma non addomesticato: È inferiorizzato, ma non convinto della.sua
inferiorità. Aspetta pazientemente che il colono allenti la sua vigilanza per saltargli addosso. In
effetti è sempre pronto ad abbandonare il suo ruolo di preda per assumere quello di cacciatore. Il
colonizzato è un perseguitato che sogna continuamente di diventare persecutore.
(Frantz Fanon, I dannati della terra, trad. it. di C. Cignetti, Einaudi, 1962)
FONTE
Fanon - L'intellettuale colonizzato.
Fortemente antieuropeo e antiamericano, anche se occidentale è la
cultura di cui è imbevuto, l'intellettuale di Fanon si mette alla ricerca
delle proprie radici. Egli le ritrova nel momento in cui elabora, per la
propria nazione, progetti di lotta, di liberazione, di rinascita, di
riscoperta delle proprie peculiarità. Questo contatto con la gente alla
quale appartiene è la fonte e lo scopo della sua azione di intellettuale
"impegnato". Il suo obiettivo però non è perdersi nel popolo, ovvero
fare del populismo: dopo aver assimilato la cultura europea (prima
fase) e dopo aver ritrovato la cultura del suo popolo (seconda fase),
deve far sollevare il suo popolo per ottenere la liberazione nazionale
(terza fase).
Il fatto si è che l'intellettuale colonizzato si è buttato con avidità nella cultura occidentale. Simile ai
figli adottivi, che non smettono le indagini del nuovo quadro familiare se non al momento in cui si
cristallizza nella loro psiche un nucleo minimo di sicurezza, l'intellettuale colonizzato tenterà di far
sua la cultura europea. Non si accontenterà di conoscere Rabelais o Diderot, Shakespeare o Edgar
Poe, tenderà il suo cervello fino alla più estrema complicità con quegli uomini. [...]
Ma nel momento in cui i partiti nazionalisti mobilitano il popolo in nome dell'indipendenza
nazionale, l'intellettuale colonizzato può talvolta cacciar col piede quelle cose acquisite che risente
ad un tratto come alienanti. Ma è più facile proclamare che si caccia via che non cacciar via
realmente. Quell'intellettuale che, pel tramite della cultura, si era infiltrato nella civiltà occidentale,
che era giunto a far corpo, vale a dire a cambiare di corpo, con la civiltà europea si accorgerà che la
matrice culturale che egli vorrebbe assumere per desiderio di originalità, non gli offre certo le figure
rappresentative capaci di reggere al confronto con quelle numerose e fascinose della civiltà
dell'occupante. La storia, scritta d'altronde da occidentali e rivolta ad occidentali, potrà
saltuariamente valorizzare certi problemi del passato africano. Ma, dritto dinanzi al presente del suo
paese, osservando con lucidità, "obiettivamente", l'attualità del continente che vorrebbe far suo,
l'intellettuale è sbigottito dal vuoto, l'abbrutimento, la ferocia. ora, egli sente che gli occorre uscire
da quella cultura bianca, che gli occorre cercar altrove, da qualunque parte, e non trovando un
alimento culturale all'altezza del panorama glorioso spiegato dal dominatore, l'intellettuale
colonizzato molto spesso rifluirà su posizioni passionali e svilupperà una psicologia dominata da
una sensibilità, una sensitività, una suscettibilità eccezionali. Questo movimento di ripiego che
procede dapprima da una petizione di principio, nel suo meccanismo interno e nella sua fisionomia
evoca soprattutto un riflesso, una contrazione muscolare. [...]
L'intellettuale colonizzato decide di procedere all'inventario delle cattive maniere attinte al mondo
coloniale e si affretta a ricordarsi le buone maniere del popolo, di quel popolo di cui si è deciso che
detenesse tutta la verità. Lo scandalo che questo modo di fare suscita nei ranghi dei colonialisti
impiantati sul territorio rafforza la decisione del colonizzato. Quando i colonialisti, che avevano
assaporato la vittoria su questi assimilati, si rendono conto che questi uomini che essi credevano
salvati cominciano a dissolversi nella negraglia, tutto il sistema vacilla.
Ogni colonizzato cattivato, ogni colonizzato che era passato a confessare, quando decide di perdersi
è non soltanto uno smacco per l'impresa coloniale, ma simboleggia per giunta l'inutilità e la
mancanza di profondità dell'opera compiuta. Ogni colonizzato che varca nuovamente la linea, è una
condanna radicale del metodo e del regime, e l'intellettuale colonizzato trova nello scandalo da lui
provocato giustificazione alla sua missione e incoraggiamento a perseverare.
Se volessimo ritrovare, attraverso le opere di scrittori colonizzati, le diverse fasi che caratterizzano
quest'evoluzione, vedremmo profilarsi davanti agi occhi un panorama in tre tempi. In una prima
fase, l'intellettuale colonizzato dimostra che ha assimilato la cultura dell'occupante. Le sue opere
corrispondono punto per punto a quelle dei suoi omologhi metropolitani. L'ispirazione è europea e
si possono facilmente riallacciare quelle opere a una corrente ben definita della letteratura
metropolitana. È il periodo assimilazionistico integrale. Si troveranno, in questa letteratura di
colonizzati, parnassiani, simbolisti, surrealisti.
In un secondo tempo il colonizzato è scosso e decide di ricordarsi. Questo periodo di creazione
corrisponde approssimativamente al rituffarsi che abbiamo or ora descritto. Ma siccome il
colonizzato non è inserito nel suo popolo, siccome mantiene relazioni d'esteriorità col suo popolo, si
accontenta di ricordare. Vecchi episodi d'infanzia saranno portati su dal fondo della memoria,
vecchie leggende saranno reinterpretate in funzione d'una estetica d'accatto e d'una concezione del
mondo scoperta sotto altri cieli. Alle volte questa letteratura di pre-lotta sarà dominata dall'humour
e dall'allegria. Periodo d'angoscia, (di disagio, esperienza della morte, esperienza anche della
nausea. Ci si rigetta, ma già, dal di sotto, principia il riso.
Finalmente, in un terzo periodo, detto di lotta, il colonizzato, dopo aver tentato di perdersi nel
popolo, di perdersi col popolo, scuoterà invece il popolo. Invece di privilegiare la letargia dei
popolo, si trasforma in un ridestatore di popolo. Letteratura di lotta, letteratura rivoluzionaria,
letteratura nazionale. Nel corso di questa fase un gran numero d'uomini e di donne che per l'addietro
non avrebbero mai pensato di fare opera letteraria, ora che si trovano collocati in situazioni
eccezionali, in prigione, alla macchia o alla vigilia dell'esecuzione, sentono la necessità di dire la
nazione, di comporre la frase che esprime il popolo, di farsi portavoce di una nuova realtà in atto.
(Frantz Fanon, I dannati della terra, trad. it. di C. Cignetti, Einaudi, 1962)