opuscolo interazioni

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opuscolo interazioni
Non crediamo in niente
Molto amati anche dai cinefili più esigenti, pur appartenendo nei fatti al sistema hollywoodiano, Joel e Ethan Coen
sono riusciti, in trent’anni di carriera, a distinguersi per
talento, creatività, versatilità.
Una carriera di successo, stilisticamente al passo coi tempi: se si
pensa che hanno collaborato con il Sam Raimi de La casa e che
Mister Hula Hoop è stato prodotto da Joel Silver, si deduce che il
loro cinema si sviluppa negli anni Ottanta del postmoderno e ne
ha molte caratteristiche, dal disimpegno ludico alla disinvoltura
nell’affrontare i generi con ironia, disincanto e gusto del nonsense, senza la nostalgia che caratterizzava la generazione precedente, quella della New Hollywood. I Coen si cimentano in maniera
originale con l’ormai defunto western (Il Grinta), con il film di
gangster (Crocevia della morte), con il neo-noir (Blood Simple,
L’uomo che non c’era), con il poliziesco (Fargo). Ma, nella tradizione dei grandi umoristi ebraici, primeggiano nella commedia (Il
grande Lebowski innanzitutto, ma anche Arizona Junior, Burn
After Reading e l’ingiustamente bistrattato Ladykillers), dove
perdono finalmente quella freddezza da primi della classe che fa
perdere vitalità e passione ai loro film.
Con Quentin Tarantino hanno in comune l’ottimo gusto nello
scegliere i brani delle colonne sonore, ma, a differenza di Tarantino, i maniacali Coen non mescolano disordinatamente canzoni di
varie epoche. Ogni loro film, invece, è una perfetta ricostruzione
d’epoca, un viaggio nella storia statunitense, anche musicalmente.
Il rock del Grande Lebowski e di A Serious Man, il country di
Fratello, dove sei?, la musica colta ne L’uomo che non c’era, la
musica nera in Ladykillers, fino al folk dell’ultimo A proposito di
Davis.
Un altro dei meriti dei Coen è il gran lavoro sugli attori. Non vale
la pena di ricordare tutte le grandi interpretazioni dei protagonisti
dei loro film, ma di sottolineare come a fare la differenza siano
soprattutto i caratteristi, anche sconosciuti, scelti per le piccole
parti, scritte con la stessa attenzione e acutezza, nei dialoghi arguti
quanto nei comportamenti. Una precisione necessaria a rendere
credibili universi da cartone animato, deformati anche visivamente (si pensi all’utilizzo frequente delle lenti grandangolari), che
seguono, anche negli sviluppi narrativi, geometrie alternative alla
linearità delle storie di formazione del cinema americano. Nei
film dei Coen, infatti, sono il cerchio di Mister Hula Hoop e
l’imprevedibile palla da bowling de Il Grande Lebowski il simbolo dell’andare a vuoto dei personaggi e della mancanza di senso
dell’esistenza, della crisi del soggetto e dell’individuo. Per citare
Bruno Fornara, “non ci si chiede più chi è mai il soggetto ma che
cosa è: e, a guardarlo, ci si accorge che la cosa che è è corpo,
mente, macchina, stupidità e opacità”. “Una soggettività che non
sa più essere «attore» della propria storia, un’umanità che ha perso l’attitudine ad agire in maniera cosciente e responsabile, in
linea con quella «stupidità» costitutiva che attraversa tanto cinema
americano di questi anni, da Tarantino a Forrest Gump”, scrive Michele Fadda. C’era proprio bisogno
dell’intelligenza così spietata di Joel e Ethan Coen per far arrivare una dose di salutare pessimismo al
pubblico ben poco riflessivo del cinema contemporaneo.
Francesco Grieco, Mediacritica.it
LA CONDIZIONE POSTMODERNA
di Stefano Scrima
«“Postmoderna” [è] l’incredulità nei confronti delle metanarrazioni» (p. 6) nelle quali la cultura occidentale si è contemplata fino alla metà del Novecento, al termine della “ricostruzione” europea. Allo
scadere del XIX secolo il profumo della crisi minacciò gli aneliti monopolistici delle grandi narrazioni
dominanti – Illuminismo, Idealismo e Marxismo –, smarriti e consunti nella ricerca d’un senso esclusivo della realtà. Le regole dei giochi di scienza, arte e letteratura vennero trasformate da nuove tecnologie influendo sulla natura stessa del sapere. È la fine della modernità, del suo amore per la filosofia
della storia; ma è anche un’apertura alla differenza e alla tolleranza dell’incommensurabile.
L’instabilità e pluralità del sapere, dei differenti linguaggi che lo caratterizzano, sono il segno distintivo della nostra era, quella che Lyotard battezzò con l’aggettivo – d’origine architettonica – postmoderna.
La Condition postmoderne (1979) è – come indicato dal sottotitolo – un rapporto sul sapere, sulla sua
condizione attuale; una ricerca sociologica impegnata a ridefinire lo statuto del sapere dell’Occidente.
«È ragionevole pensare che la moltiplicazione delle macchine per il trattamento delle informazioni
investe ed investirà la circolazione delle conoscenze così com’è avvenuto con lo sviluppo dei mezzi di
circolazione delle persone prima (trasporti), e di quelli dei suoni e delle immagini poi (media).» (p. 11)
Il riferimento è qui alla rivoluzione informatica che già al tempo di Lyotard dimostrò le sue straordinarie potenzialità. L’“egemonia dell’informatica”, tecnologia impostasi come il mezzo più efficace per lo
scambio dell’informazione, provoca una «radicale esteriorizzazione del sapere rispetto al “sapiente”».
(ibid.)
Sapere e formazione personale perdono il loro antico unisono all’insegna d’una graduale conformazione del primo al rapporto merce/produttore-consumatore: il sapere esteriorizzato, sempre disponibile,
diventa una merce di scambio. Diventa così la principale “forza produttiva”, contesa dalle maggiori
potenze mondiali, in grado di garantire il progresso economico-sociale. Ma chi legittima il sapere? Chi
fornisce le condizioni che assicurano l’appartenenza d’un enunciato al discorso scientifico
(dimensione dominante del sapere occidentale)?
Lyotard denota come «la questione del sapere nell’era dell’informatica [sia] più che mai la questione
del governo» (p. 20). È quest’ultimo – il potere – che decide cos’è il sapere e che sa cosa conviene
decidere. L’accento è dunque posto da Lyotard su quei “giochi linguistici” (già analizzati da Wittgenstein) che stanno alla base del metodo scientifico e di tutta la realtà sociale – quei “giochi” che, manipolati, orientano la vita delle società. Definiamoli:
«le regole non contengono la loro legittimazione, ma [...] sono oggetto di un contratto più o meno
esplicito fra i giocatori» (p. 23);
«non esiste gioco senza regole» (ibid.);
«ogni enunciato dev’essere considerato come una “mossa” fatta nell’ambito di un gioco.» (ibid.)
Se ne deduce che «parlare è combattere, nel senso di giocare, e gli atti linguistici dipendono da una
agonistica generale.» (ibid.) Tutto il lavoro del sapere postmoderno si impernia sul “gioco linguistico”,
anche il problema del legame sociale è un “gioco linguistico”: «per comprendere [...] i rapporti sociali
[...] non basta una teoria della comunicazione, ci vuole una teoria dei giochi, che includa l’agonistica
fra i suoi presupposti.» (p. 35)
Un’istituzione (scuola, università ecc.) e una discussione tra amici differiscono tra loro per le diverse
condizioni d’ammissibilità degli enunciati: la prima, rispetto alla seconda, ne selezionerà soltanto alcuni, mentre l’altra si farà, più plausibilmente, garante della «regola che autorizza ed incoraggia la più
grande flessibilità degli enunciati.» (ibid.) La modernità ha alimentato la scissione, capitalizzata dal
paradigma scientifico, tra sapere (tecnico-scientifico) e non-sapere (racconto, costume, tradizione).
Invero il sapere comprende ben altre forme di conoscenza oltre a quelle connotate da enunciati denotativi (cioè dal significato esplicito e condiviso), quali saper fare, saper vivere, saper ascoltare, ecc.;
competenze che eccedono la determinazione e l’applicazione del solo criterio di verità, e che si estendono a quelle dei criteri di efficienza, giustizia, felicità, bellezza. (p. 38)
La forma narrativa – intesa come racconto – del “sapere tradizionale” «accoglie [in sé] una pluralità di
giochi linguistici» (p. 40); il discorso scientifico, invece,
«esige l’isolamento di un gioco linguistico, il denotativo [...] e l’esclusione di tutti gli altri. Il criterio di
accettabilità di un enunciato coincide col suo valore di verità» (p. 48).
I saperi che sopravvivono all’isolamento dell’enunciato denotativo concorreranno a formare il legame
sociale; il denotativo, al contrario, «diviene una professione e dà origine alle istituzioni» (p. 49).
Il “gioco della ricerca” pretende la competenza esclusiva del destinatore (il competente), non del destinatario.
La confutazione degli enunciati è sempre possibile.
Memoria e progetto diventano i due cardini del sapere scientifico: l’accento è privilegiato rispetto al
metro, la prestazione rispetto alla contingenza della narrazione.
I due saperi scissi non si escludono, non possono farlo. Il sapere scientifico trova legittimazione nel
discorso narrativo che lo presuppone, la scienza nasce dal racconto: «il discorso platonico che inaugura la scienza, e malgrado il suo intento sia quello di legittimarla, non è scientifico. Il sapere scientifico
non può sapere e far sapere che è il vero sapere senza ricorrere all’altro sapere, il racconto, che è per
lui il non-sapere, in assenza del quale è costretto ad autopresupporsi incorrendo così in ciò che condanna, la petizione di principio, il pregiudizio.» (p. 55)
Nella nostra società postindustriale – ma già a partire dalla fine dell’Ottocento – il principio di legittimazione, il cui gioco linguistico è filosofico-speculativo, entra in crisi. La delegittimazione del sapere
scientifico, che produce «l’emancipazione delle singole discipline scientifiche [...] spogliate dalla responsabilità della ricerca», è «il risultato [della] divisione della ragione in cognitiva e teoretica da una
parte e pratica dall’altra» (p. 73), divisione che svela l’essenza di gioco linguistico del sapere scientifico; un gioco linguistico «dotato di proprie regole [...] ma privo di qualsiasi vocazione a regolamentare
il gioco pratico. [...] In questo modo esso viene messo in condizioni di parità con gli altri giochi.» (ibid.) La scienza “gioca il suo gioco”, non può legittimare altri giochi linguistici – gli sfugge,
uno su tutti, quello prescrittivo – e nemmeno, al contrario di quanto previsto dall’ipotesi speculativa,
autolegittimarsi. La parcellizzazione del sapere lo rende indomabile da un punto di vista universale e
unitario: «nessuno parla tutte queste lingue, esse non ammettono un metalinguaggio universale» (p.
74).
Lyotard, come detto sopra, analizza anche il legame intrecciato da scienza – che diviene così forza
produttiva – e capitale-stato-impresa. Questo intreccio non segue più un gioco linguistico legittimato
da narrazioni umanistiche o idealiste, cessa di perseguire la verità come fine e si concentra sulla performatività, cioè il miglior rapporto input/output. Nasce dunque il nesso ricchezza-efficienza-verità
(revivaldell’utilitarismo benthamiamo).
L’unico gioco è quello della potenza: «non si assumono scienziati e tecnici, né si acquistano apparecchiature per sapere la verità, ma per accrescere la potenza.» (p. 84) La legittimazione passa ora attra-
verso la potenza, il che comporta anche la subordinazione dell’insegnamento superiore e
dell’università al potere – con la conseguente penalizzazione degli studi umanistici. La mercificazione
del sapere sposta la domanda da “è vero?” a “a che cosa serve?”, e cioè “si può vendere?”, “è efficace?”.
Ma la scienza postmoderna – ossia l’avvenire della scienza –, ci dice Lyotard, è la ricerca
dell’instabilità: «la pragmatica del sapere scientifico postmoderno ha scarsa affinità con l’obiettivo
della performatività. L’espansione della scienza non si produce grazie al positivismo dell’efficienza.
Al contrario: lavorare alla prova, significa ricercare e “inventare” il contro-esempio, vale a dire ciò che
è inintelligibile; lavorare all’argomentazione, significa ricercare il “paradosso” e legittimarlo attraverso nuove regole del gioco del ragionamento.» (p. 99)
In definitiva due sono i “passi” fondamentali per affrontare la nostra condizione postmoderna:
«il riconoscimento dell’eteromorfia dei giochi linguistici» (p. 120);
«se esiste consenso sulle regole che definiscono ciascun gioco e sulle “mosse” che vengono in esso
effettuate, tale consenso deveessere locale, ottenuto cioè dagli interlocutori momento per momento, e
soggetto a eventuale revisione.» (ibid.)
Della controversia su La banalità del male
Comprendere vuol dire “esaminare e portare coscientemente il
fardello che il nostro tempo ci ha messo addosso” (da Le origini
del totalitarismo), cioè antisemitismo e Shoah; è questo che
vuole fare Hannah Arendt, una delle pensatrici più illuminate,
audaci e coraggiose del Novecento.
Libera e indipendente, pensiero forte, non “misera foglia ghermita dal
turbine della storia”, come tocca all’innerer Schweinehund* Eichmann. Ha elaborato il concetto di “crimine contro l’umanità”, dichiarando il suo amore per essa proprio nella sua individualità,
dell’importanza della politica come fondamento di vita, della “banalità
del male”, dei lager, luogo in cui gli uomini sono superflui. Margarethe Von Trotta ripercorre la vita della filosofa dal ‘61 al ‘64 nel film
Hannah Arendt – nel 2012 al Festival di Toronto. La donna, la pensatrice. Ebrea per nascita, emigrata e apolide per decisione della Storia –
fino al 1951, anno in cui ottiene la cittadinanza americana -, segue
come obbligo verso il passato, in veste di corrispondente del The New
Yorker nel 1961, il processo al mostro (paramilitare e funzionario
tedesco ritenuto uno dei responsabili dello sterminio degli ebrei). La
pubblicazione in cinque parti del suo articolo, inserito poi in La banalità del male – Eichmann a Gerusalemme, ha sconvolto il mondo, aprendo un aspro dibattito: Eichmann non è un mostro, è solo esecutore di
ordini per lui Legge, inconcepibile; le alte gerarchie ebraiche hanno in
qualche modo “partecipato” allo sterminio, addirittura blasfemo. Lucida, ironica e altamente metaforica, docente appassionante e appassionata, fumatrice incallita, litiga con i pensieri da gettare sul foglio, fa a
botte con i ricordi – flashback del passato -, ma non torna mai indietro.
La protagonista è supponente, così sicura da rasentare l’arroganza,
dimostrando non tanto la voglia di capire quanto quella di sfidare la
società fallocratica – la regista sostiene che se la Arendt fosse stata
uomo tutto sarebbe stato diverso. La Von Trotta, narratrice di donne
dalla grande personalità, guarda a questo nume tutelare della filosofia
moderna, “esploratrice” del “volto dell’altro”, con un’attenzione quasi documentaristica (momenti del
processo reale): niente fronzoli, carrelli e camera fissa diventano cifra stilistica di un film che sviscera
un pensiero, un film di parole più che d’azione. Ciò che manca
all’opera è proprio il coinvolgimento emotivo – colpa imputata anche
alla filosofa nel film -, ma forse questo era necessario per capire uno
dei momenti più drammatici della Storia, per non cadere nell’errore
contrario, per sviscerare con imperturbabile lucidità la banalità del
male.
* “essere nel fondo dell’anima un individuo sordido e indegno” (da
La banalità del male), Eichmann è convinto di non essere tale ma di
avere solo eseguito degli ordini.
Eleonora Degrassi, Mediacritica.it
Hannah Arendt
Margarethe von Trotta presenta il suo film a Bolzano
Quando il grande cinema incontra la filosofia: l’eccezionale
anteprima della pellicola dell’acclamata regista tedesca
A Bolzano si è aperta una finestra su una delle figure più ricche,
complesse e luminose del pensiero filosofico e teorico-politico del
Novecento, e questo grazie al Filmclub e ad una straordinaria regista
tedesca, che porta il nome di Margarethe von Trotta. È stata infatti
presentata in anteprima nazionale la proiezione, in originale con
sottotitoli in lingua italiana, approntati per l’occasione da una bravissima curatrice di Bolzano, del film biografico Hannah Arendt, diretto
dalla regista germanica, già autrice in passato di altri biopic, scritto
insieme alla sceneggiatrice statunitense Pam Katz.
Barbara Sukowa, che veste i panni della pensatrice che rifiutava
l’appellativo di filosofa, Axel Milberg, nel ruolo di quel Heinrich
Blücher il cui peso nello svolgimento di alcune riflessioni arendtiane
particolarmente radicali è ancora tutto da indagare, e l’inseparabile
Lotte Köhler, interpretata da una quasi bergmaniana Julia Jenstch,
formano il quadro d’interno di una storia umana seguita qui nel suo
svolgimento ormai tardo, tra il 1962 e il 1964 circa, quando alcuni
segni premonitori fanno presagire la fine, che sarebbe giunto con la
dipartita di Blücher nel 1970 e della stessa Arendt nel ‘75, e il declino vissuto con malinconica consapevolezza.
Le irruzioni di una vitale e fulminante Mary McCarthy, un’ottima
Janet McTeer, completano il quadro, che mostra l’ambiente e le discussioni che quasi quotidianamente scandirono le giornate americane di una pensatrice forte, vigorosa, raffinata, e insieme appassionata,
distante, talvolta arrogante nella sua consapevole superiorità su quasi
tutti i colleghi contemporanei.
Amata dagli studenti, e temuta, così come guardata a vista,
dall’establishment liberal newyorkese, che diffidava di questa mente
troppo arguta e senza compromessi, capace di irridere ai vizi ideologici degli intellettuali ex comunisti passati ora al “nemico” conservatore - se non reazionario - e al contempo di tenersi ben stretta una
propria impostazione libertaria, individualista, e progressista senza
troppa fiducia o ottimismo, Arendt con questo film è stata omaggiata
come poche volte è accaduto ad una figura filosofica contemporanea;
o forse mai, a ben pensarci.
Solo il genio solitario, rigoroso, tormentato e imprevedibile, di Wittgenstein ha ricevuto in passato dall’inglese Derek Jarman - una attenzione elevata dal mezzo cinematografico, ma più come figura che
come pensiero, come dramma umano che come indagine sul modo dell’uomo - qui, di una donna - di
vivere e pensare al contempo, e del pensare come motivo di vita stessa.
È una biografia intellettuale ed umana insieme, questa bella opera di una regista sempre in grado di
promuovere dibattito, con alcuni spunti davvero importanti, sottolineati da una recitazione sempre
misurata ed impeccabile, ai limiti di una versione aggiornata di uno stile quasi brechtiano di rendere
possibile non una identificazione nel personaggio ma una distanza partecipe, che pone le condizioni
per esercitare la propria capacità di giudizio.
Von Trotta realizza così, e questo è l’aspetto più interessante del film, una lettura della figura arendtiana dentro un profilo di scrittura cinematografica assai aderente a quanto condiviso dall’autrice naturalizzata statunitense in materia di rapporto fra pensiero e realtà. Detto altrimenti, il film della regista
tedesca, che è costruito attraverso una solida trama narrativa ed è godibile certo e proprio in quanto
una bella storia, narrata con classe ed impeccabile capacità sia registica che interpretativa, può davvero
costituire un modello di riferimento per un cinema che voglia comunicare qualcosa di interessante
anche per lo sguardo filosofico, rimanendo però racconto, con i propri mezzi e modalità espressive.
C’è in ogni caso un punto di straordinaria corrispondenza fra questo film di Margarethe von Trotta e il
pensiero arendtiano, e proprio sulla importanza per il pensiero di narrare vite, biografie. La cosa singolare è che la regista tedesca ha insistito invece, e giustamente dal punto di vista della propria poetica,
su un settore della produzione arendtiana che le ha dato una non voluta risonanza internazionale - in
alcuni contesti per nulla positiva - e che ha costituito materia di scandalo fino a pochissimo tempo fa:
stiamo parlando della tesi della banalità del male, cioè dello smascheramento compiuto dalla pensatrice ebrea tedesca della reale fisionomia di molti fra i principali criminali nazisti. Non mostri eccezionali, ma banali uomini comuni, privi della capacità di giudizio, di autonomia di pensiero.
Antinazista da subito, riparata in Francia nel ‘33 dopo essere stata brevemente incarcerata, e poi fuggita nel ‘40 verso gli Stati Uniti - vi giungerà solo nel ‘41, dopo un lungo periodo di attesa in Portogallo
- la pensatrice tedesca, che nel 1949 elabora la prima teoria del totalitarismo, analizzando le forme di
crisi della civiltà europea, all’inizio degli anni Sessanta compie un viaggio in Israele per seguire , per
conto del The New Yorker, il processo di risonanza mondiale a carico del gerarca nazista Adolf Eichmann, rapito dai servizi segreti israeliani in Argentina nel 1961, portato in Israele e lì giudicato per
crimini contro la popolazione ebraica europea.
Il reportage da Gerusalemme fece scoppiare un dibattito violento sia in America che in Israele, alimentato anche dallo stile per nulla accomodante della pensatrice ebreo-tedesca, che nel film viene reso in
modo mirabile dalla recitazione di Barbara Sukowa, oltre che dalla malcelata ostilità dell’ambiente
intellettuale di cui si diceva. Ma furono dirompenti gli effetti di un dibattito, pervertito dall’originale
volontà di sapere, trasferito ad alto livello nell’intellettualità ebraica di origine tedesca: nel film viene
riportata la rottura con Hans Jonas, antichissimo amico già negli anni friburghesi, e non viene invece
citata quella anche più forte con Gershom Scholem, attento interlocutore dell’autrice nonché comune e
caro amico di Walter Benjamin.
Ma intelligentemente, e in modo assai pertinente sul piano anche teorico, viene sviluppata nel film una
attenta analisi di quella che la von Trotta, nel dibattito seguito alla proiezione, ha definito una doppia
prospettiva, da un lato quella di un burocrate assassino anonimo, privo di capacità di pensiero, fermo
nella propria incapacità di capire il male prodotto (forse); dall’altra quella di una donna, che del pensiero ha fatto il centro della propria vita, e con cui ha coniugato anche la sua scelta di affetti, di sentimenti, difficile, complessa, anche lacerante.
Nel film la regista ha fatto una scelta audace, circoscritta alla biografia della stessa autrice, seguita nei
dettagli, nei tic, nelle amicizie e nei frammenti amorosi appena accennati. Heidegger è presente solo in
forma di ricordo, con qualche flash-back che ne mostra anche il tratto quasi caricaturale (ben testimoniato da diverse fonti) della propria inettitudine umana, e al contempo la singolare lucidità speculativa.
Non è chiaro se la scrittura arendtiana avrebbe mai voluto incrociarsi con quella cinematografica, ma
occorre dire che la narrazione biografica del cinema di von Trotta presenta certo una notevole affinità
con quanto scritto nella fase matura dalla pensatrice esule in America: che l’esercizio di pensiero non
può non coniugarsi con una esperienza di vita e di esistenza, in miracoloso equilibrio sospeso fra partecipazione e disincanto, fra meraviglia e lucidità analitica; fra bisogni e desideri di umanità, e doloroso esercizio di pensiero critico.
Andrea Felis, Altoadige.geolocal.it
Disconnect, il film che racconta
la nostra dipendenza dalla rete
Quanto siamo dipendenti dalla rete? Quanto l’attaccamento alla
tecnologia influenza le nostre esistenze? Arriva Disconnect, il film
del regista Henry-Alex Rubin, che esplora il nostro bisogno di
essere sempre connessi. Presentato l’11 settembre 2012 al Toronto
International Film Festival e alla 69ª edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica, è arrivato nelle sale cinematografiche statunitensi il 12 aprile 2013 diventando subito un caso.
Il film ha un cast d’eccezione, che vede tra i protagonisti Jason
Bateman (Juno, Tra le nuvole), Paula Patton (Mission: Impossible
- Protocollo fantasma), Michael Nyqvist (Uomini che odiano le
donne) e Alexander Skarsga•rd (True Blood).
“Sulla rete ogni inganno è possibile”: questa è la frase che campeggia nel trailer del film. […] “Disconnect: un nuovo film che
suona come un allarme per le nostre vite iperconnesse”, così Arianna Huffington lo aveva presentato a marzo del 2013. E aveva
ripreso una frase del regista: “Non ho voluto affrontare questo
tema con teorie o polemiche. Ho voluto semplicemente rappresentare la realtà. Come se fosse un documentario”.
È proprio dall’osservazione della realtà che nasce il film.
“Disconnect parla del bisogno di comunicare che tutti hanno, che
lo si faccia tramite un computer, uno smartphone o semplicemente
in maniera diretta con la persona che si ha di fronte: poiché moltissime persone hanno scelto di vivere principalmente online
(scambiandosi messaggi, tweet ed e-mail) la comunicazione e la
reale interazione umana sono diventate sempre meno importanti e
frequenti. Questo è il tema del film”, ha affermato lo sceneggiatore
Andrew Stern.
“Ho scritto la sceneggiatura dopo essermi reso conto di come oggi
molta gente, durante pranzi o cene, tenga telefonini, tablet etc... sul
tavolo e non smetta mai di usarli anche mentre mangia: le persone
sono lì tutte insieme ma stranamente non sono presenti le une con
le altre. Nel film ho incrociato varie storie che raccontano come la tecnologia che ci unisce in rete, può
molto spesso scollegarci nella e dalla vita di tutti i giorni”.
Huffington Post, 08/01/2013
Disconnect
Qualche anno fa la tendenza di un certo cinema indipendente e impegnato mostrava trame composte
da più storie, apparentemente slegate tra di loro, che nel corso della narrazione andavano poi ad intrecciarsi, componendo un unico affresco. Autori come P.T. Anderson (Magnolia, 1999), Iñarritu (Amores
perros, 2000, Babel, 2006), Soderbergh (Traffic, 2000) e Haggis (Crash, 2004) sono ricorsi a questa
soluzione narrativa, che negli ultimi anni si era un po’ persa.
Henry Alex Rubin riporta sugli schermi un film corale con tre storie che procedono parallele e che
hanno come denominatore comune l’incomunicabilità tra le persone e la solitudine al tempo di
internet, delle chat e dei social network.
Periferia di New York. La giornalista di una tv locale conosce un giovane modello in una video chat
per adulti; due ragazzini si prendono gioco di un loro coetaneo timido e solitario illudendolo su facebook; una giovane coppia entra in crisi in seguito alla morte del figlio…
Ogni storia prende una brusca piega, generando conflitti, tensioni e risvolti drammatici che solo
l’umana comprensione, il dialogo e il perdono potranno forse risanare. La giornalista vorrebbe redimere il ragazzo della video chat, la coppia in crisi si imbatte in un hacker, Ben, il ragazzino sensibile e
privo di amici finisce vittima del bullismo dei suoi coetanei. La vicenda finisce in tragedia, mettendo
in discussione l’equilibrio delle famiglie dei ragazzini, i cui padri troppo presi dai loro lavori si sono
troppo spesso dimenticati dei figli.
Disconnect è uno specchio dei nostri giorni, in cui ormai nessuno riesce più a fare a meno di connettersi alla rete da un computer, un cellulare o un tablet, totalmente assorbito da una realtà sempre meno
virtuale e incurante dei risvolti concreti che possono derivare. Causa ma anche effetto di questa situazione è l’incomunicabilità e l’angoscia della solitudine, dove risulta più facile accendere un computer
che parlare faccia a faccia con un essere umano.
Il film mostra senza moralismi il ritratto di un’umanità fragile e sola, osservando da vicino la realtà
come dato di fatto e senza giudizi. Il filtro dello schermo di un computer è come un richiamo, una
necessità, che può rendere più disinibiti, a volte più sinceri, può portare a confidare i propri sentimenti
a sconosciuti, ma anche a far del male agli altri.
Presentata alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2012 (ma distribuita solo nel 2013), la pellicola ha
un buon ritmo e una ben dosata tensione narrativa che esplode nel finale ed è sorretta da un cast ispirato di attori per lo più sconosciuti, ad eccezione di Jason Bateman (Juno, Come ammazzare il capo… e
vivere felici), qui in un raro ruolo drammatico, Hope Davis (Cuori in Atlantide) e Alexander Skarsgaard (The east). Il talentuoso regista, ad oggi noto solo per il documentario Murderball (2005), nominato all’Oscar, e precedentemente come secondo aiuto regista di James Mangold (Ragazze interrotte), è
senza dubbio da tenere d’occhio. Un film da vedere e meditare perché ci guarda da vicino e lascia lo
spettatore con un salutare retrogusto amaro in bocca.
Stefano Pariani, Cinema critico
Zygmunt Bauman: vivere online ci rende più fragili
Ironico, disincantato, attento ai mali dell’iperconnessione, sufficientemente pessimista. Zygmunt Bauman, il grande filosofo e sociologo responsabile del concetto di società liquida, in Italia per una lezione nell’ambito di Meet the Media Guru ha incontrato questa mattina un ristretto gruppo di giornalisti
per una chiacchierata collettiva. Torrenziale e generoso, ha risposto a ogni sorta di quesiti mettendo
solo una volta le mani avanti: “Non sono un conselour, non pretendo di spiegare alla gente come si
deve vivere: mi limito a osservare l’evoluzione della società”. Anche se quello che pensa su come si
dovrebbe vivere è piuttosto chiaro. […]
Come vede il concetto di tempo nella nostra società? È un valore? È un bene di scambio? E come possiamo impiegarlo meglio?
Il tempo che percepiamo oggi è esclusivamente quello presente. Ragioniamo solo in termini di adesso;
lo trattiamo come il caffè istantaneo. Prima era strutturato in maniera più solida e le divisioni tra lavoro e riposo, tra momenti pubblici e privati, erano nette. Oggi sono incerte, magmatiche. E i social media hanno fatto molto per cambiare la nostra percezione del tempo e delle relazioni; in un attimo, se mi
annoio, posso isolarmi durante una serata fra amici ed entrare in relazione con altri, virtuali, grazie a
un telefono.
Perché abbiamo questa ansia di restare connessi?
Perché entrando su Facebook o mandando 100 tweet al giorno cerchiamo di esorcizzare la nostra più
grande paura: essere soli, trascurati, restare indietro, sentirsi non necessari o poco utili. La verità è che
la rivoluzione nel modo di comunicare sta andando troppo veloce e le sue conseguenze non sono ancora chiare. I vecchi sistemi non portano più risultati, i nuovi non sono ancora strutturati per incidere
davvero. Prendiamo Occupy Wall Street, ad esempio.
«TUTTI SAPEVANO CHE WALL STREET ERA OCCUPATA DAL MOVIMENTO. TRANNE
WALL STREET STESSA.»
Questa sera parlerà di vita online e vita offline. Ha ancora senso questa distinzione?
Passiamo in media più di sette ore al giorno davanti a un display. Eppure la vita vera resta quella offline. Però l’online ci affascina perché rende tutto più facile. È una via di fuga dai problemi reali, permette di creare più facilmente legami e relazioni. Ma attenzione: allo stesso modo, è molto più semplice
spezzare questi legami. Non serve più neppure dirlo; basta ignorare l’altro, smettere di rispondere.
«IL PROBLEMA È CHE STIAMO PORTANDO QUESTA FLUIDITÀ, QUESTA PERICOLOSA
FRAGILITÀ, DALLE RELAZIONI ONLINE A QUELLE REALI.»
Che futuro vede per le nuove generazioni?
Questa è la “ni ni generation”: not in work and not in education. Non hanno prospettive, non vedono la
possibilità, data alle generazioni precedenti, di migliorarsi rispetto ai genitori. Hanno un’attitudine più
conservativa, cercano di mantenere ciò che hanno. Certo, nessuno è stato più dotato di tecnologia di
loro; ma la tecnologia è solo uno strumento, né cattivo, né buono. Non può dare una ragione per vivere
o proporre una sfida. Dopo quella che chiamo “l’orgia di consumi durata 30 anni”, durante la quale
abbiamo tutti vissuto al di sopra delle nostre possibilità, ora non è rimasto più niente, e i nostri figli e
nipoti dovranno fronteggiare questa situazione. […]
Barbara Sgarzi, vanityfair.it
Her
Come Kubrick e McLuhan, anche Spike Jonze con “Lei/Her”
sembra investito dall’aura profetica che gli consente di riflettere, attraverso l’apparente leggerezza di un melodramma sentimentale, sulla percezione dell’umano in una società sempre
più informatizzata e alienante_ Il profeta dello sbarco lunare e
della prevaricazione tecnologica sull’essere senziente, con
“2001.- Odissea nell’o spazio sembrò divinizzare, per mezzo
di poetiche visionarie il futuro dell’umanità intera, mentre il
sociologo statunitense ripensò all’impatto pervasivo della
comunicazione globale nell’immaginario collettivo del singolo_ Con Her, l’eccentrico Spike Jonze costruisce un realistico
modello sociologico ambientato in una Los Angeles futuristica, tra scenari distopici e fantasmagoriche utopie. L’involucro
esterno è una romantica e struggente storia d’amore al tempo
del dominio tecnologico dei computer, una moderna favola
che dà voce, attraverso l’intrecciarsi simultaneo di parole elettroniche ed eloqui reali, alla solitudine e al vissuto intimo del
singolo, indissolubilmente legati al concetto di perdita. Theodore, l’impacciato e introverso protagonista del film, sa bene
cosa vuol dire perdere qualcuno a cui ci si è dati senza riparo.
Separato dalla moglie dopo una vita trascorsa insieme, si trasforma in scrittore di lettere destinate ad altri e svende le proprie emozioni attraverso pensieri che qualcun altro avrebbe
dovuto scrivere al suo posto.
Un poeta nell’ombra, ossessionato dall’incomunicabilità e irrimediabilmente votato alla misantropia. Non appena viene messo
in commercio un rivoluzionario software per computer, la sua
vita cambierà e dovrà confrontarsi con un passato che non si è
mai lasciato alle spalle. Il nuovo sistema operativo acquistato da
Theodore è dotato di interfaccia vocale ed è capace di evolversi
spontaneamente rendendosi sempre più simile ad un essere umano_ Una voce ineffabile senza il corpo, un amore etereo fatto
solo di parole scambiate a tutte le ore, durante il giorno e la
notte. Theodore e Samantha, il nome fittizio che si assegna la
macchina stessa, saranno i protagonisti di una strana e complessa relazione affettiva. Nell’indagine sottile e a tratti ludica di un
mondo dominato da evoluti sistemi operativi, mai del tutto ribelli nei confronti dell’uomo, il regista descrive il crepuscolo di un
amore, superando l’ostilità che molti film di fantascienza hanno
dimostrato nei confronti di un ipotetico progresso tecnologico.
Nella Los Angeles postmoderna tutti hanno un proprio computer
che può fungere da amico, compagno di chiacchiera o addirittura amante platonico, ma a mancare e a essere complicati sono
proprio gli incontri/scontri tra i soli esseri umani, troppo distanti
tra loro e incapaci di interagire senza barriere o senza intermediari, che non siano auricolari, schermi o ultramoderni iphone.
Lo scenario futuristico e cibernetico è il mezza non il fine attraverso cui Theodore (Joaquin Phoenix) cerca di metabolizzare la
perdita sentimentale, credendosi innamorato di una voce che non
è altro se non il rimosso che affiora e il mascheramento psicanalitico di una mancanza non ancora razionalizzata, quella per l’ex
moglie che sotto forma di ricordi evanescenti ancora vive, impalpabile, nel suo malinconico sogno
lucido. Le parole scambiate con Samantha, la cui voce è quella roca e sensuale di Scarlett Johansson,
definiscono un percorso palingenetico in cui l’UOMO riversa flussi emotivi che non riesce a esternare
col proprio simile, perché attraversato dalla sofferenza per un amore mai dimenticato_ La sgargiante
fotografia di Hoyte van Hoytema, tutta color pastello e anacronisticamente vintage, l’avvolgente colonna sonora degli Arcade Fire e la raffinatezza visiva della regia, impreziosiscono un’opera dal sapore dolceamaro in cui Jonze supera la classica dicotomia tra filosofia e scienza, materia e spirito, raccontando l’irrazionalità di quella “follia socialmente accettabile” dell’amore al tempo di macchine
troppo umane.
Vincenzo Palermo, cultura & culture
La società post-industriale
La nostra ipotesi di lavoro è che il sapere cambi di statuto nel momento in cui le società
entrano nell’età detta postindustriale e le culture nell’età detta postmoderna. Questa rivoluzione è iniziata almeno a partire dalla fine degli anni Cinquanta, che in Europa segnano la
fine della ricostruzione.
Questo l’incipit del capitolo I (Il campo: le società informatizzate) de La condizione postmoderna.
Com’è evidente, Jean-François Lyotard parte programmaticamente dai testi di Alain Touraine e Daniel
Bell (indicati in nota dall’autore all’interno del brano riportato), per costruire l’impianto dell’opera che
lo renderà celebre nel dibattito filosofico degli anni Ottanta. In effetti le mutazioni strutturali connesse
con la fine dell’età moderna intorno agli anni Settanta sono saldamente collegate e quasi ancillari alla
messa in luce del ruolo decisivo svolto dal sapere teorico nell’innovazione sociale, e locuzioni quali
«condizione postmoderna», «avvento postindustriale», «società dell’informazione», «società tecnotronica» e così via, appartengono a un’infosfera comune che ha come tratto d’unione l’idea che la società
contemporanea sia caratterizzata dal ruolo istituzionale svolto dalla scienza, dai valori posti dal sapere,
dall’accentuazione del carattere tecnico delle decisioni da prendere, dall’accresciuta partecipazione di
nuove élites tecniche alla vita sociale.
Lyotard afferma che l’evoluzione verso la società postmoderna dell’informazione è iniziata alla fine
degli anni Cinquanta con l’avvento e l’introduzione dei sistemi informatici. In realtà, anche se intuibili
dalle menti più acute, la rivoluzione informatica non comportò cambiamenti significativi negli assetti
dell’organizzazione sociale in cui andava ad inserirsi: con la sua centralizzazione, con il suo essere
fondamentalmente computazionale e gestionale, l’informatica del mainframe rappresentava sicuramente un’innovazione tecnologica importantissima, ma non una vera «anomalia» tale da modificare
assetti e paradigmi sociali; era uno strumento tecnico al servizio, almeno inizialmente, dei paradigmi
dominanti (basati, essenzialmente, sul principio del controllo verticale) della società industriale che
stava uscendo «trionfalmente» dalle rovine del suo secondo conflitto mondiale. Già dalla fine degli
anni Sessanta, la configurazione geopolitica che legittimava, in nuce, le nozioni di società
dell’informazione o di società globale si trovava esplicitata nell’analisi delle conseguenze internazionali della convergenza tra informatica e telecomunicazioni di Zbigniew Brzezinski, ricercatore sociale
e storico dei problemi del comunismo, divenuto poi consigliere per la sicurezza nazionale del presidente americano James Carter.
La tesi centrale del suo lavoro più fortunato, Between two Ages (Tra due età), è che, grazie al dominio
delle reti mondiali, gli Stati Uniti sono diventati la prima società globale della storia, quella in cui la
comunicazione è ai massimi livelli; il modello di “società globale” da essa rappresentato, prefigura il
destino delle altre nazioni: i nuovi valori universali irradiati dall’America cattureranno inevitabilmente
l’immaginazione dell’intera umanità e questo è stato possibile principalmente grazie al ruolo di testa
assunto dalla «classe tecnica» statunitense. In ogni caso, Alain Touraine rimane il primo sociologo che
usa l’aggettivo «postindustriale» in maniera sistematica: nel suo noto saggio del 1969, infatti, egli
definisce la società postindustriale come un campo in cui giocano nuovi attori sociali che si collocano
al di là del conflitto precedente tra operai e classe imprenditoriale; dopo il declino del movimento operaio il conflitto si è spostato dal mondo del lavoro al campo della cultura.
Di fatto, per Touraine, le nuove lotte e i nuovi movimenti di contestazione si dirigono contro quelle
forme di dominazione che, estendendosi ben al di là della produzione materiale, toccano l’insieme
della vita sociale a livello dei consumi, dell’informazione, dell’educazione. Tuttavia l’accezione di
postindustriale che è rimasta in maniera più pervicace nell’immaginario sociologico contemporaneo è
sicuramente quella -- meno socio-politica e più socio-economica -- di Daniel Bell.
Nel 1973, appena quattro anni dopo l’uscita del lavoro di Touraine in Francia, Daniel Bell, un ricercatore americano che si era interessato durante tutti gli anni Cinquanta quasi esclusivamente di sociologia dei movimenti politici e che nel 1960 aveva elaborato con La fine dell’ideologia una prospettiva
teorica sulla messa in crisi delle ideologie politiche o «di partito» nelle società contemporanee, pubblicò The Coming of Post-Industrial Society (L’avvento della società postindustriale), in cui la sua precedente tesi della fine dell’ideologia si collega al concetto di un nuovo tipo di società industriali avanzate
che sarebbero, appunto, scevre da incanalamenti ideologici e caratterizzate da una radicale trasformazione dei modi di produzione.
Nel 1956, per la prima volta in un paese del mondo -- gli Stati Uniti -- i colletti bianchi (impiegati,
professionisti, tecnici) superarono, per numero, i colletti blu (operai); Bell individuò in quella data
l’inizio simbolico della società post-industriale, evento storico paragonabile a quello che,
nell’Inghilterra di cento anni prima, aveva segnato il sorpasso dei lavoratori industriali sui contadini.
L’ordine post-industriale si contraddistingue per una crescita del settore dei servizi a discapito
dell’occupazione nel settore della produzione di beni materiali; gli operai nelle fabbriche e in officina
e, già da prima, quelli agricoli, non rappresentano più la categoria paradigmatica di lavoratori: il numero degli impiegati (di ufficio o liberi professionisti) ha superato quello dei lavoratori manuali e in particolare si richiedono sempre più competenze tecniche e professionali; chi svolge lavori impiegatizi di
elevato livello è specializzato nella produzione di oggetti d’informazione e di sapere; la produzione ed
il controllo di quello che Bell chiama «sapere codificato» (l’informazione coordinata e sistematica)
rappresenta la principale risorsa strategica da cui dipende la moderna società e coloro che sono impiegati nella sua produzione e diffusione acquistano sempre più potere e si sostituiscono ai vecchi gruppi
sociali dominanti (industriali e imprenditori). Nell’ambito della società post-industriale si ha un indebolimento della «disciplina», caratteristica della società industriale: gli individui sono ora più liberi di
intraprendere condotte innovative sia nel campo lavorativo che nella vita privata. Detto coi termini
dell’autore, questo nuovo assetto si caratterizzerebbe attraverso cinque «dimensioni»:
- settore economico: il passaggio da un’economia fondata sulla produzione di beni
a un’economia di servizio;
- struttura occupazionale: la preminenza della classe professionale e tecnica;
principio assiale: la centralità della conoscenza teorica come fonte di innovazione
e di formulazione delle scelte politiche della società;
- orientamento futuro: il controllo della tecnologia e la valutazione tecnologica;
- processi decisori: la creazione di una nuova «tecnologia intellettuale».
Come indica il sottotitolo del libro, A Venture of Social Forecasting (Un tentativo di previsione sociale), Bell formula una serie di pronostici, e costruisce, estrapolando alcune tendenze (trends) strutturali
osservate negli Stati uniti, una società-tipo ideale, caratterizzata dall’ascesa di nuove élites (il cui potere risiederebbe nella nuova «tecnologia intellettuale» concepita in funzione dei processi decisionali) e
dalla preminenza della «comunità scientifica», una «comunità carismatica», universalista e disinteressata, «senza ideologia». Una società gerarchizzata orizzontalmente e governata da uno stato sociale
accentratore e pianificatore del cambiamento,33 una società allergica all’idea di rete e al tema della
«democrazia partecipativa». In questa società dove l’economia si sposta verso i servizi tecnici e professionali, la crescita è lineare ed esponenziale.
Nel 1995, per la prima volta al mondo, sempre negli Stati Uniti, si sono venduti più computer che
televisori e sono stati scambiati più messaggi tramite Internet che tramite le poste: ormai, infatti, il
40% delle famiglie americane ha un computer, il 25% ha due computer e per dieci anni consecutivi gli
abbonamenti a Internet sono aumentati del 5% ogni anno.35 Nel settore dell’informatica il cambiamento è così veloce che l’80% del fatturato attuale deriva da prodotti che due anni fa neppure esistevano.36 Il suo business articolato nel settore dell’informatica vera e propria, dei comunicatori e della
commutazione, rappresenta ormai il 6% dell’intera economia mondiale. La presenza di un computer in
ogni ufficio e in ogni casa ha agevolato un atteggiamento radicalmente nuovo verso le categorie ancestrali del tempo e dello spazio.
Mimmo Pesare, Eziologia e genealogia del postmodernismo filosofico, Dialegesthai
Nebraska, la fine triste del road movie
La (quasi) commedia di Alexander Payne è una gemma, ma
come dramma puro sarebbe stata anche meglio
Aldo Fresia, Linkiesta
Un Golden Globe Mancato
A giudicare dai recenti Golden Globes, Nebraska potrebbe diventare la pellicola più sottovalutata della stagione. Non tanto perché i
vincitori demeritino. È che la distratta macchina mediatica tende a
dimenticare chi non arriva primo. Se questo dovesse accadere sarebbe un destino curioso, considerato che Alexander Payne racconta persone e luoghi che un podio non l’hanno visto neppure da lontano. Ma sarebbe anche un destino ingiusto, perché questo è un
gran film.
Partiamo da una scena in particolare, quella in cui il vecchio Woody Grant, uomo di poche parole e troppe bevute, sottolinea con
stizza che il Monte Rushmore non è terminato: uno solo dei presidenti ha il vestito, a un altro manca un orecchio. È come se gli scalpellini «si fossero stancati» e avessero piantato lì il lavoro. Su questa scena ho avuto un sussulto, perché quando un film tira in ballo
le metafore si pone su un crinale molto insidioso, dove è facile
inciampare e essere grossolani. Peccato ancora più grave,
quest’ultimo, considerata l’attenzione ai dettagli obbligatoria per un
racconto semplice, minuto e disadorno come quello di Nebraska.
I miei timori si sono rivelati infondati e anzi il Monte Rushmore è
diventato con eleganza una doppia metafora, quella di una famiglia
e quella di una nazione. Ai Grant manca qualcosa, soprattutto in
termini di affettività, e la colpa è tutta di Woody, padre assente,
alcolizzato, che non si è mai chiesto se amava la moglie e che ha
avuto figli solo perché voleva scopare (parole sue).
Agli Stati Uniti di Nebraska manca invece lo slancio, l’anelito
verso qualcosa di più grande, come se coloro che hanno costruito il
paese a un certo punto si fossero stufati e ora, trascorso qualche
decennio, si ritrovino anziani, annoiati, non più protagonisti della
mitica Frontiera ma figurine sbiadite di una provincia cadente.
Tanto che l’ideale dell’affermazione economica, uno dei cardini
del mito statunitense, sopravvive solo in una truffa, quella che
spinge Woody a mettersi in viaggio per agguantare un milione di
dollari che figli e moglie sanno non esistere. Per certi versi Nebraska ribalta una delle caratteristiche del road movie, quella che
accomuna il viaggio alla scoperta di sé. Qui, invece, alla fine scopri solo che ti hanno fregato.
Malinconico, vero? Infatti è curioso che Nebraska sia stato classificato come commedia (dai Golden Globe, ad esempio). Non che
manchino i momenti buffi, ma questi nascono solo in parte da
situazioni e personaggi: più spesso sembra di intravedere il punto
di vista di Alexander Payne rispetto al dramma raccontato, un
atteggiamento distaccato e talvolta snob. Prendiamo ad esempio
l’incontro di David Grant, che sta scortando papà Woody lungo la
strada, con i cugini campagnoli. Le risate nascono dal contrasto fra
la sensibilità di David e l’ottusità di ragazzoni un po’ scemi, capaci
solo di misurare chi ha l’automobile più potente. Quando poi la
situazione si ripete, con minimi cambiamenti, a famiglia allargata,
qualcosa fa cilecca. È la reiterazione a essere sbagliata, perché un
conto è dire che due persone sono degli zoticoni, un altro è estendere l’osservazione a tutto un ambiente, senza distinzione.
In questo momento Alexander Payne guarda dall’alto verso il basso i suoi personaggi, una condotta che, pur facendo ridere, stona
con il nucleo di Nebraska, che è drammatico e che dà il meglio
quando il regista vi si accosta con empatia. Vedi ad esempio la
scena della dentiera perduta o la sequenza in cui Woody torna a
guidare, in cui ci sono due sguardi che da soli valgono il film:
quello di David, contento di una dignità riconquistata, e quello
della vecchia giornalista, che in un paio di secondi racconta tutto
un mondo senza bisogno di parole.
Accennando agli sguardi arriviamo alla vera marcia in più di Nebraska, cioè la capacità di calibrare alla perfezione quasi tutti i
dettagli. Consentitemi una metafora: il racconto cinematografico
può essere scritto con un evidenziatore indelebile (come fa ad
esempio il regista Michael Bay) oppure con una matita punta fine
(Nebraska). Nel primo caso si possono trascurare alcune minuzie,
perché prevale il tratto grosso e d’impatto; nel secondo ogni cosa
diventa fondamentale. È per questo che stona il punto di vista
snob.
Quando però l’equilibrio è giusto, allora noi spettatori godiamo.
Prendiamo ad esempio l’unico momento in cui vediamo David
Grant al lavoro come venditore di impianti stereo. Sta esponendo a
due clienti le qualità di un prodotto e, pur non sentendo ciò che
dice, possiamo intuire competenza ed entusiasmo. Se il Monte
Rushmore fosse un Simbolo, non un Incompleto, la vendita andrebbe probabilmente a buon fine. Invece capiamo subito che non
sarà così. Perché? Perché entrano in gioco la postura dei clienti, un look e un’età che li fanno sembrare
fuori posto, il fatto che noi spettatori siamo tenuti all’esterno della stanzetta d’ascolto, con
un’inquadratura fissa che contrasta la dinamicità della parlantina di David. C’è anche una piccola pausa che segue la sua esposizione, quella in cui dovrebbero parlare gli acquirenti e che invece resta muta.
Sono tutti dettagli, appunto, che concorrono a una scena perfetta e a un cinema di grande livello.
“Il mondo in cui vivo non è soltanto un mondo di corpi fisici: in esso ci sono, esterni a me, soggetti
che vivono e io so di questo vissuto... Non so soltanto quello che è espresso dal volto e dai gesti, ma
anche ciò che si nasconde dietro; forse vedo che qualcuno fa una faccia triste, ma senza soffrire realmente. E ancora: sento che qualcuno fa un osservazione indiscreta e vedo che arrossisce per questo;
allora non soltanto capisco l’osservazione e vedo nel rossore la vergogna, ma noto che egli si rende
conto che l’osservazione era indiscreta e si vergogna di averla fatta... Tutte queste realtà del vissuto
altrui rimandano a una sorta di fondamento degli atti in cui viene colto il vissuto altrui e che ora vogliamo designare, prescindendo da tutte le tradizioni storiche legate alla parola, come empatia... Prendiamo un esempio per chiarire l’essenza dell’atto di empatia. Un amico viene da me e mi racconta che
ha perduto suo fratello e io mi rendo conto del suo dolore. Che cos’è questo rendersi conto? Non mi
interessa qui capire su che cosa si fonda il suo dolore o da che cosa io lo deduco. Forse il suo volto è
sconvolto e pallido, la sua voce è rotta e priva di suono, o forse esprime il suo dolore anche a parole :
tutto ciò può naturalmente venire indagato, ma qui non ha importanza per me. Non per quali vie arrivo
a questo rendermi conto, ma che cosa è in se stesso, questo è ciò che vorrei sapere” (E. Stein,
L’empatia, 1917, tr. it. 2003, pp. 70-72).
“Empatia”, secondo la definizione iniziale di Edith Stein, quindi, designa un genere di atti, nei quali si
coglie l’esperienza vissuta altrui. Usa inoltre questo concetto per determinati atti percettivi particolarmente in relazione ad altre persone. A differenza del giudizio, che è rivolto ad afferrare e comprendere
argomenti, idee e concetti mentali di un altro (o le conseguenze causali di un fatto nella natura e nella
storia), l’empatia indica un atto conoscitivo oppure la somma di atti percettivi, che è rivolto alla percezione soggettiva dell’altro, alla sua esperienza interiore e perciò anche alla sua stessa personalità. Con
la scuola fenomenologica, si tratta, per lei, di comprendere e conoscere la realtà che ci circonda in tutti
i suoi “fenomeni” (forme di apparizione). A questa realtà appartiene anche il fatto che ci siano “dati
soggetti estranei e le loro esperienze”. In primo luogo, Edith cerca di affrontare questo compito distinguendo l’atto dell’empatizzare da atti conoscitivi simili, che parimenti hanno per oggetto l’esperienza
vissuta, soggettiva di un altro: dalla “percezione esterna”, dal “sapere di vissuti estranei”, dal “cosentire” (Mitfühlen) e dall’“unisentire” (Einsfühlen):
L’empatizzare è distinto dal co-sentire (Mitfühlen). In questo caso, Edith sceglie l’esempio della gioia
di uno studente per aver superato un esame: “nel co-sentire mi immetto nell’avvenimento del buon
esito dell’esame, e quindi in quello per cui egli (cioè il compagno di studi) gioisce; io gioisco con lui
per questo evento”. Empatia al contrario significa percepire la stessa gioia che lo studente ha in sé:
“Nell’empatizzare, colgo la sua gioia,.. e ciò facendo mi traspongo in essa”.
Anche l’empatizzare (Einfühlen) e l’uni-sentire (Einsfühlen) sono due atti diversi. Quando godo di uno
stesso avvenimento o di uno stesso oggetto di cui un altro gode, questo mi può condurre al fatto che
non più solo io e lui, ma noi godiamo, noi ci uni-sentiamo nella gioia dello stesso oggetto. Ma anche
questo è un processo nel quale l’atto conoscitivo è indirizzato all’oggetto comune della gioia, ma non
alla stessa gioia dell’altro. Quindi “non è mediante l’uni-sentire che facciamo esperienza vitale degli
altri, ma mediante l’empatizzare”, perché solo “mediante l’empatia l’uni-sentire e l’arricchimento
della propria esperienza vitale diviene possibile o può divenirlo”. Nel caso dell’empatia quindi, riassume Edith al termine di queste determinazioni concettuali, abbiamo a che fare con “una specie di atti di
esperienza vitale sui generis: l’empatia, che abbiamo cercato di prendere in considerazione e di descrivere, è, in generale, esperienza della coscienza estranea”.
Empatia in pratica
Quando incontriamo una persona, ci troviamo di fronte alla sua “identità originaria”, ma non solo:
davanti a noi c’è l’espressione del suo volto, la sua emozione, il suo sguardo. Spesso non ce ne accorgiamo, oppure il rossore delle guance non ci appare differente a quello della buccia di una mela. Talvolta, invece, cogliamo in quell’espressione, in quel movimento... la gioia o il dolore, la malinconia o
il pudore o altri stati d’animo che possono esserci noti in sé, ma che diventano irripetibili e unici giacché appartengono alla persona che ci è di fronte, con la sua storia. A questo proposito scrive: “Ciò che
gli occhi (la parte più espressiva del corpo) hanno da dirmi, non si limita alla identità della persona che
incontro. Vedo anche il grado del suo essere desto o la sua tensione, nella fermezza del suo sguardo
vedo la fermezza del suo orientamento spirituale e nell’irrequieto vagare dello sguardo l’agitato vagare
da un oggetto all’altro. Inoltre vedo tutta la scala di sentimenti, ira, gioia, tristezza, orgoglio, bontà e
nobiltà d’animo e vedo anche il modo totalmente personale in cui questa persona è buona, affettuosa o
scostante. La vitalità con cui tutta questa vita spirituale m’invade non si può affatto paragonare al modo con cui mi accorgo degli stati sensibili”.
Nel caso in cui riusciamo a cogliere lo stato d’animo della persona che abbiamo di fronte, come viviamo tutto ciò? Ci mettiamo nei suoi panni, provando anche noi gioia, dolore, riproducendo
un’emozione già vissuta, rivivendola, partecipandovi? Spesso l’esperienza altrui viene ricondotta nel
recinto della propria esperienza, oppure codificata secondo gli schemi impersonali delle spiegazioni
scientifiche. Edith Stein dà pieno significato all’esperienza dell’uscire da sé nel momento in cui ci si
rivolge al vissuto altrui: questa esperienza è giocata sul confine tra il sensibile e lo spirituale, l’interno
e l’esterno, in cui l’altro è di fronte come “esterno” ed “estraneo”, ma non nella forma di “oggettocosa”, quanto nella forma del “corpo-anima” della persona che mi chiama all’incontro, alla relazione.
Pertanto l’empatia è il fondamento di tutti gli atti (emotivi, cognitivi, volitivi, valutativi, narrativi...)
con cui viene colta la vita psichica altrui.
Secondo la teoria dell’imitazione, elaborata da Theodor Lipps, in me si realizza l’esperienza della vita
psichica estranea, mediante la quale imito (“non esteriormente, ma interiormente”) l’azione di un altro
o la sua reazione ad una corrispondente sopravvenienza (l’atto visto fare da lui), partecipando così al
vissuto interiore in tal modo espresso. “Allora giungo – scrive Edith Stein – in questo dato modo, non
al fenomeno del vissuto altrui, ma ad una mia propria esperienza, che l’azione vista fare dall’altro,
risveglia in me”.
Come l’imitazione, così anche l’associazione ad essa collegata, non conduce realmente a “cogliere la
vita psichica altrui”; in questo caso escludo le sensazioni che, in seguito ad una certa azione, io stesso
ho o ho avuto intorno alle sensazioni dell’altro. Il seguente è un caso esemplare proposto da Edith:
“Vedo qualcuno battere un piede rabbiosamente; mi viene in mente come io stessa ho battuto il piede
con rabbia; nello stesso tempo mi si rappresenta la rabbia che mi aveva allora colto, per cui dico a me
stessa: l’altro è ora arrabbiato come lo sono stata io. In questo modo ho ricevuto in rappresentazione
non il percepire dell’altro, ma la mia propria percezione richiamata alla memoria, e di qui proiettata
nell’altro”.
Lo stesso vale per la inferenza per analogia, che inferisce l’esperienza psichica dell’altro, semplicemente sapendo che di norma alcuni modi comportamentali esteriori determinano altrettante sensazioni
interiori.
L’empatia, così come Edith la intende, opera in un altro modo, che però è abbastanza difficile da
“definire”. È certamente distinguibile rispetto ad atti conoscitivi simili, ma non sufficientemente coglibile in definizioni positive. In che modo avvenga l’empatia, si può infatti solo descrivere e le parole
che la descrivono sono come delle finestre, attraverso cui siamo costretti a sbirciare la realtà significata. Possiamo intravedere l’empatia che avviene in un altro (un esempio evidente è rappresentato dalla
stessa Edith Stein, che è stata definita un “genio dell’amicizia”); ma possiamo anche intravedere, nella
propria coscienza, la capacità di potersi empatizzare nell’altro, nel suo dolore e nella sua gioia.
Tali finestre sulla comprensione dell’empatia le troviamo in parole come “trasposizione empatizzante”, “esperienza vitale della coscienza altrui”, oppure “endosensazione” (Einempfinden); in frasi come:
“empatizzando non tiriamo alcuna conseguenza, ma abbiamo il vissuto come esperienza estranea che
viene data con il carattere dell’esperienza” e: “l’empatia pone immediatamente l’essere come atto
esperienziale e raggiunge il suo oggetto direttamente”; oppure
quando Edith descrive l’atto conoscitivo dell’empatia come una
percezione, “in cui sono presso l’altro Io e rendo esplicita la sua
esperienza vitale postvivendola”.
Scrive Edith Stein, in una sorta di riepilogo di questi concetti:
“Mentre cerco di chiarire a me stessa lo stato d’animo nel quale
l’altro si trova, questo non è più oggetto in senso proprio, ma mi ha
coinvolto in sé. Ora non sono più rivolto verso di lui, ma sono in
lui rivolto verso il suo oggetto... Empatizzando la gioia dell’altro,
io non provo alcuna gioia originaria, questa non sgorga viva dal
mio io e nemmeno ha il carattere di essere stata viva una volta,
come la gioia ricordata, tanto meno quello di essere puramente
fantasticata senza vita reale... Nel mio vissuto non originario, mi
sento lo stesso accompagnata da un vissuto originario che non è
vissuto da me e tuttavia esiste e si manifesta nel mio vissuto non
originario”.
L’empatia, pertanto, attesta la possibilità della comunicazione
dell’esperienza non perché due soggetti diventino uno, si confondano o trovino un’analogia, ma perché è possibile riferirsi ad una
realtà che non siamo noi e non è una cosa, ma è la realtà vissuta da
un altro essere umano. Per dare piena verità a questo significato di
empatia, non come immedesimazione o immediata partecipazione
emotiva, ma come differenza, discontinuità tra me e l’altro, occorre entrare in relazione.
L’empatia, pur essendo una forma di conoscenza, pone il suo valore cognitivo nel “rendersi conto” di essere in relazione, ovvero nel
comprendersi come aperti a qualcos’altro: “so” del dolore
dell’altro, lo incontro presso l’altro che lo prova e lo esprime magari nei tratti del volto o in altri modi. Quindi empatia è esperienza
specifica e non conoscenza congetturale del vissuto altrui. Qui troviamo il punto d’aggancio tra il concetto di empatia e la vita mistica: forse Edith Stein, nella conclusione del suo saggio sull’empatia, già
pensava ad essa come superamento della “prigione della nostra particolarità” soprattutto nella forma
dell’esperienza interiore che conduce all’oscuro sentire della fede, all’abbandono nelle mani di Dio.
In molte maniere si mostra nell’analisi di Edith che l’oggetto conoscitivo dell’atto empatico,
l’esperienza vitale altrui, può avere contenuti diversissimi. In modo corrispondente alla composizione
dell’essere umano come una unità di corpo, anima e spirito, si può trattare di una esperienza vitale
dell’altro corporale, psichica o spirituale. Edith dedica perciò due dei tre capitoli del suo libro ad una
riflessione molto estesa sulla costituzione ontologica dell’essere umano, che lei considera come
“individuo psicofisico” (capitolo III) e successivamente come “persona spirituale” (capitolo IV), per
giungere in questo modo a descrizioni ancora più dettagliate dell’atto empatico.
Così ella parla, ad esempio, della “presentificazione empatizzante” in relazione all’esperienza vitale
corporale dell’altro (come un po’ il soffrire di dolori fisici); della “empatia sensoriale” oppure della
“endosensazione” nei confronti dei suoi sentimenti e sensazioni psichiche (come press’a poco la gioia
o la paura) di “comprensione post-vitale” o “coglimento empatizzante” del suo mondo spirituale di
esperienze vitali. Nel campo dell’esperienza vitale spirituale, che in base alla costituzione corporea
dell’essere umano sta sempre naturalmente in relazione con l’esperienza vitale psicofisica, si apre ora
al soggetto empatizzante il mondo della storia e della cultura dal quale questo essere umano è plasmato
e che egli stesso in un certo modo continuamente conplasma e conforma, e che è appunto l’intero mondo dei valori, nei quali egli pensa, sente, e opera; e soprattutto l’essere umano stesso nel suo valore
peculiare. Edith scrive: “Come negli atti propri originari dello spirito si costituisce la propria persona,
così negli atti vissuti empaticamente si costituisce l’altra persona, e quindi in certa misura si ha la percezione del suo valore”.
È in definitiva lo stesso altro, che attraverso l’empatia viene percepito. Edith non teme, in questo contesto pur all’interno del sobrio linguaggio dell’analisi scientifica di parlare di questo atto dell’empatia
come di un “atto di amore”: nell’atto d’amore si compie “un afferrare, ossia un intendere del valore
della persona”. E Edith conclude: “Noi non amiamo una persona perché fa il bene, il suo valore non
consiste nel fatto che fa il bene (anche se il suo valore può rivelarsi in ciò), ma nel fatto che la persona
stessa è pregevole e noi la amiamo per se stessa”.
In questo contesto, Edith ha elaborato un criterio decisivo, l’unico che rende possibile l’atto empatico
nell’altro essere umano e nei diversissimi contenuti del suo vissuto soggettivo: l’empatia mi è possibile
solo nella misura in cui sussiste una corrispondenza essenziale tra il mio essere e l’essere dell’altro.
Edith parla dello stesso “typos”, che deve essere dato perché io possa empatizzarmi in lui. L’empatia è
quindi possibile essenzialmente solo nel “typos essere umano”. Ma poiché questo typos dell’essere
umano è simile, almeno nel suo carattere corporale, ad altri esseri, posso empatizzare in un certo grado
anche nel dolore di un animale. “Quanto più tuttavia ci allontaniamo dal typos essere umano, tanto
minore diviene la quantità di possibilità di attuazione dell’atto empatico”. E poiché nel campo dello
spirito “ogni singola persona è per se stessa un typos”, potrò d’altra parte empatizzare in un’altra persona, solo nella misura in cui io stesso sono divenuta persona: “Solo chi si sperimenta come persona,
come totalità che possiede un senso, può capire altre persone; se no ci rinchiudiamo nella prigione
della nostra particolarità; gli altri ci diventano un enigma oppure, ancora peggio, li modelliamo a nostra immagine e distorciamo così la verità”.
Quanto più un essere umano ha trovato il proprio “se stesso”, tanto più può diventare un “maestro di
comprensione” e, nel senso di Edith Stein, “un maestro dell’amore”. Mediante l’empatia percepisco
l’altra persona nel suo valore peculiare e con il mondo di valori che essa si è fatto proprio. Ma questo
ha anche come conseguenza una retroazione su di me: empatizzando nell’altro, si costituisce in me,
soggetto empatizzante, un nuovo Io, in quanto “ogni coglimento di altre persone diverse - secondo
Edith - può divenire fondamento di una comparazione di valore” e l’essere umano, che è stato percepito nell’empatia nel suo valore e con i suoi valori ci chiarisce “quello che noi siamo in più o in meno
degli altri”. Allora, “empatizzando, ci imbattiamo in campi di valori a noi preclusi, ci rendiamo coscienti di un proprio difetto o disvalore”.
Giovanni della Croce (1542-1591), che due decenni dopo con le
sue opere, tanto influsso avrà su Edith, ha forse voluto significare
la stessa esperienza quando ha scritto: “L’amore rende simili
l’amante e l’amato”.
Ilaria Meoli, Il concetto filosofico di empatia
come fondamento (debole) del rapporto medico-paziente
Il dubbio
Ambientato in una scuola cattolica del Bronx nel 1964, il
film è incentrato sui sospetti di una suora nei confronti di un
prete e sui suoi abusi verso uno studente nero.
Quando al cinema arriva un prodotto atipico, è facile trovarsi di
fronte ad un capolavoro o ad un film inutile ed irritante, mentre le
mezze misure sono più rare. Il dubbio non è un capolavoro, ma si
avvicina molto a questa categoria. Gran parte del merito va a John
Patrick Shanley, fino a ieri un semisconosciuto nell’ambiente cinematografico (vent’anni fa l’Oscar per la sceneggiatura di Stregata
dalla luna, la sua unica regia è stata una delle tante commedie con
Tom Hanks e Meg Ryan, che tanto andavano di moda negli anni
‘90; come attore si è visto soltanto nel recente debutto alla regia di
Ethan Hawke L’amore giovane (guarda caso nella parte di un prete). Shanley confeziona prima di tutto un’idea, e le dà la forma di
un’opera teatrale: pochi personaggi si muovono sul palcoscenico,
le loro certezze lasciano strada all’insinuarsi del dubbio, che ognuno combatte a suo modo. Dialoghi, ambienti chiusi: l’essenziale
per un’opera teatrale. Ma Shanley non si ferma al successo di questa prima forma della sua idea, e proprio questo successo lo spinge
ad un ulteriore passo: prende la sua opera e non la traspone, ma la
trasforma in uno script con l’aggiunta di tutto ciò che a teatro non
era rappresentabile visivamente. Quando Padre Flynn, durante il
secondo dei tre sermoni che scandiscono il tempo del film, inventa
l’immagine delle piume che riempiono l’aria, lo spettatore finalmente vede ciò che i personaggi semplicemente ascoltano ed immaginano: è il procedimento più basilare del cinema, ed è allo
stesso tempo il più potente. La storia rimane cucita addosso ai tre
protagonisti, ognuno all’attacco degli altri o in difesa di se stesso a
seconda del momento, in realtà in difesa delle proprie convinzioni
e all’attacco di quelle altrui. L’idea è questa, lo svolgimento ci
porta nel Bronx degli anni ‘60, in un momento di forte progresso
della società, solo in parte (e solo da alcuni) avvertito; si evolvono
i costumi, meno le persone (basti pensare che ancora oggi ci sono
preti pedofili e persone che mandano i propri figli a scuole cattoliche), ma queste persone avvertono l’aria nuova e perdono punti di
riferimento. Shanley, come detto alla prima prova seria dietro la
macchina da presa, evita di strafare, ma il montaggio alternato dei
primi minuti la dice lunga sulle sue potenzialità; si affida, come
dargli torto, ad un cast che dir di primo livello sarebbe sminuirlo,
forte dei due migliori attori del momento: Meryl Streep e Philip
Seymour Hoffman. La Streep, vera protagonista del film, è impeccabile in una parte non nuova, ma che solo una grandissima inter-
pretazione può rendere appieno; Seymour Hoffman è costretto a stare un passo indietro, cercando nella
fisicità del suo personaggio lo spazio che la presenza della Streep gli restringe. Ottimo alter-ego della
“cattiva” suora è Amy Adams, sostituita nella parte finale da Viola Davis: il risultato è una valanga di
candidature all’Oscar – quattro per gli attori e una per la sceneggiatura – ed è una rarità per un personaggio come quello della Davis, che entra in scena a venti minuti dalla fine del film e ne esce velocemente.
Il finale può sembrare strano perché non siamo più abituati da tempo a questo tipo di chiusure
(richiama le commedie di molti decenni fa, non solo americane, da Howard Hawks a La donna del
ritratto di Fritz Lang): in parte serve a non appesantire il tutto, in parte – maggiore – deriva direttamente dal testo teatrale, che non poteva permettersi un finale lungo e riflessivo.
Glauco Almonte, Cinema del silenzio
L’elogio del dubbio
Quando due personalità molto forti si contendono la scena, quando due direzioni opposte e contrarie si
incontrano, non possono che collidere: Padre Flynn – prete riformista ed innovatore – premuroso e
cordiale con gli allievi del collegio St Nicholas, e Sorella Aloysius – conservatrice e radicale – dai
modi bruschi e severi. Il primo espleta i suoi servigi cristiani fedele alle leggi della carità cristiana,
senza distinzione di sesso o razza. La seconda conosce solo lo spirito di sacrificio, l’abnegazione e la
disciplina. A mediare le due posizioni estremiste Sorella James. Strani eventi turberanno i cuori e le
menti devote del collegio, minando, con il dubbio, certezze ataviche.
Il collegio di St Nicholas, nel Bronx, è rinomato per la severità dell’educazione impartita, in particolare a causa della fama di Sorella Aloysius (Meryl Streep), donna priva di senso materno, austera, dal
temperamento gelido e autoritario. Padre Flynn (Philip Seymour Hoffman), invece, alleggerisce
l’atmosfera di terrore, respirata da alunni e insegnanti, con carezze e modi paterni. Durante un sermone
domenicale, il sacerdote affronta un tema ostico e critico – il dubbio – elogiandone la natura. Esso, a
suo avviso, non è nemico della fede, ma suo principio fondatore. Riprendendo la massima cartesiana
del cogito ergo sum, il prete encomia il dubbio in quanto unica vera e inconsapevole fonte di certezza:
solo chi dubita esiste a se stesso e davanti a Dio. Sorella Aloysius non convinta della professione di
fede dell’anticonformista servitore della Chiesa, inizia la sua personale ricerca della verità, utilizzando
ogni mezzo per smascherarlo. L’ingresso di Donald Miller nella scuola, offre l’opportunità a lungo
cercata. Padre Flynn, infatti, non nasconde la sua simpatia per quel giovane di colore, bistrattato da
tutti. L’atteggiamento ambiguo nei confronti del ragazzo viene notato dall’ingenua Sorella James
(Amy Adams), la quale, terrorizzata, condivide con la Superiora paure e incertezze. Tra suspance,
silenzi machiavellici, sguardi complici e atmosfere lugubri si snoda la vicenda di un singolo uomo,
accusato di una colpa terribile, costretto a difendersi contro i dubbi – nemici della sua innocenza – e le
certezze – complici della sua colpevolezza.
La regia di John Patrich Shanley enfatizza – con i chiaro scuri, i cambi repentini della macchina da
presa, i primi piani – un senso impalpabile di impotenza e di condanna cieca e senza scampo. L’ascia
pende sul capo del reo, qualunque sia la sua posizione o la giustificazione a sua discolpa. Il pregiudizio
sparge in fretta il suo veleno. Emblematica – e vuole esserlo – la scena in cui, da un cuscino fatto in
mille pezzi fuoriescono migliaia e migliaia di piume, girovaghe come le malelingue. Vano il tentativo
di raccoglierle una ad una; impossibile allo stesso modo mettere a tacere una cattiva voce già in circolo. Niente e nessuno potrà salvare l’uomo dal giudizio inappellabile del dubbio, surrogato della paura.
La sceneggiatura – scritta dallo stesso regista per una pièce teatrale – è audace, incalzante, interpretata
da un formidabile Philip Seymour Hoffman e da una temibile, e in vesti inusuali, Meryl Streep. Le
musiche di Philip Glass modulano ed accompagnano le sequenze, assecondando la trama verso lo
svelamento finale: nessuno è immune dal dubbio.
Antonella Sugameli, Silenzio in sala
Postmodernismo o New Realism? La Realtà sulla graticola
Federica Biasio
Al centro del dibattito
Il dibattito tra Postmodernismo “debole” e New Realism è stato recentemente aperto sul
quotidiano Repubblica da Maurizio Ferraris, è divenuto oggetto principe della maggior
parte delle conferenze tenutesi negli ultimi mesi e vede “schierati” in posizioni divergenti
Gianni Vattimo e Maurizio Ferraris stesso, suo ex-pupillo.
Classe 1956, Maurizio Ferraris, filosofo torinese, sferza colpi al proprio “padre spirituale” concentrando la disputa sull’annosa questione ontologica: se la realtà sia semplice oggetto d’interpretazione ed
esista solamente in quanto interpretabile o se, piuttosto, si mantenga uno zoccolo duro di fattualità a
cui difficilmente si è in grado di rinunciare.
Siccome ogni forma di dialogo presuppone un accordo preliminare tra le parti in discussione, è necessario qui accordarsi sul tema del dibattito: chiarire quale realtà e, conseguentemente, quale verità siano
in gioco e, in seconda istanza, cercare di comprendere come questo dibattito possa esser fertile e produttivo per la filosofia del XXI secolo. Se può in alcun modo esserlo.
Perché la domanda fondamentale dei nostri giorni, domanda che la filosofia non può eludere è: che
cosa fare? Una volta stabilita la vittoria dei guelfi o dei ghibellini, che cosa rimane in campo?
A tale riguardo, poi, intento di quest’articolo è quello di insinuare un dubbio, fermamente convinta che
dall’esercizio dell’epoché sorga sempre un’accresciuta consapevolezza – se non una nuova Verità; un
dubbio, dicevo, circa la “reale” dicotomia tra natura e interpretazione, tra ermeneutica ed epistemologia.
Certamente molti saranno a conoscenza del fatto che ciò che ha dato il La a questo “dialogo” tra postmodernismo e neo-realismo è stata la recente pubblicazione, per Laterza, del nuovo libro di Maurizio
Ferraris, dal titolo Manifesto del Nuovo Realismo. Un libro che annuncia – proprio come Marx ed
Engels fecero per il Manifesto del Partito Comunista del 1848 – l’aggirarsi di uno spettro per
l’Europa. Uno spettro generato in seno a quel postmodernismo che si prefigge di combattere e sovvertire, un grido “alle cose reali” declinato in maniera del tutto differente da quanto fece il padre dei fenomenologi il secolo scorso. Perché gli obiettivi sono anzitutto il populismo mediatico, la politica camaleontica, i soldi virtuali.
Punto di partenza della considerazione di Ferraris è il tentativo tutto postmoderno, figlio delle letture
nietzschiane e dell’ormai celebre motto “non ci sono fatti, solo interpretazioni”, di rendere gassosa la
realtà, quasi inconsistente, logorandola facendo leva sull’idea che il mondo reale esista esclusivamente
in virtù dei nostri atti di coscienza (e delle nostre interpretazioni).
“Il New Realism - ha affermato Ferraris - nasce infatti da una semplice domanda. Che la modernità sia
liquida e la postmodernità sia gassosa è vero, o si tratta semplicemente di una rappresentazione ideologica? È un po’ come quando si dice che siamo entrati nel mondo dell’immateriale e insieme coltiviamo
la sacrosanta paura che ci cada il computer.” Da questo, all’idea che tutto sia costruito socialmente,
compreso il mondo naturale, il passo è molto breve ed è stato compiuto.
Il conio New Realism è nato – ci dice Ferraris – in seguito a un colloquio con un giovane collega tedesco, Markus Gabriel, convenendo entrambi sul fatto che il “pendolo del pensiero, che nel Novecento
inclinava verso l’antirealismo nelle sue varie versioni (ermeneutica, postmodernismo, ‘svolta
linguistica’), con il tornante del secolo si era spostato verso il realismo”.
Una presa d’atto del fatto che ci troviamo di fronte a un cambio di prospettiva, a una rivoluzione copernicana post litteram.
I capisaldi del postmodernismo, analizzati da Ferraris nella prima sezione del Manifesto, vengono nel
corso delle pagine trattati al fine di mostrarne i limiti intrinseci. In primis, l’ironizzazione, ossia il
virgolettismo del mondo derivato dall’idea che i grandi “racconti” del moderno siano la causa dei peggiori dogmatismi. L’ironia di cui parla Ferraris è l’ironia che non diverte ma che riverte. Lo sguardo,
su ciò di cui si ironizza, compie un’orbita completa, lo sorvola, lo rivolta, e sullo stesso punto si arriva
da molte posizioni diverse. Per questo motivo essa risulta imparentata con il postmodernismo e ne è
divenuta una dei capisaldi.
Eppure suddetta ironia aveva un cuore antico e radicale, che affondava le proprie radici nel pensiero
nietzschiano e nella rivoluzione copernicana di Kant. In questo senso il postmoderno è stato il frutto
“proibito” di una svolta culturale che coincise con la nascita della modernità. Ma la volontà di emancipazione dai padri, sembra ammonire il filosofo torinese, conduce il giovane a scontri titanici anche
laddove la battaglia è persa in partenza e ciò ha condotto il postmodernismo in filosofia a emanciparsi
dalla tradizione filosofica a cui era legato, auspicando per la filosofia un’operazione affine a quella che
Duchamp fece in ambito artistico: presentare un Hegel “filosoficamente barbuto” proprio come la
“Gioconda con i baffi” di Duchamp.
In secondo luogo, la deogettivizzazione, ossia l’idea che la realtà, l’oggettività e persino la verità siano
un male; idea maturata in seguito alla radicalizzazione del kantismo e che decretò come conseguente
risultato l’idea secondo cui non ci sarebbe accesso al mondo se non attraverso la mediazione operata
da schemi concettuali e rappresentazioni.
Espressione massima della deogettivizzazione risulta essere – secondo Ferraris – la politica e in particolar modo la teorizzazione da parte di questa che la realtà sia esclusivamente una serie di incongrue
credenze da parte di sprovveduti che non sanno bene come funziona il mondo. Che persino la guerre e
gli omicidi altro non sono che uno spettacolo televisivo a la Truman Show. Immobilizzati in un mondo
di specchi che riflettono porzioni di realtà, deformandole, gli uomini si consolano con la magra idea
che non ci sia e non ci sia d’altronde mai stato il famigerato bandolo della matassa, che la storia sia
stratificazione di miti da de-costruire e de-saturare.
Terzo, la desublimazione, ossia l’idea che il desiderio possa costituire di per sé un elemento emancipativo, come auspicato dalla rivoluzione dionisiaca nietzschiana, secondo la quale l’uomo tragico, anti
razionale e anti socratico per eccellenza, fosse l’uomo desiderante. Ironia della sorte, proprio questa
rivoluzione del desiderio che avrebbe dovuto condurre l’uomo all’emancipazione, diviene la catena
che gli’imbriglia le caviglie e lo ancora a un circuito vizioso tale per cui attuare una rivoluzione desiderante coincide con l’attuare una restaurazione desiderante, nel senso che il desiderio diviene strumento di controllo sociale. D’altronde in un mondo in cui tutto è dettato dall’ultimo modello di Iphone
sul mercato, in cui siamo portati a sentirne il bisogno (e quindi a desiderarlo), il postmodernismo ha
sicuramente visto lungo.
Dead Man
Basterebbe l’incipit per ridare lustro a un aggettivo ormai logoro come “kafkiano” e consegnare Dead Man alla storia del cinema a stelle e strisce. Nero di carbone in volto, labbra
bianche (quasi un minstrel, verrebbe da pensare) e occhi di ghiaccio, il macchinistaindovino scruta il passeggero William Blake e ne diviene interprete: “Guarda fuori dal finestrino. Non ti torna alla memoria di quando eri nella barca? E di quando quella notte eri disteso, lo sguardo rivolto al cielo, e l’acqua di cui ti ricordavi non era poi così diversa dal
paesaggio... Tu ti chiedesti: ‘Come mai il paesaggio si sta muovendo ma la barca è ferma?’
E ancora... Da dove vieni tu?”
Soltanto questi cinque minuti racchiudono, liofilizzati, tutto Kafka, tutto Jarmusch, tutto Cormac McCarthy, tutto Samuel Beckett. Minuti che procedono a singhiozzo fra squarci di visione,
racchiusi in minime porzioni di filmato poi riconsegnate
all’oblio. Impressioni registrate da quel substrato della coscienza
non vigile. Movimenti involontari. Particolari d’ambiente: il
dettaglio della lampada a olio che dondola, gli sguardi incuriositi
dei passeggeri. Ancora il treno, luogo cinematografico per eccellenza: noir, western, migliaia di partenze e di addii, mozziconi
ancora umidi ammassati nei posacenere a specchio, cabine letto
in cui si ha amato o ucciso. Il particolare dei macchinari fumanti,
tedesco (meglio: “langhiano”) all’inverosimile. Pistoni in funzione. Il fingerpicking di Neil Young che, a passo di lumaca, sfibra
la sei corde in un balbettio di elettricità pura. Blake, timido e
riservato, che cerca un appiglio visivo, ma tutto gli è estraneo.
“Guarda, stanno sparando ai bisonti” dice ancora il macchinista,
impassibile, mentre dai finestrini del vagone si consuma la carneficina. E continua a fissare Blake. Impaurito, William si raggomitola su se stesso, aggrappandosi alla sua valigia, al pezzo di carta
che certifica la sua assunzione presso la ditta Dickinson, alle
certezze che, passo dopo passo, gli verranno tolte. Come svanite.
Dissolvenza.
***
Filmato in uno splendido bianco e nero, “Dead Man” non è un
film western (alcuni lo hanno paragonato al “guscio di un western”) e non rispetta nessuno dei cliché o dei codici morali che,
da Ford in poi, hanno contraddistinto il genere in questione, nemmeno dopo la rivoluzione messa in atto da Sam Peckinpah. I
riferimenti appaiono altri, per lo più estranei: le meditazioni sacrali di Yasujiro Ozu, l’epica di Akira Kurosawa, il gusto per la
decostruzione di matrice postmoderna dell’Altman di McCabe &
Mrs. Miller o, se proprio si vuole fare gli chic, la mistica vergata
da Alejandro Jodorowskj ne El Topo (tutti film fatti su misura per
“Fuori Orario”, tanto per intenderci). Questo perché Dead Man è
un percorso interiore, un’allegoria esistenziale ambientata casualmente (mica poi tanto...) nel Far West, ma in realtà senza tempo
né spazio, solenne tentativo di visualizzare (l’assenza del)la vita
e, in contemporanea, perfezionare i canoni estetici di una poetica
intera.
La trama è presto detta: il giovane William Blake (un Johnny
Depp che sarà ormai stereotipato quanto si vuole, ma resta corpo
cinematografico di rara malleabilità) giunge da Cleveland alla
città di Machine, lì ha un paio di “disavventure” con la gente del
luogo e, gravemente ferito, si trova costretto a fuggire attraverso
labirinti di boscaglia e montagne. A guidarlo in questo percorso è
l’indiano sui generis chiamato “Nessuno”, mediatore fra la cultura occidentale e quella dei pellerossa, bislacca figura in cui collidono i temi, da sempre cari a Jarmusch, dell’integrazione e
dell’amicizia fra stranieri. Mentre i due “senza patria” penetrano la natura ispida e terminale del landscape, il loro cammino assume, poco a poco, i connotati di un percorso iniziatico durante il quale
Blake si prepara al trapasso, al proprio impercettibile dissolversi in slow motion. L’apprendimento
della violenza e la comprensione della sua crudele poesia (“Sembra quasi una cazzo di immagine sacra” bofonchia uno dei sicari incaricati di stanarlo, guardando il cadavere di uno sceriffo) sono, in
questo contesto, tappe obbligate per dare senso a un’esistenza percepita come forma neutra, mediana:
innocuo meccanismo biologico disposto a “farsi vita” soltanto nel momento in cui Blake lascia di sé
traccia, seminando cadaveri.
Machine è l’ultima fermata di un uomo che già aveva perso tutto (i genitori, la fidanzata) e che si prepara all’ultimo viaggio: la pallottola conficcata vicinissima al suo cuore è indizio del processo di decomposizione, silenziosa ma ingombrante presenza di una morte “in potenza” che attende di farsi evento sensibile. Ci sarebbe voluto Chris Watson (ex Cabaret Voltaire) a piazzare microfoni dentro la
quasi-carcassa e registrare il tutto, ma fa niente: basta (e avanza) concentrarsi sulla macchina da presa,
occupata a interiorizzare un paesaggio di corpi senza peso, spesso facendosi tutt’uno con il senso di
disorientamento provato dal protagonista nel vedersi scivolare via da se stesso, dal proprio essere. Un
togliere (da noi stessi, dagli altri) senza avere in cambio alcunché, se non la consolatoria cessazione degli affanni. E del
proprio respiro.
Nessuno (rivolgendosi a Blake): “Hai ucciso l’uomo bianco
che ti ha ucciso?”
Blake: “Io non sono morto...”
Dissolvenza.
***
Simbolo dell’ansia di rinnovamento che ha attraversato il
cinema indipendente americano nei primi anni ‘80, quello di
Jarmusch è uno sguardo fisso, esilarante ma disincantato sulle
miserie ontologiche di un tempo che non scorre, non progredisce, fossilizzandosi bensì in fermo immagine di vita anemica.
Il gesto, almeno inizialmente (si veda il lungometraggio
d’esordio Stranger Than Paradise, datato 1984), guarda a
Wim Wenders come nume tutelare ma se ne emancipa alla
svelta, abbinando alla povertà di mezzi e al feeling amatoriale,
la dolorosa (blasfema, per alcuni) uniformità delle location:
tutte le città sembrano uguali, tutte le vite paiono svolgersi secondo codici comportamentali predefiniti. La fotografia stessa anestetizza le tonalità, spalma ettolitri di bianchi e gradazioni chiare, rifugge da
qualsivoglia gioco di luci espressionista; livella, in ultimo, ogni superficie, ogni emozione. Cinema che
sopravvive come immobilità “etimologica”, nonostante il perpetuo nomadismo dei personaggi.
Quello di Jarmusch resta, in fondo, teatro dell’assurdo, degli accostamenti improbabili: il giullare Roberto Benigni nel jailbreak movie Down By Law, Forest Whitaker a misurarsi con le arti samurai in
Ghost Dog, il bambolotto Iggy Pop e l’orco Tom Waits a farsi un caffè e mal celare la reciproca (e si
spera finta) antipatia in uno degli episodi più spassosi di Coffee And Cigarettes. Personaggi che, a
scapito del loro intimo fulgore, sono condannati in partenza, poiché a nulla servono i loro tentativi
d’evadere da una realtà estranea, aliena tanto quanto il risuonare “ungherese” di “I Put A Spell On
You” (Screamin’ Jay Hawkins) nei ghetti di New York, durante quel memorabile carrello di Stranger
Than Paradise.
Pure in Dead Man resta intatto il gusto per il paradosso e il confronto fra culture, così come l’utilizzo
di espedienti narrativi apparentemente risibili: l’intrallazzo del protagonista con la ragazza che fabbrica rose di carta, i cazzeggiamenti dei tre gringos assoldati per “finire” Blake, o l’incontro con un trio di
guerci in cui ancora Iggy Pop veste i panni della massaia (!). Eppure lo humour beffardo che sgorga
dall’opera non riesce a far passare in secondo piano l’intima tragicità di un road movie tranquillamente
equiparabile non tanto alla (ri)scoperta di un “Nuovo Mondo”, quanto all’esplorazione di un’eterna e
immutabile wasteland senza identità.
Road movie perché tutti i film di Jarmusch, in un modo o nell’altro, lo sono. In ognuno di essi emerge,
per mezzo del viaggio (poco importa che sia effettivamente “sulla strada” e ne rispetti i canoni formali), un nuovo volto dell’America che contraddice il precedente. Un’America indecifrabile, inafferrabile
perché spettro, lenzuolo fissato alla meglio sui pioli dell’anonimato. Un cumulo di frammenti e interrogativi che il recente, sottovalutato e invero splendido Broken Flowers trasfigura in “leggera” investigazione sulla natura della materia degna di un Antonioni o, volesse il cielo, d’uno Tsai Ming-Liang.
Soprattutto, il cinema di Jarmusch è diventato, col tempo, ricerca di verità e di saggezza, voglia di
senso. Perché l’America non esiste. Esiste il Mondo. Dissolvenza.
ORTEGA Y GASSET VS DE UNAMUNO
I due maggiori pensatori spagnoli del Novecento, Miguel de Unamuno e José Ortega y Gasset, abitano nei Campi Elisi, il primo dall’ultimo giorno del terribile 1936, il secondo dal
1955. In vita si combatterono accanitamente, incarnavano due idee e due fedi divergenti
della Spagna. E oggi, dalla loro contrada di paradiso, continuano a litigare? Chi dei due aveva visto meglio il destino della loro patria, che era stata grandissima? Chi è giusto sia il riferimento ideale della nazione del 2012, spaventata dal default ma assai prospera rispetto a
quella di un secolo fa?
Tutte le apparenze assegnano la Spagna dei nostri giorni a Ortega y Gasset, che fu il
‘partidario de la modernidad’, l’assertore della omogeneizzazione all’Europa, contro i miti e
le eroiche fissazioni nazionali. Ortega era tutto Newton e Kant, tutto Illuminismo aggiornato, tutta fede in un progresso materiato di scienza, logica e tecnocrazia. La Spagna di oggi,
lucente di grattacieli, di elettronica, alta velocità, finanza avanzata, ben più aeroporti
dell’indispensabile e sperimentazioni temerarie alla Rodriguez Zapatero, sembra appartenere
di diritto a Ortega, grande intellettuale madrileno, cattedratico di filosofia ma maestro di
‘filosofia pratica’, instancabile produttore di articoli giornalistici anzi comproprietario di un
quotidiano, l’uomo che aveva intrapreso a lanciare un partito delle riforme liberali ed era
stato nel pugno di progettisti e promotori della Repubblica del 1931.
Miguel de Unamuno - di cui ‘Internauta’ di settembre dice che “non parla alla Spagna
d’oggi, di domani chissà”- fu più volte definito da Ortega ‘energùmeno espagnol’ e il suo
pensiero energumenico. Per altri fu “genial tempestuoso” e “el mayor poeta romàntico de
Espagna”. Il suo ‘vivir’ era ‘apasionado’ e ‘paradòjco’, la sua prosa ‘confesional’. I titoli
delle sue opere maggiori erano straordinariamente intensi: Del sentimiento tràgico de la
vida, Agonìa del cristianismo, Cristo de Velàzquez. Che potrebbe avere in comune con Unamuno la Spagna di un secolo dopo, costernata sì per le vicissitudini dell’economia ed i
rimorsi dell’orgia consumista-edonista ma ormai pienamente ostaggio dell’ipercapitalismo
(grazie anche a Gonzales e a Zapatero), catturata da una modernità dissacratrice del retaggio?
Unamuno fu il bardo della patria prostrata e dolorosa. Invece gli spagnoli d’oggi si sentono
piuttosto europei in momentanee difficoltà, più che mai protesi a rientrare nei modi della
prosperità. Non sentono che un romantico estremo possa rappresentare una nazione di portatori di credit cards. I nobili miti della grandezza storica, che Unamuno aveva maledetto per
amore - dunque non ripudiato - avevano staccato la Spagna dall’Europa, cioè dall’oggi. Al
punto che Manuel Azagna, il demiurgo laicista della Seconda Repubblica, uno degli statisti
più falliti della storia contemporanea, aveva creduto di poter scandire lo scherno finale:
“Nulla può essere fatto di utile e valido senza emancipazione della storia. Come ci sono persone heredo-sifilìticas, così la Spagna è un paese heredo-històrico”. Povero Azagna: presiedeva un paese che ricordava le parole di Carlo V: “La lingua castigliana è stata fatta per parlare con Dio”. Non poteva essere più netto il contrasto tra il rettore di Salamanca, grecista,
poeta e quasi un flagellante, e l’Ortega partigiano della contemporaneità, l’Ortega che aveva
proclamato “La Spagna non è nulla; per la sua anima non sono stati né Platone né Newton
né Kant” e “In Spagna non c’è ombra di scienza”.
Messa così, l’anima della Spagna passata all’economicismo e alla razionalità appartiene a
Ortega y Gasset, il quale visse sì il ‘patriottismo tragico’ della Generazione del ‘98, ma aveva fede nell’educazione del popolo e nelle avanzate tecnologiche. La Spagna di oggi è tecnologica professa.
Tuttavia non tutti i giochi sono stati fatti. Forse il futuro non è del capitalismo, falso moltiplicatore della ricchezza, e del progresso dispensatore di felicità. Forse potrà esserci un ritorno agli ideali derisi dal malaugurato Azagna. Forse crescerà un comunitarismo solidale e
austero, che inevitabilmente riprenda gli spunti vivi del socialismo ‘humanistico’. Se questo
accadesse, chi sarebbe il riferimento storico, se non Miguel de Unamuno? Il quale in gioventù fu appassionatamente socialista e profeta senza speranza di una Spagna sorella dello
spirito.
Antonio Massimo Calderazzi
Un “noir” romantico ed eccentrico. Da un’idea di
Bono, un universo di marginali, falliti, illusi e matti
Wenders e l’albergo delle anime
perse
Un thriller romantico. Una riedizione alberghiera di Freaks. Un pretenzioso tentativo di coniugare genere e cinema
d’arte. L’America vista da un ragazzo tedesco cresciuto a
rock e Hollywood. Sono i tanti modi in cui è possibile
vedere - e in cui è stato visto dalla critica internazionale
presente a Berlino - The Million Dollar Hotel, il film che
Wim Wenders ha realizzato su un’idea di Bono e del suo
sceneggiatore (anche in questo caso) Nicholas Klein.
Chi vuole può leggere la sceneggiatura del film in versione
inglese e italiana appena uscita nelle edizioni di Il Castoro:
e si renderà conto di cosa voglia dire fare cinema di classe.
Perché è la visione, l’occhio, lo stile che fa di The Million
Dollar Hotel un film da vedere. La storia, la sceneggiatura,
l’ambiente sono, al contrario, poca cosa: meno accattivante
della Cuba musicale di Buena Vista Social Club, più simpatico e meno oracolare di Crimini invisibili (giusto per restare alle due ultime prove di Wenders), più
leggero della maggior parte dei suoi film messi insieme. Ma ancora una volta l’incastro tra la sceneggiatura e la confezione è imperfetta, e Wenders resta un grande regista in cerca di una storia vera.
The Million Dollar Hotel è un noir (con tanto di morto che parla e racconta, come in Viale del tramonto o in American Beauty), un po’ una collezione di stravaganze losangeline, un po’ il ritratto di un
albergo che esiste veramente, nella downtown di Los Angeles, costruito nel 1917, come The Frontier,
e già location per un video degli U2, Where the Streets Have No Name, che è stato girato sul suo tetto.
Proprio dove comincia il film di Wenders. Già da queste ben architettate coincidenze si capisce che il
film è anche un gioco di echi e di citazioni. In questo concentrato di anime perse, marginali, artisti
falliti, illusi e matti, i personaggi sono maschere di una commedia dell’arte del 2000 più che persone.
Il giovane Tom Tom (il bravo Jeremy Davies) ha l’animo gentile e l’età mentale di un bambino, e
crede ancora che “pussy” voglia dire soltanto gattino. Peter Stormare è convinto di essere il quinto
Beatle - anche se gli altri quattro non lo sanno. Eloise, la bella prostituta dal cuore d’oro e dai neri
segreti che coltiva la sua passione per i libri (Milla Jovovich) sembra uscita da un film francese. La
matta Amanda Plummer si crede in una vita più bella. Julian Sands è il mercante d’arte che si interroga
sui confini (labili, come si vedrà) tra arte e trash.
E sotto forma di fantasma che ritorna nei ricordi, c’è Tim Roth, il giovane ricco e prepotente approdato
al Million Dollar Hotel con i suoi misteriosi quadri neri che, prima di precipitare dal tetto dell’albergo
(suicidio? delitto?) è riuscito a far del male sia a Eloise che a Tom Tom. Completa il circo Mel Gibson, nel ruolo dell’agente speciale del Fbi Skinner, vero freak con la testa sostenuta da una gabbia di
acciaio e un cuore più tenero del prevedibile. Per costruire il suo puzzle Wenders ha scelto i suoi attori
con tutto il carico del loro passato, da Milla Jovovich, che continua ad essere l’angelico personaggio di
Il quinto elemento, a Jeremy Davies, nevrotico fin dai tempi di Spanking the Monkey, dove seduceva la
mamma. Ma l’intreccio di questi “caratteri” tutti sopra le righe produce una sensazione di eccentricità
a tutti i costi, di gioco prestabilito, di comico-grottesco insistito, così come il racconto in soggettiva e
la voce off di Tom Tom spingono troppo a fondo il pedale del poetico e del miserabilismo. Ma dove la
maestria di Wenders resta intatta è nell’eleganza della visione (a cui contribuisce non poco la fotografia di Phedon Papamichael). Basterebbero i primi dieci minuti del film, che cominciano con
l’esplorazione dall’alto di Los Angeles e finiscono con la corsa del povero Tom Tom sotto l’insegna
che domina il tetto del Million Dollar Hotel, per dirci che Wenders continua ad avere l’occhio del
regista di razza - a cui manca, peccato, il coraggio della semplicità.
Irene Bignardi, La Repubblica, 1 aprile 2000
Un intreccio tra Heidegger e Wenders
Sia Heidegger che Wenders amano citare il poeta Rainer
Rilke, e in questo senso penso che Rilke articoli una connessione fondamentale tra i progetti di entrambi gli intellettuali. Tutti e due sono alla ricerca di una nuova apertura
alla questione dell’esperienza dell’essere (vivo), non solo
per renderlo felice, ma anche per condividere un percorso
che altri possano seguire.
In Heidegger, per essere fedele al suo percorso intrapreso,
la questione dell’essere, ha dovuto imparare un nuovo
modo di parlare (e pensare) - da “dentro”, da “fuori
dell’esperienza di essere-se-stesso,” piuttosto che dall’alto
Essere (ciò che Heidegger chiama la metafisica). La maggior parte degli scritti di Heidegger, pubblicati più tardi
rispetto al precoce successo del capolavoro filosofico Essere e tempo, parte da un punto controverso del suo Essere
e tempo e si concentra su diversi aspetti, uno dei quali
consiste nel “parlare dall’interno Essere”, o ciò che Heidegger chiama abitare.
In confronto, Wenders incarna metaforicamente la trasformazione dell’essere ne Il cielo sopra Berlino. Egli mostra
la frustrazione di un angelo sempre limitato a guardare
dall’alto, sempre dal di fuori l’esperienza di “essere” se
stesso, come punto di partenza per una trasformazione da
dentro l’“Essere”. L’angelo immateriale si innamora di
una donna umana, che si comporta come un angelo nel
circo, sceglie di diventare mortale ed entrare nella esperienza della mortalità. In primo luogo, il film ci mostra la
galleggiante, distaccata prospettiva onnisciente degli angeli e poi ci lascia entrare nella vita colta dal livello
dell’occhio, nella mortalità.
Non è impossibile raffrontare, sia pur per contrasto,
l’heideggeriana trasformazione da metafisica ad abitazione
e la wendersiana trasformazione da angelo a mortale ne Il
cielo sopra Berlino. Io guarderò come Wenders oltrepassi
il superamento heideggeriano della metafisica, e come il
cinema si ponga come una possibile grazia salvifica, collocabile fuori dalla zona di pericolo, e consideri la sfida
heideggeriana dell’abitare un ulteriore passo avanti rispetto a quello che il medesimo Heidegger compie nei confronti delle sue stesse posizioni.
Analogamente, la scelta di portare filosofia con prepotenza
in un film, e utilizzando il mezzo cinematografico al massimo delle sue potenzialità, invade il reale di metafisica, e
le forze della filosofia consentono l’espressione
dell’Essere dall’interno, piuttosto che dal fuori e dal di
sopra dell’Essere...
La ragione per cui sia Heidegger sia Wenders sentono il
bisogno di questa trasformazione in Essere è quella di
affrontare una coscienza sradicata, che vedono e sentono
nel contemporaneo mondo che li circonda. Questa mancanza di radicamento è la motivazione che
spinge le trasformazioni a realizzarsi ogni qualvolta lo desiderino. Sto guardando le loro creazioni
offerte al mondo, sia nella scrittura che nel cinema, come un tentativo di esprimere una profonda mancanza di connessione con il mondo e l’incapacità di cogliere l’Essere, relegato a presenza nel nostro
tempo tecnologico.
Possiamo vedere più concretamente questo uomo senza radici nella situazione storica: sia l’uomo heideggeriano che quello wendersiano provengono dalla Germania post Seconda Guerra mondiale, ed
entrambi sono resi privi del loro passato e del loro presente. Essi sono stati costretti a dimenticare il
loro passato collettivo ed il luogo da cui provengono, perché l’orrore di esso li lascia senza tradizione e
senza alcuna capacità di costruire. Al tempo Heidegger ha scritto Costruire Abitare Pensare, uno dei
suoi tentativi più toccanti di ricerca del significato profondo di abitazione: la Germania era sopraffatta
da una crisi nazionale, i senzatetto, nel senso letterale del termine, erano milioni di persone, le difficoltà per compiere i primi passi verso il recupero dalla distruzione provocata dalla guerra erano insormontabili. Al di là della corrente tragedia cui assistette, Heidegger aveva a che fare anche con il suo
coinvolgimento nel nazismo e con la sua mancata resistenza al movimento. Wenders è figlio di questo
stesso periodo, ed è cresciuto a Dusseldorf all’indomani del terrore nazista. La misura in cui i desideri
di ogni uomo sono soggettivamente veri, e la misura in cui sono veri per tutte le persone in vita nella
seconda metà di questo secolo si fondono insieme con forza nella mia mente. Tutto quello che so per
certo è che i desideri e la mancanza di connessioni che essi descrivono sono molto in risonanza con
quello che vedo e sento, e non si sentono come lontane situazioni peculiari nella Germania del dopoguerra. Per affrontare questo problema, il primo passo del progetto di uomini è un riconoscimento
delle attuali tendenze di senzatetto. “Non gli angeli, non gli uomini, e gli animali scaltri notano che
non siamo molto a casa nel mondo che abbiamo esposto.” (Rainer Rilke, 1st Elegy). Entrambi riconoscono sovrapposte l’alienazione e la disperazione nei loro rispettivi tempi contemporanei, che sono il
risultato di una metafisica che sottende una definitiva visione del mondo. Entrambi vedono anche la
necessità di superare questo limite. Questa è la richiesta che aspira ed invita all’abitare.
Michael Bischoff, The end of philosophy and the rise of films,
A transformative overcoming of metaphysics in
Martin Heidegger’s late writings and Wim Wenders’
Wings of Desire, Thesis on Heidegger, Wim Wenders, and technology