Età di ferro

Transcript

Età di ferro
LDB
J.M.Coetzee
Etàdiferro
TraduzionediCarmen
Concilio
Einaudi
PerV.H.M.C.
(1904-1985)
Z.C.(1912-1988)
N.G.C.(1966-1989)
I.
C’è un vialetto a lato del
garage, dovresti ricordarlo,
dove qualche volta giocavi
con i tuoi amici. Ora è un
luogo desolato, privo di vita,
inutile, dove le foglie
trasportate dal vento si
accumulanoemarciscono.
Ieriinfondoaquelvialetto
mi sono imbattuta in un
rifugiodiscatoledicartonee
telidiplastica.C’eraunuomo
rannicchiato là dentro; un
uomo che avevo già visto in
giro per strada: alto, magro,
con lunghi denti cariati, la
pelle segnata da rughe
profonde e con indosso un
vestitogrigio,logoroetroppo
ampio, e un cappello dalla
tesafloscia.Cel’avevaintesta
ora e dormiva con l’orecchio
sulla tesa ripiegata. Un
derelitto. Uno dei tanti
derelitti che si aggirano tra i
parcheggi di Mill Street per
elemosinare
soldi
dai
passanti, che si ubriacano al
riparodiuncavalcavia,chesi
nutrono delle scatolette
raccolte tra i rifiuti. Uno dei
senzatetto per i quali agosto,
ilmesedellepiogge,èilmese
peggiore. Assopito, nella sua
casa di cartone, con la
mascella rilassata, la bocca
aperta e le gambe da
burattino distese in fuori.
Intorno a lui un odore
ripugnante di urina, di
liquore,
di
indumenti
ammuffiti e altro ancora.
Sporco.
Sono rimasta là ferma a
fissarlo per un po’. Guardavo
e annusavo. Una creatura in
visita che ha scelto tra tutti
proprio questo giorno per
importunarmi.
Lo stesso giorno in cui il
dottor Syfret mi ha
comunicato la notizia. Una
brutta notizia; ma era solo
mia, per me, soltanto per me
e non poteva essere ignorata.
Era per me: dovevo
accoglierla tra le braccia,
stringerlaalpettoeportarlaa
casa, senza possibilità di
rifiutarla neppure con un
cenno del capo, senza
lacrime. – Grazie, dottore –
ho detto. – Grazie per essere
stato sincero. – Faremo tutto
ilpossibile–harispostolui–
affronteremo il problema
insieme –. Eppure, dietro
quella maschera cameratesca,
io avevo già intravisto la
ritirata.Sauve qui peut. Lui è
un alleato dei vivi, non dei
moribondi.
Il tremito è cominciato
solo quando sono scesa
dall’auto. Il tempo di
richiuderelaportadelgarage
etremavotutta;percalmarmi
ho dovuto serrare i denti e
stringere la borsetta. È stato
allora che ho visto le scatole,
hovistolui.
– Che ci fa lei qui? – ho
chiesto, sentendo il tono
irritato della mia voce che
non controllavo. – Non può
restarequi,deveandarsene.
Non si è mosso; è rimasto
sdraiato nel suo rifugio,
guardando
all’insú,
ispezionando
le
calze
invernali, il cappotto blu, la
gonnachedasemprependeva
in uno strano modo, i capelli
grigi divisi da una striscia di
pelle, pelle di vecchia, rosea
comequelladeineonati.
Poi, facendo leva sulle
gambe, si è alzato senza
alcuna fretta. Senza dire una
parolamihavoltatolespalle,
ha scrollato il telo di plastica
nera e lo ha piegato in due,
poi in quattro e ancora in
quattro. Ha tirato fuori una
borsa (c’era stampato: Air
Canada) e ne ha chiuso la
cerniera. Io mi sono fatta da
parte. Mi è passato accanto
lasciandosi dietro le scatole,
una bottiglia vuota e l’odore
di urina. I pantaloni gli
cascavano;seliètiratisu.Ho
aspettatoperesseresicurache
se ne andasse e l’ho udito
riporre la plastica nella siepe
dallatoesterno.
Duecose,dunque,nelgiro
di un’ora: la notizia, a lungo
temuta, poi questa ispezione,
questa altra forma di
annunciazione.Ilprimodegli
avvoltoi,rapaci,infallibili.Per
quanto tempo riuscirò a
tenerli lontani? I barboni di
Cape Town, il cui numero
non diminuisce mai. Che
vanno in giro nudi senza
patireilfreddo;chedormono
all’aperto senza ammalarsi;
che muoiono di fame senza
deperire. Riscaldati dentro
dall’alcol; le infezioni e le
malattie contagiose del loro
sangue consumate dalla
liquida fiamma. Divoratori
degli avanzi a festa finita.
Mosconi spietati, dalle aride
ali e dagli occhi vitrei. I miei
eredi.
Con che passi lenti sono
entrata in questa casa vuota,
disertata da ogni eco, dove
persinoilrumoredellescarpe
sulle tavole del pavimento
risuona sordo e monotono.
Quanto ho desiderato che tu
fossi qui ad abbracciarmi, a
consolarmi! Comincio solo
ora a comprendere il vero
significato dell’abbraccio. Si
abbraccia
per
essere
abbracciati. Prendiamo i
nostri bambini tra le braccia
affinché essi ci stringano
nell’abbraccio del futuro, ci
facciano sopravvivere, ci
accompagnino oltre la soglia
della morte. Era cosí ogni
volta che ti stringevo a me,
sempre. Diamo alla luce figli
affinchéessisiprendanocura
di noi. Le verità della casa, la
veritàdiunamadre:daorae
fino alla fine è tutto ciò che
avrò da dirti. Dicevo…
quanto mi sei mancata!
Quanto ho desiderato poter
salire di sopra da te, sedermi
sul bordo del letto, far
scorrere le dita tra i tuoi
capelli,
sussurrarti
all’orecchio: È ora di alzarsi!,
come facevo al mattino
quando dovevi andare a
scuola. E poi, quando ti
giravi,ilteporedeltuocorpo,
iltuorespirodolcedilatte,ti
prendevo tra le braccia per
quelritochenoichiamavamo
«stringere Mamma forte
forte» il cui significato
segreto, il significato mai
confessato, era che Mamma
non doveva essere triste,
poichénonsarebbemortama
avrebbecontinuatoaviverein
te.
Vivere! Tu sei la mia vita,
io amo te come amo la vita.
Al mattino esco di casa,
inumidiscoleditaelesollevo
alvento.Quandoilgelosoffia
danord-ovest,dadovetusei,
io rimango cosí, a lungo, ad
annusare l’aria, con tutti i
sensi all’erta, nella speranza
che attraverso diecimila
migliaditerraeacquagiunga
finoameunpo’delprofumo
dolce di latte che ancora ti si
annida dietro i lobi delle
orecchie e nella piega del
collo.
Il
primo
compito
assegnatomidaoggi:resistere
al desiderio di condividere il
dolore della morte con
qualcuno. Poiché amo te e
amo la vita devo perdonare i
vivi e congedarmi senza
rimpianti. Abbracciare la
morte
come
se
mi
appartenesse, come se fosse
solomia.
Ma a chi sto scrivendo
allora? La risposta: a te ma
nonate;ame,atecheseiin
me.
Per tutto il pomeriggio ho
cercato di tenermi occupata:
horipulitoicassetti,hoscelto
e gettato via vecchie carte.
All’imbrunire sono uscita di
nuovo. Dietro al garage il
rifugio era sistemato come
prima, con il telo di plastica
nera accuratamente disteso
sopra i cartoni. L’uomo vi
giaceva
all’interno,
rannicchiato, con le gambe
vicinoalcorpoeconuncane
al fianco che drizzava le
orecchie e dimenava la coda.
Ungiovanecollie,pocopiúdi
un cucciolo, nero a chiazze
bianche.
– Non voglio fuochi – ho
detto. – Mi ha sentito? Non
voglio fuochi. Non voglio
casino.
Allorasièmessoasedere,
sfregandosi le caviglie nude e
guardandosi attorno come se
non sapesse dove si trovava.
Lafacciaequinasegnatadalle
rughe, con le palpebre gonfie
degli alcolizzati. Strani occhi
verdi:malati.
– Vuole qualcosa da
mangiare?–hochiesto.
Mi ha seguito in cucina
con il cane alle calcagna e ha
aspettato
mentre
gli
preparavo un panino. Ne ha
staccato un boccone, ma poi
sembrava essersi dimenticato
di masticare. Se ne stava
appoggiato allo stipite della
porta con la bocca piena, la
lucesiriflettevaneisuoivacui
occhi verdi, mentre il cane
guaiva sommessamente. –
Devofarelepulizie–hodetto
con tono impaziente, mentre
mi avvicinavo alla porta nel
gesto di chiuderla. Allora è
uscito senza proferire parola,
ma io sono certa di averlo
visto gettare via il panino
prima ancora di voltare
l’angolo e il cane tuffarvisi
sopra.
Non c’erano cosí tanti
vagabondi quando c’eri tu.
Ma ora fanno parte della vita
di qui. Se mi fanno paura?
Tuttosommato,no.Unpo’di
elemosina, qualche furto;
sporcizia,
schiamazzi,
ubriachezza, niente di piú.
Temo piuttosto le bande di
teppistelli, quei ragazzini dal
muso duro, voraci come
squali, su cui calano già le
ombre della prigione che li
ospiterà. Bambini che hanno
inspregiol’infanzia,iltempo
della meraviglia, il tempo in
cui l’anima prende forma. La
loro anima, l’organo della
meraviglia,
rachitico,
pietrificato. E dall’altro lato
della grande barriera i loro
cugini bianchi, anch’essi con
l’anima rattrappita, sempre
piú prigionieri nelle fitte
spirali protettive del loro
sonnolento bozzolo. Nuoto,
lezioni di equitazione, danza
classica, cricket su prato; vite
trascorse dentro giardini
fortificati,
guardati
dai
bulldog.
Bambini
del
paradiso, biondi, innocenti,
avvoltidaluceangelica,teneri
comeputti.Lalorodimora:il
limbo dei non nati. La loro
innocenza: l’innocenza delle
larve d’ape. Bianchi e
grassocci, intrisi di miele,
assorbonodolcezzaattraverso
la pelle tenera. Le loro anime
sonnolente, traboccanti di
beatitudine,distratte.
Perché do del cibo a
quell’uomo? Per la stessa
ragione per cui darei da
mangiarealsuocane(rubato,
ne sono certa) se venisse a
mendicarne. Per la stessa
ragionepercuitidavoilseno.
Avere abbastanza per poter
far dono della propria
abbondanza: quale impulso
piú urgente di questo può
esservi? Persino dai propri
corpi avvizziti i vecchi
tentano
di
spremere
un’ultima goccia. Un’ostinata
volontà di dare, di nutrire. È
astutalamortenelperseguire
ilpropriofine:hasceltoilmio
seno per sferrare il primo
colpo.
Questa mattina gli ho
portato il caffè e l’ho trovato
che urinava nel canale di
scolosenzatradireperquesto
alcunavergogna.
–Vuoleunlavoro?–gliho
chiesto. – Ci sono diversi
lavorettichepotreifarlefare.
Non ha risposto, ma ha
bevuto il caffè tenendo la
tazzaconentrambelemani.
–Stasprecandolasuavita
–glihodetto.–Nonèpiúun
bambino.Comepuòviverein
questo modo? Come può
trascinarsicosítuttoilgiorno
senzafarniente?Proprionon
riescoacapirlo.
È vero: non riesco a
capirlo. C’è qualcosa in me
che si ribella all’inerzia, a
questo lasciarsi andare,
all’accettazionedeldegrado.
La sua reazione mi ha
lasciato
sgomenta.
Fissandomi negli occhi,
guardandomi per la prima
volta dritto negli occhi, ha
sputato sul cemento davanti
ai miei piedi un grumo di
salivadenso,giallastro,striato
di marrone per via del caffè.
Poi mi ha restituito
bruscamente la tazza e se n’è
andato.
Proprio quella cosa, ho
pensato scossa: quella cosa
tirata fuori e posta tra noi.
Sputata non addosso a me,
ma davanti a me perché
potessi vederla, esaminarla,
rifletterci su. Il suo modo di
parlare,lasuaparola,sfornata
dallabocca,ancoratiepidanel
momento in cui ne è uscita.
Una parola, è innegabile,
appartenente a un linguaggio
che precede il linguaggio.
Prima lo sguardo, poi lo
sputo. Che tipo di sguardo?
Uno sguardo irrispettoso, di
un uomo verso una donna
abbastanza vecchia da poter
essere sua madre. Ecco:
riprenditiiltuocaffè.
La scorsa notte non ha
dormitonelvialetto.Anchele
scatolesonosparite.Tuttavia,
frugandoquaelà,hotrovato
nella legnaia la borsa dell’Air
Canada e ho notato un
cantuccio che deve aver
ripulito
per
sé
in
quell’accozzaglia di legna e
fascine. Cosí ora so che
intendetornare.
Già sei pagine, e tutte su
un uomo che non hai mai
incontrato e mai incontrerai.
Perché scrivo di lui? Perché
luièenonème.Perchénello
sguardo che mi rivolge vedo
me stessa in un modo che
riesco a scrivere. Questo
scrittononsarebbealtrimenti
soltanto un gemito, ora piú
acuto,
ora
sommesso?
Quandoscrivodiluiscrivodi
me. Quando scrivo del suo
cane scrivo di me; quando
scrivodellacasascrivodime.
Uomo, casa, cane: poco
importa, con ogni parola
tendo la mano verso di te. In
un altro mondo non avrei
bisognodiparole:comparirei
sull’uscio di casa tua. Sono
venutaatrovarti,direi;enon
occorrerebbero
altre
spiegazioni:tiabbraccerei,mi
abbracceresti. Ma in questo
mondo, in questo tempo,
devo tentare di raggiungerti
attraverso le parole. Cosí,
giorno dopo giorno traduco
mestessa,confezionoparolee
le sistemo sulla pagina come
fossero dolcetti: dolcetti per
mia figlia, per il suo
compleanno, per il giorno
della sua nascita. Parole che
fuoriescono dal mio corpo,
caramelledimestessa,perlei,
da scartare a suo tempo, da
mangiare, da succhiare, da
assimilare. Come è scritto
sulla boccetta: caramelle di
zucchero, secondo l’antica
ricetta, confezionate con
amore da mani sapienti;
l’amore che non possiamo
fare a meno di provare per
coloro cui ci offriamo per
esseredivoratiobuttativia.
Nonostante abbia piovuto
insistentemente tutto il
pomeriggio,
è
solo
all’imbrunire che ho udito il
cigolio del cancello e, un
attimodopo,ilticchettiodelle
unghiedelcanesullaveranda.
Stavo
guardando
la
televisione.
Un
rappresentantedellatribúdei
Ministers e Onderministers
declamava un annuncio alla
nazione. Io stavo in piedi,
come faccio sempre quando
parlano loro, per conservare
un po’ della mia dignità (chi
sceglierebbe di fronteggiare il
plotone
d’esecuzione
rimanendoseduto?)Onsbuig
nievoordreigementenie,stava
dicendo: non ci piegheremo
di fronte alle minacce. Un
discorsodelgenere.
Dietro di me, le tende
erano aperte. A un tratto ho
notato la sua presenza.
L’uomo,dicuinonconoscoil
nome, guardava attraverso il
vetro, oltre le mie spalle.
Allora ho alzato il volume,
abbastanza perché, se non le
parole, potesse almeno
percepire la cadenza, il lento
aggressivo
ritmo
dell’afrikaans,conisuoifinali
mozzi, come un martello che
conficchi un paletto nel
terreno. Insieme, colpo dopo
colpo, siamo rimasti in
ascolto. L’umiliazione di una
vita vissuta in loro potere:
aprire un giornale, accendere
la radio; come inginocchiarsi
e sentirsi urinare addosso.
Sotto di loro: sotto il loro
ventre flaccido, sotto le loro
vescichegonfie.Aveteigiorni
contati, ero solita sussurrare
untempoacolorocheorami
sopravviveranno.
Stavo per uscire per le
compere, stavo aprendo il
garage, quando ho avuto un
attacco;improvvisamente.Un
attacco, di questo si trattava.
Il dolore si è scagliato su di
me
come
un
cane,
affondandomi i denti nella
schiena. Ho gridato, non
potevo piú muovermi. Allora
lui, quest’uomo, è comparso
da chissà dove e mi ha
accompagnatoincasa.
Misonodistesasuldivano,
poggiandomi sul fianco
sinistro, nell’unica posizione
comoda consentitami. Lui ha
aspettato. – Si sieda – ho
detto. Si è seduto. Il dolore
cominciava a placarsi. – Ho
uncancro–hospiegato.–Si
èapertounastradanelleossa.
Aquestoèdovutoildolore.
Non ero affatto sicura che
avessecapito.
Un lungo silenzio. Poi: –
Questaèunacasagrande–ha
osservato. – Potrebbe farne
unapensione.
Hofattoungestostanco.
– Potrebbe affittare stanze
agli studenti – ha proseguito
inesorabilmente.
Ho sbadigliato e poiché la
dentiera tendeva a staccarsi
misonocopertalabocca.Un
temposareiarrossita.Orano.
– C’è una donna che mi
aiuta in casa – ho detto. –
Starà via fino alla fine del
mese, presso i suoi familiari.
Leihafamiglia?
Che strana espressione:
avere famiglia. Ho famiglia
io? Sei tu la mia famiglia?
Non credo. Probabilmente
solo a Florence è dato
appartenereaunafamiglia.
Non ha risposto. Non c’è
infanzia intorno a lui. Ha
l’ariadiunochenonhaavuto
figlienonèstatobambino.Il
viso tutto pelle raggrinzita e
ossa: non si può immaginare
ilvoltodiunbambinodietro
quel viso, cosí come non si
può immaginare la testa di
una serpe che non sembri
vecchia.
Occhi
verdi,
animaleschi: è possibile
immaginare un bambino con
occhicomequelli?
–Ioemiomaritocisiamo
separati molto tempo fa – ho
detto.–Luièmorto.Houna
figlia in America. Se ne è
andata nel 1976 e non è piú
tornata. È sposata con un
americano. Hanno due
bambini.
Unafiglia.Carnedellamia
carne.Tu.
Ha tirato fuori un
pacchetto di sigarette. – Non
fumi in casa, per favore – ho
detto.
– Qual è il suo problema?
–glihochiesto.–Mihadetto
di avere una pensione
d’invalidità.
Ha mostrato la mano
destra. Ne spuntavano il
pollice e l’indice; le altre dita
erano curvate verso il palmo.
–Nonpossomuoverle.
Abbiamo osservato quella
mano, le tre dita ricurve, le
unghie sporche. Non la
definirei una mano resa
callosadallavoro.
–Èstatounincidente?
Hafattocennodisíconil
capo; un cenno che non lo
compromettevatroppo.
– Se mi taglia l’erba, la
pago–hoofferto.
Per un’ora, armato di
falciatrice, ha tagliato con
indolenza l’erba che in certi
punti
raggiungeva
le
ginocchia. Alla fine aveva
ripulito pochi metri di prato.
Poi ha smesso. – Non fa per
me – ha detto. L’ho pagato
per
l’ora
di
lavoro.
Nell’andarsene ha urtato
contro la ciotola del cibo per
gatti spargendo gli avanzi
tutt’attornosullaveranda.
Tutto considerato, fa piú
dannidiquantononaiuti.Ma
non l’ho scelto io. Lui ha
scelto me. O forse ha
semplicemente scelto l’unica
casa senza cane da guardia.
Unacasadigatti.
I gatti sono irrequieti a
causa dei nuovi arrivati. Non
appenamettonofuoriilnaso,
il cane tende loro piccoli
agguati, per gioco, ma loro
s’acquattano in casa irritati.
Oggi non hanno mangiato.
Pensavo
che
avessero
sdegnato il cibo perché era
stato in frigorifero e ho
aggiunto dell’acqua calda in
quella poltiglia dall’odore
pungente(cosasarà?carnedi
foca?carnedibalena?)Hanno
continuato a ignorarlo; vi
giravano intorno e con la
punta delle code frustavano
l’aria. – Mangiate! – ho
ordinato,spingendolaciotola
versodiloro.Ilpiúgrossoha
sollevato la zampa con
prudenza per evitare il
contatto. Ho perso il
controllo. – All’inferno! – ho
urlato e ho scagliato con
rabbia la forchetta contro di
loro. – Ne ho abbastanza di
nutrirvi! – C’era una nota
insolita nella mia voce: una
puntadifolliaenell’udirlaho
esultato.Nehoabbastanzadi
essere gentile con la gente,
abbastanza di essere buona
conigatti!–All’inferno!–ho
gridato di nuovo, piú forte
chepotevo.Hosentitoleloro
unghie raspare sul linoleum
mentresiallontanavano.
Chi se ne frega! Quando
sono in questo stato, sarei
capacedimetterelamanosul
tagliere di legno e di
tranciarla via senza esitare.
Che m’importa di questo
corpo che mi ha tradito? Mi
guardo le mani e vedo solo
uno strumento, un uncino
concuiafferraredellecose.E
queste gambe, questi goffi,
orribilitrampoli:perchédevo
portarmele dietro ovunque?
Perché devo portarmele a
letto, notte dopo notte, porle
sotto le lenzuola, e metterci
anche le braccia, piú in su,
vicino al volto, per giacere là
insonne in quel cumulo di
ossa?Eilventre,poi,conquel
mortale gorgoglio, e il cuore
che pulsa, che batte: perché?
Cosa hanno a che fare con
me?
Ci ammaliamo prima di
morire, cosí da svezzarci dal
corpo. Il latte che ci ha
nutrito si va esaurendo e
inacidisce, lascia il nostro
seno arido e noi cominciamo
a vagheggiare quella vita
separata. Tuttavia, questa
prima vita, questa vita sulla
terra,sulcorpodellaterra:ce
nesarà,cenepotràmaiessere
una migliore? Nonostante
tutto il dolore e la
disperazione e l’odio non ho
ancorasmessodiamarla.
Per il dolore ho preso due
delle pillole prescrittemi dal
dottor Syfret e mi sono
sdraiata sul divano. Qualche
ora dopo mi sono svegliata
confusa e intirizzita, sono
salita annaspando al piano
superiore e mi sono messa a
lettosenzaspogliarmi.
Durante la notte ho
avvertito una presenza nella
stanza,nonpotevacheessere
lui.Unapresenzaounodore.
Eralà,poièsvanito.
Dalballatoioègiuntouno
scricchiolio.Orastaentrando
nello studio, ho pensato; ora
accendelaluce.Hocercatodi
ricordare se tra le carte sullo
scrittoio ve ne fossero di
personali, ma la mia mente
era troppo confusa. Ora vede
i libri, scaffali su scaffali, ho
pensatocercandodiristabilire
un ordine, e le pile di vecchi
giornali. Ora guarda le
immagini alle pareti: Sofia
Schliemann agghindata con i
tesori di Agamennone; il
Demetrio togato del British
Museum.Ora,concautela,fa
scorrere il cassetto dello
scrittoio. Il primo cassetto,
pieno di lettere, conti,
francobolli
staccati,
fotografie, non gli interessa.
Ma nell’ultimo cassetto c’è
una scatola di sigari piena di
monete: qualche penny,
dracme,centesimi,scellini.La
mano con le dita anchilosate
vi affonda e ne estrae due
monete da cinque pesetas
abbastanza grandi da poter
essere scambiate per rand; le
intasca.
Non un angelo, certo. Un
insetto, piuttosto, che sbuca
fuori dal battiscopa per
rifornirsi di briciole quando
lacasaèsprofondatanelbuio.
Lo percepivo lontano sul
ballatoiochetentavadiaprire
le due porte chiuse a chiave.
Solo
ciarpame,
volevo
sussurrargli, ciarpame e
vecchi ricordi; ma la nebbia
nella mia testa si è infittita
nuovamente.
Ho trascorso la giornata a
letto. Non avevo energie né
appetito. Ho letto Tolstoj:
non la famosa storia sul
cancro, quella la conosco fin
troppo bene, ma il racconto
dell’angelochedimorapresso
ilcalzolaio.Quantepossibilità
ci sono che io passeggiando
per Mill Street trovi il mio
angelo da soccorrere e da
portare a casa? Nessuna,
credo. Se ne potrebbero
incontrare ancora uno o due,
forse, in aperta campagna
seduticontrolepietremiliari,
sonnecchianti nella calura, in
attesadiciòcheilcasooffrirà
loro.
O
forse
nelle
baraccopoli. Non in Mill
Street. Non nei sobborghi.
Sobborghi disertati dagli
angeli. Quando un forestiero
cenciosobussaallaportanon
èmaialtricheunderelitto,un
alcolizzato,
un’anima
smarrita. Eppure, in cuor
nostro,
quanto
desidereremmo che queste
nostre
case
dignitose
fremessero,
come
nel
racconto,perl’angelicocanto!
Questa casa è stanca di
aspettare il giorno, stanca di
mantenersiinpiedi.Letavole
delpavimentononhannopiú
giunture. L’isolante per i cavi
elettrici è secco e si sta
polverizzando; le tubature
sono intasate dalla sabbia. La
grondaiacedelàdovelevitisi
sono arrugginite o si sono
staccate dal legno marcio. Le
tegoledeltettosonoricoperte
dal muschio. Una casa
costruita solidamente, ma
senza amore; fredda, inerte
ora, pronta per morire.
Nemmeno il sole, il sole
africano, è mai riuscito a
scaldarne le pareti, come se
anche i mattoni, impastati
dalle mani dei forzati,
emanassero una tetraggine
chenonconoscerimedio.
Lascorsaestate,mentregli
operai
sostituivano
le
condutture, li guardavo
estrarre i vecchi tubi.
Scavavanofinoaduemetridi
profondità e tiravano su
mattoni sgretolati, ferraglia
arrugginita e persino un
solitario ferro di cavallo. Mai
ossa. Un luogo senza
memoria di uomini; privo di
interesse per gli spettri come
pergliangeli.
Questaletteranonmettea
nudo il mio cuore. Mette a
nudoqualcosa,manonilmio
cuore.
Poiché questa mattina
l’auto non voleva partire, ho
dovuto chiedere a lui, a
quest’uomo,questoinquilino,
dispingere.L’haspintalungo
tutto il vialetto. – Ora! – ha
gridato, battendo un colpo
sulla lamiera. Il motore si è
avviato. Ho svoltato nella
strada, ho proseguito per
alcuni metri, poi, d’impulso,
mi sono fermata. – Devo
andare a Fish Hoek, – gli ho
gridato da una nuvola di
fumo – vuole venire anche
lei?
Cosí siamo partiti, il cane
sul sedile di dietro, con la
stessa Hillman verde di
quando eri bambina. Per
lungo tempo tra noi ha
regnato il silenzio. Abbiamo
superato
l’ospedale,
l’UniversitàeBishopscourt,il
cane appoggiato alla mia
spalla con il muso al vento,
arrancando su per la collina
di Wynberg. Raggiunto il
lungo pendio in discesa
sull’altro versante, ho spento
il motore e ho lasciato che
l’auto continuasse la corsa.
Sempre piú veloce, finché il
volante non ha preso a
tremarmitralemanieilcane
non
ha
guaito
per
l’eccitazione. Io sorridevo,
almeno credo; forse avevo
persinochiusogliocchi.
Alla fine della discesa,
mentre l’auto cominciava a
rallentare, ho allungato lo
sguardo su di lui. Era
rilassato,
imperturbabile.
Bravo!,hopensato.
–Quandoeropiccola–ho
detto–erosolitalanciarmiin
discesa con una bicicletta dai
frenipraticamenteinesistenti.
Apparteneva a mio fratello
piú grande. Mi diffidava dal
provarci. Ma io non avevo
paura di niente. I bambini
non possono immaginare
cosa voglia dire morire. Non
lisfioraneppurel’ideadinon
essereimmortali.
– Lanciavo la bicicletta di
mio fratello giú per discese
molto piú ripide di questa.
Piú veloce andavo, piú mi
sentivo viva. Fremevo di una
vitalitàchetraboccavadatutti
i pori, e mi sentivo come se
stessi per esplodere. Come
deve sentirsi una farfalla al
momento della nascita,
quando sta per uscire dal
bozzolo.
– Con un’auto vecchia
comequestasièancoraliberi
di guidare a motore spento.
Con un’auto moderna,
invece, quando si spegne il
motoreilvolantesiblocca.Lo
sa anche lei. Ma qualcuno
talvolta commette un errore,
o se ne dimentica, e non
riesce piú a controllarla. A
volte l’auto esce di strada e
finisceinmare.
In mare. Lottare con il
volante bloccato, librati in
una bolla di vetro su di un
mare scintillante di sole.
Succededavvero?Lofannoin
molti? Se un sabato
pomeriggio mi trovassi sul
promontorio di Chapman, li
vedrei, uomini e donne,
riempire
l’aria
come
moscerini pronti per l’ultimo
volo?
–C’èunastoriachevorrei
raccontarle – gli ho detto. –
Quando mia madre era
ancora
una
bambina,
all’inizio del secolo, l’intera
famiglia era solita recarsi al
mare per Natale. Era ancora
l’epocadellecarovanetrainate
dai buoi. Viaggiavano in
carovana da Uniondale, nella
zona est del Capo, fino alla
baia di Plettenberg, alla foce
delfiumePiesangs,unviaggio
di un centinaio di miglia che
durava non so quanti giorni.
Durante il viaggio si
accampavanoaimarginidella
pista.
– Uno dei luoghi prescelti
per la sosta era un passo di
montagna. I miei nonni
trascorrevano
la
notte
all’internomentremiamadre
e gli altri bambini avevano
giacigli sotto il carro. Cosí,
qui comincia la storia, mia
madre giaceva in cima al
passo nella quiete notturna,
rannicchiata sotto le coperte
insieme ai fratellini e alle
sorelle che le dormivano
accanto, e guardava le stelle
trairaggidelleruote.Mentre
guardava le sembrò che le
stelle
cominciassero
a
muoversi: le stelle si
muovevano, oppure erano le
ruote a spostarsi, lentamente,
moltolentamente.Pensò:che
faccio? E se il carro inizia a
scivolare? Devo gridare per
avvertirli?Eserestodistesain
silenzio e il carro prende
velocità e rotola giú lungo il
fianco della montagna con i
miei genitori dentro? E se
fosse
solo
la
mia
immaginazione?
– Senza fiato per la paura,
con il cuore che martellava,
era rimasta là a guardare le
stelle, a guardarle muoversi,
pensando: che faccio? Che
faccio?,tesainascoltodiuno
scricchiolio,
del
primo
scricchiolio. Alla fine si era
addormentata, il sonno
invasodasognidimorte.Ma
al mattino, quando era
riemersa, l’avevano accolta la
luceelaquiete.Eilcarroera
riemerso con lei, e i suoi
genitori erano riemersi con
lei, e tutto era a posto, come
prima.
Era tempo che dicesse lui
qualcosa, sulle colline, sulle
automobili o sulle biciclette,
oppuresusestessoosullasua
infanzia.
Ma
era
ostinatamentesilenzioso.
– Lei non aveva detto a
nessuno quello che era
successodurantelanotte–ho
continuato. – Forse aspettava
che arrivassi io. Ho sentito
quella storia molte volte
raccontatadaleieinversioni
differenti. Ma sempre erano
direttialfiumePiesangs.Che
nome splendido! Ero certa
chedovessetrattarsidelposto
piú bello del mondo. Alcuni
anni dopo la morte di mia
madre mi sono recata alla
baiadiPlettenbergehovisto
per la prima volta il fiume
Piesangs. Non era affatto un
fiume, ma solo un rigagnolo
soffocato dalle erbacce e alla
sera dalle zanzare, con un
posteggio per caravan pieno
dibambinivociantiedigrassi
uomini scalzi, in pantaloni
corti, che arrostivano salsicce
su fornelli da campo. Niente
affattounparadiso.Noncerto
un
luogo
per
cui
programmare un viaggio
anno dopo anno, per cui
traversarevallateemonti.
L’auto ora faticava ad
arrampicarsi su per Boyes
Drive, ancora efficiente ma
vecchia, come Ronzinante.
Ho afferrato il volante piú
saldamente nel tentativo di
incitarlaaproseguire.
In cima all’altura di
Muizenberg,dacuisidomina
con lo sguardo la curva di
False Bay, ho parcheggiato e
ho spento il motore. Il cane
ha cominciato a guaire. Lo
abbiamo fatto scendere. Ha
annusato il paracarro, ha
annusato i cespugli, poi si è
liberato
mentre
lo
osservavamo rispettando un
imbarazzatosilenzio.
Ha parlato. – È rivolta
nelladirezionesbagliata–mi
ha detto. – Dovrebbe
parcheggiarla rivolta verso la
discesa.
Ho
nascosto
la
mortificazione. Ho sempre
desideratoapparirecomeuna
persona capace. Ora piú che
mai, con la prospettiva
dell’infermità.
– È del Capo lei? – gli ho
chiesto.
–Sí.
–Edèsemprevissutoqui?
È diventato irrequieto.
Duedomande:unaditroppo.
Un
frangente,
perfettamente dritto, lungo
centinaia di metri, rotolava
verso la riva, un’unica figura
accovacciatasuunatavolada
surf
precedeva
l’onda
scivolando
sull’acqua.
Sull’altro lato della baia le
montagne di Hottentots
Hollandsistagliavanonitidee
azzurre. Fame, ho pensato: è
una fame degli occhi quella
che provo, una fame tale che
detesto persino dover battere
le palpebre. Queste acque,
queste montagne: voglio
imprimermele negli occhi
come un marchio a fuoco,
cosí profondamente che
ovunque io vada esse siano
sempre dinanzi a me. Sono
affamata d’amore per questo
mondo.
Uno stormo di passeri è
venutoaposarsitraicespugli
intorno a noi, si sono lisciati
le piume e si sono alzati
nuovamente in volo. Il
surfista
aveva
intanto
raggiunto la riva e aveva
cominciato ad arrancare su
per
la
spiaggia.
Improvvisamente, avevo le
lacrimeagliocchi.Perchénon
hovolutobatterelepalpebre,
mi sono detta. Ma la verità
era che stavo piangendo.
Curva sul volante, mi sono
abbandonata prima a un
sommessopudicosinghiozzo,
poi a lunghi lamenti
inarticolati, per alleviare i
polmoni, per alleviare il
cuore. – Mi dispiace molto –
hoansimato;epoi,piúcalma:
–Mispiace,nonsocosamiè
preso.
Non
avrei
dovuto
preoccuparmi di fornire
spiegazioni. Non dava segno
diessersiaccortodinulla.
Mi sono asciugata gli
occhi,misonosoffiatailnaso.
–Andiamo?–hodetto.
Haapertolosportelloeha
modulatounlungofischio.Il
cane è saltato a bordo. Un
cane ubbidiente, certamente
rubatoaunabuonafamiglia.
L’auto puntava davvero
nelladirezionesbagliata.
–Proviinretromarcia–ha
detto.
Ho tolto il freno a mano,
ho lasciato che l’auto
scivolasse all’indietro per un
breve tratto di discesa e ho
rilasciatolafrizione.L’autoha
dato uno scossone e si è
fermata. – Non è mai partita
inretromarcia–hospiegato.
–
Faccia
inversione
sull’altrolatodellastrada–ha
ordinatocomeunmaritoche
impartiscalezionidiguida.
Ho lasciato scivolare
ancora un po’ l’auto
all’indietro, poi ho sterzato
per fare inversione. Con il
clacson strombazzante una
grande Mercedes bianca è
passatacomeunproiettilesul
lato interno della strada. –
Non l’avevo vista! – ho
ansimato.
–Vada!–hagridato.
Ho sgranato gli occhi per
lo stupore su questo estraneo
chemigridavaordini.
– Vada! – ha gridato
ancora, guardandomi dritto
in faccia. Il motore si è
avviato. Ho guidato verso
casa in assoluto silenzio.
All’angolo di Mill Street ha
chiestodiscendere.
L’odore piú sgradevole
viene dalle sue scarpe e dai
piedi. Ha bisogno di calzini.
Ha bisogno di scarpe nuove.
Di un bagno. Avrebbe
bisogno di un bagno tutti i
giorni; di biancheria pulita;
avrebbe bisogno di un letto,
di un tetto sulla testa, di tre
pasti al giorno, di soldi in
banca. Troppe cose da dare:
troppeperunachedesidera,a
dire il vero, rifugiarsi nel
grembo della propria madre
pertrovarviconforto.
Nel tardo pomeriggio è
ritornato. Sforzandomi di
dimenticare quello che era
accaduto, gli ho mostrato il
giardino e gli ho indicato i
piccoli lavori necessari. –
Potare – per esempio, ho
detto.–Sapotare?
Hafattocennodinoconil
capo. No, non sapeva potare.
Oppurenonvolevafarlo.
Nell’angolo piú nascosto,
quellopiúincolto,rampicanti
tenaci erano cresciuti a
dismisura e avevano coperto
la vecchia panca di quercia e
laconigliera.
– Qui deve essere tutto
ripulito–hodetto.
Ha sollevato un lembo
della
fitta
coltre
di
rampicanti. Sul fondo della
gabbiac’eraun’accozzagliadi
ossa imbianchite, incluso lo
scheletro intatto di un
coniglio, con il collo inarcato
all’indietro in un’ultima
contorsione.
– Conigli – ho spiegato. –
Appartenevano al figlio della
domestica. Glieli lasciavo
tenere qui. Poi c’è stata una
qualche sbandata nella sua
vita.Sièdimenticatodiloroe
sonomortidifame.Ioeroin
ospedale e non ne sapevo
nulla. Quando sono tornata
mi sono infuriata nello
scoprire quale agonia si era
protrattadeltuttoignoratain
quest’angolo di giardino.
Creature che non possono
parlare, che non possono
neppurelamentarsi.
Dagli alberi di guaiava,
crivellati
dai
vermi,
sgocciolava una sostanza
densa e maleodorante che si
posava ai loro piedi come un
tappeto. – Vorrei che gli
alberismettesserodifarfrutti
–hodetto.–Manonsuccede
mai.
Il cane dietro di noi
annusava svogliatamente la
conigliera. Corpi inerti, da
lungo tempo cadaveri, il loro
odoresvanito.
– Dunque, faccia quello
che può per riportare tutto
sotto controllo – ho detto. –
Cosíchenondiventiunluogo
completamenteinselvatichito.
–Perché?–mihachiesto.
–Perchéiosonofattacosí
– ho risposto. – Perché non
vogliolasciarmidietroilcaos.
Ha alzato le spalle,
sorridendotrasé.
– Se vuole essere pagato
dovrà guadagnarselo – ho
detto. – Non le darò soldi in
cambiodiniente.
Halavoratoperilrestodel
pomeriggio, tagliando i
rampicanti e le erbacce,
fermandosi di tanto in tanto
con lo sguardo perso in
lontananza, fingendo di non
accorgersi che lo tenevo
d’occhio dal piano superiore.
Allecinqueglihodatociòche
glispettava.–Losochenonè
un giardiniere – ho detto – e
nonvogliotrasformarlainciò
che non è. Ma non possiamo
basaretuttosullacarità.
Ha preso i soldi, li ha
ripiegati e infilati in tasca
guardando lontano, di lato,
perevitareilmiosguardo;poi
ha detto pacatamente: –
Perché?
–Perchénonlomerita.
E lui, sorridente mentre
cercava di nascondere il
sorriso: – Meritare... E chi
meritaqualcosa?
Chimeritaqualcosa?Inun
accesso d’ira gli ho gettato il
portafogli. – In che cosa
crede, allora? Prendere?
Prendersi quello che vuole?
Avanti,prenda!
Con calma ha preso il
portafogli, lo ha svuotato dei
trenta rand e delle poche
monetechecontenevaemelo
ha restituito. Poi se n’è
andato,ilcanespavaldamente
alle calcagna. Dopo mezz’ora
era di ritorno; ho sentito il
tintinniodellebottiglie.
Da qualche parte ha
trovato un materassino, uno
diqueimaterassinipieghevoli
da spiaggia. Stava sdraiato a
fumarenelpiccolorifugiotra
la polvere e le cianfrusaglie
dellalegnaia,conunacandela
vicinoeilcaneaipiedi.
– Voglio indietro i soldi –
hodetto.
Si è messo una mano in
tasca e ha tirato fuori alcune
banconote. Le ho prese. Non
tutte quelle che mi doveva,
manonimporta.
– Se avesse necessità, può
chiederne – gli ho detto. –
Non sono avara. E faccia
attenzioneconquellacandela.
Nonvoglioincendi.
Mi sono voltata per
andarmene. Ma dopo un
minutoerodinuovolà.
– Mi aveva detto – ho
incominciato – che dovrei
trasformare questa casa in
una pensione per studenti.
Ebbene,cisonocosepiúutili
che potrei fare. Potrei
trasformarla in un ricovero
per
vagabondi.
Potrei
organizzare una mensa o un
dormitorio.Manonlofaccio.
Perché no? Perché lo spirito
dellacaritàèmortoinquesto
paese. Perché coloro che
accettano la carità la
disprezzano, mentre coloro
che donano lo fanno con la
disperazione nel cuore. Che
senso ha la carità se non si
trasmette di cuore in cuore?
Che cosa pensa che sia la
carità? Una minestra? Dei
soldi? Carità: dal termine
latinopercuore.Èaltrettanto
difficile ricevere quanto dare.
Si fa la stessa fatica. Vorrei
che lei lo capisse. Vorrei che
imparasse qualcosa invece di
lasciarsiandarecosí.
Una bugia: la carità,
caritas, non ha niente a che
fare con il cuore. Ma cosa
importa se i miei sermoni
poggiano su false etimologie?
A malapena mi ascolta
quandoparlo.Probabilmente,
nonostante quegli occhi
attentidaavvoltoio,èconfuso
dall’alcol piú di quanto io
immagini. O forse, in fondo,
non si cura di nulla. Cura: la
veraradicedellacarità.Vorrei
cheavessecuradisé,manon
ne ha. Perché non gliene
importa niente. Non gliene
importaenonsenecura.
Poiché la vita in questo
paeseèmoltosimileallavitaa
bordodiunanavechestiaper
affondare,unodiqueibattelli
dilineavecchiostilegovernati
da un sinistro capitano
sempre sbronzo, con una
ciurma
inaffidabile
e
scialuppe di salvataggio che
fanno acqua, tengo la radio a
ondecorteaccantoalletto.Il
piú delle volte trasmettono
solo discorsi; ma se si è
pazienti,nellepiúimprobabili
ore notturne alcune stazioni
cedono alla musica. In
dissolvenza, a causa del
segnaledebole,lascorsanotte
ho ascoltato (da dove?
Helsinki?LeisoleCook?)inni
nazionali di tutti i paesi,
musica celestiale, musica che
ci ha lasciato molti anni fa e
adesso ritorna a noi dalle
stelle, trasformata, delicata,
come a dimostrare che tutto
ciò che viene annunciato
prima o poi si realizza. Un
universo chiuso, curvo come
unuovo,checiracchiude.
Giacevocosínell’oscuritàe
ascoltavolamusicadellestelle
e i fruscii e i mormorii che
l’accompagnavano
come
polvere di stelle; sorridevo, il
cuore colmo di gratitudine
per la buona novella che
giungeva da tanto lontano.
L’unico confine che non
possono
chiudere,
ho
pensato:ilconfinelassú,trala
Repubblica del Sudafrica e
l’impero dei cieli. Dove io
sono diretta. Dove non
occorrealcunpassaporto.
Ancorasottol’incantesimo
della musica (credo si
trattasse di Stockhausen),
questo pomeriggio mi sono
seduta al pianoforte e ho
suonato qualcuno dei vecchi
brani:
i
preludi
dal
Clavicembalobentemperato,i
preludi di Chopin, i valzer di
Brahms
dalle
edizioni
consunte di Novello e
Augener, tutte macchiate e
incartapecorite. Ho suonato
male
come
sempre,
confondendo gli accordi
come cinquant’anni fa,
ripetendo
errori
di
diteggiatura che ormai ho
nelle ossa, incorreggibili. (Le
ossa
particolarmente
apprezzate dagli archeologi,
ricordo, sono quelle rese
nodose dalle malattie o
frantumatedallapuntadiuna
freccia: ossa che recano il
marchiodellalorostoria,resti
di un tempo che precede la
storia).
Quando mi sono stancata
della dolcezza di Brahms ho
chiusogliocchiehosuonato
alcuni accordi, cercando con
le dita quello che avrei
riconosciuto, quando l’avessi
incontrato, come il mio
accordo, come eravamo soliti
dire in tempi lontani,
l’accordo perduto, quello che
tocca le corde del cuore.
(Parlo di un tempo venuto
primadeltuotempo,quando,
mentre si passeggiava per
strada nell’afa di un sabato
pomeriggio, poteva capitare
di sentire, proveniente dai
salotti, il suono lieve ma
insistente che le giovinette
producevano esitando sui
tasti,nellaspasmodicaricerca
di qualche vagheggiata
melodia.
Giorni
pieni
d’incanto e di struggimento,
di mistero anche! Giorni
d’innocenza!)
– Jerusalem! – Cantavo
piano e suonavo note che ho
udito l’ultima volta seduta
sulleginocchiadimianonna:
– And was Jerusalem ybuildedhere?
Poi, finalmente sono
tornataaBachehosuonatoe
risuonato goffamente la
primafugadalLibroPrimo.Il
suonoeraimpuro,lapartitura
sbiadita,maditantointanto,
per qualche battuta, la vera
melodia si faceva strada, la
vera musica, la musica che
nonmuore,sicura,serena.
Suonavo per me. Ma a un
certo punto una tavola del
pavimento ha scricchiolato
oppure un’ombra è scivolata
dietro le tende e io ho capito
cheluierafuorieascoltava.
Allora ho suonato Bach
per lui, con maggior
impegno. Eseguito l’ultimo
passaggiohochiusoillibrodi
musicaesonorimastaseduta
con le mani in grembo a
contemplare il ritratto ovale
incopertinaconlesueguance
cascanti,
il
sorriso
ammiccante, gli occhi gonfi.
Puro spirito, ho pensato,
eppure, in quale tempio
improbabile! Dove si trova
ora quello spirito? Nell’eco
della mia stentata esecuzione
dissolta nell’etere? Nel mio
cuore, dove ancora vibra la
musica? Si è fatto strada
anchenelcuoredell’uomodai
calzoni troppo abbondanti
che origlia alla finestra?
Sarannorimastilegatiinostri
due cuori, gli organi
dell’amore,dallacordadiquei
suoni, seppure per un breve
momento?
È squillato il telefono: una
donnadaunappartamentodi
fronte mi metteva in guardia
da un vagabondo che aveva
avvistato nella mia proprietà.
– Non è un vagabondo – ho
detto.–Èunuomochelavora
perme.
Smetterò di rispondere al
telefono.Nonc’ènessunocon
cui mi senta di parlare, fatta
eccezioneperteeperilgrasso
uomo della foto, il grasso
uomo in paradiso; e nessuno
divoidue,credo,chiamerà.
Il paradiso. Immagino il
paradiso come l’atrio di un
albergo,conunsoffittoaltoe
l’Arte della fuga diffusa dagli
stessi altoparlanti usati per le
comunicazioni al pubblico.
Dove ci si può sedere in
profonde poltrone di pelle,
liberi da ogni pena. Un atrio
d’albergo pieno di anziani
sonnecchianti che si godono
la musica, mentre le anime
vaganosuegiúdinanzialoro
comevapori,leanimeditutti.
Un luogo affollato di anime.
Vestite? Sí, vestite, credo; ma
con le mani vuote. Un luogo
dovenontiportidietronulla
senonunvestiarioastrattoei
ricordi dentro di te, i ricordi
di cui sei fatto. Un luogo che
non conosce contrattempi.
Unastazioneferroviariadopo
l’abolizione
dei
treni.
Ascoltare ininterrottamente
musica celestiale, in perenne
attesa di niente, e sfogliare
pigramente le molte pagine
dellamemoria.
Sarà possibile restare
seduti in quella poltrona ad
ascoltare la musica senza
preoccuparsi per la casa
chiusaebuia,perigattichesi
aggirano in giardino affamati
e irritati? Deve essere
possibile, altrimenti a cosa
vale il paradiso? E tuttavia
morire senza lasciare un
seguito è, perdonami se dico
questo, cosí innaturale. Per
buona pace della mente, per
la pace dell’anima, dobbiamo
sapere chi ci lasciamo alle
spalle,
quali
presenze
riempiranno le stanze in cui
un tempo ci siamo sentiti a
casa.
Penso a quelle fattorie
abbandonate,
che
mi
sfilavano accanto quando
guidavo nel Karoo e lungo la
costa occidentale, i cui
proprietari si erano trasferiti
in città, negli anni passati, e
avevano lasciato gli ingressi
sprangaticontavoledilegno,
i cancelli chiusi. Ora la
biancheria sventola sulle
corde, il fumo esce dai
camini,ibambinigiocanonei
cortilisulretroesalutanocon
lamanoleautoincorsa.Una
terra che sta per essere
riposseduta, i suoi eredi in
procinto di rivendicarla. Una
terrapresaconlaforza,usata,
depredata,
sfruttata,
abbandonata nei suoi ultimi
sterili anni. Forse, persino
amata dai suoi rapaci
conquistatori, ma soltanto
nell’epoca della sua florida
giovinezza e quindi, secondo
il verdetto della storia, non
amataabbastanza.
Quando
arriva
il
momento, ti dischiudono le
dita per essere certi che non
porti via qualcosa con te. Un
ciottolo. Una piuma. Un
granello di senape sotto le
unghie.
È come un conteggio, un
conto complicatissimo, di
intere pagine. Sottrazioni
dopo sottrazioni, divisioni su
divisioni,finchélamentenon
vacilla. Ogni giorno ci
riprovo;nelmiocuorebalena
la speranza che in questo
caso, nel mio caso, ci possa
esserestatounerrore.Eogni
giorno mi fermo davanti al
medesimo muro vuoto:
morte, oblio. Il dottor Syfret
nel suo studio: – Dobbiamo
guardare in faccia la realtà –.
Vale a dire: dobbiamo
affrontare il muro. Ma non
lui:io.
Penso ai prigionieri
allineati sul bordo della
trinceanellaqualecadrannoi
loro corpi. Implorano i
soldati
del
plotone
d’esecuzione,
piangono,
fanno i buffoni, offrono
denaro, offrono tutto ciò che
possiedono: si sfilano gli
anelli dalle dita, si tolgono le
camicie. I soldati ridono. Si
prenderanno tutto in ogni
caso, compreso l’oro dei
denti.
Nonc’èaltraveritàaldilà
della fitta di dolore che mi
invade
quando,
senza
preavviso,mivincelavisione
di questa casa vuota, con la
luce del sole che piove dalle
finestresudiunlettovuoto,o
la vista di False Bay sotto un
cielo
turchino,
intatta,
deserta, quando il mondo in
cui ho passato la vita mi si
manifestamaiononnefaccio
parte. La mia esistenza è
diventata
un’esercitazione
quotidiana a distogliere lo
sguardo, a ritrarmi per la
paura. La morte è l’unica
veritàrimasta.Lamorteèciò
a cui non sopporto di
pensare.Ognivoltachepenso
a qualcos’altro, non penso la
morte,nonpensolaverità.
Provoadormire.Cercodi
liberare la mente: una certa
calma
comincia
a
impadronirsi di me. Sto
cadendo, penso, sto cadendo:
benvenuto, dolce sonno. Poi
al limitare dell’oblio qualcosa
mivieneincontroemispinge
indietro,qualcosailcuinome
puòsoloessereterrore.Cerco
discrollarmelodidosso.Sono
sveglia nella mia stanza, nel
mio letto, tutto va per il
meglio.Unamoscamisiposa
sulla guancia. Si pulisce.
Comincia a esplorare. Mi
passa sull’occhio, l’occhio
aperto. Vorrei chiudere la
palpebra, vorrei scacciarla
con la mano, ma non posso.
Conunocchiocheèenonèil
mio, rimango a fissarla. Si
lecca,sequestaèl’espressione
giusta. Non è possibile
riconoscereunvoltoinquegli
organi sporgenti. Ma è su di
me,èqui:avanzasopradime,
una creatura di un altro
mondo.
Oppure: sono le due del
pomeriggio. Sono distesa sul
divano o sul letto nel
tentativo di alleviare il peso
dall’anca dove il dolore è piú
acuto. Ho una visione di
Esther Williams, di floride
ragazze in costumi da bagno
fioratichenuotanoingruppo
senza sforzo alcuno, riverse
sul dorso, tra le increspature
di
un’acqua
turchina;
sorridonoecantano.Invisibili
chitarre strimpellano; le
labbra delle ragazze, archi di
vivido rossetto scarlatto,
formano
parole.
Cosa
cantano?Tramonto...Addio...
Tahiti.Sentocrescereinmela
nostalgia per il vecchio
cinema Savoy e i biglietti da
una sterlina e quattro pence
inunamonetascomparsaper
sempre,dissolta,adeccezione
di pochi spiccioli nel cassetto
del mio scrittoio; su un lato
Giorgio VI , il re buono, il
balbuziente,sull’altrolatodue
usignoli. Usignoli. Non ho
mai sentito il canto degli
usignoli e mai lo sentirò.
Abbraccio la nostalgia,
abbraccio il risentimento,
abbraccioilre,leragazzeche
nuotano, abbraccio tutto ciò
che mi tiene occupata la
mente.
Altrimenti mi alzo e
accendoiltelevisore.Football
sulprimocanale.Sull’altroun
nero stringe tra le mani la
Bibbia e prega in una lingua
per la quale non ho neppure
un nome. Questa è la porta
cheaproperfarfluiredentro
ilmondoequestoèilmondo
che viene a me. È come
scrutareattraversountubo.
Tre anni fa ho subito un
furto (ricorderai che te
l’avevo scritto). I ladri non
hanno preso nulla piú di
quanto potessero trasportare,
maprimadiandarsenehanno
rovesciato tutti i cassetti,
hanno
squarciato
ogni
materasso,hannomandatoin
frantumiilvasellame,rottole
bottiglie, sparpagliato tutto il
cibo della credenza sul
pavimento.
– Perché si comportano
cosí? – ho chiesto sbalordita
all’agente incaricato del
sopralluogo – che vantaggio
netraggono?
– Sono fatti cosí – mi ha
risposto.–Sonoanimali.
In seguito ho fatto
installare inferriate alle
finestre. Un robusto operaio
indiano ha eseguito il lavoro.
Dopo aver avvitato le
inferriate agli infissi, ha
ricoperto ogni vite con il
sigillante.–Cosínonpossono
piú essere svitate – ha
spiegato. – Ora è al sicuro –
hadettodandomideicolpetti
sulla mano prima di
andarsene.
«Oraèalsicuro».Leparole
del custode di uno zoo che
alla sera chiude la gabbia di
qualche uccello dalle ali
tarpate, incapace di volare.
Un dodo: l’ultimo dei dodo,
vecchio, sterile. «Ora è al
sicuro». Rinchiuso in gabbia
mentre famelici predatori si
aggiranoall’esterno.Undodo
tremante per la paura, che
dorme con un occhio aperto,
chesalutal’albaesausto.Salvo
però, salvo nella gabbia, le
sbarre intatte, intatti i cavi: il
cavodeltelefono,attraversoil
quale può chiedere aiuto in
casodiemergenza,ilcavodel
televisore, attraverso il quale
entra la luce del mondo, il
cavo
dell’antenna,
che
raccoglie la musica dalle
stelle.
La televisione. Perché la
guardo?Tutteleserelasfilata
dei politici: mi basta vedere
quelle
grosse
facce
inespressive,cosífamiliaridai
giorni dell’infanzia, per
sentirmi depressa e nauseata.
I prepotenti delle ultime file
dei banchi di scuola, ragazzi
ossuti e stupidi, cresciuti ora,
e promossi a governare il
paese. Con i loro padri e le
loro madri, zii e zie, fratelli e
sorelle: un’orda di locuste,
una piaga di nere locuste che
infestano questa terra, che
divorano tutto senza sosta;
divoratori di vite. Perché con
l’animo inorridito e pieno di
odio rimango a guardarli?
Perché li lascio entrare in
casa? Perché il regno della
famiglia delle locuste è la
realtà del Sudafrica; è questa
verità a darmi il vomito? La
legittimitànonlarivendicano
nemmeno
piú.
La
ragionevolezza se la sono
scrollata di dosso. Ciò che li
assorbe
è
il
potere,
l’istupidimento del potere.
Mangiano
e
blaterano,
divorano vite e poi ruttano.
Lenti discorsi, appesantiti
dalla digestione. Seduti in
circolo,
dibattono
assennatamente, emanano
leggi a colpi di martello: a
morte, a morte, a morte.
Indifferenti al fetore. Le
palpebre pesanti, gli occhi
porcinisocchiusi,scaltridella
scaltrezza di generazioni di
contadini. Complottano gli
unicontroglialtri:complotti
lenticheimpieganodecennia
maturare. I nuovi africani,
panciuti;
uomini
dalle
mascelle robuste seduti nei
loro
uffici:
Cetshwayo,
Dingane 1, ma con la pelle
bianca. Opprimenti: tutto il
potere nel loro peso. Enormi
testicoli
taurini
che
opprimono le mogli, i figli,
capaci di spegnere ogni loro
scintilladivita.Neilorostessi
cuori non brilla piú alcuna
scintilla. Cuori indolenti,
pesanticomesanguinaccio.
E il loro messaggio
stupidamente
uguale,
stupidamente il medesimo in
eterno. La loro prodezza,
dopo anni di meditazione
sull’etimologia delle parole,
sta nell’aver fatto della
stupiditàunavirtú.Stupefare:
privare
di
sentimento;
inebetire,
istupidire;
sbalordire.
Stupore:
insensibilità, apatia, torpore
mentale.
Stupido:
ottenebrato,
indifferente,
destituito di pensiero o
sentimento.Dastupere,essere
stordito, pieno di stupore.
Unascalachevadastupidoa
stupitoadattonito,impietrito.
Ilmessaggio:cheilmessaggio
non cambia mai. Un
messaggio
che
lascia
pietrificati.
Guardiamo come gli
uccelli guardano le serpi,
affascinati da ciò che ci
divorerà.
Fascinazione:
l’omaggio che paghiamo alla
morte.Nell’oratraleottoele
nove ci raduniamo e loro si
mettono in mostra. Una
manifestazione rituale, come
la processione dei vescovi
incappucciati durante la
guerra di Franco. Una
tanatofania: epifania della
nostramorte.Vivalamuerte!
Illorogridodiguerra,laloro
minaccia. A morte i giovani.
A morte la vita. Porci che
divorano la loro progenie. La
GuerradeiPorci 2.
Mi ripeto che sto
guardando non la menzogna,
ma lo spazio dietro la
menzogna, dove dovrebbe
risiedere la verità. Ma sarà
cosí?
Ho dormito (sto ancora
scrivendodiieri),holetto,ho
dormitoancora.Hofattoiltè,
ho messo un disco. Battuta
dopo battuta, le Variazioni
Goldberg hanno riempito
l’aria. Sono andata alla
finestra. Era quasi buio.
L’uomo era seduto contro il
muro del garage, fumava, la
punta della sigaretta ardeva.
Forse mi ha visto, forse no.
Insiemeabbiamoascoltato.
In questo momento so
esattamentequellocheprova,
ho pensato, come se lui e io
stessimofacendol’amore.
Nonostante sia emerso
inatteso,nonostantemiabbia
riempitodidisgusto,hopreso
in considerazione questo
pensierosenzaesitazione.Lui
e io abbracciati, il mio petto
controilsuo,gliocchichiusi,
mentre scendiamo per la
vecchia
strada.
Che
improbabilicompagni!Come
viaggiare in un autobus in
Sicilia,premutifacciaafaccia,
corpo a corpo, con uno
sconosciuto. Forse è cosí la
vita nell’Aldilà: non un atrio
conpoltroneemusica,maun
grande autobus affollato, in
corsa da nessun luogo verso
nessun luogo. Solo posti in
piedi: per sempre su un solo
piede, stipati contro estranei.
L’aria pesante, viziata, invasa
da sospiri e mormorii: scusi,
scusi.Contattipromiscui.Per
sempre sotto lo sguardo
altrui.Lafinediogniprivacy.
Dall’altro lato del cortile
lui stava seduto, fumava,
ascoltava.Dueanime,lasuae
la mia, intrecciate insieme,
estasiate. Come insetti che si
accoppiano da dietro, rivolti
in
direzioni
opposte,
immobili ad eccezione di un
pulsare del torace che
potrebbe essere scambiato
semplicemente per il respiro.
Immobilitàedestasi.
Ha lanciato lontano la
sigaretta: un’esplosione di
scintille quando ha toccato il
suolo,poil’oscurità.
Questa casa, ho pensato.
Questo mondo. Questa casa,
questamusica.Questo.
– Questa è mia figlia – ho
detto. – Quella di cui le ho
parlato, che vive in America
–. E attraverso i suoi occhi ti
ho osservata nella fotografia:
unvoltopiacevole,unadonna
sulla trentina, sorridente,
contro un campo verde, con
una mano sollevata a
trattenere
i
capelli
scompigliatidalvento.Sicura.
È questa l’aria che hai ora:
l’aria di una donna che ha
trovatosestessa.
–Eccoilorobambini.
Due bambini con berretto
e cappotto, stivali e guanti,
sull’attenti a fianco di un
pupazzo di neve, in attesa
delloscattodell’obiettivo.
Una pausa. Eravamo
sedutialtavoloincucina.Gli
ho offerto il tè e i biscotti:
Marie. Biscotti Marie: cibo
per vecchi, per chi non ha
denti.
– C’è qualcosa che vorrei
facesse per me se dovessi
morire. Ci sono delle carte
che voglio mandare a mia
figlia.Masolodopo.Questaè
la cosa importante. Ecco
perché non posso spedirle io.
Farò tutto il resto. Le
raccoglierò in un pacchetto,
applicheròifrancobolligiusti.
Tutto ciò che deve fare è
consegnareilpaccoall’ufficio
postale.Faràquestoperme?
Èdiventatoirrequieto.
– È un favore che non
chiederei se potessi farne a
meno. Ma non c’è altra
soluzione. Io non sarò piú
qui.
– Non può chiederlo a
qualcunaltro?–hadetto.
–Sí,potrei.Malochiedoa
lei. Questi sono scritti
personali, lettere private.
Sono l’eredità di mia figlia.
Tutto ciò che posso darle,
tutto ciò che accetterebbe da
questo paese. Non voglio che
nessunaltroleapraelelegga.
Carteprivate.Questecarte,
questeparolechesenonleggi
ora non leggerai mai piú.
Arriveranno fino a te? Ti
saranno già arrivate? Due
modi per formulare la stessa
domanda, una domanda di
cui non conoscerò mai la
risposta, mai. Per me, questa
lettera sarà sempre come un
messaggio affidato al mare:
unmessaggioinunabottiglia
cherecaimpressiifrancobolli
dellaRepubblicadelSudafrica
eiltuonome.
– Non so – ha risposto
l’uomo,ilmessaggero,mentre
giocherellava
con
il
cucchiaino.
Non fa promesse. Pure, se
promettesse, alla fine farebbe
come gli pare. Ultime
istruzioni, mai vincolanti.
Perché i morti non sono
persone. Questa è la legge:
tutti i contratti decadono. I
morti non possono essere
ingannati, né traditi, a meno
che non li porti con te nel
cuore e là commetti il
crimine.
– Non si preoccupi – ho
detto. – Avevo pensato di
chiederle anche di venire a
daredamangiareaigatti.Ma
troveròun’altrasoluzione.
Quale altra soluzione? In
Egitto muravano i gatti con i
loro padroni morti. È questo
ciòchevoglio?gialliocchiche
vagano avanti e indietro in
cerca di una via d’uscita da
quelbuconero?
– Li farò abbattere – ho
detto. – Sono troppo vecchi
perabituarsiaun’altracasa.
Come acqua contro una
roccia le mie parole hanno
urtatocontroilsuosilenzio.
– Devo fare qualcosa per
loro–hodetto.–Nonposso
non far niente. Se lei fosse al
mio posto si comporterebbe
nellostessomodo.
Con la testa faceva cenno
di no. Non era vero.
Sicuramente,noneravero.In
una notte d’inverno, prima o
poi,quandoilfuocoartificiale
che gli scorre nelle vene non
sarà piú sufficiente a
proteggerlo, morirà. Morirà,
lebracciaincrociatesulpetto,
davanti a una porta o in un
viale; lo troveranno con il
canealfiancooqualchealtro
cane che gli lecca la faccia
uggiolando. Lo porteranno
via e lasceranno il cane in
mezzoallastradaequellasarà
la fine. Nessuna cerimonia,
nessun
lascito,
nessun
mausoleo.
–Spediròilpaccoperlei–
hadetto.
1 [Sanguinari re Zulu. Dingane
partecipò a una congiura per
uccidere il feroce condottiero
Chaka,il22settembre1828].
2 [L’autore gioca sull’assonanza
dei termini boers, «boeri» e boars,
«cinghiali,maialiselvatici»].
II.
Florence è tornata e ha
portatoconsénonsololedue
bambine, ma anche il figlio
quindicenne,Bheki.
– Starà qui a lungo,
Florence? – ho chiesto. – C’è
posto sufficiente anche per
lui?
– Se non sta con me si
caccia nei guai – mi ha
risposto Florence. – Mia
sorellanonpuòpiúoccuparsi
di lui. La situazione è molto
grave a Guguletu, molto
grave.
Cosí adesso ho cinque
personenelgiardinosulretro.
Cinque persone, un cane e
duegatti.Lavecchiachenella
scarpaviveva.Ecosafarenon
sapeva.
QuandoFlorenceseneera
andata all’inizio del mese le
avevo assicurato che me la
sarei cavata con i lavori di
casa. Ma, naturalmente, ho
lasciato che tutto andasse in
malora,ebenprestounodore
pungente, stagnante, ha
pervasolestanzedisopra,un
odore dolciastro di crema,
lenzuola sporche, talco.
Adesso ho dovuto seguirla
piena di vergogna mentre
perlustrava questo scenario.
Le mani sui fianchi, le narici
che vibravano, gli occhiali
lampeggianti, valutava le
prove
della
mia
incompetenza. Poi si è messa
al lavoro. Per la fine del
pomeriggio il bagno e la
cucina brillavano, la camera
da letto era invasa da una
fresca fragranza, nell’aria si
respiravaprofumodiceraper
mobili. – Meraviglioso,
Florence – ho detto,
pronunciando le frasi di rito.
–Nonsocomefareisenzadi
te –. Eppure, lo so bene.
Scivolerei nell’indifferenza e
nello
squallore
della
vecchiaia.
Terminati i lavori per me,
Florence si è dedicata alle
consuete attività. Ha avviato
lacenaepoihaportatoledue
bambine nel bagno di sopra.
Laguardavomentrelelavava
strofinando energicamente
dietro le orecchie, lungo le
cosce, con sveltezza e
decisione, indifferente ai loro
uggiolii, e ho pensato: che
donna ammirevole, ma come
sono contenta che non sia
miamadre!
Ho incontrato il ragazzo
che si aggirava nel giardino.
Untempoloconoscevocome
Digby, ora si chiama Bheki.
Alto per l’età che ha, col
bell’aspetto
severo
di
Florence. – Non posso
credere che tu sia cresciuto
tanto – ho detto. Non ha
risposto. Non è piú il
ragazzino dalla faccia sincera
che quando veniva in visita
correva subito alla gabbia dei
conigli, tirava fuori la
femmina grassa e se la
stringeva
al
petto.
Indubbiamenteoraèrisentito
per essere stato separato dai
suoi amici e recluso con le
sorelline nel giardino di
un’estranea.
– Da quando sono chiuse
le scuole? – ho chiesto a
Florence.
– Dalla scorsa settimana.
Tutte le scuole di Guguletu,
LangaeNyanga.Iragazzinon
hanno niente da fare. Quello
che fanno è aggirarsi per le
strade e ficcarsi nei guai. È
meglio che stia qui, dove
possotenerlod’occhio.
–Siannoieràsenzaamici.
Ha alzato le spalle ed è
rimasta seria. Credo di non
averlamaivistasorridere.Ma
forse sorride ai suoi bambini
quandoèsolaconloro.
– Chi è quell’uomo? – ha
chiestoFlorence.
–ÈilsignorVercueil–ho
risposto. – Vercueil, Verkuil,
Verskuil. Almeno, cosí dice.
Non mi è mai capitato di
sentireunnomecomequesto
in precedenza. Starà qui per
unpo’.Hauncane.Avvertile
bambinedinonfarloeccitare
tropposecigiocano.Èancora
un
cucciolo,
potrebbe
mordere.
Florence ha scrollato la
testa.
– Se ci crea problemi gli
chiederò di andarsene – ho
detto – ma non posso
mandarlo via per cose che
nonhafatto.
Una giornata fredda,
ventosa: mi sono seduta sul
balcone
avvolta
nella
vestaglia. Di sotto, nel prato,
Vercueil era intento a
smontare
la
vecchia
falciatrice; le due bambine lo
osservavano. La piú grande il
cui nome, dice Florence, è
Hope (non si degna di
affidarmi i loro veri nomi),
era accovacciata qualche
metro piú in là, fuori dal suo
campo visivo, con le mani
strette tra le ginocchia.
Calzava i suoi nuovi sandali
rossi. La piccola, Beauty,
ancheleiconsandalettirossi,
si aggirava per il prato con
passo incerto, sgambettando,
e talvolta cadendo a sedere
improvvisamente.
Li osservavo. La bimba
avanzava verso Vercueil, le
braccia sollevate, i pugni
serrati.
Prima
che
inciampasse sulla falciatrice
lui l’ha afferrata e tenendola
perilbracciograssottellol’ha
condotta lontano, al sicuro.
Di nuovo, con passo
vacillante, si è slanciata verso
di lui. Di nuovo lui l’ha
afferrata e l’ha portata via.
Stava per diventare un gioco.
Ma sarebbe stato al gioco il
cupoVercueil?
AncoraunavoltaBeautysi
èlanciataversodilui;ancora
una volta lui l’ha portata in
salvo. Poi, meraviglia delle
meraviglie, ha spinto la
falciatricemezzosmontatada
unlatoe,porgendounamano
alla piccola e una mano a
Hope, ha iniziato a girare in
circolo,primalentamente,poi
sempre piú velocemente.
Hope,conisuoisandalirossi,
doveva correre per tenere il
passo; la piccola, invece,
sollevata in aria, lanciava
gridolini di gioia; il cane,
chiuso fuori, da oltre il
cancello saltava e abbaiava.
Quanto chiasso! Quanta
eccitazione!
In quel momento deve
essere entrata in scena
Florence, perché quella
giostra ha rallentato e si è
fermata.
Poche
parole
sommesse e Hope ha lasciato
la mano di Vercueil
persuadendo la sorellina a
fare lo stesso per poi
scomparire dalla mia visuale.
Houditounaportachiudersi.
Il cane, avvilito, uggiolava.
Vercueil è tornato alla
falciatrice. Mezz’ora piú tardi
hacominciatoapiovere.
Ilragazzo,Bheki,trascorre
il tempo sdraiato sul letto di
Florence, sfogliando vecchie
riviste, mentre da un angolo
della stanza Hope lo guarda
in adorazione. Qualche volta,
stufo delle letture, se ne sta
nel vialetto e fa rimbalzare
una pallina da tennis contro
la porta del garage. Quel
rumore mi fa impazzire.
Nonostante mi prema il
cuscino sulla testa, quello
spietato tamburellare mi
rimbombanelleorecchie.
– Quand’è che apriranno
di nuovo le scuole? – chiedo
irritata.–Glidiròdismettere
– risponde Florence. Un
minutodopoicolpicessano.
L’anno scorso, quando
erano cominciati i problemi
nelle scuole, avevo detto a
Florence come la pensavo. –
Aimieitempi,consideravamo
l’istruzione un privilegio – le
dissi. – I nostri genitori
tiravano la cinghia e
mettevanodaparteisoldiper
mantenere i figli a scuola.
Avremmo considerato un
gestodipurafolliabruciarele
scuole.
– Oggi è diverso – rispose
Florence.
– Approvi il fatto che i
ragazzibrucinolescuole?
–Nonsonoioapoterdire
a questi ragazzi quello che
devono fare – mi rispose
Florence. – Oggi tutto è
cambiato.Noncisonopiúné
madri,népadri.
–Cheassurdità–risposi.–
Cisonosemprepadriemadri
–. Su quella nota era
terminato il nostro scambio
diopinioni.
Dei disordini nelle scuole
la radio non dice niente, la
televisione non dice niente, i
giornali non dicono niente.
Nel mondo che proiettano,
tutti i bambini del paese
siedono felicemente tra i
banchi e vengono istruiti sul
quadrato
costruito
sull’ipotenusaesuipappagalli
della foresta amazzonica.
Quello che so dei fatti di
Guguletu
dipende
esclusivamente da quello che
miraccontaFlorenceodaciò
chevedoaffacciataalbalcone
scrutando verso nord-est:
precisamente, che Guguletu
ogginonèinfiamme,osesta
bruciando, brucia a fuoco
lento.
In questo paese il fuoco
cova sotto la cenere; ma con
tutta la buona volontà, io
posso solo essere una
spettatrice disattenta. In
realtà, la mia attenzione è
tutta rivolta verso l’interno,
verso la cosa, la parola, la
parola per la cosa che si fa
strada nel mio corpo.
Un’occupazione vergognosa,
e in tempi come questi
persino ridicola, poiché un
banchiere con i vestiti in
fiamme è un personaggio da
barzelletta, ma un accattone
che brucia no. Eppure non
possofarcinulla.«Guardami!,
–vorreigridareaFlorence.–
Anch’iostobruciando!»
Il piú delle volte tento di
tener separate le lettere della
parola come se fossero le
ganasce di una trappola.
Quando leggo, leggo con
circospezione, tralascio righe
o persino interi paragrafi
quando con la coda
dell’occhio colgo l’ombra
della parola che aspetta in
agguato.
Ma nell’oscurità, nel letto,
nella solitudine, la tentazione
di guardarla si fa irresistibile.
Misentoquasisospintaverso
quella parola. Mi immagino
bambina, con un lungo
vestito bianco e un cappello
di paglia, su di una vasta
spiaggia vuota. La sabbia si
solleva tutt’attorno. Tengo
fermo il cappello, cerco di
tenermi ben salda sui piedi,
raccolgo le forze contro il
vento. Ma dopo un po’, in
questo luogo desolato dove
nessuno mi vede, lo sforzo
diventa insostenibile. Cedo.
Come una mano che mi si
posi in fondo alla schiena, il
ventomispinge.Èunsollievo
nondoveropporreresistenza.
Dapprima camminando, poi
correndo, permetto al vento
ditrasportarmi.
E, notte dopo notte, mi
sospinge verso il Mercantedi
Venezia. Forse che io non
mangio, non dormo, non
respiro come voi?, grida
l’ebreo
Shylock:
Non
sanguino forse come voi?,
mentre brandisce un pugnale
con una libbra di carne
sanguinante impalata sulla
punta. Non sanguino forse
come voi?, echeggiano le
parole rabbiose e angosciate
dell’ebreo dalla lunga barba
che si aggira per il
palcoscenicoconlozucchetto
intesta.
Griderei la mia angoscia a
tesetufossiqui.Matunonci
sei. Per questo mi rivolgo a
Florence. Sarà Florence a
sopportare i momenti in cui
un’autentica vampa di paura
sisprigioneràdameeridurrà
in cenere le foglie sui rami.
Andràtuttobene,questesono
le parole che voglio sentir
pronunciare. Voglio sentirmi
avvoltadalcalorediunseno,
l’abbracciodiFlorence,iltuo,
odichiunque;vogliosentirmi
direcheandràtuttobene.
Mentre ero a letto, la
scorsa notte, con un cuscino
sotto l’anca, le braccia
premute contro il petto
affinché il dolore non si
muovesse, l’orologio che
segnava le 3:45, ho pensato
con invidia e languore a
Florence addormentata nella
sua stanza, circondata dai
bambini assopiti, tutti e
quattro intenti a respirare,
ciascuno seguendo il proprio
ritmo, ogni respiro forte e
sicuro.
Una volta avevo tutto, ho
pensato.Oratuhaituttoeio
nonhonulla.
Senza esitazioni i quattro
respiri si accompagnavano al
leggero
ticchettio
dell’orologio.
Ho piegato un foglio in
dueehoscrittounmessaggio
perFlorence:
Ho trascorso una notte
insonne. Cercherò di dormire
fino a tardi. Per favore, tieni
tranquille le bambine. Grazie.
E.C.
Sono scesa al piano disotto e
ho posato il biglietto nel bel
mezzodeltavolodellacucina.
Poi,intirizzita,sonotornataa
letto, ho preso la pillola delle
quattro,hochiusogliocchie
ho incrociato le braccia in
attesa del sonno che stentava
adarrivare.
CiòchevorreidaFlorence
non lo avrò. Niente posso
averediciòchevorrei.
Loscorsoanno,quandola
bambina piú piccola era
ancora
in
fasce,
ho
accompagnato Florence con
l’auto fino a Brackenfell, il
postodovelavorasuomarito.
Senza dubbio lei si
aspettava che la facessi
scendereemeneandassi.Ma
presa dalla curiosità, curiosa
di vedere il suo uomo, di
vederli insieme, sono entrata
conlei.
Eraunsabatopomeriggio,
sul tardi. Dal parcheggio ci
siamo incamminate per una
stradina
polverosa
che
divideva due lunghi e bassi
capannoni per giungere a un
terzocapannodoveunuomo
intutablustavainpiediinun
recinto pieno di polli,
pollastrelli a dire il vero, che
gli turbinavano attorno alle
gambe. La bambina, Hope,
liberatasi con uno strattone,
era corsa avanti e si era
aggrappata alle maglie della
rete metallica. Qualcosa era
guizzato tra Florence e
l’uomo: un’occhiata, un
interrogativo, uno sguardo
d’intesa.
Ma non c’era tempo per i
saluti. Lui, William, il marito
di Florence, aveva un lavoro
da eseguire e non poteva
essere interrotto. Il lavoro
consisteva nell’avventarsi su
un pollo, rivoltarlo a testa in
giú,stringerlotraleginocchia
mentresidibatte,attorcigliare
un fil di ferro attorno alle
zampe e passarlo a un altro
uomo, piú giovane, che lo
avrebbe appeso, tra rochi
lamenti e uno sbatacchiare
d’ali, ad un gancio del nastro
trasportatore
che
sferragliandos’inoltravaverso
il fondo del capanno. Qui un
terzouomoconungrembiule
di cerata schizzato di sangue
ne afferrava la testa, tirava il
collo fino a tenderlo e lo
tranciava di netto con un
coltellino tanto piccolo da
sembrare parte della mano, e
cosí facendo lanciava la testa
in un secchio pieno di altre
testemozzate.
Questo era il lavoro di
William,equestoèciòcheho
visto prima di avere il tempo
o la presenza di spirito di
chiedermi se davvero volevo
guardare. Per sei giorni alla
settimana questo era ciò che
faceva. Legava le zampe dei
polli. O forse faceva a turno
con gli altri e li appendeva, i
polli, ai ganci; o ne mozzava
le teste. Per trecento rand al
mese piú i pasti. Un lavoro
che faceva da quindici anni.
Perciò
non
era
poi
improbabile che alcuni dei
polli che avevo farcito di
pangrattato, tuorlo d’uovo e
salvia, che avevo spennellato
conolioesfregatoconl’aglio,
fossero stati tenuti all’ultimo
momento tra le gambe di
quest’uomo, il padre dei
bambini di Florence. Che si
alzavaallecinquedelmattino,
mentre io ancora dormivo,
per lavare le gabbie, riempire
di becchime le mangiatoie,
ramazzare i capanni e poi,
dopo colazione, iniziare la
macellazione:
spennare,
pulire e congelare migliaia di
carcasse,
impacchettare
migliaia di teste e zampe, fra
metri e metri di intestini e
montagnedipiume.
Avreidovutoabbandonare
immediatamente quel posto,
non appena mi resi conto di
ciò che vi si compiva. Avrei
dovuto prendere l’auto e
andarmene e fare del mio
meglio per dimenticare.
Invece ero rimasta davanti
alla recinzione, incantata,
mentre i tre uomini
elargivanomorteauccellicui
non è dato volare. E oltre a
me la piccola, con le dita
aggrappateallarete,anchelei
assorbitadaquellavisione.
Cosí difficile, eppure cosí
facile:uccidere,morire.
Erano ormai le cinque, la
giornatavolgevaaltermine,e
iomisonocongedata.Mentre
midirigevoversoquestacasa
vuota, William ha portato
Florence e le bambine negli
alloggi. Mentre lui si lavava,
Florence ha cucinato una
cena di riso e pollo sul
fornello a cherosene, poi ha
allattato la bambina. Era
sabato. Alcuni degli altri
lavorantieranofuoriinvisita
o a divertirsi. Cosí anche
FlorenceeWilliam,dopoaver
messo le bambine a dormire
inunpiccololetto,sonousciti
a fare una passeggiata, loro
due soli, nel tepore
dell’oscurità.
Camminavano lungo il
bordo della strada. Parlavano
della settimana trascorsa:
comeerastata,dellelorovite.
Quando sono rientrati
hannotrovatolebambineche
dormivano profondamente.
Per assicurarsi un po’
d’intimità,hannoappesouna
coperta davanti al giaciglio.
Poi avrebbero avuto la notte
tutta per sé; tutta, tranne
quella mezz’ora in cui
Florence sarebbe sgusciata
fuori,nelbuio,perallattarela
piccola.
La domenica mattina
William (non è il suo vero
nome, ma il nome con il
qualeèconosciutosullavoro)
ha indossato il completo, il
cappello e le scarpe buone.
Con
Florence
hanno
raggiunto la fermata della
corriera, lei con la bambina
sulla schiena, lui tenendo per
mano Hope. Hanno preso la
corriera per Kuilsrivier, poi
un taxi fino a Guguletu, fino
alla casa di quella sorella
presso cui alloggiava il loro
ragazzo.
Erano le dieci passate e
cominciava a fare caldo. Il
servizio in chiesa era
terminato;lacucinaerapiena
di ospiti, piena di discorsi.
Dopounpo’gliuominisono
usciti; era ora che Florence
aiutasse sua sorella a
preparare il pranzo. Hope si
era
addormentata
sul
pavimento. Un cane era
entrato, le aveva leccato il
viso, era stato cacciato via; la
bambina,
ancora
addormentata, era stata
sollevata e messa sul divano.
Una volta rimaste sole,
Florence aveva dato alla
sorella i soldi per le spese di
Bheki, l’affitto, i pasti, le
scarpe, i libri di scuola; la
donna se li era nascosti in
petto.PoieracomparsoBheki
a salutare sua madre. Gli
uomini, tornati dalle loro
occupazioni,
quali
che
fossero, hanno pranzato tutti
insieme: pollo della fattoria,
dell’azienda o impianto
industriale che dir si voglia,
riso,cavolo,sugo.Dafuorigli
amicidiBhekiavevanopreso
a chiamarlo: lui, finito di
mangiareingranfretta,aveva
abbandonatolatavola.
Tuttoquestoeraaccaduto.
Tutto questo deve essere
accaduto. Un ordinario
pomeriggio in Africa: un
tempo sonnolento, una
giornata sonnolenta. Si
potrebbequasidirechelavita
dovrebbeesserepropriocosí.
Infine era venuto per loro
il tempo di andarsene. Sono
andati alla fermata della
corriera, Hope questa volta a
cavalcioni sulle spalle del
padre. Arrivata la corriera si
sono congedati. La corriera
portava via Florence e le
bambine.
Le portava a Mowbray, da
dove avrebbero preso un
autobus per St George Street,
edaquiunterzofinoaKloof
Street. Da Kloof Street
dovevano proseguire a piedi.
Arrivate a Shoonder Street le
ombre già si erano fatte piú
lunghe. Era ora di preparare
la cena per Hope, ormai
stancaeirritata,fareilbagno
allapiccola,finiredistirareil
bucatodelgiornoprima.
In fondo non è bestiame
quello che macella, mi
ripetevo; in fondo sono
soltanto galline, con i loro
occhietti folli da gallina e la
loro mania di grandezza.
Eppure non riuscivo a
dimenticare l’immagine del
pollaio,
dell’allevamento
industriale, dell’impresa dove
lavoravailmaritodelladonna
concuivivevofiancoafianco,
del recinto dove giorno dopo
giornosíaggiravasuegiú,in
lungo e in largo, respirando
sangueepiume,inmezzoallo
strepitio di atroci e rochi
lamenti, per immobilizzare,
rivoltare, afferrare, legare,
appendere.Pensavoatuttigli
uominisparsinellavastitàdel
Sudafrica che, mentre io
sedevo a guardare fuori dalla
finestra, stavano uccidendo
polli, trasportando terra,
carrettata dopo carrettata; a
tutte
le
donne
che
selezionavano arance, che
cucivano asole. Chi conterà
mai le vangate, le arance, le
asole, i polli? Un universo di
fatica, un universo scandito
da un conteggio: come stare
seduti tutto il giorno davanti
a un orologio a uccidere i
secondiunoaduno,acontare
lavitachepassa.
Da quando Vercueil ha
cominciatoariceveresoldida
me, beve assiduamente; non
solo vino, ma anche brandy.
Certi giorni non beve fino
all’ora di pranzo, utilizzando
leorediastinenzaperrendere
la resa piú voluttuosa. Piú
spesso è già completamente
sbronzoquandolascialacasa
ametàmattina.
Il sole emanava una luce
metallica oggi quando lui è
rincasato. Io ero sul balcone,
al piano di sopra, non mi ha
visto quando si è seduto in
giardino con la schiena
appoggiata al muro e il cane
al fianco. Il figlio di Florence
era già lí, con un amico che
non avevo mai visto prima,
mentreHopedivoravacongli
occhi ogni loro piú piccolo
movimento. Avevano una
radio accesa, il crepitio ed il
ritmo martellante della
musica erano persino peggio
dellapallinadatennis.
– Acqua, – ha chiesto
Vercueil ai ragazzi –
portatemidell’acqua.
Il nuovo arrivato, l’amico,
haattraversatoilgiardinoesi
è accovacciato accanto a lui.
Quello che si son detti non
l’ho sentito. Il ragazzo ha
allungatoilbraccio.–Dammi
–hadetto.
Pigramente Vercueil ha
spintovialamanotesa.
– Dammela – ha detto il
ragazzo mentre si sollevava
sulle ginocchia per tentare di
sfilare la bottiglia dalla tasca
diVercueil.
Vercueil ha tentato di
resistere,masolodebolmente.
Il ragazzo ha svitato il
tappo e ha versato il brandy
perterra.Poihagettatoviala
bottigliacheèandatainpezzi.
Che gesto stupido, ho quasi
dettoforte.
– Stanno facendo di te un
cane randagio! – ha detto il
ragazzo. – Vuoi diventare un
bastardorandagio?
Ilcane,ilcanediVercueil,
hamugolatoprontamente.
– Va’ all’inferno – ha
rispostoVercueilconlabocca
impastata.
–Bastardo!–haesclamato
ilragazzo.–Ubriacone!
Ha voltato le spalle a
Vercueilehafattoritornoda
Bheki, ostentando una certa
tracotanza nel camminare.
Che ragazzino saccente, ho
pensato. Se questa è la
condotta dei nostri nuovi
custodi,ilSignoreceneliberi.
Labambinahaannusatoil
brandyehaarricciatoilnaso.
– All’inferno pure tu – ha
detto Vercueil scacciandola
con un gesto della mano. E
poi,improvvisamente,leisiè
voltataedècorsanellastanza
disuamadre.
La musica rimbombava
ancora. Vercueil si è assopito
controilmuro,piegatosuun
fianco; il muso del cane sul
suo ginocchio. Io sono
tornata al mio libro. Dopo
poco
il
sole
si
è
definitivamenteritiratodietro
le nubi; l’aria è diventata
fredda. Una pioggia leggera
ha cominciato a cadere. Il
cane si è scrollato e si è
infilatonellalegnaia.Vercueil
si è alzato e lo ha seguito. Io
ho cominciato a radunare le
miecose.
Nella legnaia c’è stata una
baruffa. Immediatamente il
canesièprecipitatofuori,siè
guardato intorno, poi ha
preso ad abbaiare; quindi è
uscito Vercueil camminando
a ritroso; i due ragazzi lo
hanno seguito per ultimi.
Quando il secondo ragazzo,
l’amico, gli si è avvicinato,
Vercueil lo ha colpito sul
colloconilpalmodellamano.
Con un sibilo di sorpresa il
ragazzo ha trattenuto il fiato:
ho
sentito
il
sibilo
chiaramente,nonostantefossi
sulbalcone.Poiharestituitoil
colpo facendo vacillare
Vercueil che per poco non è
caduto. Il cane guaiva e gli
saltellava intorno. Il ragazzo
ha colpito Vercueil ancora
unavolta,maoraancheBheki
partecipava. – Smettete! – ho
gridato. Mi hanno ignorato;
Vercueil giaceva per terra; lo
stavano prendendo a calci;
Bheki si era sfilato la cintura
dai pantaloni e lo stava
fustigando. – Florence! – ho
gridato – Fermali! – Vercueil
si era portato le mani al viso
per proteggersi. Il cane ha
fattounbalzoindirezionedi
Bheki; lui l’ha respinto e ha
continuato
a
flagellare
Vercueil con la cintura. –
Smettete, voi due! – ho
gridato, afferrandomi alla
ringhiera.–Smettetesubitoo
chiameròlapolizia!
Allora
è
comparsa
Florence. Ha usato parole
aspre e i due ragazzi si sono
ritirati. Vercueil si è alzato
incespicando. Io mi sono
precipitata in giardino piú in
frettachehopotuto.
–Chièquelragazzo?–ho
chiestoaFlorence.
Lui ha smesso di parlare
con Bheki e mi ha guardato.
Non mi piaceva il suo
sguardo:
arrogante,
combattivo.
– È un amico di scuola –
hadettoFlorence.
–Devetornarseneacasa–
ho detto – questo è troppo
per
me.
Non
posso
ammettere risse in casa mia.
Non posso ammettere che
estranei entrino ed escano
liberamente.
Dal labbro di Vercueil
colava sangue. Era strano
vedere il sangue su quella
pellechesembracuoio.Come
mielesullacenere.
–Nonèunestraneo,èun
ospite – ha affermato
Florence.
– Dobbiamo mostrare il
lasciapassare per entrare qui?
–hadettoBheki.Luieilsuo
amico si sono scambiati
sguardi d’intesa. – Ci vuole
un
lasciapassare?
–
Aspettavano la mia risposta,
era una sfida. La radio era
ancoraaccesaediffondevaun
suono disumano, estenuante;
avrei voluto premermi le
manisulleorecchie.
– Non ho parlato di
lasciapassare–hodetto.–Ma
che diritto ha di venire qui e
di aggredire quest’uomo?
Quest’uomo vive qui. È casa
sua.
Le narici di Florence
vibravano.
– Sí, – ho detto
volgendomi verso di lei –
ancheluivivequi,ècasasua.
– Vive qui – ha ribattuto
Florence–maèunoschifoso.
Èunbuonoanulla.
–Joumoer!–haesclamato
Vercueil. Si era tolto il
cappello
e
ne
stava
rimodellando la corona, poi
lo ha sollevato in aria, come
percolpirla.–Joumoer!
Bheki gli ha strappato il
cappello di mano e lo ha
lanciatosultettodelgarage.Il
cane ha abbaiato con furia.
Lentamente il cappello è
rotolato giú per il tetto
spiovente.
–Nonèunoschifoso–ho
detto a bassa voce e
rivolgendomi soltanto a
Florence. – Non esistono
persone schifose. Siamo tutti
personeallostessomodo.
Ma Florence non voleva
sentire prediche. – Buono a
nulla,buonosoloaubriacarsi
– ha aggiunto. – Beve, beve,
beve tutto il giorno. Non mi
vachestiaqui.
Un buono a nulla: era
questa la verità? Sí, forse:
buonoanulla,questavecchia
e dignitosa espressione, udita
troppo raramente al giorno
d’oggi.
–Èilmiomessaggero–ho
detto.
Florence mi ha guardato
condiffidenza.
–Consegneràmessaggiper
me–hocontinuato.
Ha scrollato le spalle.
Vercueil se ne è andato
trascinandosi con il cappello
in mano e il cane al seguito.
Ho udito lo scatto della
serraturadelcancello.–Di’ai
ragazzi di lasciarlo in pace –
ho detto. – Non dà nessun
fastidio.
Come un vecchio gatto
scacciato dai giovani maschi,
Vercueil è andato a
nascondersi per leccarsi le
ferite. Io già mi vedo a
setacciareiparchi,achiamare
sottovoce: Signor Vercueil!
Signor Vercueil! Una vecchia
incercadelgatto.
Florence ostenta orgoglio
per come Bheki si è liberato
delbuonoanulla,maprevede
che sarà di ritorno non
appena comincerà a piovere.
Per conto mio, dubito che lo
rivedremo finché i ragazzi
saranno qui. È quanto ho
detto a Florence. – Stai
mostrando a Bheki e al suo
amicochesonoautorizzatiad
alzare le mani impunemente
su chi è piú vecchio di loro.
Questo è un errore. Sí,
qualunque cosa tu pensi di
lui, Vercueil è piú vecchio di
loro!
– Piú ti mostri cedevole,
Florence, piú i ragazzi
agiranno con prepotenza. Mi
hai detto che ammiri la
generazione di tuo figlio
perchélorononhannopaura
di niente. Stai attenta:
potrebbero cominciare a
mostrare indifferenza per la
lorostessavitaepoifinirecol
provare indifferenza per la
vita degli altri. Quello che
ammiri in loro non è
necessariamente la loro
qualitàmigliore.
– Continuo a pensare a
quello che hai detto l’altro
giorno: che non ci sono piú
padri né madri. Non posso
crederechetunesiaconvinta.
I bambini non possono
crescere senza madri e padri.
Le uccisioni e gli incendi di
cui si sente parlare, la loro
stupefacente durezza, e pure
questo episodio del pestaggio
di Vercueil: di chi è la colpa
alla fine? Certamente la
responsabilità deve ricadere
su quei genitori che dicono:
Vaipure,fa’ciòchetipare,a
tespettanoledecisioniora,tu
hai l’autorità adesso. Quale
bambino in cuor suo vuole
davvero sentirsi dire questo?
Certamente se ne andrebbe
confuso, pensando tra sé,
Non ho piú una madre ora,
nonhounpadre:ealloramia
madresaràlamorte;lamorte
sarà mio padre. Tu te ne lavi
lemanielorositrasformano
neifiglidellamorte.
Florence ha scrollato la
testa. – No – ha detto con
fermezza.
– Ma ti ricordi quello che
mi hai raccontato l’anno
scorso, Florence, quando
nelle township accadevano
cose indicibili? Mi hai detto:
Hovistounadonnaandarea
fuoco, bruciava, e quando ha
gridato per chiedere aiuto, i
ragazzini si sono limitati a
sghignazzare e hanno gettato
altrabenzinasudilei.Mihai
detto: Non credevo che avrei
mai visto una cosa simile in
vitamia.
– Sí, l’ho detto, ed è vero.
Ma chi li ha fatti diventare
cosí crudeli? Sono i bianchi
che li hanno resi crudeli!
Loro! – Poi ha sospirato
profondamente, con fervore.
Eravamo in cucina. Lei stava
stirando. La mano con cui
teneva il ferro premeva con
forza. Mi ha rivolto uno
sguardo acceso. Ho toccato
dolcemente la sua mano. Ha
sollevatoilferro.Sullenzuolo
era
comparsa
l’ombra
marronediunabruciatura.
Nessunapietà,hopensato:
una guerra spietata, senza
limiti. Una guerra che sarà
belloperdersi.
– E quando un giorno
saranno adulti – ho
continuato – pensi che la
crudeltà li abbandonerà? Che
razza di genitori saranno se
glierastatodettocheiltempo
dei genitori era finito? Potrà
rinascerel’ideadeigenitorise
è stata cancellata dentro di
loro? Prendono a calci e
pestano un uomo perché
beve. Danno fuoco alla gente
eridonomentremuoretrale
fiamme. Cosa faranno con i
lorobambini?Diqualeamore
sarannocapaci?Ilorocuorisi
trasformanoinpietradavanti
ai tuoi occhi, e tu cosa dici?
Tu dici: Questi non sono i
miei figli, questi sono i figli
dei bianchi, questi sono i
mostri creati dall’uomo
bianco.Èquesto,tuttoquello
che sai dire? Scaricherai la
responsabilità sui bianchi e
volterailespalle?
– No – ha detto Florence.
– Questo non è vero. Io non
volto le spalle ai miei figli –.
Ha piegato il lenzuolo in due
e poi in quattro, in due e
ancora in quattro; gli angoli,
nel ricadere, combaciavano
perfettamente,
definitivamente. – Questi
sono ragazzi in gamba, sono
come il ferro, siamo
orgogliosi di loro –. Sull’asse
da stiro ha disteso la prima
federa. Ho aspettato che
continuasseaparlare.Manon
c’è stato seguito. Non era
interessata a discutere con
me.
Ragazzi di ferro, ho
pensato.Florence,leistessadi
ferro. L’età del ferro.
Dopodiché segue l’età del
bronzo. Quanto, quanto
tempocivorràancora,prima
cheritornino,secondoilloro
ciclo, ere piú tranquille, l’età
dell’argilla, l’età della terra?
Una matrona spartana, dal
cuorediferro,checoncepisce
alla nazione figli guerrieri.
«Siamo orgogliosi di loro».
Noi. Torna a casa con lo
scudo oppure sopra il tuo
scudo.
E io? Da che parte sta il
miocuoreintuttoquesto?La
mia unica figlia è lontana
migliaia di chilometri, al
sicuro,prestoiosaròceneree
fumo, e allora che me ne
importa se è venuto il tempo
incuil’infanziaèdisprezzata,
incuiibambinisiaddestrano
avicendaanonsorrideremai,
a non piangere mai, a
sollevareipugniinariacome
martelli?Èdavverountempo
fuori dal tempo, partorito
dalla
terra,
bastardo,
mostruoso? Dopo tutto, che
cosahadatoallalucel’etàdel
ferro,senonl’etàdelgranito?
Non abbiamo avuto anche
noi
i
Voortrekkers,
generazione
dopo
generazione di Voortrekkers
dalle facce arcigne, dalle
labbra serrate; i figli degli
Afrikaner in marcia, con i
loro inni patriottici, il saluto
allabandiera,ilgiuramentodi
morire per la terra dei loro
padri? Ons sal lewe, ons sal
sterwe.Noncisonoforsetrai
bianchi gli zeloti, che
predicano ancora la vecchia
regola: disciplina, lavoro,
ubbidienza,
sacrificio
personale;unregimedimorte
imposto ai bambini, alcuni
troppo piccoli persino per
allacciarsi le scarpe? Che
incubodall’inizioallafine!Lo
spirito di Ginevra trionfante
in
Africa.
Calvino,
nerovestito,
esangue
e
perennemente algido, che si
sfrega le mani nell’Aldilà e
sfodera il suo gelido sorriso
invernale. Calvino vittorioso,
rinato nei dogmatici e nei
cacciatori di streghe di
entrambelefalangi.Comesei
statafortunataalasciartitutto
questoallespalle!
L’altro ragazzo, l’amico di
Bheki, era arrivato su una
bicicletta rossa con grandi
ruote dipinte di celeste.
Quando sono andata a letto
ieri sera la bici era nel
giardino,
bagnata
e
scintillante sotto i raggi della
luna. Alle sette di questa
mattina, quando ho guardato
fuoridallafinestra,eraancora
là. Ho preso le pillole del
mattino e ho dormito ancora
per un’oretta. Ho sognato di
essere intrappolata in mezzo
ad una folla. Sagome
imprecise mi urtavano, mi
colpivano, imprecavano con
parolechenoncomprendevo,
volgari,carichediminacce.Io
restituivo i colpi, ma le mie
braccia erano come quelle di
un bambino: puff, puff
cadevano i miei colpi, come
sbuffidivento.
Misonosvegliataalsuono
di voci concitate, quella di
Florence e quella di qualcun
altro. Ho suonato il
campanello una volta, due
volte, tre volte, quattro volte.
Finalmente
Florence
è
arrivata.
– C’è qualcuno di sotto,
Florence?
Florence ha raccolto la
trapunta dal pavimento e ha
cominciato a sistemarla ai
piedi del letto. – Non c’è
nessuno–harisposto.
– L’amico di tuo figlio ha
dormitoquiquestanotte?
– Sí. Non poteva
andarsene con la bicicletta di
notte,ètroppopericoloso.
–Edovehadormito?
Florence si è tirata su. –
Nelgarage.LuieBhekihanno
dormitonelgarage.
– Ma come hanno fatto a
entrareingarage?
–Dallafinestra.
–Nonpotevanochiedermi
ilpermessoprimadifareuna
cosadelgenere?
Silenzio.Florencehapreso
ilvassoio.
– Resterà qui anche quel
ragazzo,
nel
garage?
Dormono nella mia auto,
Florence?
Florence ha scrollato la
testa.–Nonloso.Lochiedaa
loro.
A mezzogiorno la bici era
ancora là. Dei due ragazzi
nonv’eratraccia.Maquando
sono uscita per andare a
controllare la cassetta della
posta ho notato un
furgoncinogiallodellapolizia
fermo dall’altra parte della
strada con due uomini in
uniforme all’interno; quello
seduto verso il lato esterno
dormiva,
la
guancia
appoggiataalfinestrino.
Horichiamatol’attenzione
dell’uomo al volante. Il
motore sí e avviato, quello
assopito si è ridestato con un
sobbalzo, il furgone è salito
sul marciapiede, ha fatto una
brusca inversione a U, e si è
spintoaccantoame.
Miaspettavocheuscissero.
Invece no, sono rimasti a
sedere senza dire una parola,
aspettavano che fossi io a
parlare.
Da
nord-ovest
spirava un vento freddo.
Tenevo la vestaglia chiusa
contro la gola. La radio nel
furgone gracchiava. Vierdrie-
agt, diceva una voce
femminile. L’hanno ignorata.
Duegiovaniinuniformeblu.
– Posso fare qualcosa per
voi? – ho domandato. –
Aspettatequalcuno?
– Può fare qualcosa per
noi? Non saprei, signora. Lo
deve dire lei, se può fare
qualcosapernoi.
Aimieitempi,hopensato,
i poliziotti parlavano con
rispetto alle signore. Ai miei
tempi i bambini non davano
fuoco alle scuole. Ai miei
tempi: una frase che oggi
s’incontra solo nelle lettere al
direttore. Vecchi, uomini e
donne, tremanti di nobile
sdegno, che impugnano la
pennacomeun’arma,l’ultima
risorsa. Ai miei tempi, ora
andati; nella mia vita, ora
conclusa.
– Se cercate quei ragazzi,
vogliochesappiatechehanno
ilmiopermessoperstarequi.
–Qualiragazzi,signora?
– I ragazzi ospiti da me. I
ragazzi di Guguletu. Gli
studenti.
Dalla radio si è levata una
scaricadirumore.
– No, signora, non ne so
nientediragazzidiGuguletu.
Vuolechelicerchiamo?
Si
sono
scambiati
un’occhiata,
un’occhiata
compiaciuta. Allora ho
sollevato la sbarra del
cancello. La vestaglia si è
aperta, ho sentito il vento
freddo invadermi la gola e il
petto. – Ai miei tempi – ho
detto scandendo lentamente
ognuna di quelle vecchie,
screditate e comiche parole –
un poliziotto non avrebbe
parlatoinquestomodoauna
signora –. E gli ho voltato la
schiena.
La radio ha gracchiato
comeunpappagallodietrodi
me; o forse hanno alzato il
volume apposta, un gesto
degnodiloro.Un’oradopoil
furgoncino giallo era ancora
davantialcancello.
– Penso davvero che
dovresti
mandare
quel
ragazzo a casa – ho detto a
Florence. – Metterà nei guai
anchetuofiglio.
– Non posso mandarlo a
casa – mi ha risposto
Florence. – Se lui se ne va,
Bhekilosegue.Sonocosí–ha
sollevato la mano e ha
intrecciato due dita. – È piú
sicuro qui per loro. A
Guguletu ci sono sempre
disordini e la polizia arriva e
spara.
Sparatorie a Guguletu:
qualunque cosa ne sappia
Florence, qualunque cosa ne
sappiatuadiecimilamigliadi
distanza, io non ne so nulla.
Le notizie che ricevo non
fanno menzione di disordini,
di sparatorie. Il paese che mi
presentano è una terra di
buonivicinisorridenti.
–Sesonoquipersottrarsi
agli scontri allora perché la
polizialivieneacercare?
Florence ha sospirato
profondamente.Daquandoè
natalabambinac’èun’ariadi
malcelata arroganza in lei. –
Nondovrebbechiederloame,
signora – ha esclamato –
perché la polizia venga a
cercareiragazzi,liperseguiti,
glispariaddossoelisbattain
galera.
Non
dovrebbe
chiederloame.
–Bene,allora–hodetto–
non ripeterò questo errore.
Ma non posso trasformare la
mia casa in un rifugio per
tutti i giovani che scappano
dalletownship.
– E perché no? – ha
chiestoFlorence,sporgendosi
inavanti:–Perchéno?
Ho fatto scorrere l’acqua
calda, mi sono spogliata e mi
sono faticosamente immersa
nell’acqua. Perché no? Ho
chinato la testa, le punte dei
capelli mi ricadevano sulla
faccia sfiorando l’acqua; le
mie gambe a chiazze, venate
diblu,sporgevanocomepezzi
di legno davanti a me. Una
vecchia, malata e ripugnante,
chesiattaccaconleunghiea
quello che ha lasciato. I vivi
impazienti di fronte ad una
morte lenta, i moribondi
invidiosi dei vivi. Uno
spettacolo
disgustoso:
speriamofiniscapresto.
Nonc’èuncampanellonel
bagno. Mi sono schiarita la
gola e ho chiamato: –
Florence! – Tubi vuoti e
bianche
pareti
hanno
restituito il sordo richiamo.
AssurdopensarecheFlorence
mi potesse sentire. E se mi
avessesentito,perchésarebbe
dovutaaccorrere?
Madre cara, ho pensato,
volgi il tuo sguardo verso di
me, tendi verso di me le
braccia!
Brividi hanno iniziato a
scuotermi dalla testa ai piedi.
Dietro le palpebre chiuse, ho
visto mia madre come è
quando mi appare, nel
grigiore delle sue vesti da
vecchia,ilvoltocelato.
– Vieni da me! – ho
sussurrato.
Ma non è venuta. Con le
braccia allargate, come un
falco che veleggi, mia madre
ha cominciato l’ascesa al
cielo. Si sollevava sempre piú
in alto, sopra di me. Ha
raggiunto l’altezza delle
nuvole, le ha oltrepassate, ha
continuato a innalzarsi. A
ogni tratto che percorreva
diventava piú giovane. I
capellitornavanoneri,lapelle
fresca. I vecchi abiti le
cadevano di dosso come
foglie secche, scoprendo il
vestito blu con la piuma
all’occhiellocheindossavanei
primi ricordi che ho di lei, al
tempo in cui il mondo era
giovaneetuttoerapossibile.
Continuava a salire,
nell’eterna perfezione della
giovinezza,
immutabile,
sorridente,
estasiata,
spensierata, fino al limite
estremo della volta celeste. –
Madre, volgi il tuo sguardo
verso di me! – ho bisbigliato
nelbagnovuoto.
Le piogge sono arrivate
presto quest’anno. Piove
ormai da quattro mesi. Se si
toccano i muri, subito
compaiono rivoli d’umidità.
Macchie si formano dove
l’intonacofiorisceesiscrosta.
Gli abiti hanno uno
sgradevole odore di muffa.
Quanto desidererei, almeno
per una volta ancora,
indossare biancheria fresca
cheprofumidibucatostesoal
sole! Che mi fosse concesso
ancora un pomeriggio estivo
per passeggiare lungo il viale
in mezzo ai bambini dalla
pelle color nocciola che
tornano a casa da scuola,
radiosi,ridenti,profumatidel
sudore pulito dei bambini, le
ragazzine ogni anno piú
graziose, plus belles. E se
questo non fosse possibile,
che ci fosse almeno, fino alla
fine,
una
gratitudine
incondizionata,
una
gratitudinedelcuore,perquel
po’ d’incanto concesso in
questomondodimeraviglie.
Scrivosedutanelletto,con
le ginocchia serrate contro il
freddodiagosto.Gratitudine:
scrivo questa parola e poi la
rileggo. Cosa significa?
Dinanziaimieiocchidiviene
densa,oscura,misteriosa.Poi
qualcosa accade. Lentamente,
come una melagrana, il mio
cuore esplode di gratitudine;
comeunfruttochesispacchi
in due per rivelare i semi
dell’amore.
Gratitude,
pomegranate:parolegemelle.
Alle
cinque,
questa
mattina, mi ha svegliato una
pioggiabattente.Venivagiúa
scrosci, rifluendo a fiotti dai
canali di scolo intasati,
sgocciolando dalle tegole
incrinatedeltetto.Sonoscesa
alpianodisotto,hopreparato
iltèe,avvoltainunacoperta,
mi sono dedicata ai conti del
mese.
La serratura del cancello è
scattata e ho sentito dei passi
lungoilvialetto.Unasagoma
curva sotto un sacco di
plastica nera ha attraversato
frettolosamente il riquadro
dellafinestra.
Sono uscita fuori sulla
veranda.–SignorVercueil!–
ho gridato, nella pioggia
insistente. Non c’è stata
risposta. Stringendomi nelle
spalle, avvolta nella vestaglia,
sono scesa in giardino. In un
attimo le pantofole con quel
loro ridicolo rivestimento di
lana si sono inzuppate. Ho
attraversatoilbrevespaziotra
i rivoli d’acqua. Nell’oscurità
dell’ingresso della legnaia ho
urtato qualcuno: Vercueil,
chestavainpiedivoltandomi
lespalle.Habestemmiato.
– Venga dentro! – ho
gridato,percoprireilrumore
dellapioggia.–Vengaincasa!
Nonpuòdormirelí!
Sempre tenendosi quel
sacco come un cappuccio
sulla testa, mi ha seguito in
cucina,allaluce.–Lascifuori
quella roba bagnata – ho
detto. Poi, con stupore ho
notato che qualcuno lo aveva
seguito. Era una donna,
bassina, mi arrivava al
massimo alla spalla, ma
anziana, o almeno non piú
giovane,
lo
sguardo
voluttuoso, il viso gonfio e la
pellelivida.
– E questa chi è? – ho
domandato.
Vercueilmiharivoltouno
sguardo provocatorio con i
suoiocchigialli.Bastardo!,ho
pensato.
– Potete aspettare dentro
finchélapioggianoncesserà,
poivivogliofuori–hodetto
freddamente, voltando le
spalleadentrambimentremi
allontanavo.
Misonocambiata,misono
chiusaachiavenellastanzada
letto e ho cercato di leggere.
Ma
le
parole
mi
attraversavano
frusciando
come foglie. Piacevolmente
sorpresa ho sentito le
palpebre abbassarsi, ho
sentito il libro scivolarmi di
mano.
Al mio risveglio, un’idea
fissa mi occupava la mente:
mandarlivia.
Della donna non v’era
traccia, ma Vercueil dormiva
in salotto, rannicchiato sul
divanoconlemanistrettetra
le ginocchia, il cappello
ancoraprecariamenteintesta.
L’hosvegliatoscuotendolo.Si
è girato, si è inumidito le
labbra
emettendo
un
riluttante
mormorio
assonnato. Era lo stesso
suono,miètornatoinmente
subito,chefacevituquandoti
svegliavoperlascuola.
–Èoradialzarsi!–dicevo
mentre aprivo le tende;
rigirandoti, infastidita dalla
luce, protestavi proprio nello
stesso modo. – Forza, tesoro,
è ora di alzarsi! – ti
sussurravo all’orecchio, senza
metterti fretta tuttavia,
concedendomi il tempo di
sedertiaccantoedicarezzarti
i capelli; carezza dopo
carezza, i miei polpastrelli ti
trasmettevano amore, mentre
turestaviaggrappataalsonno
fino all’ultimo momento. Fa
che sia cosí per sempre!
pensavo, la mano posata sul
tuo capo, percorsa da una
corrented’amore.
E
ora,
quel
tuo
rassicurante
brontolio
assonnatoègermogliatonella
gola di quest’uomo! Dovrei
sedermi anche accanto a lui,
sollevare il cappello, passare
unamanocarezzevolesuquei
capelli unti? Un brivido di
disgusto mi ha attraversato il
corpo. È facile amare un
bambino, ma com’è difficile
amare quello in cui il
bambino si trasforma. Un
tempo, con i pugni stretti
sulle orecchie e gli occhi
serrati nell’estasi, anche lui
fluttuava nel ventre di una
donna,suggevailsuosangue,
la pelle contro la sua. Anche
lui è passato attraverso quel
cancellodiossaalbaglioredi
fuori, anche a lui è stato
concessodiconoscerel’amore
materno, amor matris. Poi,
nelcorsodeltempo,neèstato
escluso,
costretto
a
camminare da solo, ha
cominciato a inaridirsi, a
curvarsi, a indebolirsi. Una
vita a parte, di privazioni,
come tutte le vite; ma in
questo caso, sicuramente
priva di nutrimento, piú di
altre. Un uomo di mezza età
che succhia ancora dalle
bottiglie, che anela a quella
originaria beatitudine e la
ritrova alzando il gomito,
nellostuporealcolico.
Mentre lo guardavo la sua
donna è entrata nella stanza.
Mi ha ignorato e si è lasciata
cadere su un mucchio di
cuscini sistemati per terra.
Profumava di acqua di
colonia:lamia.Dietrodileiè
arrivataFlorence,irritata.
–
Non
chiedermi
spiegazioni, Florence – ho
detto. – Lasciali stare, hanno
qualcosa da smaltire nel
sonno.
Gli occhiali di Florence
lampeggiavano, voleva dire
qualcosa, ma l’ho prevenuta.
–Perfavore!Nonresteranno
quialungo.
Nonostanteabbiapiúvolte
tirato l’acqua, in bagno
permaneva
un
odore
nauseabondo dolciastro e
ripugnante. Ho gettato il
tappetinofuorinellapioggia.
Piútardi,quandoiragazzi
stavano facendo colazione in
cucina con Florence, sono
scesa di nuovo e, senza
preamboli, mi sono rivolta a
Bheki.
–Hosaputochetueiltuo
amico avete dormito nella
mia auto. Perché non mi
avetechiestoilpermesso?
È caduto il silenzio. Bheki
non alzò gli occhi. Florence
continuavaatagliareilpane.
– Perché non mi avete
chiesto
il
permesso?
Rispondi!
La piccola ha smesso di
masticare e ha preso a
fissarmi.
Perché
mi
sono
comportata in modo cosí
ridicolo? Perché ero irritata.
Perché ero stanca di sentirmi
usata. Perché era la mia auto
quella in cui avevano
dormito. La mia auto, la mia
casa: roba mia, non ero
ancoramorta.
Poi, fortunatamente, è
comparso Vercueil e la
tensione si è allentata. Ha
attraversato
la
cucina
guardando fisso davanti a sé
direttoversolaveranda.L’ho
seguito. Il cane gli saltellava
intorno,slanciandosiversodi
luigioiosamente.Hafattoun
balzo anche verso di me
lasciando striature umide
sulla gonna con le zampe
bagnate. Come si deve
sembrare ridicoli nell’atto di
difendersidauncagnolino!
– Potrebbe portare via la
suaamica,perfavore?–gliho
detto.
Ha guardato in su verso il
cieloingombrodinubienon
harisposto.
– La mandi via, altrimenti
lo farò io! – ho gridato con
rabbia.
Mihaignorato.
–Aiutami–hoordinatoa
Florence.
La donna era riversa a
faccia in giú sul suo giaciglio
di cuscini, una macchia
umida le si era formata
all’angolo
della
bocca.
Florence l’ha sollevata per le
braccia. Incespicando lei si è
rimessa in piedi. Un po’
guidandola,
un
po’
spingendola, Florence l’ha
condottafuori.Vercueilciha
raggiunte nel vialetto. –
Questo è davvero troppo! –
glihodettoseccamente.
I due ragazzi erano già in
strada con la loro bicicletta.
Fingendo di non prestare
attenzionealnostroalterco,si
sono avviati su per Shoonder
Street,Bhekiappollaiatosulla
canna,
mentre
l’amico
pedalava.
Inunflussovaneggiantedi
oscenità, con voce roca, la
donna ha cominciato a
insultare Florence. Florence
mi ha rivolto uno sguardo
malizioso. – Gente schifosa –
ha
detto
mentre
si
allontanava
con
passo
marziale.
– Non voglio piú vedere
questadonna–hoammonito
Vercueil.
La bicicletta montata dai
due ragazzi è riapparsa in
cima alla salita di Shoonder
Street, l’amico di Bheki
pedalava con vigore nella
nostra direzione. Li seguiva
da vicino il furgone giallo
dellapoliziadiieri.
Un
camioncino
era
parcheggiato a lato del
marciapiede, il rimorchio
caricoditubieastemetalliche
e altro materiale idraulico.
C’era abbastanza spazio
perché la bicicletta potesse
aggirarlo. Ma non appena il
furgoncino
giallo
ha
affiancato i ragazzi, lo
sportello laterale si è
spalancato colpendoli di
fianco. La bici ha sbandato
senza piú controllo. In un
lampo ho visto Bheki
scivolare giú con le braccia
alzate, l’altro ragazzo che
stava in piedi sui pedali
voltare la faccia e protendere
unamanoinavanticomeper
ripararsi. Nonostante il
rumore del traffico che
proveniva da Mill Street, ho
uditodistintamenteiltonfodi
uncorpofermatoamezz’aria,
un profondo e sgomento –
Ah! –, un sospiro esalato, il
fracasso della bicicletta
schiantata
contro
il
rimorchio. – Oddio! – ho
gridato con una voce cosí
stridula che riecheggiando
nell’aria non sembrava
neppure la mia. Il tempo,
fermatosi per un attimo, ha
poi ripreso il suo corso,
lasciando come un vuoto: un
momento il ragazzo aveva
sporto la mano per ripararsi,
il momento dopo era come
un viluppo accanto al
marciapiede.Poil’ecodelmio
gridosièaffievolitaelascena
si è ricomposta nella sua
usuale familiarità: Schoonder
Street in un normale giorno
lavorativo, con un furgone
giallo canarino che svoltava
l’angolo.
Un cane, un cane da
caccia, si è avvicinato in
perlustrazione. Il cane di
Vercueil lo ha annusato,
mentre il segugio lo ignorava
continuandoafiutarel’asfalto
per poi leccarlo. Volevo
muovermi ma non potevo.
Ero come raggelata, non mi
sentivo piú le gambe, la
parola svenimento mi è
balenata in mente, sebbene
non sia mai svenuta in vita
mia. Questo paese!, ho
pensato. E poi: Grazie a Dio
leièandatavia!
Un cancello si è aperto ed
è comparso un uomo in tuta
da lavoro blu. Ha dato un
calcio al segugio che è
schizzato via, sorpreso e
dolorante. – Gesú! – ha
esclamato l’uomo. Si è
chinato e ha cominciato a
districare gli arti dal telaio
dellabicicletta.
Mi
sono
avvicinata,
tremante. – Florence! – ho
chiamato.MadiFlorencenon
c’eratraccia.
Chinatosuicorpiagambe
divaricate,l’uomohaspostato
la bici di lato. Bheki giaceva
sotto l’altro ragazzo. Aveva
dipinta
in
volto
un’espressione
dolorante;
s’inumidiva le labbra in
continuazione;avevagliocchi
chiusi. Il cane di Vercueil ha
tentato di leccarlo. – Va’ via!
–homormoratospingendolo
con il piede. Ha iniziato a
scodinzolare.
Una donna è apparsa
accanto a me, si stava
asciugando le mani con uno
strofinaccio. – Sono i ragazzi
deigiornali?–hadomandato.
– Sono i ragazzi dei giornali,
sa se sono loro? – Ho
scrollatolatesta.
Con aria incerta l’uomo si
è chinato nuovamente sui
corpi. Quello che avrebbe
dovuto fare era sollevare il
peso morto del ragazzo che
giaceva a faccia in giú
addossoaBheki.Manonsela
sentiva di farlo. E neppure io
volevo che lo facesse. C’era
qualcosa che non andava,
qualcosa d’innaturale nel
modo in cui il corpo era
accasciato.
– Vado a telefonare
all’ambulanza – ha detto la
donna.
Mi sono chinata e ho
sollevato il braccio del
ragazzo: era senza forza. –
Aspetti! – ha esclamato
l’uomo. – Bisogna stare
attenti.
Rialzandomi sono stata
sopraffatta da un capogiro e
hodovutochiuderegliocchi.
Afferrandolo sotto le
ascelle l’uomo ha sollevato il
corpo per liberare Bheki e lo
hasistematosulmarciapiede.
Bhekihaapertogliocchi.
– Bheki – ho sussurrato.
Bheki mi ha rivolto uno
sguardo calmo e vacuo. – Va
tuttobene–glihodetto.Con
occhi placidamente persi ha
continuato a guardarmi, ha
accettato quella bugia con
indifferenza. – L’ambulanza
staperarrivare–hodetto.
PoièarrivataFlorence,siè
inginocchiataaccantoalfiglio
ehapresoaparlargliinmodo
concitato, a carezzargli i
capelli. Lui ha iniziato a
rispondere parole farfugliate,
lentamente. La mano di
Florence
si
fermò
nell’ascoltarlo. – Hanno
urtatocontroilrimorchiodel
camioncino–hospiegato.–Il
camioncino è mio – ha detto
l’uomo in tuta blu. – Il
furgone della polizia li ha
investiti – ho aggiunto – è
spaventoso, è tremendo.
Erano gli stessi due poliziotti
che erano qui ieri, ne sono
sicura.
Florence ha fatto scivolare
una mano sotto la testa di
Bheki. Lentamente lui si è
messo a sedere. Aveva perso
una scarpa; una gamba del
pantalone era strappata e
impregnata di sangue. Con
cautela ha poi separato i
lembidistoffaperguardarela
ferita. Strisce di pelle
penzolavano dai palmi delle
mani
scorticate.
–
L’ambulanza sta per arrivare
–hodetto.
– Non abbiamo bisogno
dell’ambulanza–haosservato
Florence.
Si
sbagliava.
L’altro
ragazzo
giaceva
ora
scompostamente
abbandonato sul dorso. Con
la giacca l’idraulico stava
tentando di tamponare il
sangue che gli scorreva sulla
faccia. Ma l’emorragia non si
fermava. Ha sollevato la
giacca inzuppata per un
momento e, prima che il
sangue
l’annerisse
nuovamente, ho visto sulla
fronte le labbra divaricate di
unaferita,comeseuncoltello
da macellaio vi avesse inciso
un profondo taglio. Il sangue
colava a fiotti sugli occhi del
ragazzo e gli scintillava tra i
capelli;
gocciolava
sul
marciapiede; era dappertutto.
Non sapevo che il sangue
potesseesserecosíscuro,cosí
denso, cosí pesante. Che
cuoredeveavere,hopensato,
per pompare quel sangue e
continuareabattere!
–Arrival’ambulanza?–ha
chiesto l’idraulico. – Perché
non so come fermarlo –. Era
sudato:hacambiatoposizione
e la scarpa inzuppata ha
sguazzatonelsangue.
Avevi undici anni, mi
ricordo,quandotiseifattaun
taglio al pollice mentre
affettaviilpane.Tihoportata
di corsa al Pronto Soccorso
del Groote Schuur. Ci siamo
sedutesuunapancainattesa
del nostro turno, tu con il
dito fasciato, la garza ben
stretta per fermare il sangue.
–Checosamifaranno?–hai
sussurrato. – Ti faranno
un’iniezione e ti metteranno
dei punti – ti ho mormorato
in risposta. – Solo pochi
punti,
solo
qualche
punturina.
Era un sabato sera, non
molto tardi, ma già le
emergenze si moltiplicavano.
Unuomoconscarpebianche
e un vestito nero sgualcito
sputavasangueripetutamente
su un piatto. Un giovane su
una barella, a torso nudo, la
cintura allentata, teneva
premuta sulla pancia una
maglietta inzuppata. Sangue
sul pavimento, sangue sulle
panche. Che cosa potevano
contare le nostre timide
gocciolinedisangue,tanteda
riempire appena un ditale,
accanto a quel torrente di
sangue nero? La piccola
Bucaneve perduta nella
cavernadalleparetidisangue,
e sua madre, anch’essa
perduta. Un paese che
rigurgita sangue. Il marito di
Florence in cerata gialla e
stivalichesguazzanelsangue.
Buoichestramazzano,legole
squarciate da cui zampilla
nell’aria un ultimo fiotto
come spruzzi lanciati dalle
balene. Terra riarsa che
assorbe il sangue delle sue
creature. Una terra che beve
fiumidisangueemaisisazia.
– Lasci fare a me – ho
dettoall’idraulico.Mihafatto
passare.
Dopo
essermi
inginocchiatahosollevatoun
lembo della giacca blu
inzuppata.Ilsanguehapreso
ascorreresulvisodelragazzo
afiotti.Stringendolapelletra
pollice e indice, cercavo di
tenere chiusi i lembi della
ferita come meglio potevo. Il
cane di Vercueil ha tentato
nuovamente di avvicinarsi. –
Mandi via quel cane – ho
detto seccamente. L’idraulico
gli ha assestato un calcio.
Uggiolando è indietreggiato.
Dov’era Vercueil? Era vero,
eradavverounbuonoanulla?
– Vada a telefonare di nuovo
–hosuggeritoall’idraulico.
Finché premevo con forza
riuscivo
ad
arrestare
l’emorragia. Ma quando
allentavo la pressione, il
sangue fuoriusciva di nuovo
abbondante. Era sangue,
niente di piú, sangue come il
mio e il tuo. Eppure, mai
prima l’avevo visto cosí
scarlattoecosínero.Forseera
per effetto di quella pelle
giovane,elastica,nerovelluto,
su cui scorreva, ma, persino
sulle mie mani sembrava piú
scuroepiúbrillantediquanto
il sangue dovrebbe essere. Lo
osservavo,
affascinata,
timorosa,
incantata
da
autentico stupore a quella
vista. E tuttavia era
impossibile, era impossibile
per il mio modo di essere,
abbandonarsi
a
quello
stupore, allentare la presa e
arrendersi a quel flusso.
Perché, mi chiedo ora? La
risposta: perché il sangue è
prezioso,piúpreziosodell’oro
e dei diamanti. Perché il
sangue è uno solo: una polla
di vita, distribuito fra le
nostre esistenze separate ma
appartenenti per natura alla
stessa fonte; dato in prestito,
non regalato; un bene
comune, dato in affidamento
perché sia conservato; che
apparentemente vive in noi,
ma solo apparentemente,
poiché in realtà noi viviamo
inlui.
Un mare di sangue che
torna a riunirsi: è cosí che
sarà alla fine dei giorni? Il
sangue di tutti: una sorta di
lago Baikal, nero-scarlatto,
sotto l’azzurro intenso di un
cielo siberiano in inverno,
circondato da speroni di
ghiaccio,lespondebianchedi
nevelambitedaunamassadi
sangue vischioso e lento. Il
sangue
dell’umanità,
rigenerato.Ununicocorpodi
sangue. Di tutta l’umanità?
No: in un luogo a parte, nel
mezzo del Karoo, nel bacino
di una diga dalle pareti di
fango, il filo spinato tutto
intorno, con il sole rovente a
perpendicolo, il sangue degli
Afrikaner e dei loro lacchè,
immoto,stagnante.
Sangue, sacro, aborrito. E
tu, carne della mia carne,
sangue del mio sangue, che
sanguini ogni mese in terra
straniera.
Da vent’anni io non
sanguinopiú.Lamalattiache
oramidivoraèarida,privadi
vita, lenta e gelida, mandata
da Saturno. Qualcosa di
fronte a cui il pensiero si
ritrae. Gravida di queste
proliferazioni, queste gelide
oscene tumefazioni; aver
continuato a portare questa
nidiata oltre ogni termine
naturale, incapace di darla
allaluce,incapacedisaziarne
la fame: creature dentro di
me, ogni giorno piú
fameliche, che non crescono
ma si gonfiano, munite di
denti, munite di artigli, per
semprefreddeerapaci.Aride,
aride: percepirle mentre si
rigirano di notte nel mio
corpo arido, non si
stiracchiano o danno calci
come fanno i bambini veri,
piuttostomutanoangolazione
quando trovano qualcosa di
nuovo da rosicchiare. Come
uova di insetti deposte nel
corpo dell’ospite, ora grandi
come larve, che consumano
implacabilmente il corpo che
le ospita. Le mie uova,
cresciute dentro di me. Me,
mie: parole che mi fanno
rabbrividire mentre le scrivo,
etuttaviavere.Lemiefigliedi
morte, sorelle tue, figlia di
vita. Che orrore quando la
maternità arriva a parodiare
se stessa! Una vecchiaccia
curvasulcorpodiunragazzo,
le mani impastate del suo
sangue:
un’immagine
meschina, ora che ci ripenso.
Ho vissuto troppo a lungo.
Una morte nel fuoco, l’unica
morte dignitosa rimasta.
Camminare nelle fiamme,
prendere fuoco come stoppa,
per sentire anche queste
segrete
compagne
rannicchiarsi
e
gridare
all’ultimo momento, con le
loro vocine acute, mai udite
prima; bruciare e sparire,
andarsene, lasciare il mondo
pulito.
Proliferazioni
mostruose,creaturemalnate:
segno che si sono superati i
limiti. Anche questo paese: è
l’ora del fuoco, è ora di farla
finita;èorachenascaciòche
dallacenerepuònascere.
Quando
è
arrivata
l’ambulanza io ero cosí
intirizzita che hanno dovuto
sollevarmi per rimettermi in
piedi.Staccandoleditaormai
appiccicate alla ferita ne ho
provocato la riapertura. – Ha
perso molto sangue – ho
detto. – Non è grave – ha
tagliato
corto
l’uomo
dell’ambulanza. Ha sollevato
le palpebre al ragazzo. –
Commozione cerebrale – ha
detto.–Com’èsuccesso?
Bheki era seduto sul letto
senza i pantaloni, le mani
immerseinuncatinod’acqua,
Florence era inginocchiata
davanti a lui e gli fasciava la
gamba.
– Perché mi hai lasciata
sola a occuparmi di lui?
Perché non sei rimasta ad
aiutarmi?
Certamente devo avere
assunto un tono querulo, ma
per una volta non avevo
ragione?
– Non voglio avere a che
fare con la polizia – ha
rispostoFlorence.
– Non è questo il punto.
Mi lasci sola ad occuparmi
dell’amico di tuo figlio.
Perché devo essere io ad
occuparmi di lui? Non so
nemmenochisia.
– Dov’è? – ha chiesto
Bheki.
– Lo hanno portato al
Woodstock Hospital. Ha una
commozione.
– Cosa vuol dire
commozione?
–Hapersoconoscenza.Ha
battutolatesta.Losaiperché
sietecaduti?
– Ci hanno spinto,
urtandoci–harisposto.
–Sí,vihannospinto.Liho
visti. È una fortuna che siate
ancora vivi, tutti e due.
Vogliosporgeredenuncia.
Bheki e sua madre si sono
scambiati
un’occhiata
d’intesa.
– Non vogliamo avere a
che fare con la polizia – ha
ribadito Florence. – Non c’è
niente da fare contro i
poliziotti –. Un altro fugace
sguardo fra di loro, come se
volesse accertarsi di avere
l’approvazionedelfiglio.
– Se non sporgete
denuncia continueranno a
fare quel che gli pare. Anche
se non servisse a niente,
dovreste affrontarli. Non
parlo solo della polizia. Parlo
anche degli uomini al potere.
Devono capire che non avete
paura. Questa è una cosa
grave. Avrebbero potuto
ucciderti, Bheki. In ogni
modo, perché ce l’hanno con
te? Che cosa avete fatto tu e
queltuoamico?
Florence ha annodato le
bendeattornoallagambaegli
hasussurratoqualcosa.Luiha
toltolemanidall’acqua.C’era
odoredidisinfettante.
– Fa molto male? – ho
domandato.
Mi ha mostrato le mani
rivoltandone i palmi. Il
sangue
continuava
ad
affiorare dalla carne viva.
Ferite gloriose? Saranno
registrate e annoverate come
ferite gloriose, ferite di
guerra? Insieme abbiamo
osservato
le
mani
sanguinanti.
Ho
avuto
l’impressione che trattenesse
lelacrime.Unbambino,poco
piú che un bambino, che
giocavaconlabicicletta.
–Iltuoamico–hodetto.–
Non pensi che i suoi genitori
debbanoessereavvertiti?
– Telefonerò – ha detto
Florence.
Florence ha telefonato.
Una lunga conversazione
concitata. – Woodstock
Hospital–hosentito.
Ore dopo è arrivata una
chiamata da un telefono
pubblico,unadonnachiedeva
diFlorence.
– Non è all’ospedale – ha
riferitoFlorence.
– Era sua madre? – ho
chiesto.
–Suanonna.
Ho
telefonato
al
Woodstock. – Non potete
conoscere il suo nome, non
era cosciente quando lo
hannosoccorso–hospiegato.
– Non c’è traccia di un
caso del genere – ha risposto
l’uomo.
– Aveva una profonda
feritasullafronte.
– Non è registrato – ha
ripetuto.Horinunciato.
–Lavoranoperlapolizia–
ha detto Bheki. – Sono tutti
uguali, ambulanze, dottori,
polizia.
– Non dire assurdità – ho
detto.
–Nessunosifidapiúdelle
ambulanze. Sono sempre in
contattoradioconlapolizia.
–Assurdo.
Ha sorriso, non senza
grazia,
mentre
gustava
l’opportunità di istruirmi, di
insegnarmi qual è la vita
reale. Io, la vecchia che nella
scarpaviveva,figlinonaveva,
e cosa fare non sapeva. – È
vero – ha detto – se ascolta,
capirà.
–Perchélapoliziaticerca?
– Non cercano me.
Cercanochiunque.Iononho
fatto niente. Ma vogliono
prendere chiunque abbia
l’ariadidoveressereascuola.
Noi non facciamo niente,
diciamosolocheascuolanon
ci andiamo. E adesso loro
cercano di spaventarci. Sono
deiterroristi.
– Perché non volete
tornareascuola?
–Acheservelascuola?A
insegnarci l’adattamento al
sistemadell’apartheid?
Scuotendolatestamisono
voltata a guardare Florence.
C’era un pizzico di malcelato
sarcasmo nel sorriso che le si
stava formando sulle labbra
serrate. Suo figlio aveva la
vittoria in pugno. Felice di
concedergliela.–Sonotroppo
vecchia per tutto questo – le
ho detto. – Non riesco a
credere che tu voglia vedere
tuo figlio in mezzo a una
strada ad aspettare che
l’apartheid
tramonti
definitivamente. L’apartheid
non cesserà domani, e
neppure dopodomani. Cosí
mettearischioilsuofuturo.
– Cos’è piú importante,
distruggere l’apartheid o
andare a scuola? – mi ha
chiestoBhekiintonodisfida,
pregustandolavittoria.
– La scelta non si pone in
questi termini – ho risposto
stancamente. Ma ne ero
sicura?Selecosenonstavano
cosí, allora qual era la scelta
giusta?–Viaccompagneròal
Woodstock–misonoofferta.
– Ma dobbiamo partire
subito.
Quando Florence ha visto
Vercueil che aspettava si è
stizzita. Ma io ho insistito. –
Deve venire con noi, in caso
l’auto mi dia dei problemi –
hospiegato.
Cosí li ho accompagnati
all’ospedale, Vercueil seduto
accanto a me, circondato da
un odore piú sgradevole del
solito, un odore di tristezza
anche, Florence e Bheki
seduti dietro, in silenzio.
L’autosièarrampicatasuper
la breve salita dell’ospedale;
per una volta ho avuto la
presenza di spirito di
parcheggiare con il muso
rivoltoversoladiscesa.
– Credetemi, non è qui la
personachecercate–hadetto
l’uomo all’ingresso. – Se non
mi volete credere, andate a
controllareneireparti.
Nonostante fossi stanca,
mi sono trascinata tra i
reparti maschili al seguito di
FlorenceeBheki.Eral’oradel
riposo; fuori, i colombi
modulavano richiami dagli
alberi.
Non
abbiamo
individuatonessungiovanedi
colore con la testa bendata,
solo bianchi, vecchi in
pigiama
che
fissavano
annoiati il soffitto, mentre la
radio diffondeva una musica
piacevole. I miei fratelli
segreti, ho pensato: è qui il
mioposto.
– Se non è ricoverato qui,
dove potrebbero averlo
portato? – ho chiesto
all’uomodietrolascrivania.
– Provate al Groote
Schuur.
Il parcheggio al Groote
Schuur era pieno. Per
mezz’ora siamo rimasti ad
aspettare al cancello, con il
motore in folle, Florence e
suofiglioaparlottaretraloro,
Vercueilconlosguardoperso
nel vuoto, io a sbadigliare.
Come in un sonnolento fine
settimanaquiinSudafrica,ho
pensato; come uscire con la
famiglia
per
una
scampagnata.
Avremmo
potuto fare un gioco di
parole,unodiqueigiochiper
passare il tempo, ma quali
probabilità
avevo
di
coinvolgere quei tre? Giochi
di parole appartenenti a un
passato che solo io potevo
ricordare con nostalgia:
quando noi, i borghesi, noi
delle classi agiate, passavamo
le domeniche scorrazzando
per la provincia da un
belvedere
all’altro,
salutavamo la fine del
pomeriggio con tè e
pasticcini, marmellata di
fragole e panna in una tea
room
con
veranda,
preferibilmente rivolta a
ovest, che offrisse la vista sul
mare.
Un’auto è uscita dal
parcheggio ed è venuto il
nostro turno di entrare. – Io
aspetto qui – ha detto
Vercueil.
– Dove può trovarsi un
paziente
con
una
commozione cerebrale? – ho
chiestoall’addetto.
Abbiamo superato lunghi
corridoi affollati in cerca del
reparto C-5. Ci siamo
rinserratiinunascensorecon
quattro donne musulmane
che indossavano veli e
portavanocontenitoripienidi
cibo. Bheki, imbarazzato per
lesuemanifasciate,leteneva
dietro la schiena. Abbiamo
attraversatoirepartiC-5eC6 senza trovare il ragazzo.
Florence
ha
fermato
un’infermiera.
– Provate nella nuova
sezione – ha consigliato.
Esausta,hoscrollatoilcapo.–
Non ce la faccio piú a
camminare–hodetto.–Tue
Bheki continuate pure; vi
aspetteròinauto.
Era vero, ero stanca, mi
doleva il fianco, il cuore
martellava forte, sentivo un
sapore sgradevole in bocca.
Ma c’era dell’altro. Troppi
vecchi ammalati e troppo
all’improvviso. Quella vista
eraopprimente,opprimentee
minacciosa. Bianchi e neri,
uomini e donne che si
trascinavanolungoicorridoi,
si guardavano avidamente
l’un l’altro e guardavano
anche me, mentre mi
avvicinavo,
sentendo
infallibilmente su di me
l’odore
della
morte.
«Traditrice! – sembravano
sussurrare,
pronti
a
trattenermi per un braccio. –
Pensidipoterentrareeuscire
daquiatuopiacimento?Non
conoscileregole?Questaèla
casa delle tenebre e della
sofferenza
che
bisogna
traversare nel percorrere la
via che conduce alla morte.
Questa la condanna che
pende sul capo di tutti: la
detenzione
prima
dell’esecuzione».
Vecchi
mastini a far la ronda nei
corridoi per controllare che
nessuno se ne fugga in cielo,
versolaluce,versoilgeneroso
mondo di lassú. Questo è
l’Ade, e io un’ombra in fuga.
Un brivido mi ha colto
nell’oltrepassarelasoglia.
Insilenzio,abbiamoatteso
nell’auto, Vercueil ed io,
come due sposati da troppo
tempo, resi irritabili da
logoranti discussioni. Mi sto
persino abituando al cattivo
odore, ho pensato. È questo
che provo per il Sudafrica:
non amore, ma abitudine al
suo odore? Il matrimonio
segna il destino. Diventiamo
ciò che sposiamo. Noi che
abbiamo sposato il Sudafrica
diventiamo sudafricani: tetri,
accidiosi,pigri.L’unicosegno
di vita di cui siamo capaci:
scoprireidentiinunarapida
smorfia
quando
ci
crocifiggono. Il Sudafrica: un
vecchio mastino incattivito,
addormentato sulla soglia,
lento a morire. E poi, che
nomepocofantasiosodadare
a un paese! Speriamo che
decidano
di
cambiarlo
quandoricomincerannotutto
dacapo.
Un gruppo di infermiere
alla fine del turno, allegre,
vocianti,
si
stava
allontanando. È dalla loro
assistenza che io fuggo, ho
pensato. Che sollievo sarebbe
ora consegnarmi a loro!
Lenzuola pulite, mani sicure
armeggianti sul mio corpo,
liberazione
dal
dolore,
abbandono totale: cos’è che
mi trattiene dal cedere? Ho
sentito un nodo salirmi in
gola, lacrime montarmi agli
occhi, allora ho voltato la
faccia.
Uno
sporadico
rovescio, mi sono detta,
tempo inglese. Ma la verità è
che piango sempre piú
facilmente, e provo sempre
menovergogna.Unavoltaho
conosciuto una donna (ti
risentirai se tua madre parla
di certe cose?) che riusciva a
godere,adavereorgasmicon
molta facilità. Gli orgasmi la
attraversavano, diceva, come
piccoli brividi, uno dopo
l’altro, facendola tremare
tutta, come se il suo corpo
fosse acqua increspata dal
vento. Come sarà, mi
chiedevo, vivere in un corpo
comequello?Sciogliersicome
acqua:èquestalabeatitudine?
Ora ho trovato una risposta
in questo liquefarmi, in
questosciogliermiinlacrime.
Lacrime non di dolore ma di
tristezza. Una lieve, sottile
tristezza: malinconici blues,
ma non blues scuri: celesti,
invece, come lontani cieli di
chiaregiornateinvernali.Una
faccenda personale, un
turbamento delle acque
dell’anima che non mi
preoccupopiúdinascondere.
Mi sono asciugata gli
occhi,misonosoffiatailnaso.
– Non deve sentirsi in
imbarazzo – ho detto a
Vercueil. – Piango per nulla.
Grazie per essere venuto,
comunque.
– Non vedo perché mi
abbiavolutoportarequi–ha
detto.
–Èbruttofarsempretutto
da soli. Ecco perché. Io non
hosceltolei,eppureleièqui,
e questo è quanto basta. È
arrivato. È come avere un
bambino. Non si scelgono i
bambini.
Arrivano,
semplicemente.
Senza guardarmi, ha
accennatounoscaltrosorriso.
–Inoltre–hodetto–può
spingerel’auto.Senonpotessi
usarel’autosareiintrappolata
acasa.
– Avrebbe solo bisogno di
unabatterianuova.
– Non voglio una batteria
nuova. Non lo capisce, vero?
Devo
spiegarglielo?
Quest’auto
è
vecchia,
appartieneaunmondocheè
quasi
scomparso,
però
funziona. Ciò che resta di
quel mondo, ciò che ancora
funziona,èquellochetentodi
conservare.Cheioloamiolo
odi, ha poca importanza. Il
fatto è che anch’io gli
appartengoenonappartengo
invece,graziealcielo,aquello
cheèdiventato.Unmondoin
cui non si può contare sul
fatto che le auto partano
quando vuoi. Nel mio
mondo, si tenta prima con il
motorino d’avviamento. Se
quellononfunziona,siprova
l’accensioneconlamanovella.
Se anche questa non
funziona, si cerca qualcuno
che spinga. E se l’auto non
vuol saperne di mettersi in
moto, s’inforca la bicicletta o
ci s’incammina a piedi,
oppure si resta a casa. Ecco
come vanno le cose nel
mondocuiioappartengo.Mi
ci trovo bene, è un mondo
che riesco a comprendere.
Non vedo perché dovrei
cambiareabitudini.
Vercueilnonhafiatato.
– E se pensa che io sia un
fossile del passato – ho
aggiunto–sarebbeorachesi
preoccupassepersé.Havisto
come la pensano i giovani
d’oggi riguardo al bere, al
lasciarsi andare, al leeglopery.
Deve stare in guardia. Nel
Sudafrica del futuro tutti
dovranno lavorare, anche lei.
La prospettiva può non
piacerle,mafarebbemeglioa
prepararsiall’idea.
Nelparcheggiocominciava
ad imbrunire. Dov’era finita
Florence? Il dolore nella
schiena mi sfiancava. Ero in
ritardoperlamedicina.
Hopensatoallacasavuota,
alla lunga notte che mi
sbadigliava davanti. Sono
tornate
le
lacrime,
semplicemente.
Ho parlato. – Le ho
raccontato di mia figlia che è
in America. Lei è tutto per
me.Nonlehodettolaverità,
tutta la verità sulle mie
condizioni.Sacheeromalata,
sa che ho subito un
intervento, ma crede che sia
riuscito bene e che io mi stia
rimettendo. Quando sono a
letto, di notte, e fisso lo
sguardosuquelbuconeronel
qualestoprecipitando,l’unica
cosa che mi impedisce di
impazzire è il pensiero di lei.
Mi dico: ho messo al mondo
una bambina, l’ho vista
diventare donna, l’ho vista
felice in una nuova vita;
quello che ho fatto è quello
che non potrà mai essermi
sottratto. Quel pensiero è
l’albero maestro al quale mi
aggrappoquandolatempesta
misiabbattecontro.
– A volte eseguo un
piccolo rituale che mi aiuta a
quietarmi. Mi dico: Sono le
due del mattino, qui, in
questapartedimondo,perciò
sonoleseidiseralaggiú,dove
èlei.Immagina:leseidisera.
E immagina il resto. Tutto. È
appena rientrata dal lavoro.
Appende il soprabito. Apre il
frigorifero e tira fuori un
pacchetto di piselli surgelati.
Versaipiselliinunascodella.
Prendeduecipolleecomincia
a sbucciarle. Immagina i
piselli, immagina le cipolle.
Immaginailmondonelquale
leistafacendoquestecose,un
mondo con odori e rumori
propri. Immagina una sera
d’estateinNordAmerica,con
gli insetti appiccicati alle
zanzariere, i bambini che
chiamano
dalla
strada.
Immagina:miafiglianellasua
casa, nella sua vita, con una
cipolla in mano, in una terra
dove vivrà e morirà in pace.
Leorepassano,inquellaterra
come in questo paese e in
tutto il resto del mondo, con
la stessa cadenza. Immagina
la cadenza. Passano: qui fa
giorno, là cala la sera. Va a
dormire; con abbandono
dormeaccantoalcorpodisuo
maritonellettomatrimoniale,
in quel paese tranquillo.
Pensoalsuocorpo,immobile,
solido,vivo,appagato,intatto.
Cosa darei per abbracciarla.
Tisonocosígrata,vorreidire,
con il cuore che trabocca.
Vorreianchedire,manonlo
facciomai:Salvami!
– Mi capisce? Riesce a
capirmi?
Lo sportello dell’auto era
aperto. Vercueil, con la testa
poggiata contro il montante
dellaportieraeunpiedefuori
dall’auto, si era sistemato
lontanodame.Haemessoun
profondosospiro;l’hosentito.
SperavacheFlorencetornasse
a salvarlo, non c’era dubbio.
Che tedio queste confessioni,
queste suppliche, queste
richieste!
–Maèqualcosachenonsi
dovrebbe mai chiedere a un
figlio – ho continuato – di
stringerci, di consolarci, di
salvarci. Il conforto, l’amore,
deve scorrere a valle, non
tornare a monte. Questa è
una legge, un’altra di quelle
leggi ferree. Quando un
vecchiocominciaamendicare
amore,
tutto
diventa
squallido. Come un genitore
che s’infilasse nel letto del
figlio:contronatura.
– Eppure, com’è difficile
staccarsidaqueltoccodivita,
da quello sfiorarsi che ci
unisce ai vivi! Come un
piroscafo che allenti gli
ormeggi per lasciare il molo,
lecordedapprimasitendono,
poi sussultano e infine
cedono. In partenza per un
ultimoviaggio.Icaridipartiti.
È tutto cosí triste, cosí triste!
Quando quelle infermiere si
sono allontanate, un minuto
fa, ero tentata di scendere
dall’auto e di arrendermi, di
consegnarmi
nuovamente
all’ospedale,
lasciandomi
spogliare e mettere a letto,
assistita dalle loro mani. È
delleloromanichehovoglia
dopo tutto. Il tocco delle
mani. Perché altrimenti le
assumeremmo
queste
ragazze, queste bambine, se
nonperaffidareaqueltocco,
a quella loro brusca carezza,
carni
invecchiate
e
ripugnanti?
Perché
le
avvolgiamo di luce e le
chiamiamo angeli? Perché
arrivano a notte fonda per
dirci che è ora di andare?
Forse. Ma anche perché loro
ci tendono la mano per
rinnovare un contatto che si
erainterrotto.
– Lo dica a sua figlia – ha
detto dolcemente Vercueil –
verrebbedisicuro.
–No.
– Glielo dica ora. Telefoni
in America. Le dica che ha
bisognodilei.
–No.
– Allora non glielo dica
dopo, quando sarà troppo
tardi.Nonlaperdonerà.
Il rimprovero è arrivato
comeunoschiaffoinfaccia.
–Cisonocosecheleinon
puòcapire–hodetto.–Non
intendorichiamaremiafiglia.
Mi manca molto, ma non la
voglio qui. Per questo si dice
sentire
la
mancanza.
Mancanza come lontananza.
Aiconfiniestremidellaterra.
A suo merito va detto che
non si è lasciato sviare da
questa assurdità. – Deve
scegliere – ha detto. –
Dirglieloonondirglielo.
– Non glielo dirò, può
esserne certo – ho risposto
(che
bugiarda
sono!)
Qualcosatradivalamiavoce,
un tono che non potevo
controllare.
–
Vorrei
ricordarle che questo non è
un paese normale. La gente
non può entrare e uscire
secondoipropridesideri.
Non ha fatto niente per
aiutarmi.
– Mia figlia non tornerà
finché le cose qui non
saranno cambiate. Lo ha
giurato. Non tornerà in
Sudafrica finché sarà cosí
comeleienoiloconosciamo.
Non vorrà certo chiedere a –
comedevochiamarli?–quelli
il visto d’ingresso. Farà
ritorno,dice,soltantoquando
i loro corpi ciondoleranno a
testa in giú dai lampioni. E
allora verrà per tirare pietre
contro quei corpi e per
danzarenellestrade.
Vercueil ha scoperto i
denti in un ampio ghigno.
Denti gialli da cavallo. Un
vecchiocavallo.
–Nonmicrede–hodetto
– ma forse un giorno lei la
incontrerà,ealloravedrà.Lei
è come il ferro. Non le
chiederò di tradire il suo
giuramento.
–Ancheleiècomeilferro
– mi ha detto. Tra noi è
caduto il silenzio. Dentro di
me qualcosa è andato in
pezzi.
– Ho sentito qualcosa
spezzarsi dentro di me alle
sue parole – ho detto. Le
parole erano venute da sole.
Nonsapevocomecontinuare.
– Se fossi di ferro, non sarei
certamente tanto fragile – ho
aggiunto.
Le quattro donne che
avevamo
incontrato
in
ascensore hanno attraversato
il parcheggio scortate da un
uomobassoconuncompleto
blu e uno zucchetto bianco.
Le ha fatte accomodare
nell’autoelehacondottevia.
– Ha fatto qualcosa sua
figlia,cheèdovutaespatriare?
–hachiestoVercueil.
– No, non ha fatto nulla.
Semplicemente ne aveva
abbastanza. Se n’è andata,
non è piú tornata. Si è
costruita un’altra vita. Si è
sposata e ha messo su
famiglia. Era la cosa migliore
da fare, la cosa piú
ragionevole.
–
Ma
non
avrà
dimenticato.
–No,nonhadimenticato.
Sebbene, come posso saperlo
io? Forse ci si dimentica,
lentamente. Per me è
inconcepibile, ma forse
succede. Lei dice: Sono nata
in Africa, in Sudafrica. L’ho
sentita usare questa frase in
alcune occasioni. A me
sembra la prima metà di una
frase. Dovrebbe seguire la
secondametà,madifattonon
accade mai. Cosí, resta
sospesa in aria, senza la sua
gemella. Sono nata in
Sudafricaenonrivedròmaila
mia terra. Sono nata in
Sudafricaeungiornotornerò
laggiú. Qual è la metà
mancante?
–Dunqueèun’esule?
–No,nonèun’esule.Sono
iol’esule.
Stava imparando a parlare
con me. Stava imparando a
farmi parlare. Ho sentito il
bisogno
urgente
di
interromperlo. È cosí bello!,
avrei voluto dirgli. Dopo
tanto silenzio, è cosí bello:
lacrime mi sono salite agli
occhi.
– Non so se lei ha figli.
Non so neppure se per un
uomo è la stessa cosa. Ma
quandounfiglionascedaltuo
corpo, a quel figlio va la tua
vita. Soprattutto al primo, il
primogenito. La vita non ti
appartienepiú,nonèpiútua,
è del bambino. Ecco perché
non si muore realmente:
consegniamo loro la vita,
quella che per un po’ è stata
nostra,erestiamoindietro.Io
non sono altro che una
conchiglia vuota, lo vede, il
guscio che mia figlia si è
lasciata alle spalle. Non
importaciòchenesaràdime.
Non importa ciò che ne sarà
dei vecchi. Eppure, lo dico
ugualmente,anchesenonmi
aspetto che lei capisca, poco
importa, è spaventoso essere
sul punto di andarsene. E se
anche si restasse aggrappati
ad una mano solo con la
punta delle dita, non si
vorrebbemailasciarelapresa.
Florence
stava
ora
attraversando il parcheggio
con suo figlio, camminando
speditamenteversodinoi.
–Sarebbedovutaandarea
vivere con lei – ha detto
Vercueil.
Ho sorriso. – Non posso
permettermi di morire in
America – ho detto. –
Nessuno può, ad eccezione
degliamericani.
Florence si è infilata in
auto con una certa irruenza,
tantochel’autohadondolato
quandosièseduta.
– Lo avete trovato? – ho
chiesto.
– Sí – ha risposto. Il volto
cupo minacciava tempesta.
Bhekisièsedutodopodilei.
– E... dunque? – ho
domandato.
–Sí,loabbiamotrovato,è
in questo ospedale – ha
rispostoFlorence.
–Estabene?
–Sí,stabene.
–Ottimo–hoconcluso.–
Grazieperlacomunicazione.
Il silenzio ha regnato per
tutto il tragitto. Soltanto a
casa Florence è riuscita a
parlare. – Lo hanno messo
nella corsia dei vecchi. È
terribile.Unodiloroèmatto,
non fa altro che urlare e
imprecare tutto il tempo, le
infermiere hanno paura di
avvicinarsi. Non dovrebbero
mettere un ragazzo in un
posto cosí. Quello non è un
ospedale,èl’anticameradiun
funerale.
L’anticamera
di
un
funerale: quelle parole mi si
erano impresse nella mente.
Ho cercato di mangiare ma
nonavevoappetito.
Ho trovato Vercueil nella
legnaia che si accomodava
una scarpa alla luce della
candela. – Torno all’ospedale
– ho detto. – Verrebbe con
me?
Il reparto descritto da
Florence
si
trovava
all’estremità del vecchio
edificio, e per raggiungerlo
bisognava scendere nel
seminterrato, superare le
cucine,epoirisalire.
Era vero. Un uomo
completamente calvo, magro
comeunchiodo,erasedutoin
mezzo al letto, si batteva le
mani sulle cosce e cantava a
squarciagola. Una larga
cinghia nera gli passava
intornoallavitaefinivasotto
il letto. Cosa cantava? Le
parole non appartenevano ad
alcuna lingua che conoscessi.
Sono rimasta sulla soglia,
incapace di entrare, con il
timore che all’improvviso mi
avrebbe inchiodato addosso
quel suo sguardo, avrebbe
smesso di cantare e avrebbe
sollevato il braccio bruno e
scheletricoperadditarmi.
–D.T.–hadettoVercueil.
–HailDeliriumTremens.
–No,èqualcosadipeggio
–hosussurrato.
Vercueil mi ha preso
sottobraccio.Misonolasciata
guidare.
C’era un lungo tavolo in
mezzo alla stanza coperto di
vassoi malamente accatastati.
Qualcuno emetteva effluvi di
tosse, come se avesse i
polmoni pieni di latte. –
Nell’angolo – ha detto
Vercueil.
Non sapeva chi fossimo, e
neppure io ho riconosciuto
immediatamente il ragazzo il
cuisanguemisieraincollato
alle dita. Aveva la testa
fasciata, la faccia gonfia, il
braccio sinistro stretto al
petto
dalla
fasciatura.
Indossava il pigiama celeste
dell’ospedale.
– Non parlare – gli ho
detto.–Siamovenutisoloper
assicurarcichetustiabene.
Ha schiuso le labbra
tumefatteeleharichiuse.
–Tiricordidime?Sonola
donna per la quale lavora la
madre di Bheki. Questa
mattina vi ho visti: ho visto
come sono andate le cose.
Devi guarire presto. Ti ho
portato della frutta –. Ho
posatolafruttasulcomodino:
unamelaeunapera.
Non
ha
mutato
espressione.
Non mi piaceva. Non mi
piace.Scrutonelmiocuoree
non trovo neppure un
angolino dove si annidi un
qualche sentimento per lui.
Cosí come ci sono persone
per le quali spontaneamente
proviamo simpatia, pure ci
sono persone che sin dal
principio
ci
lasciano
totalmentefreddi.Eccotutto.
Questo ragazzo non è come
Bheki.Nonhanessunfascino.
C’èqualcosadistupidoinlui,
qualcosa di deliberatamente
stupido, ottuso, indocile. È
unodiqueiragazzilacuivoce
cambia troppo presto, che
all’età di dodici anni si sono
lasciati l’infanzia alle spalle
diventando brutali, scaltri.
Una persona lineare, piú
lineare in tutti i sensi: piú
lesto, piú agile, instancabile
piú delle persone vere, privo
di scrupoli come di dubbi,
privodisensodell’umorismo,
feroce, innocente. Quando
giaceva in strada, quando
pensavo che stesse per
morire, ho fatto quel che ho
potuto per lui. Ma, ad essere
sincera,
avrei
preferito
adoperarmiperqualcunaltro.
Miricordodiungattoche
una volta ho curato, un
vecchio gatto dal pelo fulvo
che non poteva aprire le
mandibole per via di un
ascesso. L’ho portato in casa
perché era diventato troppo
debole, l’ho nutrito dandogli
illatteconunacannuccia,gli
ho
somministrato
l’antibiotico. Quando ha
recuperato le forze l’ho
lasciato libero, ma ho
continuato a lasciargli il cibo
fuori.Perunanno,ditantoin
tanto, l’ho visto nei paraggi;
per un anno il cibo è stato
consumato. Poi è scomparso
nel nulla. Per tutto il tempo
mi ha trattato senza
compromessi, come un
nemico.Anchenelperiodoin
cuierastremato,ilsuocorpo
era rigido, i muscoli tesi
opponevano resistenza alle
mie mani. Intorno a quel
ragazzo percepivo lo stesso
muro
di
resistenza.
Nonostante avesse gli occhi
aperti,nonvedeva,quelloche
dicevononlosentiva.
Misonovoltataaguardare
Vercueil. – Andiamo? – ho
detto. E sull’onda di un
impulso (no, qualcosa di piú,
sull’onda di un consapevole
sforzo per non bloccare
quell’impulso) ho toccato la
manoliberadelragazzo.
Senza stringerla, senza
trattenerla a lungo; si è
trattato di un contatto
leggero,dellemieditaesitanti
suldorsodellasuamano.Ma
ho sentito che s’irrigidiva, ho
percepito
un
ritrarsi
istantaneo come per una
scossaelettrica.
Per tua madre che non è
qui, ho pensato. Ma ad alta
voce ho detto: – Non
giudicareinmodoaffrettato.
Non giudicare in modo
affrettato:cosavolevodire?Se
non lo sapevo io, chi altri
avrebbe potuto? Sicuramente
non lui. Tuttavia, in questo
caso, l’incomprensione aveva
radici piú profonde. Le mie
parole gli sono scivolate
addosso come foglie morte.
Parole di una donna, per
questo trascurabili; di una
vecchia,
per
questo
doppiamentetrascurabili;ma,
soprattutto,diunabianca.
Io,unabianca.Cosavedo,
quando penso ai bianchi?
Vedo un branco di pecore
(non un gregge, un branco)
chesiaggiranosuunpianoro
polveroso sotto il sole
cocente. Sento uno scalpiccio
dizampe,suoniconfusichesi
risolvono, quando l’orecchio
visisiaadattato,inununico
belato composto però di
timbridifferenti:–Io!,Io!,Io!
– E nel mezzo, urtando e
spingendo da un lato e
dall’altro con i loro ispidi
fianchi, facendosi largo
pesantemente,
i
denti
seghettati,gliocchisanguigni,
gli stessi irriducibili vecchi
porci
selvatici
che
grugniscono – A morte!, A
morte!–Sebbenesiadeltutto
inutile,miritraggoalcontatto
dei bianchi, almeno quanto
lui;trasalireipersinodifronte
aquellavecchiadonnabianca
che gli sfiora la mano se non
fossiiostessa.
Horiprovato.
– Prima di andare in
pensione – ho detto – facevo
l’insegnante.
Insegnavo
all’università.
Vercueil mi ha guardato
seriamente dall’altro capo del
letto. Ma non stavo parlando
conlui.
– Se tu avessi partecipato
allemielezionisuTucidide–
ho continuato – avresti
imparato qualcosa su ciò che
accade della nostra umanità
intempodiguerra.Lanostra
umanità, quella che ci
portiamodentrodallanascita,
quella che dalla nascita ci
circonda.
Losguardodelragazzoera
come offuscato: il bianco
degli occhi spento, le pupille
smorte,nerecomeinchiostro.
Sebbene
gli
avessero
somministrato dei sedativi,
era in grado di percepire la
mia presenza, sapeva chi ero,
sapeva che mi stavo
rivolgendo a lui. Lo sapeva e
non mi ascoltava, cosí come
non ha mai ascoltato i suoi
insegnanti, quando sedeva in
classe come una pietra
impermeabile alle parole,
aspettando la campanella, in
attesadellasuaoccasione.
– Tucidide ha scritto di
gente che ha fissato delle
regole e le ha rispettate.
Seguendoleregoleessihanno
condannato a morte varie
categorie di nemici, senza
eccezione.
Quelli
che
morivano sentivano, ne sono
certa,chesistavacompiendo
un grave errore, che,
qualunque fosse la regola,
non
poteva
riguardare
proprio loro. Io?: quella era
l’ultima
parola
che
pronunciavano prima che
venisse tagliata loro la gola.
Una parola di protesta: io,
l’eccezione.
–
Erano
davvero
l’eccezione?Laveritàèchese
ci venisse concesso il tempo
per spiegare, tutti saremmo
prontiadichiararcieccezioni.
Perché ciascuno di noi è un
caso a sé. Tutti meritiamo il
beneficiodeldubbio.
–Macisonoepocheincui
non c’è tempo per dare
udienza,pertutteleeccezioni,
tutta quella pietà. Non c’è
tempo,quindicisiaffidaalla
regola. E questo è un gran
peccato, è proprio un gran
peccato. Ecco cosa avresti
potutoimpararedaTucidide.
È un gran peccato quando ci
approssimiamoatempicome
questi.Dovremmoavvicinarli
con un peso nel cuore. Non
certoconunbenvenuto.
Ha pensato bene di
nascondere la mano libera
sotto il lenzuolo, nel caso mi
fosse venuto in mente di
toccarlodinuovo.
– Buona notte – gli ho
augurato. – Spero che tu
possariposarecosídomattina
tisentiraimeglio.
Il vecchio aveva smesso di
cantare.
Le
mani
si
dibattevano ancora sulle
gambecomepesciinpuntodi
morte. Aveva gli occhi
stralunati e rivoli di saliva gli
sicoagulavanosulmento.
L’autononvolevapartiree
Vercueilhadovutospingerla.
– Quel ragazzo è diverso
da Bheki, molto diverso – ho
detto, diventando troppo
loquaceora,senzapiúfreni.–
Cerco di non lasciarlo
trapelare, ma mi rende
nervosa. Mi dispiace che
Bheki si lasci influenzare da
lui.Macredochecomeluice
nesianocentinaiadimigliaia.
Non cosí tanti invece sono
come Bheki. Le nuove
generazioni.
Siamo arrivati a casa.
Senza essere invitato, mi ha
seguitofindentro.
– Devo assolutamente
dormire, sono sfinita – ho
detto; e poi, visto che non
dava segno di volersene
andare, ho aggiunto: – Vuole
qualcosadamangiare?
Gli ho preparato qualcosa
allasvelta,hopresolepillolee
hoaspettato.
Ha tagliato una fetta di
paneetenendolaconlamano
anchilosata l’ha imburrata
abbondantemente, poi ha
tagliato il formaggio. Le
unghie sporche. Chissà che
altrohatoccato.Equestaèla
persona cui rivelo i miei
sentimenti, cui affido le
ultimevolontà.Perchéquesto
percorso obliquo per arrivare
finoate?
La mia mente una pozza,
in cui lui immerge un dito
smuovendone le acque. Ma
senza quel dito immerso, ci
sarebbe solo immobilità,
stagnazione.
Un percorso indiretto.
Attraverso il quale trovo la
strada. L’incedere di un
granchio.
Lesueunghiesporcheche
mifruganodentro.
– Ha una brutta cera – ha
detto.
–Sonostanca.
Hacontinuatoamasticare
scoprendoilunghidenti.
Guarda ma non giudica.
C’è sempre come un velo di
torpore dovuto all’alcol
intorno a lui. L’alcol:
rammollisce,
conserva.
Mollificans. Ci aiuta a
perdonare.Luibeveediviene
accondiscendente. Tutta la
sua vita è uno scendere a
patti. Lui, il signor V., a cui
parlo.Parloepoiscrivo.Parlo
per scrivere. Mentre alle
nuove generazioni, che non
bevono, non posso parlare,
ma solo impartire lezioni. Le
loro mani pulite, le unghie
linde. I nuovi puritani, che si
attengono alle regole, che
sostengono
le
regole.
Aborriscono l’alcol che
rammollisce
la
regola,
corrode il ferro. Sospettosi di
tuttociòcheèozioso,debole,
indiretto. Sospettosi di
discorsi ambigui, come
questo.
– E sono anche malata –
ho detto. – Malata e stanca,
stanca e malata. Porto una
creatura dentro di me che
nonpossodareallaluce.Non
possoperchénonvuoleessere
partorita. Perché non può
vivere fuori di me. È mia
prigioniera o sono piuttosto
io a essere sua prigioniera.
Scuote il cancello, ma non
può uscire. È questo che
succede, tutto il tempo. Il
figlio dentro di me scuote il
cancello. Mia figlia è la
primogenita.Leièlamiavita.
Quest’altra è la seconda, il
secondamento,
la
non
desiderata. Vuole guardare la
televisione?
– Pensavo che volesse
andareadormire.
– No, non me la sento di
staredasola.Ecomunque,la
creatura che è dentro non
morde
con
molto
accanimento.Haavutolasua
razione di pillole, sta per
assopirsi. La dose prescritta è
sempre di due pillole, l’avrà
notato, una per me, una per
lei.
Ci siamo seduti uno
accanto all’altra sul divano.
Un uomo dalla faccia
rubicondavenivaintervistato.
Possedevaunafattoriaconun
piccolo zoo, mi sembra, e
affittava leoni ed elefanti alle
casecinematografiche.
– Ci racconti dei
personaggi famosi che ha
incontrato oltreoceano –
diceval’intervistatore.
– Vado a preparare il tè –
hodettomentremialzavo.
– Non c’è nient’altro in
casa?–hachiestoVercueil.
–Sherry.
Quando sono tornata con
la bottiglia di sherry l’ho
trovato in piedi davanti alla
libreria. Ho spento il
televisore.–Checosaguarda?
–hodomandato.
Ha sollevato un grosso
volume.
– Dovrebbe piacerle quel
libro – ho detto. – La donna
chel’hascrittohaviaggiatoin
Palestina e in Siria camuffata
da uomo. Nel secolo scorso.
Unadiquelleintrepidedonne
inglesi. Ma non ha fatto lei i
disegni. Quelli sono opera di
unillustratoreprofessionista.
Abbiamo sfogliato il libro
insieme. Gli accampamenti
avvolti dalla luce lunare, i
dirupideldeserto,itempliin
rovina erano come sospesi in
un’auradimistero,grazieagli
abili trucchi prospettici.
Nessun illustratore ha fatto
qualcosa di simile per il
Sudafrica,pertrasformarloin
una terra di mistero. Ora è
troppo tardi. Fissato nella
memoriacomeunluogodove
la luce è abbagliante, piatta,
priva di sfumature, senza
profondità.
–Leggaquellochevuole–
hodetto.–Cisonomoltissimi
libri di sopra. Le piace
leggere?
Vercueilhaposatoillibro.
–Adessovadoadormire–ha
detto.
Nuovamente un brivido
d’imbarazzo mi ha scosso.
Perché? Perché, ad essere
sincera, non sopporto il suo
odore. Perché non oso
immaginare Vercueil e la sua
biancheria.
I
piedi
soprattutto:leunghiesudicee
incrostate.
– Posso farle una
domanda?–hodetto.–Dove
viveva prima? Perché ha
cominciatoavagabondare?
– Ero per mare, – ha
risposto Vercueil – l’ho già
detto.
– Ma uno non vive in
mare. Non si nasce in mare.
Nonsaràstatopermaretutta
lavita.
–Vivevosuipescherecci.
–E...dunque?
Hascossolatesta.
–Solocosí,perchiedere–
ho aggiunto. – A tutti piace
sapere qualcosa delle persone
che ci stanno vicino. È
normale.
Ha fatto il solito sorriso
sbilenco
che
improvvisamente gli scopre
un canino lungo e ingiallito.
Nasconde qualcosa, ho
pensato, ma cosa? Una
delusione d’amore? Una
condanna al carcere? E
anch’io mi sono lasciata
andareadunsorriso.
Cosí siamo rimasti in
piedi, sorridenti, tutti e due,
ciascuno con la propria
ragionepersorridere.
–Sepreferisce–hodetto–
può dormire di nuovo sul
divano.
È rimasto interdetto. – Il
caneèabituatoadormirecon
me.
– La notte scorsa non
avevaconséilcane.
–Siagitasenonmivede.
Nonmièsembratoaffatto
agitatol’altranotte.Purchégli
dia del cibo, che può
importare al cane dove lui
dorme? Suppongo che usi la
storia del cane preoccupato
comealtriusanolascusadella
moglie ansiosa. D’altra parte,
forse è proprio per via del
canechemifidodilui.Icani
fiutano il bene come il male:
pattuglianoiconfini;fannola
guardia.
Ilcanenonsièaffezionato
a me. Sente l’odore dei gatti.
La Donna-gatto: Circe. E lui,
dopo aver navigato sui
pescherecci,èapprodatoqui.
– Come preferisce – ho
dettomentrelofacevouscire,
fingendo di non accorgermi
cheportavaconsélabottiglia
disherry.
Peccato, ho pensato
(l’ultimo pensiero prima che
le pillole mi portassero via):
potremmo formare una
famiglia, noi due, in qualche
modo.Iodisopra,luialpiano
di sotto, per il breve tempo
che mi resta. Cosí ci sarebbe
qualcuno a farmi compagnia
dinotte.Poiché,dopotutto,è
di questo che si ha bisogno
alla fine: di qualcuno che sia
lí, da chiamare nell’oscurità.
Madre,ochiunquesiapronto
a prendere il posto di nostra
madre.
Poiché avevo detto a
Florence che l’avrei fatto, mi
sonorecataaCaledonSquare
persporgeredenunciacontro
i due poliziotti. Ma questo
pare sia possibile solo se si è
«lapartelesa».
– Ci spieghi in dettaglio
come si sono svolti i fatti e
noi indagheremo – ha detto
l’ufficiale seduto dietro la
scrivania.
–Comesichiamanoidue
ragazzi?
– Non posso dirle i nomi
senzailloropermesso.
Ha posato la penna.
Giovane, impeccabile e
cortese; un esempio della
nuova
generazione
di
poliziotti.
Il
cui
addestramento
viene
perfezionato con un incarico
a Cape Town, per rafforzare
l’autocontrollodifronteachi
si atteggia a portavoce di
idealiliberalieumanitari.
– Non so se vi sentite
orgogliosi dell’uniforme che
indossate – ho detto – ma i
vostri colleghi là fuori fanno
di tutto per infangarla. E
oltraggiano anche me. Mi
vergogno. Non per loro: per
me stessa. Non mi consentite
di sporgere denuncia perché
nonsonolapartelesa.Maio
mi sento parte lesa, sono
profondamente lesa. Capisce
quellochestodicendo?
Non ha risposto, ma è
rimasto
immobile,
perfettamente
dritto,
diffidente,prontoasentiredi
tutto.L’uomodietrodiluisiè
piegatosullecartefingendodi
non sentire. Ma non c’era
niente da temere. Non avevo
nient’altrodadire,opiuttosto
non ho avuto la presenza di
spiritodiaggiungerealtro.
Vercueilèsedutosull’auto
in Buitenkant Street. – Mi
sono resa cosí ridicola – ho
dettoimprovvisamente,quasi
conlelacrimeagliocchi.–Mi
vergogno per voi, ho detto.
Staranno ancora ridendo
adesso. Die ou kruppel dame
met die kaffertjies. Eppure è
proprio cosí! Forse dovrei
semplicemente accettare il
fattochedaorainpoisivivrà
cosí:inunostatodivergogna.
Forse la vergogna è solo
l’altro nome di quello che
provo da sempre. Il nome
dellacondizioneincuivivono
quelle
persone
che
preferirebberoesseremorte.
Vergogna. Umiliazione.
Morteinvita.
È seguito un lungo
silenzio.
– Mi presterebbe dieci
rand?–hachiestoVercueil.–
La pensione di invalidità mi
arrivagiovedí.Glielirestituirò
allora.
III.
Ieri,nelcuoredellanotte,è
arrivata una telefonata. Una
donna
ansimante,
con
l’affanno tipico delle persone
grasse. – Voglio parlare con
Florence.
– Sta dormendo. Tutti
dormono.
–Sí,mapuòchiamarla?
Pioveva,manonforte.Ho
bussatoallaportadiFlorence.
Si è aperta immediatamente,
come se lei fosse stata là,
dietro quella porta, in attesa
dellachiamata.Allesuespalle
si è levato un assonnato
mugolio infantile. – Al
telefono–hodetto.
Dopo cinque minuti è
salita in camera mia. Senza
occhiali, senza il foulard in
testa, nella lunga camicia da
notte bianca sembrava molto
piúgiovane.
– Ci sono problemi – ha
detto.
–SitrattadiBheki?
–Sí,devoandare.
–Dovesitrova?
– Prima devo andare a
Guguletu, poi, credo, fino al
distrettoC.
– Non ho idea di dove si
troviildistrettoC.
Miharivoltounosguardo
perplesso.
– Volevo dire, se tu mi
indichi la strada, posso
accompagnarti in auto – ho
spiegato.
– Sí – ha risposto, ma
continuava ad esitare. – Però
nonpossolasciarelebambine
dasole.
– Allora dovranno venire
connoi.
– Sí – ha detto. Non
ricordo di averla mai vista
cosíindecisa.
–AncheilsignorVercueil
– ho detto – deve venire per
spingerel’auto.
Hascrollatolatesta.
– Sí, – ho insistito – deve
venire.
Il cane era accucciato
accanto a Vercueil. Quando
sono entrata ha iniziato a
dimenare la coda sul
pavimento, ma non si è
alzato.
– Signor Vercueil! – ho
chiamato forte. Ha aperto gli
occhi; ho scostato la torcia.
Ha liberato un peto. – Devo
accompagnare Florence a
Guguletu.Èunacosaurgente,
dobbiamo partire subito.
Verrebbeanchelei?
Non ha risposto; si è
rannicchiato invece su un
fianco. Anche il cane si è
riaccucciato.
– Signor Vercueil! – ho
ripetuto, puntandogli contro
latorcia.
–
’Fanculo
–
ha
bofonchiato.
– Non sono riuscita a
svegliarlo – ho riferito a
Florence. – Devo avere
qualcuno con me, per
spingerel’auto.
–Spingeròio–harisposto
lei.
Sistemate le due bambine
ben infagottate sul sedile
posteriore,Florencehaspinto
l’auto.
Siamo
partite.
Scrutando
attraverso
i
finestrini appannati dal
respiro,
ho
guidato
lentamente lungo De Waal
Drive, mi sono persa per un
attimo nelle strade di
Claremont,perpoisbucarein
LansdowneRoad.Gliautobus
vivacemente illuminati e
vuoti cominciavano le prime
corse del giorno. Non erano
ancoralecinquedelmattino.
Abbiamo superato le
ultime case, gli ultimi
semafori. Procedevamo nella
pioggia battente di nord-
ovest, seguendo il flebile
baglioregiallodeifari.
– Se qualcuno le fa cenno
di fermarsi, o se vede
qualcosa sulla strada, non
deve fermarsi, continui a
guidare–hadettoFlorence.
–Nonmifermeròdicerto
– ho risposto. – Avresti
dovutodirmeloprima.Voglio
essere chiara, Florence: al
primo segnale di pericolo io
tornoindietro.
–Nondicochesuccederà,
erasoloperavvisarla.
Con apprensione mi
inoltravo nell’oscurità. Ma
nessuno ci ha sbarrato la
strada, nessuno ha lanciato
segnali, non c’era nessuno in
giro. Il tumulto sembrava
essersi assopito; il pericolo
stava recuperando le forze
prima del prossimo agguato.
Lacarreggiata,lungolaquale
aquell’oramigliaiadiuomini
avrebbero dovuto marciare
pesantemente per recarsi al
lavoro, era vuota. Folate di
nebbia ci venivano incontro,
abbracciavano
l’auto,
volavano via. Fantasmi,
spiriti. L’Aorno: il luogo
disertatodagliuccelli.Brividi;
poi ho cercato lo sguardo di
Florence. – Quanto ci vuole
ancora?
–Nonmolto.
– Cosa hanno detto al
telefono?
– Ieri hanno sparato di
nuovo.Hannodatolearmiai
witdoeke e i witdoeke hanno
sparato.
–SparanoaGuguletu?
– No, sparano nella
boscaglia.
– Al primo segnale di
pericolo, Florence, io torno
indietro. Siamo venute a
prendereBheki,ètuttoquello
che dobbiamo fare, e poi ce
ne torniamo a casa. Non
avresti dovuto lasciarlo
andarevia.
–Sí,madevesvoltarequi,
asinistra.
Ho svoltato. Cento metri
piú in là c’era un posto di
blocco,conlucilampeggianti,
auto parcheggiate sui bordi
della strada, poliziotti armati.
Ho fermato l’auto; un
poliziottoèvenutoavanti.
– Che volete qui? – ha
chiesto.
– Accompagno la mia
domestica a casa – ho detto,
sorpresa per la calma con la
qualementivo.
Ha scrutato le bambine
addormentate sul sedile
posteriore.–Doveabita?
– Cinquantasette – ha
dettoFlorence.
– Può lasciarla qui, può
andareapiedi,nonèlontano.
– Piove, ha due bambine
piccole,nonlafaccioandarea
piedi da sola – ho detto con
fermezza.
Ha esitato, poi agitando
unalampadaintermittentemi
hadatoilvialibera.
Sul tetto di una delle auto
un giovane in tenuta da
guerra se ne stava in piedi, il
fucile puntato, lo sguardo
fissonelbuio.
C’eraunodoredibruciato
nell’aria, di cenere bagnata e
gomma bruciata. Abbiamo
percorso
lentamente
un’ampiastradanonasfaltata,
bordata da file di baracche
che parevano scatole di
fiammiferi gettate lí a caso.
Un furgone della polizia, un
blindato con una rete di
protezione tutt’attorno, ci ha
superato. – Qui, svolti a
destra – ha detto Florence. –
Ancoraadestra.Sifermi.
Conlapiccolainbraccioe
l’altra bambina, non ancora
del tutto sveglia, che la
seguiva incespicando, si è
avviata tra le pozzanghere
verso il numero 219, ha
bussato, è entrata. Hope e
Beauty. Era come vivere in
un’allegoria.Hoaspettatocon
ilmotoreacceso.
Ilfurgonedellapoliziache
ci aveva superato stava
tornando indietro. Una luce
mi ha colpito in faccia. Mi
sono riparata gli occhi con
una mano. Poi il furgone ha
proseguito.
Florence è riemersa con
indosso un impermeabile di
plasticachestringevaintorno
aséeallapiccolaesièseduta
sul
sedile
posteriore.
Correndonellapioggia,dietro
dilei,èarrivatononBhekima
un uomo sui trent’anni, o al
piú quaranta, magro, ben
vestito,conibaffi.Sièseduto
accanto a me. – Questo è il
signorThabane,miocugino–
ha detto Florence. – Ci
mostreràluilastrada.
–Dov’èHope?
– L’ho lasciata con mia
sorella.
–Edov’èBheki?
Èseguitoilsilenzio.
–Nonlosoconcertezza–
ha detto l’uomo. La sua voce
erasorprendentementedolce.
– È arrivato ieri mattina, ha
posatolesuecoseedèuscito.
Poi non l’abbiamo piú visto.
Non è tornato a casa a
dormire.Masodovestannoi
suoi
amici.
Possiamo
cominciareacercarlolà.
– È questo che vuoi
Florence?–hodomandato.
–Dobbiamocercarlo,–ha
risposto – non ci resta altro
dafare.
–Sepreferiscecheguidiio,
possofarlo–hadettol’uomo.
– Sarebbe meglio, in ogni
caso,noncrede?
Sono scesa e mi sono
seduta vicino a Florence,
dietro. Adesso pioveva piú
forte; l’auto s’immergeva in
pozzed’acqualungolastrada
dissestata.Unavoltaadestra,
una
volta
a
sinistra
svoltavamo
nell’arancio
smorto della luce dei
lampioni. Poi ci siamo
fermati. – Faccia attenzione,
non la spenga – ho detto al
signorThabane,ilcugino.
Lui è sceso ed è andato a
bussare a una finestra. Ne è
seguita
una
lunga
conversazione con qualcuno
chenonriuscivoascorgere.Il
tempo di tornare indietro ed
era fradicio e infreddolito.
Conleditatremantihatirato
fuori il pacchetto di sigarette
e ha cercato di accenderne
una.–Perfavore,nondentro
l’auto – ho detto. Lui e
Florence si sono scambiati
unosguardoesasperato.
Siamorimastiinsilenzio.–
Che cosa stiamo aspettando?
–hodomandato.
–Manderannoqualcunoa
farcistrada.
Un ragazzino con un
passamontagna
troppo
grande per lui è uscito di
corsa dalla casa. Con grande
disinvolturacihasalutatitutti
conunsorriso,èsalitoinauto
e ha cominciato a dare
indicazioni. Dieci anni al
massimo.Unfigliodeitempi,
a casa propria in questo
scenario di violenza. Quando
ripenso alla mia infanzia
ricordo soltanto lunghi
pomeriggi assolati, l’odore
della polvere nei viali sotto
l’ombra degli eucalipti, il
leggero gorgoglio dell’acqua
neifossatiaccantoallastrada,
la cantilena delle colombe.
Un’infanzia
sonnolenta,
preludiodiquellacheavrebbe
dovuto essere una vita senza
problemi e un lento trapasso
al Nirvana. Ci sarà concesso,
almeno, il nostro Nirvana, a
noi, figli di quel tempo
lontano? Ne dubito. Se c’è
giustizia al mondo, ci
troveremo la strada sbarrata
sin dalla prima soglia
dell’Aldilà. Bianchi come
larve in fasce, saremo
destinati ad aggiungerci alle
anime di quei bambini il cui
eterno lamento Enea ha
scambiato per pianto. Bianco
il nostro colore, il colore del
limbo: bianca la sabbia,
bianche le rocce, bianca la
luce che piove dappertutto.
Come
un’eternità
da
trascorrere distesi su una
spiaggia, una domenica
infinita tra i nostri simili, a
migliaia, assonnati, mezzo
addormentati, a un palmo
dalla rassicurante carezza
delle onde. In limine primo:
sulla soglia della morte, la
soglia della vita. Creature
vomitate dal mare, arenate,
esitanti, indecise, né calde né
fredde,nécarnenépesce.
Abbiamo superato le
ultimecaseenelgrigioredella
luce dell’alba ci siamo
inoltrati in un paesaggio di
terra bruciata e alberi
carbonizzati.Uncamioncino,
con tre uomini protetti da
unatelaceratasulrimorchio,
ci ha sorpassato. Al blocco
stradalesuccessivoliabbiamo
affiancati di nuovo. Ci
fissavano
con
sguardo
inespressivo, gli occhi negli
occhi, mentre aspettavamo il
controllo. Un poliziotto ha
fatto cenno di proseguire,
primaaloro,poianoi.
Noi ci siamo diretti verso
nord,lasciandocilemontagne
alle spalle, poi abbiamo
abbandonato l’autostrada per
finireinunastradinasterrata
che presto si è coperta di
sabbia. Thabane ha fermato
l’auto. – Non possiamo
andare oltre, è troppo
pericoloso – ha detto. – La
batteria ha qualcosa che non
va – ha aggiunto e mi ha
indicato la spia rossa
illuminata sul quadro dei
comandi.
– Lascio che tutto segua il
suo corso – ho risposto. Non
me la sentivo di fornire
spiegazioni.
Ha spento il motore. Per
unpo’siamorimastisedutiad
ascoltare la pioggia che
tamburellava sul tetto. Poi
Florence e il ragazzo sono
scesi. Assicurata dietro alla
schiena, la piccola dormiva
tranquillamente.
– E meglio che chiuda gli
sportelli con la sicura – ha
dettoilsignorThabane.
–Quantoc’impiegherete?
– Non saprei, ma faremo
presto.
Ho scrollato la testa. –
Nonrimarròqui–hodetto.
Nonavevouncopricapoe
neppure un ombrello. La
pioggia mi colpiva sulla
faccia,miincollavaicapelliin
testa, mi scorreva giú per il
collo. In sortite come questa,
ho pensato, si rischia di
moriredifreddo.Ilragazzino,
la nostra guida, era già
scappatovia.
–Sicopraconquesto–ha
detto il signor Thabane
mentre
mi
offriva
l’impermeabilediplastica.
– Lasci stare, – ho detto –
non mi spaventa un po’ di
pioggia.
– Lo metta ugualmente –
ha insistito. Ho compreso. –
Venga – ha detto. L’ho
seguito.
Intorno a noi c’era un
terreno grigio e desolato di
dune sabbiose, salici di Port
Jackson e un odore di cenere
e immondizie. Brandelli di
plastica, ferro vecchio, vetro,
ossadianimaliinsudiciavano
i lati del sentiero. Tremavo
già per il freddo, ma quando
ho cercato di camminare piú
velocemente il cuore ha
incominciato a martellare
forte. Restavo indietro. Si
sarebbe fermata Florence?
No: amor matris, una forza
che non si ferma di fronte a
nulla.
Ad un bivio del sentiero
Thabane si è fermato ad
aspettarmi. – Grazie – ho
mormorato–èmoltogentile.
Mi dispiace costringerla a
rallentare. L’anca mi dà
qualcheproblema.
–Siappoggialmiobraccio
–hadetto.
Alcuniuominicisfilavano
accanto, cupi, barbuti, seri,
armati di bastoni, passavano
rapidi in fila indiana. Ha
lasciato il sentiero. Io mi
tenevostrettaalui.
Il sentiero si allargava per
poi terminare in un ampio
lago d’acqua bassa. Dall’altro
lato della pozza iniziavano le
baracche, le catapecchie
costruite piú in basso erano
circondate
dall’acqua,
allagate. Alcune, in ferro e
legno,sembravanopiúsolide,
altre consistevano solo di
pellicolediplasticaposatesui
rami e si perdevano a vista
d’occhio verso nord su per le
dune.
Giunti ai margini della
pozza ho esitato. – Venga –
ha detto il signor Thabane.
Tenendomi a lui mi sono
incamminata e abbiamo
guadatoquellago,conl’acqua
che ci arrivava alle caviglie.
Una delle scarpe mi è stata
succhiata via dal piede. –
Facciaattenzioneaivetrirotti
– mi ha avvertito. Ho
recuperatolascarpa.
Ad eccezione di una
vecchiasdentatainpiedisulla
soglia,nonsivedevanessuno.
Mentre procedevamo, il
suono che ci accompagnava,
che in un primo momento
potevaesserescambiatoconil
rumore del vento o della
pioggia, cominciava a essere
rotto da grida, pianti,
richiami; si trattava in realtà
di una nota ostinatamente
bassa che potrei solo definire
un gemito: un gemito
profondo,senzafine,comese
il mondo intero stesse
gemendo.
Poiilragazzino,laguida,è
tornato nuovamente da noi,
ha cominciato a tirare la
manica del signor Thabane e
a confabulare tutto agitato. I
due si sono allontanati
insieme; io mi sono
arrampicata dietro di loro su
unaduna.
Cisiamotrovatiallespalle
diunafolladiuncentinaiodi
persone tutte con lo sguardo
rivolto verso uno scenario di
devastazione:
baracche
bruciate, le ceneri ancora
fumanti, catapecchie ancora
in fiamme che sputavano
fumonero.Catastedimobili,
letti e altri arredi erano lí
sotto la pioggia. Gruppi di
uomini si davano da fare per
recuperare qualcosa dalle
baracche bruciate, passavano
daunaall’altra,percercaredi
estinguere il fuoco; o almeno
cosí avevo pensato finché,
sbalordita, ho capito che
quellinoneranosalvatori,ma
incendiari, che la guerra che
stavanocombattendononera
contro le fiamme ma contro
lapioggia.
Era da qui, dalla gente
raccolta in questo anfiteatro
sulle dune, che proveniva il
gemito. Come gente a lutto a
un funerale stavano raccolti
sotto quel diluvio uomini,
donne e bambini, fradici,
incuranti di proteggersi, a
guardareladistruzione.
Unuomoconuncappotto
nero faceva roteare un’ascia.
Una finestra è esplosa con
uno schianto. Ha attaccato la
porta, che ha ceduto al terzo
colpo. Come liberata da una
gabbia, una donna con un
bimbo tra le braccia è corsa
fuoridallacasa,seguitadatre
bambini scalzi. L’uomo li ha
lasciati passare. Poi ha
cominciato a sferrare colpi
contro lo stipite della porta.
L’interastrutturahaceduto.
Uno del gruppo è entrato
in casa con una tanica di
benzina.Ladonnasièinfilata
in casa dietro di lui ed è
riemersapoiconunmucchio
di coperte tra le braccia. Ma
quando ha tentato una
seconda incursione è stata
letteralmentesbalzatafuori.
La folla ha esalato un
gemito. Nuvole di fumo
cominciavano a levarsi dalla
baracca. La donna si è tirata
su,èrientratadicorsaincasa,
di nuovo è stata respinta
fuori.
Una pietra lanciata dalla
folla è planata con un suono
metallico sul tetto della
baracca in fiamme. Un’altra
hacolpitolaparete,unaterza
è caduta ai piedi dell’uomo
che brandiva l’ascia, il quale
ha lanciato un grido di
minaccia. L’uomo e una
mezza dozzina di suoi
compagni hanno interrotto
quellochestavanofacendoe,
brandendobastoniesbarredi
ferro, hanno cominciato ad
avanzare incontro al cordone
della folla. Urlando, la gente
si è ritirata in fuga, io con
loro. Ma nella sabbia
melmosa riuscivo a stento a
camminare.
Il
cuore
martellava,
un
dolore
lancinante mi è esploso nel
petto.
Sono
rimasta
immobile, piegata in due,
ansimando.Madavverotutto
questo succede a me? ho
pensato.Che cosa ci faccio io
qui?Mièapparsadavantiagli
occhi l’auto verde, ferma in
attesa sulla strada. Non v’era
cosachedesiderassidipiúche
salire in auto e chiudermi lo
sportello alle spalle, per
lasciare fuori tutto quel
mondo minaccioso di odio e
violenza.
Una
ragazza,
un’adolescente
incredibilmentegrassa,miha
strattonatomentremipassava
accanto.–Accidentiate!–ho
mormorato cadendo. –
Accidenti a te! – ha risposto;
sprizzava
di
scoperta
animosità:–Toglitidaipiedi!
–Esièincamminatasuperle
dune,tremando.
Un altro colpo come
questo, ho pensato con la
faccia nella sabbia, e sono
finita. Questa gente può
sopportarne molti di colpi,
ma io, io sono fragile come
unafarfalla.
Sentivo uno scalpiccio di
passi accanto a me. Con la
coda dell’occhio ho visto una
scarpa marrone, la linguetta
saltellante, i lacci legati
intornoallasuolaperfissarla.
Il colpo dal quale tentavo di
ripararminonsièabbattuto.
Mi sono alzata. Alla mia
sinistra era cominciata una
zuffa;tuttalagentecheprima
si era rifugiata tra le piante
della boscaglia d’un tratto
sciamavafuori.Unadonnaha
gridato,
forte
e
disperatamente.Comepotevo
andarmene da quel luogo
orrendo? Dov’era il lago che
avevo guadato, dove il
sentiero che conduceva
all’auto?C’eranopozzanghere
enormiovunque,pozze,laghi,
specchi d’acqua, ovunque
c’erano sentieri, ma dove
conducevano?
Houditodistintamentedei
colpi d’arma da fuoco, uno,
due,
tre
colpi,
non
vicinissimo, ma neppure
troppolontano.
– Venga – ha detto una
voce, e il signor Thabane mi
ha preceduta. – Sí – ho
mormorato, e piena di
gratitudine ho arrancato
dietrodilui.Manonriuscivo
a raggiungerlo. – Piú piano,
perfavore–hourlato.Miha
aspettato; insieme abbiamo
riattraversato la pozza e
raggiuntoilsentiero.
Un giovane ci ha seguiti,
gliocchiiniettatidisangue.–
Dove sta andando? – ha
chiesto.
Una
domanda
tagliente,unavocetagliente.
– Me ne vado, vado via,
sono fuori posto qui – ho
detto.
– Andiamo a prendere
l’auto – ha risposto il signor
Thabane.
– La macchina serve a noi
–hadettoilgiovane.
–Nonlasceròlamiaautoa
nessuno–hodetto.
–LuièunamicodiBheki
– ha spiegato il signor
Thabane.
–Nonm’interessa,nongli
lasceròlamiaauto.
Il giovane (non certo un
uomo, non ancora, un
ragazzo vestito come un
uomo, che si comportava
come un uomo) ha fatto uno
strano gesto: tenendo una
mano sollevata all’altezza del
viso,l’hacolpitaconilpalmo
dell’altra mano, un colpo
rapido. Cosa significava?
Volevadirequalcosa?
La schiena mi doleva per
aver
camminato.
Ho
rallentato e mi sono fermata.
–Devotornaresubitoacasa–
ho detto. Era un appello; la
vocemitremava.
– Ha visto abbastanza? –
ha detto il signor Thabane,
con un tono piú distaccato
cheinprecedenza.
– Sí, ne ho abbastanza.
Non sono venuta qui per
vedere uno spettacolo. Sono
venutaaprendereBheki.
– E adesso vuole andare a
casa?
–Sí,vogliotornareacasa.
Stomale,sonoesausta.
Si è voltato e si è
incamminato.
Io
gli
zoppicavo dietro. Poi si è
fermato di nuovo. – Vuole
andare a casa – ha detto. – E
lagentechevivequi?Quando
vogliono andare a casa, è qui
che devono venire. Che cosa
nepensa?
Siamo rimasti là nella
pioggia, in mezzo al sentiero,
faccia a faccia. La gente che
passava di là si fermava a
guardarmi incuriosita, fatti
miei,fattiloro,fattiditutti.
– Non so rispondere – ho
detto.–Èterribile.
–Nonèsoloterribile–ha
ribadito – è un crimine.
Quando vede che viene
commesso
un
crimine
dinanziaisuoiocchi,checosa
dice? Dice: Ho visto
abbastanza, non sono venuta
a vedere uno spettacolo,
voglioandareacasa?
Ho scrollato la testa
disperata.
–No,nonpuò–hadetto.
–Giusto.Alloracosadirebbe?
Quale crimine ha visto
compiersi? Qual è il nome
giustodadargli?
È un insegnante, ho
pensato: ecco perché parla
cosí bene. Quello che fa con
me lo ha sperimentato in
classe.Èiltruccoadottatoper
far sembrare che le proprie
risposte
vengano
spontaneamente dagli allievi.
Ventriloquismo, l’eredità di
Socrate, oppressiva in Africa
comeloeraadAtene.
Hofattocorrerelosguardo
sul cerchio di spettatori. Se
erano ostili? Non scorgevo
ostilità in loro. Aspettavano
solochedicessilamia.
– Sono sicura che ci sono
molte cose che potrei dire a
riguardo, signor Thabane –
hodetto.–Mainquestocaso,
devo dire davvero quello che
penso. Quando ci si sente
sotto pressione, dovrebbe
saperlo, raramente si dice la
verità.
Stavaperribattere,mal’ho
prevenuto.
–Aspetti.Midiailtempo.
Non sto cercando di eludere
la domanda. Cose terribili
accadono qui. Ma quello che
penso in proposito devo
esprimerloconlemieparole.
– Allora, sentiamo, che
cosa ha da dire! Stiamo
ascoltando!
Stiamo
aspettando! – Ha sollevato la
mano per ottenere silenzio.
Dalla folla si è levato un
mormoriodiapprovazione.
–Accadonocoseterribili–
ho ripetuto, esitante. – E
devono essere condannate.
Ma io non posso giudicarle
usando le parole altrui. Devo
trovare parole che siano le
mie, che mi vengano da
dentro. Altrimenti non direi
la verità. È tutto quello che
possodireora.
– Questa donna dice
stronzate–hadettounuomo
della folla. Si è guardato
intorno. – Stronzate – ha
ripetuto. Nessuno lo ha
contraddetto. Alcuni già si
allontanavano.
–Sí,–hodettoemisono
girata verso di lui – ha
ragione,quelchediceèvero.
Mi ha guardato come se
fossimatta.
–Machecosasiaspettava?
–hoproseguito.–Perparlare
di questo – ho allargato il
braccio verso la boscaglia, il
fumo, la sporcizia che
insudiciava il sentiero –
bisognerebbe possedere la
linguadiundio.
– Stronzate – ha detto di
nuovo,insegnodisfida.
Thabane si è voltato per
andarsene.Iol’hoseguito.La
folla ha aperto un varco. Un
secondodopoilragazzinomi
èpassatoaccantodicorsa.Poi
hovistol’auto.
– È una Hillman la sua
auto,nonèvero?–hachiesto
Thabane. – Non dovrebbero
essercene rimaste molte in
giro.
Ero sorpresa. Dopo quello
cheerasuccessocredevofosse
stata tracciata una linea
invalicabile tra noi. Ma lui
non
sembrava
serbare
rancore.
– È del tempo in cui
BritishfacevacoppiaconBest
– ho risposto. – Perdoni la
sciocchezza.
Haignoratolescuse,sedi
questositrattava.–Maèmai
statomegliocongliinglesi?–
hachiesto.
–No,certocheno.Estato
uno slogan per un po’, dopo
la Guerra. Lei non può
ricordarlo.Ètroppogiovane.
–Sononatonel1943–ha
detto.–Hoquarantatreanni.
Nonmicrede?–Sièvoltato,
mostrandomi i suoi bei
lineamenti. Vanitoso; ma di
unavanitàaffascinante.
Ho azionato il motorino
d’avviamento. Ma la batteria
era scarica. Thabane e il
ragazzino sono scesi e hanno
spinto, con i piedi che
affondavanonellasabbia.Alla
fine il motore si è avviato. –
Dritto – ha detto il ragazzo.
Hoobbedito.
– È un insegnante? – ho
chiestoalsignorThabane.
– Ero un insegnante. Ma
ho
temporaneamente
abbandonato la professione.
Finchénonarriverannotempi
migliori. Adesso vendo
scarpe.
– E tu? – ho chiesto al
ragazzo.
Ha farfugliato qualcosa
chenonhosentito.
–
È
un
giovane
disoccupato–harispostolui.
–Nonècosí?
Il ragazzino ha sorriso
imbarazzato. – Giri qui,
subito dopo i negozi – ha
detto.
Solitari, in mezzo alla
desolazione, si ergevano tre
negozietti in fila, sventrati,
mezzo
carbonizzati.
BHAWOODIEN
CASH
STORE,
diceva
l’unica
insegnaancoraleggibile.
–Èdaunpezzo–hadetto
il signor Thabane. –
Dall’annoscorso.
Siamosbucatisuun’ampia
strada sterrata. Alla nostra
sinistra c’era un grappolo di
case, case vere, con muri di
mattoni, tetti di amianto e
camini. Tra le case, intorno
alle case, si perdeva a vista
d’occhiolabaraccopoli.
–Là–hadettoilragazzoe
ha indicato con il dito un
fabbricatodavantianoi.
Era un edificio lungo e
basso,uncasolareoforseuna
scuola,circondatodaunarete
metallica.Magranpartedella
recinzioneerastataabbattuta,
e dell’edificio restavano in
piedi
solo
i
muri
bruciacchiati. Là davanti si
eraradunataunapiccolafolla.
Voltisigiravanoaguardarela
Hillmanchesiavvicinava.
– Posso spegnere il
motore?–hochiesto.
– Può spegnerlo, non c’è
nientedatemere–harisposto
Thabane.
–Nonhopaura–hodetto.
Era vero? In un certo senso,
sí;oalmeno,dopoquelloche
era successo nella boscaglia,
poco importava quel che
avrebbepotutoaccadermi.
– Non c’è motivo di
temerenullacomunque,–ha
aggiuntopacatamente–isuoi
ragazzi
sono
qui
a
proteggerla.
–Ehafattouncennocon
lamano.
È stato allora che li ho
visti,dislocatiunpo’piúinlà,
lungo la strada: tre di quei
carri militari marroni per il
trasporto delle truppe, che si
confondevanotraglialberie,
stagliate contro il cielo, le
testeprotettedaglielmetti.
– Casomai avesse pensato
–haconcluso–chesitrattava
di una rissa tra neri, di un
focolaio di lotta tra fazioni.
Guardilà:c’èmiasorella.
Mia sorella aveva detto,
non Florence. Forse soltanto
io, unica al mondo, la
chiamavo
Florence.
La
chiamavo ricorrendo a uno
pseudonimo. Ora mi trovavo
in un luogo in cui la gente si
manifestava con il suo vero
nome.
Era addossata al muro per
proteggersidallapioggia:una
donna
compita,
inappuntabile
nel
suo
soprabito bordeaux e il
berretto bianco lavorato a
mano. Ci siamo fatti strada
verso di lei. Per quanto fosse
rimastaimpassibile,sochemi
aveva visto. – Florence! – ho
esclamato. Ha sollevato uno
sguardo vacuo. – Lo hai
trovato?
Hafattocennodisíconil
capo indicando quel che
rimaneva
dell’edificio
bruciato, poi si è voltata
dall’altra
parte,
senza
salutarmi. Il signor Thabane
ha cominciato a farsi largo
nella calca per raggiungere
l’ingresso. Ho aspettato,
imbarazzata. La gente mi
mulinavaattornoemievitava
come se in me scorgesse il
malaugurio.
Una ragazzina con il
grembiule verde della scuola
mi si è avvicinata, la sua
mano si è sollevata come per
schiaffeggiarmi. Ho vacillato
sorpresa, ma era solo uno
scherzo. O forse dovrei dire
chesiètrattenutadalfarlosul
serio.
– Credo che dovrebbe
guardare anche lei – mi ha
dettoilsignorThabaneconil
respiro affannoso, quando è
riemerso. Si è avvicinato a
Florence e l’ha stretta fra le
braccia.Scostandogliocchiali
leihaposatolatestasullasua
spalla ed è scoppiata in
lacrime.
All’interno
della
costruzionec’eranomucchidi
macerie e travi carbonizzate.
Infondo,controlapareteche
offriva un po’ di riparo dalla
pioggia, giacevano cinque
corpi in fila. Nel mezzo c’era
il corpo di Bheki. Portava
ancora gli stessi calzoni di
flanella grigia, la camicia
bianca e il pullover
marroncino della divisa di
scuola,maavevaipiedinudi.
Aveva gli occhi aperti e fissi,
anche la bocca era aperta. La
pioggia si era abbattuta su di
luiperore,sudiluiesuisuoi
compagni, non solo qui, ma
ovunquefosserostatiquando
hanno incontrato la morte; i
vestiti, persino i capelli
avevano l’aria piatta della
morte. Aveva granelli di
sabbiaagliangolidegliocchi.
C’erasabbianellasuabocca.
Qualcunomistavatirando
per il gomito. Sbalordita ho
abbassato lo sguardo su una
bambina dai grandi occhi
pienidisolennità.–Sorella–
ha detto – sorella... – ma poi
nonhasaputocontinuare.
–Chiedeseleièunadelle
sorelle – mi ha spiegato una
donna con un sorriso
premuroso.
Non
volevo
essere
allontanata da quella visione,
non ancora. Ho scrollato la
testa.
–Vuoledire,seèunadelle
sorelle
della
Missione
cattolica – ha precisato la
donna.–No,–hacontinuato
a parlare in inglese con la
bambina – non è una delle
sorelle –. Con delicatezza ha
staccatoleditadellabambina
dallamiamanica.
C’erano molte persone
accalcateintornoaFlorence.
– Devono rimanere là
sotto la pioggia? – ho chiesto
aThabane.
– Sí, devono restare là.
Cosítuttipossonovederli.
–Machièstato?
Tremavo: brividi mi
correvano per tutto il corpo,
mi tremavano le mani.
Pensavo agli occhi spalancati
delragazzo.Hopensato:cosa
ha veduto nel suo ultimo
sguardorivoltoalmondo?Ho
pensato: questa è la cosa
peggiorecuiabbiaassistitoin
vita mia. E ho pensato: ora i
miei occhi sono aperti e non
potròmaipiúrichiuderli.
– Chi è stato? – ha detto
Thabane.–Sevuoleestrarrei
proiettilidaqueicorpi,faccia
pure. Ma le dirò io cosa
troverebbe. «Fabbricati in
Sudafrica.Conl’approvazione
della SABS». Ecco cosa
troverebbe.
– Per favore, mi ascolti –
ho detto. – Non sono
indifferente a questo... a
questaguerra.Ecomepotrei?
Nessuna barriera, per quanto
impenetrabile, riuscirebbe a
celarla –. Ero sul punto di
piangere; ma qui, davanti a
Florence, che diritto ne
avevo?–Vivedentrodimee
io vivo dentro la guerra – ho
sussurrato.
Thabanehaalzatolespalle
spazientito.Eradiventatopiú
brutto. Senza dubbio anch’io
divento piú brutta alla luce
delgiorno.Unametamorfosi,
ci impasta la bocca, smorza i
sentimenti, ci trasforma in
bestie. Dove, lungo quali
spiagge, cresce l’erba che ci
potrebbe salvare da tutto
questo?
Ti racconto la storia di
questa mattina consapevole
che il narratore, in virtú del
ruolo che ricopre, rivendica
per sé un posto d’onore. È
attraverso i miei occhi che tu
vedi; mia è la voce che ti
riecheggianellatesta.Graziea
me ti è dato sostare in questi
luoghidesolati,fiutarel’odore
di bruciato nell’aria, vedere i
corpi dei morti, ascoltare il
pianto, rabbrividire nella
pioggia. Sono i miei pensieri
che pensi, è la mia
disperazione che provi e
anche i primi palpiti di
benvenuto per qualunque
cosa possa metter fine al
pensiero:sonno,morte.Ame
arrivalatuapartecipazione;il
tuo cuore batte in sincronia
conilmio.
Ora, bambina mia, carne
della mia carne, mia parte
migliore, ti chiedo di tirarti
indietro. Ti racconto questa
storianonperottenerelatua
compassione, ma perché tu
sappia come stanno le cose.
Sarebbepiúfacileperte,loso,
se la storia te la raccontasse
qualcunaltro,sefosselavoce
di un estraneo a echeggiarti
nella testa. Ma il fatto è che
nonc’ènessunaltro.Cisono
soloio.Sonoioascrivere:io,
io. E allora ti chiedo: presta
ascoltoaquestoscritto,nona
me. Se bugie e suppliche e
scuse ammiccano tra le
parole, presta loro ascolto.
Non le tralasciare, non
dimenticarle con leggerezza.
Leggiognicosa,anchequesta
esortazione,condistacco.
Qualcunoavevatiratouna
pietrasulparabrezza.Grande
come la testa di un neonato,
muta, giaceva sul sedile in
mezzo alle schegge di vetro
comearivendicareilpossesso
dell’auto. Il mio primo
pensieroèstato:dovetroverò
iricambiperunaHillman?E
poi: che fortuna che tutto
finiscanellostessomomento!
Hofattoruzzolarelapietra
giúdalsedileehocominciato
a togliere i pezzi di vetro che
si staccavano dal parabrezza.
Ora che avevo qualcosa da
faremisentivopiúcalma.Ma
ero calma anche perché non
m’importava
piú
di
continuare a vivere. Quello
che poteva ancora accadermi
non mi preoccupava. Ho
pensato:lamiavitanonconta
nulla. Spariamo su questa
gentecomeselalorovitanon
valesse nulla, ma in fondo
sono le nostre vite a non
meritarediesserevissute.
Pensavo ai cinque corpi,
alla loro presenza cosí
opprimente, cosí vivida, nel
casolare raso al suolo dalle
fiamme. I loro spiriti non se
nesonoandati,hopensato,e
non se ne andranno. I loro
spiriti siedono là immobili,
padronidelcampo.
Sequalcunoavessescavato
una fossa per me, in quel
luogo e in quel momento, là
nella sabbia, e me l’avesse
indicata, mi ci sarei calata
dentro senza fiatare, mi sarei
distesa con le braccia
incrociatesulpetto.Equando
la sabbia mi fosse caduta in
bocca, o negli angoli degli
occhi, non avrei alzato un
ditoperscrollarmeladidosso.
Leggi,
ma
non
compatirmi.Nonlasciareche
iltuocuorebattainsincronia
conilmio.
Con una mano fuori dal
finestrino porgevo una
moneta.C’èstataunacorsaal
tesoro. I bambini hanno
spinto, il motore si è avviato.
Ho svuotato il portafoglio
distribuendo monete dai
finestrini.
Inerpicati lassú, dove la
strada si riduceva a un
sentiero, in mezzo alla
boscaglia, c’erano i veicoli
militari che avevo visto
prima, non tre, come avevo
pensato, ma cinque. Sotto lo
sguardo di un giovane
protetto da una mantella
olivastra sono scesa dall’auto,
sentivo tanto freddo nei
vestiti fradici che quasi mi
parevadiesserenuda.
Speravo che le parole
sarebbero venute da sole, ma
nonèstatocosí.Hosollevato
le mani mostrando i palmi.
Sono spoglia, dicevano le
mani, priva anche della
parola. Vengo a parlare ma
nonhonientedadire.
–Wagindiemotor,eksal
die polisie skakel – mi ha
intimato. Un ragazzo con i
brufoli che recitava la parte
del temerario, del carnefice.
Aspetti nell’auto, chiamerò la
polizia. Ho scrollato la testa,
continuavoascrollarelatesta.
Lui parlava con qualcuno lí
accantocheiononriuscivoa
intravedere.Stavasorridendo.
Senza dubbio avevano visto
tutto sin dall’inizio, si erano
fatti una loro opinione su di
me. Una vecchia benefattrice
mezza matta, sorpresa dalla
pioggia, inzaccherata come
una gallina. Avevano visto
giusto? Io, una benefattrice?
No, non c’è nulla di buono
che io possa fare. Sono forse
pazza? Sí, sono pazza. Ma
anchelorolosono.Tuttinoi,
impazziti, posseduti dai
demoni. Quando la follia
ascende al trono, chi in tutto
il regno può sfuggire al
contagio?
– Non chiami la polizia,
me la cavo da sola – ho
gridato.Maleconsultazionie
gli sguardi d’intesa non
cessavano.
Probabilmente
avevano già messo mano alla
radio.
–Checosacredetedifare?
– ho gridato al giovane. Il
sorriso gli si è gelato sulle
labbra.–Cosacredetedifare?
– ho urlato, ma la voce era
diventata stridula. Sorpreso,
mi ha fissato. Sorpreso di
sentirsi aggredito da una
bianca,abbastanzavecchiada
poteresseresuanonna.
Unuomoindivisamilitare
si è staccato da un altro
veicolo e si è avvicinato. Mi
haguardatodavicino.–Wat
is die moeilikheid? – ha
chiestoalgiovanesulcarro.–
Nee, niks moelikheid nie.
Nessun problema. – Net
hierdiedamewatwilweetwat
aangaan.
–Quièpericoloso,signora
– ha detto girandosi verso di
me. Doveva essere un
ufficiale. – Può succedere di
tutto. Le manderò una scorta
perché l’accompagni fino alla
strada.
Ho scrollato il capo. Ero
assolutamentelucida,nonero
sul punto di piangere, anche
semiaspettavodicrollareda
unmomentoall’altro.
Checosavolevo?Checosa
voleva la vecchia? Quello che
voleva era svelare loro
qualcosa, qualunque cosa
potesse essere svelata in
questo momento, in questo
luogo. Quello che voleva,
primachesiliberasserodilei,
era mostrare loro una
cicatrice,
una
ferita,
buttargliela
in
faccia,
mettergliela sotto gli occhi:
una cicatrice, qualunque
cicatrice, la cicatrice di tutte
quellesofferenze,maanchela
mia cicatrice, poiché dopo
tutto le uniche ferite che
possiamo mostrare sono le
nostre. Ho persino posato la
mano sui bottoni del vestito.
Maleditaeranolivide,gelate.
– Avete guardato dentro
quell’edificio? – ho chiesto
con la voce stridula. E ora le
lacrime cominciavano a
scorrere.
L’ufficiale ha lasciato
cadere la sigaretta e con il
piedel’hasepoltanellasabbia.
– Questa unità non ha
sparato un solo colpo in
ventiquattr’ore – ha detto
pacatamente. – Segua il mio
consiglio: non si agiti tanto
senzaprimasaperedicosasta
parlando. Quelle persone là
dentro non sono le sole ad
essere morte. Ogni volta
muorequalcunonegliscontri.
Quelli sono solo i corpi
raccolti ieri. I disordini sono
cessati per il momento, ma
non appena smetterà di
piovere
esploderanno
nuovamente.Nonsocomesia
arrivata qui (avrebbero
dovutochiuderelestrade)ma
questo non è posto per lei,
non dovrebbe essere qui.
Chiameremo la polizia via
radio,lascorteranno.
–Ekhetreedsgeskakel–ha
dettoilgiovanesulcarro.
–Perchénonmetteteviale
armi e ve ne tornate tutti a
casa, invece? – ho detto. –
Perché di certo niente è piú
terribile di quel che state
facendo qui. Per la vostra
anima,intendo.
– No – ha risposto. Mi
aspettavodiesserefraintesa,e
invece no, aveva compreso
esattamenteciòcheintendevo
dire.
–Dobbiamoandarefinoin
fondo,adesso.
Tremavo dalla testa ai
piedi.Ledita,ricurveversoil
palmo della mano, non
volevano distendersi. Il vento
mi incollava addosso i vestiti
inzuppati.
– Conoscevo uno dei
ragazzi che sono morti – ho
detto. – Lo conoscevo da
quando aveva cinque anni.
Sua madre lavora per me.
Siete tutti troppo giovani per
questo. Mi viene la nausea a
pensarci.Eccotutto.
Ho guidato fino al
casolare, poi ho aspettato
seduta in auto. Ora
trasportavano fuori i corpi.
Dalla folla raccolta sentivo
come un’onda sollevarmisi
contro: rancore, ostilità.
Qualcosa di peggio: odio.
Sarebbe diverso se non fossi
statavistamentreparlavocon
isoldati?No.
Il signor Thabane mi è
venuto incontro per chiedere
cosa volessi. – Scusi, ma non
sono sicura sulla strada da
prendere–hodetto.
– Prenda la strada
asfaltata, svolti a destra e poi
segua i segnali – ha spiegato
brevemente.
–Sí,maqualisegnali?
– I segnali che riportano
alla civiltà –. Se n’è andato
voltandomilaschiena.
Ho guidato lentamente, in
parteperviadelventochemi
colpiva la faccia, in parte
perchémisentivointorpidita,
nel corpo come nell’anima.
Hodeviatoinunquartieredi
cui non avevo mai sentito il
nome e ho continuato a
guidare per venti minuti tra
stradetutteugualiincercadi
una via d’uscita. Alla fine mi
sonoritrovatainVoortrekker
Road.Qui,perlaprimavolta,
la gente ha cominciato a
guardarel’autodalparabrezza
frantumato. Gli sguardi mi
hannoseguitofinoacasa.
La casa mi è parsa fredda
edestranea.Misonodetta:fai
un bagno caldo, riposati. Ma
una inerzia di gelo si era
impadronita di me. Ho
dovuto fare uno sforzo
immane per trascinarmi di
sopra,perscollarmididossoi
vestiti bagnati, avvolgermi in
una vestaglia e mettermi a
letto. Sabbia, la grigia sabbia
di Cape Flats, si era rappresa
attorno alle dita dei piedi.
Non riuscirò mai piú a
scaldarmi,
ho
pensato.
Vercueilhauncanedatenersi
accanto nel sonno. Vercueil
sacomesopravvivereaquesto
clima. Ma per me, e per quel
ragazzo che presto giacerà
nellaterra,noncisarannopiú
caniadarcitepore.Sabbia,già
nellasuabocca,giàpenetrata,
prontaareclamarlo.
Sedici anni da quando ho
divisounlettoconunuomoo
un ragazzo. Sedici anni da
sola.Tisorprende?
Hoscritto.Scrivo.Seguola
penna, vado là dove essa mi
porta.Chealtromiresta?
Quando mi sono svegliata
misentivospossata.Eranotte
di nuovo. Dove era finito il
giorno?
Inbagnolaluceeraaccesa.
Sedutosullatazza,ipantaloni
calati sulle ginocchia, il
cappello in testa, Vercueil si
era assopito. L’ho fissato
sbalordita.
Non si è svegliato; al
contrario, nonostante avesse
la bocca aperta e la testa
ciondoloni, dormiva quieto
comeunbambino.Nonv’era
peluriasullesuelunghecosce
magre.
La porta della cucina era
spalancataeirifiuticadutidal
cestinocapovoltoeranosparsi
sul pavimento. Il cane era
tuttopresodauninvolucrodi
carta.Quandomihavistoha
abbassatoleorecchieinsenso
di colpa e ha cominciato a
dimenare ritmicamente la
coda.–Questoètroppo!–ho
mormorato. – Davvero
troppo! – Il cane è sgusciato
fuori.
Misonosedutaaltavoloe
mi sono abbandonata alle
lacrime. Non piangevo per la
confusione che mi si agitava
nellatesta,néperildisordine
incasa,maperilragazzo,per
Bheki. Ovunque mi voltassi,
me lo trovavo davanti, gli
occhi aperti con quell’aria di
stupore infantile con cui ha
incontrato la morte. La testa
poggiata
sulle
braccia
singhiozzavo, piangevo per
lui, per quello che gli è stato
sottratto, per quello che mi è
statosottratto.Unacosatanto
bella: la vita! Un’idea
bellissima,lamigliorecheDio
abbia avuto! La migliore idea
di tutti i tempi. Un dono, il
piú generoso dei doni, che si
rinnova senza fine di
generazioneingenerazione.E
ora Bheki, spogliato di quel
dono,perduto,strappatovia!
– Voglio andare a casa! –
Cosí mi sono lamentata,
dinanzi alla mia vergogna,
dinanzi al signor Thabane, il
mercantediscarpe.Lavocedi
unabambinauscitadallagola
di una vecchia. A casa, in
salvoacasamia,nelmioletto
di riposo infantile. Ho mai
aperto gli occhi davvero?
Potrei anche domandarmi:
sannoimortidiesseremorti?
No: ai morti non è dato
sapere nulla. Ma nel nostro
sonno di morte possiamo
almeno ricevere dei segni. Io
conservo segni piú antichi di
qualsiasi ricordo, incrollabili,
del fatto che una volta sono
stata viva. Ero viva e sono
stata sottratta alla vita. Dalla
cullaèstatomessoinattoun
furto: è stata sottratta una
bambina e al suo posto una
bambola ha ricevuto cure e
nutrimento;quellabambolaè
ciòchechiamoio.
Una bambola? La vita di
una bambola? È cosí che ho
vissuto?Maadunabambolaè
dato concepire pensieri
simili? Oppure il pensiero va
e viene come un altro segno,
come un lampo, come uno
squarcio
nella
nebbia
provocato dalla spada di una
intelligenzaangelica?Puòuna
bambola riconoscere una
bambola? Può una bambola
conoscere la morte? No: le
bambole crescono, imparano
a parlare e a camminare,
giranoilmondo;invecchiano,
avvizziscono,
periscono;
vengono portate al rogo o
sepolte nella terra, ma non
muoiono.Vivonopersempre
in quel momento di sorpresa
impietrita,precedenteadogni
ricordo, quando una vita è
stata sottratta, una vita che
non appartiene a loro ma al
cui posto sono state lasciate
come pegno. La loro
conoscenza:
un
sapere
insostanziale, senza peso
terreno,propriocomelatesta
di una bambola, vuota,
svanita. Poiché esse stesse
non sono bebè, ma l’idea di
unbebè,piútonde,piúrosee,
dallo sguardo piú vacuo e
azzurrino di qualsiasi bebè,
esse non vivono la vita, ma
l’idea della vita, immortali,
eterne,cometutteleidee.
L’Ade, l’Inferno: il regno
delle idee. Perché mai
l’inferno deve essere di
necessità un luogo a parte,
confinato
ai
ghiacci
dell’Antartico, o al fondo di
un vulcano? Perché l’Inferno
non può trovarsi in fondo
all’Africa,eperchélecreature
infernali
non
possono
confondersitraivivi?
Padre, non vedi che sto
bruciando?, implorava il
figlio, in piedi accanto al
giacigliopaterno.Mailpadre,
che continuava a dormire, a
sognare,nonpotevavederlo.
Ecco la ragione per cui (la
espongo ora affinché tu la
possa vedere) mi aggrappo
con forza al ricordo di mia
madre. Perché se lei non mi
hadatolavita,alloranessuno
lohafatto.Nonmiaggrappo
soloalricordodilei,maalei
stessa, al suo corpo, alla mia
nascita al mondo dal suo
corpo. Con il suo sangue e il
suo latte ho succhiato il suo
corpoentrandonellavita.Poi
le sono stata sottratta e da
alloramisonoperduta.
C’èunamiafotografiache
hai
visto
ma
che
probabilmente non ricordi. È
stata scattata nel 1918, allora
non avevo ancora due anni.
Io sono ritta, mi si vede
mentre tento di afferrare la
macchina fotografica, mia
madre,inginocchiodietrodi
me, mi trattiene con delle
redini che mi imbrigliano le
spalle. Al mio fianco c’è mio
fratello Paul, mi ignora, il
cappelloditraverso.
La fronte è corrugata, gli
occhi
sono
fissi
sull’apparecchio fotografico.
Sto soltanto strizzando gli
occhi per il troppo sole
oppure, come i selvaggi del
Borneo, ho la sensazione
confusa che la macchina
fotograficamiruberàl’anima?
Peggio: mia madre mi
trattiene,forseperevitareche
scaraventi
in
terra
quell’aggeggio perché io, alla
manieradellebambole,soche
esso vede anche ciò che
l’occhio non può vedere; e
cioè, che io non sono là? E
mia madre forse sa tutto
questo perché neppure lei è
là?
Paul, morto, a lui mi ha
portato la penna. Gli ho
tenuto la mano mentre se ne
andava. Gli ho sussurrato: –
Rivedrai la mamma, sarete
entrambi tanto felici –. Era
pallido, persino negli occhi
aveva il biancore di cui si
tinge il cielo in lontananza.
Mi ha rivolto uno sguardo
stanco, vuoto, come per dire:
proprio non comprendi! Ma,
ha mai vissuto realmente
Paul? Sorella vita, cosí una
volta mi aveva apostrofato in
una lettera, prendendo in
prestito parole altrui. Ma si
eraaccortoallafinecheaveva
commesso un errore? Quegli
occhi trasparenti erano
riuscitiaguardarmidentro?
Siamo stati fotografati,
quel giorno, in un giardino.
Cisonofioridietrodinoiche
somigliano ai fiori di
malvarosa;allanostrasinistra
c’è un’aiuola di meloni.
Riconoscoilposto.Sitrattadi
Uniondale, la casa in Church
Streetacquistatadalnonnoal
tempoincuiconlepiumedi
struzzo si faceva fortuna.
Anno
dopo
anno
germogliavano fiori e frutti e
verdura in quel giardino,
producevano
semi
in
abbondanza, morivano, si
rinvigorivano, mentre noi
prosperavamo della loro
abbondanza. Ma da chi
venivano curati con tanto
amore? Chi potava la
malvarosa? Chi disponeva i
semi di melone nel loro
tiepido e umido letto? Era
mio nonno che si levava alle
quattronell’ariapungentedel
mattino per aprire i condotti
eirrigareilgiardino?Senona
lui, a chi apparteneva di
diritto il giardino? Chi sono
questi fantasmi e queste
presenze? Chi c’è, fuori dalla
cornicedellafoto,appoggiato
a quel rastrello, appoggiato a
quella vanga, che aspetta di
poter tornare al lavoro,
poggiato anche contro il
bordo di quel rettangolo,
quasi
piegandolo,
incurvandolo?
Dies irae, dies illa quando
gliassentisarannopresentiei
presenti assenti. La fotografia
non mostra piú chi c’era nel
riquadro del giardino quel
giorno, ma piuttosto chi non
c’era.Rimastapertuttiquesti
anniinluoghiattiaserbarei
ricordi, negli album che mi
hannoseguitaperilpaese,nei
cassetti, questa foto, come
migliaia di altre, è maturata
impercettibilmente, ha subito
una metamorfosi. Il fissaggio
non ha tenuto oppure lo
sviluppo ha fatto ciò che
nessuno si sarebbe mai
sognato(chissàcomeèpotuto
succedere?)
ma
sono
diventate nuovamente dei
negativi, un nuovo tipo di
negativo per cui è possibile
vedere ciò che sta fuori dalla
cornice,ciòcheèoccultato.
È per questo che ho
corrugato la fronte, è per
questo che cerco di afferrare
lamacchinafotografica:forse
so
confusamente
che
quell’apparecchio è nemico,
chenonmentiràsudinoi,ma
svelerà ciò che realmente
siamo: bambole? Sto forse
lottando per sottrarmi alle
redinichemiimpedisconodi
avventarmi sulla macchina
fotografica prima che sia
troppo tardi? E chi tiene
l’apparecchio fotografico? A
chi appartiene l’ombra
informechesiprotendeverso
mia madre e i suoi due
bambini
dall’altro
lato
dell’aiuolacoltivata?
Il dolore si è lasciato alle
spalle il pianto. Io sono un
involucro vuoto, sono una
conchiglia. A ciascuno di noi
il fato assegna la giusta
malattia.Lamia,unamalattia
chemidivoradall’interno.Se
qualcuno mai incidesse un
taglio per guardarmi dentro,
mi troverebbe vuota come
una bambola, una bambola
con un granchio chiuso
dentro che si lecca le labbra,
abbagliato
da
quell’improvviso effluvio di
luce.
Era il granchio, il cancro
che vedevo con tanta
prescienza a due anni, far
capolino da quella nera
scatola? Stavo cercando di
salvaretuttidalgranchio?Ma
melohannoimpedito,hanno
premuto il bottone, e il
granchio è dilagato ed è
penetratoinme.
Rosicchiandomi le ossa,
ora che non c’è piú carne.
Rosicchiandomi le giunture
dell’anca, rosicchiandomi la
spinadorsale,perpassarepoi
alleginocchia.Igatti,adireil
vero, non mi hanno mai
amato veramente. Soltanto
questa creatura mi è fedele
finoallafine.Ilmiocucciolo,
ilmiodolore.
Sono andata di sopra e ho
aperto la porta del bagno.
Vercueil era ancora là,
affondato in un sonno
profondo. Ho cercato di
scuoterlo. – Signor Vercueil!
–hoesclamato.Haapertoun
occhio.–Vengaadormire.
Nonlohafatto.Primal’ho
udito sulle scale scendere un
gradino alla volta con la
precauzione di un vecchio.
Poi ho sentito chiudersi la
portasulretro.
Una bella giornata, una di
quelle immote giornate
invernali quando la luce
sembra
piovere
uniformemente da ogni
angolo del cielo. Vercueil ha
guidato lungo Breda Street e
fino a Orange Street. Dopo
averattraversatoGovernment
Avenue gli ho chiesto di
parcheggiare.
– Pensavo di guidare fino
allafinedelviale–hodetto.–
Una volta superata la catena,
non vedo come potrebbero
fermarmi.Ma,credechecisia
spazio
sufficiente
per
oltrepassarelacatena?
(Forse ricordi che ci sono
due paletti di ghisa al fondo
delvialeaiqualièfissatauna
catena).
–Sí,c’èspaziodilato–ha
risposto.
– Dopo, è solo questione
diteneredrittal’auto.
– Lo farà davvero? – ha
chiesto. I suoi occhietti di
pollo
scintillavano
crudelmente.
–Setroveròilcoraggio.
– Ma, perché? A che
scopo?
Difficile
dare
nobili
risposte davanti a quello
sguardo famelico. Ho chiuso
gli occhi e ho cercato di
concentrarmi sulla visione
dell’auto, lanciata a tutta
velocità e circondata da un
ventaglio di fiamme, che
precipita giú lungo il viale
asfaltato superando turisti e
vagabondi e coppiette di
amanti, superando il museo,
la galleria d’arte, l’orto
botanico, prima di rallentare
e arrivare ad arrestarsi
dinanzi alla casa della
vergogna,
bruciando,
dissolvendosi.
– Ora possiamo tornare a
casa–hodetto.–Volevosolo
essere sicura che fosse
possibilefarlo.
È venuto in casa e gli ho
offertoiltè.Ilcanesièseduto
ai suoi piedi; aguzzava le
orecchie ora verso di me, ora
verso di lui, quando
parlavamo.
Un
cane
affettuoso: una presenza
vitale, nato sotto una buona
stella, come si dice di certe
persone.
– Per rispondere alla sua
domanda A che scopo? – ho
detto – ha a che fare con la
mia vita. Una vita che non
vale piú molto. Sto cercando
dicapirecosapossofarne.
La sua mano affondava
inquieta nella pelliccia del
cane,avantieindietro.Ilcane
sbatteva
le
palpebre,
socchiudevagliocchi.Amore,
ho pensato: per quanto
improbabile, è amore quello
dicuisonotestimone.
Ho provato di nuovo. –
C’è un famoso romanzo in
cuiunadonnavieneaccusata
diadulterio(l’adulterioeraun
reato ai vecchi tempi) e
condannataadandareingiro
con la lettera A cucita
sull’abito. Porta quella A per
cosí tanti anni che la gente
finisce per dimenticare che
cosa
essa
significhi.
Dimenticano che essa può
significare tutto o nulla.
Diventa
semplicemente
qualcosa da indossare, come
un anello o una spilla.
Potrebbe anche darsi che lei
abbiadatoinizioallamodadi
portaredellescrittesugliabiti.
Ma questo non è scritto nel
libro.
– Queste dimostrazioni
pubbliche,
queste
manifestazioni, ecco il punto
della mia storia, come si può
essere sicuri del loro
significato?Unavecchiasidà
fuoco, per esempio. Perché?
Perché è impazzita? Perché è
disperata? Perché è malata di
cancro? Ho pensato di
dipingere
una
lettera
sull’auto, per spiegare. Ma
quale? A? B? C? Qual è la
lettera giusta nel mio caso? E
poi, perché spiegare? A chi
puòinteressare,aparteme?
Avrei potuto dire di piú,
ma in quel momento la
serratura del cancello è
scattata e il cane ha
cominciato a ringhiare. Due
donne, in una delle quali ho
riconosciuto la sorella di
Florence,avanzavanolungoil
vialetto e portavano delle
valigie.
– Buon pomeriggio – ha
detto la sorella. Mi ha
mostratounachiave.–Siamo
venute a prendere la roba di
miasorella.Florence.
–Sí–hodetto.
Si sono fatte strada nella
stanza di Florence. Dopo un
po’ le ho raggiunte. –
Florence sta bene? – ho
chiesto.
La sorella, che stava
svuotando un cassetto, si è
alzata in piedi, respirando
profondamente. Certamente
assaporava quella sciocca
domanda.
– No, non posso dire che
stiabene–harisposto.–Non
bene. Come potrebbe stare
bene?
L’altra donna, fingendo di
non sentire, continuava a
ripiegare i vestiti delle
bambine. Nella stanza c’era
moltopiúdiquantopotessero
portareviainduevaligie.
– Non intendevo in quel
senso–hodetto–manonha
importanza. Posso chiederle
diportarequalcosaaFlorence
dapartemia?
– Sí, posso farlo, se non è
troppoingombrante.
Hocompilatounassegno.
– Dica a Florence che mi
dispiace. Le dica che mi
dispiace piú di quanto le
parole possano esprimere.
PensosempreaBheki.
–Ledispiace.
–Sí.
Un’altra giornata di cielo
limpido. Vercueil in uno
strano stato di eccitazione. –
Allora,èarrivatoilgiorno?–
hachiesto.–Sí–horisposto,
stizzitadifronteall’indecenza
del suo entusiasmo. Ero sul
punto di aggiungere: – Sono
forsefattichelariguardano?
Sí, ho detto, è arrivato il
giorno. Eppure la giornata è
trascorsaeiononhoattuatoi
miei propositi come avevo
promesso. Poiché fino a
quando le parole continuano
a fluire, tu puoi esser certa
che non ho attuato i miei
propositi:unaregola,un’altra
regola. La morte potrebbe
essere davvero l’ultimo
grandenemicodellascrittura,
ma anche la scrittura è il
nemico della morte. Per
questo, la scrittura è una
manotesapertenerelamorte
adebitadistanza;lasciacheti
racconti di come volevo farla
finita, volevo cominciare ad
arrendermi, ma non ho
attuato i miei propositi.
Lasciachetiraccontidicome
hofattounbagno.Lasciache
ti racconti di come mi sono
vestita. Lasciami dire che,
mentre preparavo il mio
corpo, un debole guizzo
d’orgoglio è tornato a
scuoterlo. Tra l’aspettare a
letto che il respiro ti
abbandoni e uscire fuori per
diventare
artefici
della
propriamorte,chedifferenza!
Volevo farla finita: è
questalaverità?Sí.No.Sí-no.
Esistequestaparola,manonè
mai stata ammessa nei
dizionari. Sí-no: ogni donna
sa cosa significa poiché essa
sconcerta sempre gli uomini.
– Lo farà? – ha domandato
Vercueil, con i suoi occhi di
uomo scintillanti. – Sí-no –
avreidovutorispondere.
Misonovestitadibiancoe
azzurro: una gonna celeste,
una camicetta bianca che si
chiudeconunfioccoallagola.
Mi sono truccata il viso e mi
sono pettinata. Per tutto il
tempo che ho trascorso
davanti allo specchio un
tremito
leggero
ha
accompagnato
i
miei
movimenti. Non sentivo
alcun dolore. Il granchio
avevasmessodirosicchiare.
Raggiante di curiosità,
Vercueil mi ha seguito
aggirandosi furtivamente in
cucina
mentre
facevo
colazione. Alla fine, irritata,
sconvolta, ho tuonato: –
Vuole lasciarmi in pace! –
Allora si è allontanato con
un’espressione ferita cosí
infantile da indurmi a tirarlo
perlamanica.–Nonvolevo–
ho detto. – Ma per favore si
sieda: mi rende nervosa
proprioquandohobisognodi
calma. Sono cosí combattuta!
Un momento, penso: sbrigati
e falla finita, metti fine a
questavitainutile.Unminuto
dopo penso: ma perché devo
prendere la colpa sulle mie
spalle?Perchécisiaspettache
io mi innalzi al di sopra dei
tempi? È mia la colpa per
questo tempo di vergogna?
Perché dovrebbe essere
affidato a me, vecchia e
malata e afflitta dal dolore, il
compitoditirarmifuorisenza
aiutoalcunodaquestoabisso
divergogna?
– Io voglio scatenarmi
controcolorochehannodato
vita a questo tempo. Voglio
denunciarli per avermi
rovinatolavitapropriocome
un ratto o uno scarafaggio
rovinano il cibo senza
neppure
mangiarlo,
semplicemente
camminandoci
sopra,
annusandolo,cacandocisu.È
infantile, lo so bene, puntare
ilditoeaccusareglialtri.Ma
perché dovrei accettare l’idea
che la mia vita sarebbe stata
priva
di
valore
indipendentemente da chi
detiene il potere in questo
paese?Ilpotere,dopotutto,è
potere. Invade. È la sua
natura.Invadelanostravita.
–Vuolesaperechecosami
succede, e io sto cercando di
spiegarglielo. Voglio vendere
l’anima, redimermi, ma sono
molto confusa su come fare.
Questa, se vuole, è la follia
che si è impossessata di me.
Non dovrebbe sorprenderla.
Conosce questo paese. La
folliaquisirespiraconl’aria.
Per tutto il tempo del mio
discorso Vercueil mi ha
guardatoconqueisuoipiccoli
occhi
semichiusi
e
insondabili.Poihaesorditoin
uno strano modo: – Le
andrebbeungiroinauto?
–Nonpossiamouscirecon
l’auto, signor Vercueil. Ci
sono mille ragioni a
impedirlo.
– Potremmo fare un giro
panoramico ed essere di
ritornopermezzogiorno.
– Non possiamo andare a
fare un giro panoramico con
un’auto che ha un buco nel
parabrezza.Sarebberidicolo.
–Toglieròilparabrezza.È
solo vetro, non ce n’è
bisogno.
Perché ho ceduto? Forse
ciòchemihavintoallafineè
stata l’inattesa attenzione che
mi dedicava. Era come un
ragazzo
in
stato
di
eccitazione,
eccitazione
sessuale,eioneerol’oggetto.
Io ero lusingata, in un certo
senso; nonostante tutto, ero
persino divertita. Sentivo
qualcosa di oscuramente
disgustoso in tutto questo,
come nell’eccitazione di un
cane che scavi in cerca di
carogne non sotterrate
abbastanza in profondità. Ma
non ero in condizione di
scegliere. Dopo tutto, che
cosa volevo? Volevo una
proroga. Un intervallo di
tempo senza preoccupazioni,
senza dolore, senza dubbi,
senza apprensione, fino a
mezzogiorno. Finché il
cannone di Signal Hill non
esploderàamezzogiorno,una
tanica di benzina sul sedile
accanto, e io sarò riuscita a
oltrepassare la catena oppure
avrò rinunciato a lanciarmi
lungo il viale. Ma fino ad
allora, vivere senza pensieri;
ascoltareilcantodegliuccelli,
sentire l’aria sfiorarmi la
pelle,guardareilcielo.Vivere.
Cosíhoceduto.Vercueilsi
è avvolto uno strofinaccio
intornoallamanoeharottoil
vetro del parabrezza fino a
fareunbucotantograndeda
lasciar passare un bambino.
Gli ho dato le chiavi. Una
spinta,esiamopartiti.
Come amanti che fanno
ritorno sulla scena della loro
primadichiarazione,abbiamo
preso la strada che s’inerpica
sull’altura di Muizenberg.
(Amanti! Che cosa ho mai
dichiarato io a Vercueil? Che
dovrebbe smettere di bere.
Checosamihadichiaratolui?
Niente. Forse neppure il suo
vero
nome).
Abbiamo
parcheggiato nello stesso
punto della volta precedente.
Adesso goditi per l’ultima
volta questo panorama, mi
sonodetta,mentreaffondavo
leunghieneipalmidellemani
eallargavolosguardosuFalse
Bay, la baia della falsa
speranza, e verso sud sulle
desolate acque invernali del
piúdimenticatodeglioceani.
– Se avessimo una barca
potrebbe portarmi in alto
mare–homormorato.
Versosud:ioeVercueilda
soli, fino a raggiungere le
latitudini dove gli albatros
incrociano i loro voli. Dove
lui potrebbe legarmi a un
barileoaunatavoladilegno,
non importa quale, e
lasciarmi in balia delle onde
sotto quelle grandi ali
bianche.
Vercueil
ha
fatto
inversione per ritornare sulla
strada. Mi sbagliavo, o il
motore rispondeva piú
dolcementeallesuemaniche
allemie?
– Mi dispiace, se quello
che dico non ha senso – ho
detto. – Sto facendo del mio
meglio per non smarrire
l’orientamento. Sto tentando
di mantenere in vita un
qualche senso della necessità.
Questosensodellanecessitàè
ciò che continua a sfuggirmi.
Seduta qui, circondata da
tanta bellezza, ma persino
seduta a casa in mezzo alle
mie cose, sembra quasi
impossibilecheesistaintorno
anoiunazonadoveregnano
l’abbrutimento e l’assassinio.
È come un brutto sogno.
Qualcosa preme, rivendica
attenzione, dentro di me.
Cerco
di
rimanere
indifferente,mainsiste.Cedo
un poco; preme piú forte.
Consollievomiabbandono,e
la vita improvvisamente si fa
ordinaria. Con sollievo mi
abbandono all’ordinario. Mi
ci crogiolo. Perdo il senso di
vergogna, divento sfrontata
come lo sono i bambini. La
vergogna
di
quella
spudoratezza: ecco ciò che
non posso dimenticare, ecco
quello che non posso
sopportaredopo.Eccoperché
devo aggrapparmi a me
stessa, indicare a me stessa il
cammino. Altrimenti sono
perduta.Micapisce?
Vercueil incurvato sul
volante come se avesse
problemi di vista. Lui dagli
occhidifalco.Cheimportava
senoncapiva?
– È come provare a
smettere di bere – ho
continuato. – Provare e
riprovare, sempre, convinti
nel proprio intimo, sin dal
principio, che ci sarà una
ricaduta. Una vergogna
accompagna
quell’intima
consapevolezza,unavergogna
cosí tiepida, cosí intima e
confortante, che reca con sé
un effluvio di ulteriore
vergogna. Sembrerebbe non
esserci limite alla vergogna
che un essere umano può
provare.
– Ma come è difficile
togliersilavita!Cisiaggrappa
cosí fortemente alla vita! Ho
l’impressione
che
qualcos’altrodebbaentrarein
gioco all’ultimo momento
oltre la volontà, qualcosa di
estraneo,
qualcosa
di
spensierato, a spingerti giú
dal
burrone.
Occorre
diventarequalcunaltrodasé.
Machi?Chiècheaspettache
iodiventilasuaombra?Dove
possotrovarloquelqualcuno?
Il mio orologio segnava le
dieci e venti. – Dobbiamo
tornareacasa–hodetto.
Vercueilharallentato.–Se
è quello che vuole, la riporto
indietro–hadetto.–Oppure,
se preferisce, possiamo
continuare
a
guidare.
Possiamo percorrere tutta
quanta la penisola. È una
bellagiornata.
Avrei dovuto rispondere:
No,miportisubitoacasa.Ma
hoesitato,einquell’attimodi
esitazione le parole si sono
spenteinme.
–Sifermiqui–hodetto.
Vercueilhaparcheggiatoa
latodellacarreggiata.
– Ho un favore da
chiederle – ho detto. – Per
piacerenonsiprendagiocodi
me.
–Èquestoilfavore?
–Sí.Oracomeinfuturo.
Hascrollatolespalle.
Dall’altro lato della strada
unuomoconabiticenciosisi
èsedutoaccantoallapiramide
di legna da ardere che aveva
messo in vendita. Ci ha
guardati, poi ha guardato
altrove.
Iltempopassava.
– Una volta le ho
raccontato una storia su mia
madre – ho detto alla fine,
cercando di parlare piú
dolcemente. – Su come, da
bambina, era rimasta distesa
nell’oscurità senza sapere che
cosasimuovessesopradilei,
seilcarroolestelle.
– Mi sono aggrappata a
quella storia per tutta la vita.
Se ognuno di noi ha una
storiadapotersiraccontaresu
chisiamo,edadoveveniamo,
allora quella è la mia storia.
Quella è la storia che ho
scelto,olastoriachehascelto
me.Èdalícheioprovengo,è
làcheiohoorigine.
– Mi chiede se voglio
proseguire. Se fosse davvero
possibile, le proporrei di
guidare fino alla zona est del
Capo, fino ai monti
Outeniqua, fino al crinale in
cima al Prince Alfred’s Pass.
Potrei persino dire, lasciamo
perdere le carte geografiche,
continuiaguidareversonord
e poi verso est seguendo il
sole,loriconosceròquandoci
arriveremo:ilpuntodiarrivo,
il punto di partenza,
l’ombelico, il punto di
contatto con il mondo. Le
chiedereidifarmiscenderelà,
in cima al passo, e di
andarsene lasciandomi in
attesadellanotteedellestelle
e del carro fantasma che mi
passeràsopra.
–Malaveritàèche,cono
senza carte geografiche, non
riesco piú a ritrovare quel
luogo. Perché? Perché il
desideriomihaabbandonato.
Un anno fa o un mese fa
sarebbe stato diverso. Un
desiderio, forse il desiderio
piú profondo di cui io sia
capace, sarebbe fluito da me
verso quell’angolo di mondo,
miavrebbeguidato.Eccomia
madre,
avrei
detto,
inginocchiandomi: ecco ciò
che mi dà vita. Terra sacra,
non come una tomba, ma
come è sacro un luogo di
resurrezione: una eterna
resurrezionedallaterra.
– Ora quel desiderio, che
potrebbe
anche
essere
chiamato amore, mi ha
lasciato. Non provo piú
amore per questa terra. Ecco
tutto. Sono come un uomo
chesiastatocastrato.Castrato
in età adulta. Cerco di
immaginarecomedeveessere
lavitaperunuomocheabbia
subito una tale perdita.
Immagino che guardi le cose
che aveva amato in passato,
memore di un amore che
dovrebbe ancora provare, ma
incapace di provare amore.
Amore: che cos’era? si
domanderebbe, cercando a
tentoni nella memoria quel
vecchio sentimento. Ma tutto
oragliparrebbepiatto,muto,
immobile. Qualcosa che un
tempo possedevo è stato
tradito,
penserebbe,
concentrandosi per sentire
tutta l’acutezza di quel
tradimento. Ma non ci
sarebbeacutezza.L’acutezzaè
proprio ciò che tutte le cose
hanno perduto. Sentirebbe
piuttosto una tensione,
leggeramapersistente,chelo
conduce verso lo stupore, il
distacco.
Distacco,
rifletterebbe
tra
sé,
pronunciando quella parola
affilata,quasiallungandouna
mano per sondarne il profilo
tagliente. Ma anche in quel
caso
interverrebbe
un
ottundimento,
un
annebbiamento. Tutto mi
sfugge, penserebbe; fra una
settimana, fra un mese avrò
dimenticato tutto, dimorerò
tra i mangiatori di loto, solo,
alla deriva. Per un’ultima
volta tenterebbe di rivivere il
dolore per quel distacco, ma
l’unica cosa che riuscirebbe a
richiamare a sé sarebbe una
fugacetristezza.
– Non so se sono stata
abbastanza chiara, signor
Vercueil. Sto parlando di
risoluzioni, del fatto che sto
cercando di tener fede alle
mie risoluzioni e non ci
riesco.
Confesso,
sto
affondando. Sono seduta qui
accantoaleiestoaffondando.
Vercueil si è appoggiato
allo sportello. Il cane ha
uggiolatodebolmente.Conle
zampe anteriori posate sul
sedile davanti, scrutava in
lontananza, impaziente di
riprendere la marcia. È
trascorsounminuto.
Poidallatascadellagiacca
ha tirato fuori una scatola di
fiammiferiemelihaofferti.–
Lofacciaora–hadetto.
–Farecosa?
–Lofaccia.
–Èquellochevuole?
– Lo faccia ora. Io uscirò
dall’auto. Lo faccia qui,
adesso.
Una goccia di saliva gli
danzava tra le labbra
nell’angolo della bocca. Che
s’incazzi pure, ho pensato.
Arriviamo pure a questa
conclusione, che è crudele,
che è matto, che è un
bastardo.
Ha agitato la scatola di
fiammiferi davanti a me: – È
lui che la preoccupa? – Ha
indicato l’uomo che vendeva
la legna. – Non darà alcun
fastidio.
–Nonqui–horisposto.
– Possiamo andare sul
promontorio di Chapman.
Può lanciarsi dalla scarpata,
sepreferisce.
Era
come
trovarsi
intrappolati in auto con un
uomochecercadisedurtiesi
adira se non cedi. Come
essere trascinati nel passato,
ai
giorni
peggiori
dell’adolescenza.
–Possiamotornareacasa?
–hodetto.
– Pensavo che volesse
farlo.
–Nonmicapisce.
– Pensavo che avesse
bisognodiunaspintagiúper
ladiscesa.Glieladoio.
Di fronte all’albergo di
Hout Bay ha fermato di
nuovo l’auto. – Mi dà un po’
disoldi?–hachiesto.
Glihodatounabanconota
dadiecirand.
Èentratonellarivenditadi
liquori e ne è riemerso con
una bottiglia avvolta in un
sacchetto di carta marrone. –
Beva un sorso – ha detto
mentrestappavalabottiglia.
–No,grazie.Nonmipiace
ilbrandy.
– Non è brandy. È
medicina.
Nehobevutounsorso,ho
cercatodideglutire,stavoper
soffocare e mi è venuto da
tossire, mi si è staccata la
dentiera.
– Deve tenerlo in bocca –
hadetto.
Nehopresounaltrosorso
tenendolo in bocca. Le
gengive e il palato si sono
come infiammati prima di
diventare insensibili. Allora
ho deglutito e ho chiuso gli
occhi. Qualcosa cominciava
ad impadronirsi di me: una
cortina, una nebbia. È cosí,
dunque, ho pensato? Tutto
qui? È cosí che Vercueil mi
indicailcammino?
Ha fatto nuovamente
inversione ed è tornato in
cima alla collina, dove ha
parcheggiato in una piazzola
perpicnic,nelpuntopiúalto
che domina la baia. Ha
bevuto e mi ha offerto la
bottiglia. Ho bevuto con
prudenza. Il velo di grigiore
che aveva coperto tutto si
andava
visibilmente
diradando. Dubbiosa, piena
di meraviglia, ho pensato: è
davvero cosí semplice, niente
affattounaquestionedivitao
dimorte?
–Lascicheledica,infine–
ho detto. – Quello che mi ha
scatenato non è la mia
condizione, la malattia, ma
qualcosadimoltodiverso.
Il cane si lamentava
dolcemente. Vercueil ha
allungato languidamente la
mano per carezzarlo; il cane
glihaleccatoledita.
– Hanno ucciso il ragazzo
diFlorencemartedí.
Hafattocennodisíconil
capo.
–Hovistoilcadavere–ho
continuato, bevendo un altro
sorso, pensando: diventerò
loquaceora?Diociscampi!E
se divento loquace lo diverrà
ancheVercueil?Luieio,sotto
l’influenza
dell’alcol,
entrambi impegnati a parlare
a ruota libera in una piccola
automobile?
– Sono sconvolta – ho
detto. – Non posso dire a
luttoperchéiononhodiritto
di usare quella parola, essa
appartiene alla sua gente. E
tuttavia sono, come dire?,
turbata. È qualcosa che ha a
che fare con la fisicità della
sua morte, il peso di quella
morte. È come se nel morire
fosse diventato pesantissimo,
come il piombo o come la
fanghiglia densa e melmosa
che si trova ai piedi delle
dighe. Come se nell’atto di
morire avesse esalato un
ultimo sospiro e tutta la
leggerezza
lo
avesse
abbandonato.Oraluigiacesu
di me con tutto quel peso.
Nonèschiacciante,maèlí.
– Come quando quel suo
amico giaceva sanguinante
sulla strada. La stessa
pesantezza. Sangue pesante.
Cercavo di fermarlo, di
impedire che si disperdesse
lungo il marciapiede. Quanto
sangue! Se lo avessi raccolto
tutto in un secchio non sarei
stata in grado di sollevarlo.
Come voler sollevare un
secchiodipiombo.
– Non ho veduto morire
deineriprimad’ora,Vercueil.
Ne
muoiono
in
continuazione, lo so, ma
sempredaqualchealtraparte.
Quelli che ho visto morire
eranobianchiemorivanonei
loroletti,rinsecchitieleggeri,
incartapecoriti,
quasi
inconsistenti.Bruciavanocon
facilità,nesonosicura,diloro
nonèrimastoallafinecheun
mucchietto di cenere da
raccogliere. Vuole sapere
perché mi sono riproposta di
darmi fuoco? Perché ho
pensatochesareibruciatacon
facilità.
– Invece loro non
bruciano,Bhekieglialtriche
sono morti. Sarebbe come
cercare di bruciare delle
sagomedighisaodipiombo.
Potrebbero al piú perdere la
nettezza del contorno, ma
quandolefiammearrivassero
ad esaurirsi li troveresti
ancora là, pesanti come
sempre. Se li lasciassi là
potrebbero
sprofondare,
millimetro dopo millimetro,
finchélaterranonsirichiude
su di loro. Ma poi
smetterebbero
di
sprofondare. Si fermerebbero
a un certo punto, premendo
contro la superficie. Se solo
provasse a smuovere la terra
con la scarpa li vedrebbe: i
volti, gli occhi morti, aperti,
colmidisabbia.
–Beva–hadettoVercueil,
porgendomi la bottiglia. Il
suo volto stava cambiando
espressione,
le
labbra
sporgenti, gonfie, umide, lo
sguardo offuscato. Come la
donna che aveva portato a
casa. Ho preso la bottiglia e
l’hopulitasullamanica.
– Lei capisce, non è solo
una questione personale,
questo disagio di cui parlo –
hoproseguito.–Nonsitratta
affatto di qualcosa di
personale. Io volevo bene a
Bheki, certo, quando era
ancora un bambino, ma non
mi piaceva ciò che era
diventato. Avevo sperato in
qualcosa di meglio. Lui e i
suoi amici dicono di essersi
lasciati l’infanzia alle spalle.
Ebbene, hanno smesso di
esserebambini,macosasono
diventati? Piccoli puritani
austeri, che hanno in spregio
il sorriso, che disdegnano il
gioco.
– E allora perché dovrei
piangerlo? La risposta è che
ho veduto il suo volto.
Quando è morto è tornato
bambino. La maschera è
caduta e ha lasciato il posto
alla piú sincera sorpresa
infantile quando la morte gli
si è abbattuta addosso;
nell’ultimoistantequandoha
capitocheillanciodipietree
gli spari non sarebbero piú
stati un gioco; che il gigante
che avanzava su di lui con
unamanocolmadisabbiaper
tappargli la bocca non
sarebbe piú arretrato dinanzi
aicantieaglislogan;chealla
finedellungotunneldovesiè
sentito
soffocare
e
ammutolire senza poter piú
respirarenonc’eraluce.
–Oraquelbambinoèstato
sepoltoenoiglicamminiamo
sopra. Me lo lasci dire,
quando cammino su questa
terra, questo Sudafrica, mi
crescedentrolasensazionedi
camminare sulle facce dei
neri. Loro sono morti ma la
loro anima non li ha lasciati.
Giaccionolà,pesantietenaci,
in attesa che il mio piede
muovailprossimopasso,che
menevada,inattesadiessere
richiamati in vita. Milioni di
sagome di ghisa che
galleggianosottolapelledella
terra. L’età del ferro che
attendedifareritorno.
– Lei pensa che ora sono
indignata ma che poi andrò
avanti. Lacrime facili, pensa,
lacrime sentimentali, versate
oggi, scordate domani.
Ebbene, è vero, mi sono
indignata
in
passato,
immaginavochenonavrebbe
potuto verificarsi di peggio,
ma poi il peggio è arrivato,
puntualmente, e io sono
andata avanti, almeno in
apparenza. Ecco il problema!
Per non restare paralizzata
dalla vergogna ho passato la
vita ad andare avanti,
sopportando il peggio. Quel
chenonpossopiúsopportare
ora è proprio quell’andare
avanti. Se vado avanti anche
questavoltanonavròmaipiú
un’altra occasione per non
farlo. Se voglio guadagnarmi
la resurrezione questa volta
nonpossoandareavanti.
Vercueil mi porgeva la
bottiglia. Se n’era andata una
buona metà. Ho spinto via la
sua mano. – Non voglio piú
bere–hodetto.
– Beva, – ha detto – si
ubriachiperunavolta.
–No!–hoesclamato.Ero
alticcia e la rabbia mi ha
infiammato contro la sua
insensibilità,
la
sua
indifferenza.Checifacevolí?
In questa vecchia auto noi
due dovevamo avere l’aria
degli ultimi due profughi
venuti dalla zona delle
platteland all’epoca della
grande depressione. Ci
mancavanosolounmaterasso
difibradicoccoeunagabbia
peripollilegatasultetto.Gli
ho strappato la bottiglia di
mano; ma mentre abbassavo
il finestrino per buttarla via,
sel’èripresa.
–Escadallamiaauto!–ho
dettoseccamente.
Ha tolto la chiave dal
cruscottoedèsceso.Ilcanelo
ha seguito di slancio. Sotto i
mieiocchihagettatolachiave
tra i cespugli, si è voltato e,
bottiglia nella mano, si è
avviato speditamente giú per
lacollina,versoHoutBay.
Piena di rabbia ho
aspettato, ma non è tornato
indietro.
Minuti sono trascorsi.
Un’autohalasciatolastradae
sièfermataaccantoame.Ne
sprigionava una musica, ad
alto volume e metallica. In
quella congerie di suoni una
coppia sedeva a contemplare
il mare. Il Sudafrica, nei
momentidisvago.Sonoscesa
e ho bussato al finestrino.
L’uomo mi ha rivolto uno
sguardo
inespressivo,
masticando. – Potreste
abbassare il volume? – ho
chiesto. Ha maneggiato
qualcosa, o ha fatto finta di
farlo, ma il volume è rimasto
invariato. Ho bussato di
nuovo. Ha detto qualcosa
attraversoilvetro,poiinuna
nuvola di polvere ha fatto
inversione ed è andato a
parcheggiare dall’altro lato
dellapiazzola.
Ho cercato tra i cespugli
doveVercueilavevagettatola
chiave,mainvano.
Quando
l’auto
è
finalmenteripartita,ladonna
sièvoltataaguardarmi.Ilsuo
visoquasiattraenteetuttavia
brutto: chiuso, contratto,
come per timore che la luce,
l’aria, la vita, potessero
raccogliere le loro forze per
colpirla. Non un volto ma
un’espressione, e tuttavia
un’espressione portata cosí a
lungodaesseresua,daessere
lei. Un ispessimento della
membrana che separa il
mondo dal sé interiore, un
ispessimento
divenuto
coriaceo. Evoluzione, ma
evoluzione a ritroso. I pesci
delle profondità primordiali
(sono certa che lo sai anche
tu)
hanno
sviluppato
membrane sensibili alla
variazione
della
luce,
membrane che con il tempo
sono divenute occhi. Ora, in
Sudafrica, io vedo occhi che
tendono a chiudersi, squame
che tendono a ricoprirli,
mentre gli esploratori, i
colonizzatori, si preparano a
ritornarenegliabissi.
Sarei
dovuta
venire
quando mi hai invitata? Nei
momenti di debolezza ho
spessodesideratodiaffidarmi
alla tua pietà. Che fortuna,
per il bene di entrambe, che
me ne sia astenuta! Non hai
alcun bisogno di un albatros
venuto dal passato a pesarti
sul collo; e per quanto
riguarda me, sarei davvero
riuscitaasfuggireilSudafrica
correndo da te? Come faccio
asaperechelesquamenonsi
stianogiàinfittendoanchesui
miei occhi? Quella donna
nell’auto; forse, mentre si
allontanavano, stava dicendo
al suo compagno: – Che
vecchiaccia inacidita! Che
facciacontratta!
E poi, quale merito
potrebbe esserci nel defilarsi
ora,inquestotempo,quando
lanavecrivellatadaivermista
inevitabilmente affondando,
in compagnia di giocatori di
tennis e loschi sensali e
generaliconletaschepienedi
diamanti che vanno a
rifugiarsinellelorotenutenei
piú tranquilli angoli del
mondo? Il generale G., il
ministro M., nei loro
possedimenti in Paraguay,
chearrostisconobistecchesul
carbone sotto i cieli del sud,
che bevono birra con i loro
pari e cantano le canzoni del
paese, in attesa di passare a
miglior vita nel sonno, in
tardaetà,nipotiepeonescon
il cappello in mano ai piedi
del letto. Gli Afrikaner del
Paraguay
insieme
agli
Afrikaner della Patagonia
nella loro triste diaspora:
uomini robusti dal ventre
dilatato e mogli grasse e
collezioni di armi appese alle
pareti della sala da pranzo e
ricchezzecustoditeincassette
di sicurezza a Rosario, che si
scambiano visite la domenica
pomeriggio con i figli e le
figliediEichmannediBarbie;
spacconi,
criminali,
torturatori,assassini:chebella
compagnia!
E poi sono troppo stanca.
Stancaoltremisura,stancadi
corazzarmi contro i tempi,
desiderosa di chiudere gli
occhi, di dormire. Cos’è la
morte, dopo tutto, se non
un’ascesa verso i recessi di
unastanchezzaestrema?
Ricordo la tua ultima
telefonata.–Cometisenti?–
mi hai chiesto. – Mi sento
stanca, ma sto bene – ho
risposto. – Me la prendo con
calma. Florence è piena di
energia, come sempre, e c’è
un uomo ad occuparsi del
giardino. – Sono contenta –
hai risposto con quel tuo
brusco accento americano. –
Devi riposarti e cercare di
rimettertiinforze.
Madre e figlia al telefono.
Mezzogiorno là, sera qui.
Estate là, inverno qui. E
tuttavia si sente cosí bene
come se stessi telefonando
dallaportaaccanto.Leparole
frantumate, scagliate al cielo,
restituite nuovamente alla
loro interezza, perfette. Non
piú il vecchio sistema di cavi
sottomarinialegartiamema
un’efficiente
connessione
aerea, invisibile: l’idea di te
collegata all’idea di me; non
parole, non alito vitale che
passa tra noi, ma l’idea delle
parole, l’idea di quell’alito,
codificato,
trasmesso,
decodificato. Alla fine hai
detto:–Buonanotte,mamma
–eio:–Ciao,cara,grazieper
aver chiamato – e ho
consentito alla voce di fare
una pausa sulla parola cara
(quanta
autocommiserazione!) con
tutto il peso del mio amore,
con la preghiera che il
fantasma di quell’amore
sopravviva
alle
fredde
traiettorie siderali e giunga
finoate.
Altelefono,amoremanon
verità. In questa lettera che
viene da lontano (una lunga
lettera!) verità e amore,
finalmenteinsieme.Inognitu
che io scrivo l’amore guizza
tremulo come fuochi di
Sant’Elmo;tuseiconmenon
cometuseioggi,inAmerica,
noncomeeriquandotenesei
andata, ma in un modo piú
profondo, in una forma
immutabile: come coloro che
si amano, come coloro che
non muoiono. È alla tua
anima che mi rivolgo, poiché
è la mia anima che rimarrà
con te quando la lettera sarà
conclusa. Come una falena
che emerge dal bozzolo,
sbattendo le ali: ecco quello
che spero tu intraveda
leggendo;lamiaanimachesi
prepara per altri voli. Una
falenabianca,unospiritoche
si libera dalla bocca della
figura sul letto di morte.
Questa lotta con la malattia,
losqualloreel’odiocheprovo
permestessainquestigiorni,
l’insicurezza, e questo vagare
poi (c’è poco da aggiungere
sull’episodio di Hout Bay:
Vercueil è tornato ubriaco e
dicattivoumore,haritrovato
la chiave, e mi ha riportato a
casa, ecco tutto; forse, se si
potesse sapere la verità, è
stato il cane a riportarlo
indietro), fa tutto parte della
metamorfosi, fa parte del
tentativo di liberarmi delle
miespogliemortali.
E dopo, e dopo la morte?
Non temere, non ti
perseguiterò. Non ci sarà
bisognodichiuderelefinestre
e sigillare il camino per
impedireallabiancafalenadi
volarci dentro durante la
notte per posarsi sulle tue
sopracciglia o sulle ciglia di
uno dei bambini. La falena
sarà semplicemente lí a
sfiorarti appena la guancia
con leggerezza quando
poserai l’ultima pagina di
questa lettera, prima di
volarsene via per il prossimo
viaggio. Non sarà la mia
anima a rimanere con te ma
lospiritodellamiaanima,un
alito, un agitarsi dell’aria
intornoaquesteparole,lapiú
lieve delle correnti d’aria
prodotta
dall’invisibile
passaggio della mia penna
sulla pagina che tieni in
mano.
Lasciarmi andare, lasciarti
andare, lasciar andare una
casa ancora echeggiante di
ricordi: un compito difficile,
ma sto imparando. Anche la
musica. Ma la musica la
porterò con me, almeno
quella, poiché è avviluppata
nellamiaanima.Leariedella
Passione
di
Matteo,
avviluppate e annodate con
mille nodi, cosí che nessuno,
nientepotràscioglierli.
Se Vercueil non spedirà
queste carte, tu non le
leggerai mai. Non saprai mai
neppure della loro esistenza.
Una certa porzione di verità
nonverràmaiagalla.Lamia
verità: come ho vissuto in
questo tempo, in questo
luogo.
Qualèalloralascommessa
che ho fatto con Vercueil, su
Vercueil?
È una scommessa sulla
fiducia. Una richiesta da
poco, portare un pacco
all’ufficio
postale
e
consegnarlo
all’impiegato.
Cosí poco, un nulla. La
differenza che passa tra
consegnare il pacco e non
farlohalaconsistenzadiuna
piuma. Se sarà rimasto il piú
piccolo segno di fiducia, di
riconoscenza o di pietà
quando me ne sarò andata,
alloraloporteràdicerto.
Esenonlofacesse?
Se non lo farà, vuol dire
che non c’è fiducia e non
meritiamo altro, tutti quanti,
chesprofondareinunbucoe
svanire.
È perché non posso
fidarmi di Vercueil che devo
fidarmidilui.
Sto cercando di tenere in
vita un’anima in un tempo
cheall’animaèostile.
È facile fare la carità agli
orfani, ai diseredati, agli
affamati. Piú difficile è dare
aiuto a chi ha il cuore
amareggiato (sto pensando a
Florence).Mal’aiutochedoa
Vercueil è il piú sofferto. Lui
non mi perdona di avergli
datociòcheglidono.Nonv’è
caritàinlui,nonv’èperdono.
(Carità?
dice
Vercueil.
Perdono?) Privata del suo
perdonoiodonosenzacarità,
rendo un servizio senza
amore. Pioggia che cade sul
deserto.
Se fossi stata piú giovane
avrei potuto offrirgli il mio
corpo. È una di quelle cose
che si fanno, si facevano,
sebbene sbagliate. Invece ora
metto la mia vita nelle sue
mani. Questa è la mia vita,
queste parole, queste tracce
dei movimenti delle dita
deformate sulla pagina.
Queste parole, mentre le
leggi,seleleggi,penetranoin
te e tornano a respirare. Esse
sono,sevuoi,ilmiomododi
sopravvivere.Untempotusei
vissuta in me cosí come un
tempo io sono vissuta in mia
madre; come lei vive ancora
in me, mentre io torno a lei,
possaiovivereinte.
Affido la mia vita a
Vercueil perché la porti
avanti.HofiduciainVercueil
perché non ho fiducia in lui.
Lo amo perché non lo amo.
Poichéluièlacannadeboleio
miappoggioalui.
Può sembrare che io
comprenda ciò che dico, ma,
credimi, non è cosí. Sin dal
primomomento,quandol’ho
trovato dietro al garage nel
suo rifugio di cartone,
addormentato, in attesa, non
ho capito niente. Seguo a
tentoni la mia via lungo un
passaggiochediventasempre
piú buio. Cerco la via per
arrivare a te; con ogni parola
cercolavia.
Giorni fa ho preso un
raffreddore che ora mi si è
stabilito
nel
petto
trasformandosi in tosse secca
e martellante, che ad ogni
attaccovaavantiperminutie
mi lascia stremata e
ansimante.
Finché il fardello è un
fardello di dolore soltanto, lo
sopporto e cerco di tenerlo
lontano. Non sono io a
soffrire,miripeto:asoffrireè
qualcun altro, il corpo di
qualcuno che divide il letto
con me. Cosí, con un trucco,
lo tengo a distanza, lo
mantengo altrove. E quando
il trucco non funziona,
quando il dolore insiste nel
sopraffarmi, lo sopporto
ugualmente.
(Ma quando le onde si
faranno piú impetuose, senza
dubbio i miei trucchi
verrannospazzativiacomele
dighedelloZeeland).
Ma adesso, durante gli
spasmidellatosse,nonriesco
amantenereledistanzedame
stessa.Nonc’èmente,nonc’è
corpo, ci sono solo io, una
creatura sballottata qua e là,
che lotta per conquistarsi
l’aria,cheaffonda.Ilterroree
l’ignominia del terrore!
Un’altra valle da traversare
sulla via che conduce alla
morte. Possibile che tutto
questo stia accadendo a me?
Durante l’accesso di tosse
penso: Ma è giusto?
L’ignominia dell’ingenuità.
Perfino un cane con la
schiena rotta che esala
l’ultimo respiro sul margine
di
una
strada,
non
penserebbe:Maègiusto?
Vivere, ha detto Marco
Aurelio, richiede le doti dei
lottatori, non l’arte dei
danzatori. Stare in piedi è
tutto, non occorre saper fare
passettieleganti.
Ieri,poichélacredenzaera
vuota, sono andata a fare la
spesa.Mentremitrascinavoa
casaconleborse,hoavutoun
brutto attacco. Tre ragazzini
cheandavanoascuolasisono
fermati a guardare la vecchia
appoggiata al lampione con
tutta la roba sparpagliata ai
piedi. Mentre tossivo cercavo
di scacciarli con la mano.
Come dovevo apparire non
osoimmaginarlo.Unadonna
al volante di un’auto ha
rallentato. – Si sente bene? –
ha urlato. – Sono andata a
farelaspesa–hoansimato.–
Come? – ha ribattuto,
corrugando la fronte nello
sforzo di sentire. – Niente! –
ho mormorato. Allora ha
proseguito.
Come diventiamo brutti,
per l’incapacità di amare noi
stessi!Persinolereginettedei
concorsi di bellezza hanno
l’aria arcigna. Essere brutti:
checos’èsenonl’animachesi
manifestaattraversolacarne?
Poi, la scorsa notte è
accaduto il peggio. Nella
confusione del mio sonno
narcotizzato e monotono si è
insinuato l’abbaiare di un
cane.
Continuava
e
continuava,
insistente,
inesorabile,
meccanico.
Perché Vercueil non faceva
qualcosaperfarlosmettere?
Non me la sentivo di
affrontarelescale.Investaglia
e pantofole sono uscita sul
balcone. Faceva freddo,
cadevaunapioggerellasottile.
– Vercueil! – ho gridato con
voce roca. – Che cos’ha il
cane da abbaiare cosí?
Vercueil!
Il cane ha smesso per un
attimo, poi ha ricominciato.
Vercueilnonc’era.
Misonorimessaalettoma
non riuscivo a dormire, il
cane che abbaiava era come
unmartellonelleorecchie.
Ecco come succede che le
vecchiecadonoesirompono
ilfemore,misonodetta:ecco
comevienemessalatrappola,
ecco come ci si lascia
intrappolare.
Tenendomi al corrimano
con entrambe le mani sono
arrivatagiú.
C’eraqualcunoincucinae
non era Vercueil. Chiunque
fosse non ha cercato di
nascondersi. Mio Dio, ho
pensato: Bheki! Mi sono
sentitagelare.
Nella sinistra luce che
proveniva dal frigorifero
aperto mi ha affrontato, una
fascia bianca sulla fronte
nascondeva la ferita del
proiettile.
– Cosa cerchi? – ho
sussurrato.–Vuoimangiare?
Ha risposto: – Dov’è
Bheki?
La voce era piú profonda,
piú velata di quella di Bheki.
Chi poteva essere allora?
Sbalordita, ho cercato di
ricordareunnome.
Ha chiuso la porta del
frigorifero. Adesso eravamo
avvolti
dall’oscurità.
–
Vercueil! – ho chiamato con
voce gracchiante. Il cane
abbaiava senza sosta. –
Accorreranno i vicini – ho
bisbigliato.
Quando mi è passato
accanto la sua spalla ha
sfiorato la mia. Ritraendomi
ho sentito il suo odore e ho
capitochiera.
Ha raggiunto la porta. Il
cane ha abbaiato con piú
veemenza.
–Florencenonèpiúqui–
ho detto. Ho acceso la luce.
Gli abiti che indossava non
erano i suoi. O forse è una
moda. La giacca sembrava
appartenere a un uomo
robusto e i pantaloni erano
troppo lunghi. Una manica
dellagiaccaeravuota.
–Comevailbraccio?–ho
chiesto.
–Nondevomuoverlo–ha
risposto.
–Vieniviadallaporta–ho
detto.
Ho aperto uno spiraglio e
ilcaneèentratosaltellanteed
eccitato. L’ho accarezzato sul
naso. – Smettila subito! – gli
ho ordinato. Ha guaito
debolmente. – Dov’è il tuo
padrone? – Ha abbassato le
orecchie. Ho richiuso la
porta.
– Che cerchi qui? – ho
chiestoalragazzo.
–Dov’èBheki?
– Bheki è morto. È stato
ucciso la scorsa settimana
mentretueriinospedale.Gli
hanno sparato. È morto sul
colpo. Il giorno dopo
l’incidenteconlabici.
Si è passato la lingua sulle
labbra. C’era come un senso
di disfatta, di smarrimento
nelsuoaspetto.
–Vuoimangiarequalcosa?
Ha scrollato la testa. –
Soldi. Non ho soldi – ha
detto.–Perl’autobus.
– Ti darò io i soldi. Ma
dovevuoiandare?
–Devoandareacasa.
– Non farlo, ti avverto. So
quello che dico, ho visto
quello che sta succedendo
nella zona dei Flats. Stanne
alla larga finché tutto non
tornaallanormalità.
– Non tornerà mai la
normalità.
– Per favore! Conosco la
storia,nonhonéiltemponé
l’interesse di riprendere il
discorso.Rimaniquifinchéle
cose non si sistemeranno.
Rimani finché non starai
meglio. Perché hai lasciato
l’ospedale?Seistatodimesso?
–Sí.Sonostatodimesso.
–Dichisonoqueivestiti?
–Sonomiei.
– Non sono tuoi. Dove li
haipresi?
– Sono miei. Me li ha
portatiunamico.
Stava mentendo. Non
mentivamegliodiqualunque
altroquindicenne.
– Siediti. Ti preparo
qualcosa da mangiare, poi
potrai dormire un po’.
Aspetta fino a domani
mattina per prendere una
decisionesucosafare.
Ho preparato il tè. Si è
seduto senza prestare ascolto
alle mie parole. Non era per
niente imbarazzato dal fatto
che non credessi alla sua
storia.Ciòcheiocredevonon
aveva alcuna importanza.
Cosa pensava di me? Mi
prendeva
almeno
in
considerazione?Eraunessere
pensante? No: paragonato a
Bheki lui era incapace di
pensare,diarticolarediscorsi,
privo di immaginazione. Ma
luieravivoeBhekieramorto.
I piú vivaci se ne vanno, gli
stupidi sopravvivono. Bheki
era troppo sveglio per
sopravvivere. Non ho mai
avuto paura di Bheki; di
questo, invece, non so cosa
pensare.
Gli ho messo davanti una
tazza di tè e un panino. –
Mangia,bevi–hodetto.Non
si è mosso. Con la testa sul
braccio, gli occhi rovesciati
all’indietro,
dormiva
profondamente. L’ho toccato
sullaguancia.–Svegliati!–ho
detto. Si è svegliato con un
sobbalzo, si è raddrizzato
sullasedia,hadatounmorso
al
panino
masticando
rapidamente. Poi ha preso a
masticare con piú lentezza.
Conlaboccapiena,èrimasto
seduto, intontito per la
stanchezza. Gli ho tolto il
panino di mano, pensando:
Quando hanno dei problemi
cercanounadonna.Èvenuto
daFlorence,solocheFlorence
nonc’è.Nonhaunamadre?
Nella stanza di Florence si
è riavuto per un momento. –
Labicicletta–hafarfugliato.
–Èalsicuro,l’hopresaio.
Ha soltanto bisogno di
riparazioni. Chiederò a
Vercueildidarleun’occhiata.
Cosí questa casa che un
tempoèstatalamiadimorae
latuaadessoèunrifugio,un
luogoditransito.
Bambina mia, mi sento
circondata da una nebbia di
errori.Ètardienonsocome
mettermi in salvo. Finché mi
è dato confessare, è a te che
affido le mie confessioni.
Qual è l’errore, mi chiedi? Se
potessi metterlo in una
bottiglia, come un ragno, e
mandartelo
per
farlo
esaminare, lo farei. Ma è
comeunanebbia,dovunquee
in nessun luogo. Non posso
toccarlo, afferrarlo, dargli un
nome. Lentamente, con
riluttanza, tuttavia, lasciami
pronunciare la prima parola.
Iononamoquestoragazzo,il
ragazzochedormenellettodi
Florence. Amo te, ma non
amo lui. Non soffro per lui,
neancheunpo’.
Sí, mi dirai, non si fa
amare. Ma non dipende
anche da te se si rende
odioso?
Non lo nego. Ma, allo
stessotempo,noncicredo.Il
mio cuore non lo considera
mio: ecco tutto. In cuor mio
vorreicheseneandasseemi
lasciasseinpace.
Questa è la mia prima
parola, la mia prima
confessione. Non voglio
morire nello stato in cui mi
trovo, in uno stato di
abbrutimento. Voglio essere
salvata. Ma come posso
trovare la salvezza? Facendo
quello che non voglio fare.
Questoèilprimopasso:loso.
Devo amare prima di tutto
coloro che mi ripugnano.
Devo amare, per esempio,
questoragazzo.Nonilpiccolo
evivaceBheki,malui.Seluiè
qui c’è una ragione. Prende
parte alla mia salvezza. Devo
amarlo. Ma non lo amo. E
neppure voglio amarlo
abbastanza da amarlo a
dispettodimestessa.
Poiché con tutte le mie
forze non voglio essere
diversa da come sono,
cammino ancora in questa
fittanebbia.
Non c’è posto nel mio
cuore per questo amore, per
voler amare, per voler volere
amare.
Sto morendo perché in
cuor mio non voglio vivere.
Sto morendo perché voglio
morire.
Perciò
lasciami
pronunciare la seconda,
dubbiosa parola. Se non
voglio amare lui, come posso
essere certa di amare te?
Perchél’amorenonècomela
fame. L’amore non è mai
sazio,maiplacato.Quandosi
ama, si ama sempre di piú.
Piúamote,piúdovreiamare
lui. Meno amo lui, e meno,
forse,amote.
Unalogicacruciforme,che
mi porta dove non voglio
andare! Ma mi lascerei
inchiodare su quella croce se
nonlovolessidavvero?
Quando ho cominciato
questa lunga lettera, ho
pensato che la sua forza
d’attrazionesarebbestatapari
aquelladellemaree,chesotto
leondechenesconvolgonola
superficie si nascondesse una
forzamagneticapotentecome
quella della luna che ti
conducesse a me e mi
conducesse a te: il legame di
sanguechelegamadreefiglia,
donna a donna. Ma ad ogni
giornocheaggiungo,lalettera
sembra sempre piú astratta,
avulsa dalla realtà, il tipo di
lettera che si scrive dalle
stelle, dal lontano spazio
inabitato,
disincarnata,
cristallina, esangue. È questo
ildestinodelmioamore?
Ricordodicomeilragazzo
sanguinasse
abbondantemente,
selvaggiamente, quando è
stato ferito. Com’è esiguo, in
confronto, il mio sanguinare
qui sulla pagina. Quello che
ancora esce da un cuore
prosciugato.
Hogiàparlatodisanguein
precedenza, lo so. Ho già
scrittotutto,misonoesaurita
nella scrittura, mi sono
dissanguata,eppurecontinuo.
Questa lettera è diventata un
labirinto, e io un cane nel
labirinto, che corre avanti e
indietro per passaggi e
cunicoli, che scava e guaisce
sempre negli stessi posti;
snervante, snervato. Perché
non chiedo aiuto, non mi
rivolgo a Dio? Perché Dio
nonpuòaiutarmi.Diomista
cercando ma non riesce a
trovarmi.Dioèunaltrocane
in un altro labirinto. Io fiuto
DioeDiofiutame.Iosonola
cagna in calore, Dio il
maschio. Mi fiuta, è
ossessionato dall’idea di
trovarmi
e
prendermi.
Percorre i passaggi in su e in
giú, si slancia contro il
reticolato. Ma Lui è perduto
comeiosonoperduta.
Sogno, ma dubito che sia
Dio a popolare i miei sogni.
Quando mi addormento
comincia un incessante
andirivieni di figure dietro le
palpebre, ombre senza corpo
né forma, celate da una
foschia,grigiobrune,sulfuree.
Borodino è la parola che mi
sovviene nel sonno: un caldo
pomeriggio d’estate nelle
pianure della Russia, fumo
ovunque, l’erba secca e in
fiamme, due schiere disperse
che avanzano, tormentate
dalla sete, terrorizzate dal
pericolo cui si espongono.
Centinaia di migliaia di
uomini, senza volto, senza
voce,prosciugati,intrappolati
nel campo della carneficina,
chenottedoponotteripetono
quella loro marcia avanti e
indietro su quella terra
bruciatanelfetoredelsangue
e dello zolfo: un inferno nel
quale precipito non appena
chiudogliocchi.
Sonopiúcheconvintache
sia effetto della pillola rossa,
Diconal, ecco che cosa
risvegliaquestelegionidentro
di me. Ma senza le pillole
rossenondormirei.
Borodino, Diconal: fisso
queste parole. Si tratta di
anagrammi? Sembrerebbero
anagrammi. Ma di cosa, e in
qualelingua?
Quando mi sveglio dal
sogno di Borodino grido o
piangootossiscoconlamenti
che vengono dalle profondità
delmiopetto.Poimicalmoe
resto distesa a guardarmi
intorno.Lamiastanza,lamia
casa,lamiavita:l’immagineè
troppo fedele per trattarsi di
un’imitazione. È la realtà.
Sono di nuovo qui: è sempre
qui che faccio ritorno ogni
volta, vomitata dal ventre
della balena. Ogni volta un
miracolo, non apprezzato,
non
celebrato,
non
desiderato. Mattino dopo
mattino vengo rigettata,
lasciata su di una spiaggia,
conun’altrapossibilità.Eche
cosa me ne faccio? Rimango
distesa senza muovermi nella
sabbia e aspetto che torni la
notteconl’altamarea,chemi
circondi,chemitrascininelle
viscere dell’oscurità. Non del
tutto venuta alla luce: una
creaturaliminale,incapacedi
respirare sott’acqua, a cui
viene meno il coraggio di
lasciarsiilmareallespalleper
diventare un’abitante della
terra.
All’aeroporto,ilgiornoche
te ne sei andata, mi hai
afferrato con vigore e mi hai
fissato negli occhi. – Non
chiedermiditornare,mamma
– hai detto – perché non
verrò –. E cosí ti sei scrollata
vialapolverediquestopaese
dalle scarpe. Hai fatto bene.
Tuttavia, c’è una parte di me
sempre all’erta, sempre
voltata verso nord-ovest, che
desidera
accoglierti,
abbracciarti, se tu cambiassi
idea e in qualche modo
venissi a trovarmi. C’è
qualcosa di tremendo ma
anchediammirevoleinquella
tua caparbietà, nelle lettere
che scrivi, in cui, se posso
essere sincera, non v’è
abbastanza amore, o almeno
non
abbastanza
di
quell’amorosa cedevolezza
che dà vita all’amore.
Affezionata, dolce, persino
fiduciosa, piena di premure
per me, e non di meno sono
le lettere di qualcuno
divenuto
estraneo,
di
qualcunodivenutostraniero.
È forse un’accusa questa?
No, ma è un rimprovero, un
rimprovero che viene dal
cuore. E questa lunga lettera,
lo dico ora, è un richiamo
nella notte, verso nord-ovest,
perchétutornidame.Vienie
affondamilatestaingrembo,
come fanno i bambini, come
facevi tu, con il naso che
scavava come quello delle
talpe per tornare al luogo da
dove sei venuta. Vieni, dice
questa lettera: non recidere il
legamechetiunisceame.La
miaterzaparola.
Se tu ammettessi che è da
me che vieni, io non dovrei
dire di essere venuta dal
ventredellabalena.
Nonpossoviveresenzaun
figlio. Non posso morire
senzaunfiglio.
Quello che mi porto
dentro, della tua assenza, è il
dolore. Io genero dolore. Tu
seiilmiodolore.
È forse un’accusa questa?
Sí. J’accuse. Ti accuso di
avermi abbandonato. Lancio
a te quest’accusa, l’affido alle
faucidelventochespiraverso
nord-ovest. Ti scaglio contro
ilmiodolore.
Borodino: l’anagramma di
Torna qui in una lingua
qualsiasi.Diconal:chiamo.
Parole vomitate fuori dal
ventre della balena, informi,
misteriose.Figlia.
Inpienanottehochiamato
Lifeline. – Consegne a
domicilio? – ha chiesto la
donna. – Non credo che
nessunofacciapiúconsegnea
domicilio ad eccezione di
Stuttafords. Vuole provare
conMealsonWheels?
–Nonsitrattadicucinare
– ho spiegato. – Posso
cucinare io. Vorrei farmi
recapitare la spesa. Ho dei
problemi a trasportare cose
pesanti.
– Mi lasci il numero e la
farò richiamare da un
assistente sociale domani
mattina–hadetto.
Ho
riagganciato
il
ricevitore.
La fine arriva al galoppo.
Non avevo tenuto conto che
quandosicamminaindiscesa
si procede sempre piú veloci.
Pensavo che tutta la strada si
potesse fare al passo.
Sbagliato,tuttosbagliato.
C’è qualcosa di avvilente
nel modo in cui tutto finisce,
avvilentenonsoltantopernoi
ma per l’idea che abbiamo di
noi, dell’umanità. Gente che
giace in camere buie, nella
propriasporcizia,senzaaiuto.
Gente che dorme tra i
cespugli sotto la pioggia. Tu
non capirai comunque.
Vercueilcomprenderebbe.
Vercueil è scomparso di
nuovo,mahalasciatoilcane.
Peccato per Vercueil. Non
Ulisse, non Ermes, forse
neppureunmessaggero.Uno
che gira a vuoto. Uno
confuso,
nonostante
l’apparenzavissuta.
Eio?SeVercueilhafallito
la prova, qual era la mia?
Forse la prova consisteva nel
verificareseavessiilcoraggio
di darmi fuoco davanti alla
Casa della Menzogna? Ho
vissuto quel momento un
migliaio
di
volte
mentalmente, il momento in
cui accendo il fiammifero
mentre le orecchie sono
dolcemente frastornate e
siedo affascinata e persino
felice tra le fiamme, illesa,
mentreivestitisiconsumano
senza prender fuoco, le
fiamme di un freddo colore
bluastro. Com’è facile trovare
un senso alla vita, penso con
sorpresa, un pensiero rapido
nell’ultimo istante prima che
lecigliaprendanofuoco,epoi
le sopracciglia, prima che la
vista sia negata. Poi, dopo,
non c’è piú pensiero, solo
dolore(poichétuttohailsuo
prezzo).
Sarà piú acuto del mal di
denti il dolore? Piú del
travaglio del parto? Piú di
quest’anca? Piú del parto
elevato al quadrato? Quante
pillolediDiconalpersopirlo?
Farebbe parte del gioco
ingoiare tutte le pillole di
Diconal prima di lanciare
l’auto lungo Government
Avenue e oltre la catena? Si
deve
morire
restando
completamente
lucidi,
pienamentecoscienti?Sideve
partorire la propria morte
senzabeneficiodianestetici?
La verità è che c’era
sempre qualcosa di falso in
quell’impulso,
profondamente falso, non
importa a quale rabbia o
disperazione rispondesse. Se
morirealettodoposettimane
e mesi, in un purgatorio di
dolore e vergogna, non
serviràasalvarelamiaanima,
perché dovrei essere salvata
morendoindueminutiinun
rogo di fiamme? Avrà fine la
menzogna solo perché una
vecchia malata si toglie la
vita? Cambierà la vita a
qualcuno, e a chi? La mia
mentetornaaFlorence,come
sempre. Se Florence passasse
di là, con Hope al fianco e
Beauty
sulle
spalle,
rimarrebbe sconcertata dallo
spettacolo? Mi dedicherebbe
almeno uno sguardo? Un
giocoliere, un clown, un
imbonitore,
penserebbe
Florence: non certo una
persona
seria.
E
proseguirebbe.
Che cos’è agli occhi di
Florence una morte seria?
Cosa otterrebbe la sua
approvazione? La risposta:
una morte che corona una
vitadionoratolavoro;oppure
che venga da sé, inaspettata,
non annunciata, come uno
scoppio di tuono, come un
proiettiletragliocchi.
Florence è il giudice.
Dietrogliocchialiisuoiocchi
sono immobili, misurano
tutto. Un’immobilità che ha
già instillato nelle figlie. Il
tribunaleèilluogodeputatoa
Florence; sono io a essere
sotto processo. Se la vita che
vivovienegiudicata,èperché
perdieciannisonostatasotto
osservazione nel tribunale di
Florence.
–Hadeldisinfettante?
La sua voce mi ha fatto
trasalirementreerosedutain
cucina a scrivere. La sua, del
ragazzo.
–Va’disopra.Guardanel
bagno, la porta sulla destra.
Cerca nel mobiletto sotto al
lavandino.
È seguito un rumore di
coseversate,poièridisceso.Si
era tolto la benda, ho notato
consorpresacheavevaancora
ipunti.
– Non ti hanno tolto i
punti?
Hascrollatolatesta.
– Ma quando hai lasciato
l’ospedale?
–Ieri.L’altroieri.
Che bisogno c’è di
mentire?
–Perchénonseirimastolà
afarticurare?
Nessunarisposta.
– Devi tenere coperta la
ferita, altrimenti se fa
infezione ti lascerà una
cicatrice –. Con un marchio
comeunsegnodifrustasulla
fronte per tutta la vita. Un
memento.
Cos’è lui per me da
indurmi a rimproverarlo?
Eppure ho tenuto insieme la
sua carne lacerata, ho
tamponato il sangue che
usciva. Quanto a lungo
persiste
l’impulso
alla
maternità!Comeunachioccia
che perde i pulcini e accoglie
unanatroccolo,dimenticadel
giallo del piumaggio, del
beccoappiattito,egliinsegna
a sguazzare nella sabbia, a
becchettareivermi.
Ho tirato fuori la tovaglia
rossaehopresoatagliarla.–
Non ho bende in casa – ho
detto–maquestaèpulita,se
nontiimportachesiarossa–.
Gli ho avvolto quella striscia
intorno alla testa fermandola
dietro con un nodo. – Devi
consultare subito un dottore,
o andare in un ambulatorio
perfartitogliereipunti.Non
puoitenerli.
Il collo rigido come un
manicodiscopa.Intornoalui
un odore, l’odore che deve
aver scatenato il cane: paura,
nervosismo.
–Latestanonmifamale–
ha detto, schiarendosi la gola
–mailbraccio–hamossola
spalla con cautela – devo
tenerlofermo.
– Dimmi, stai scappando
daqualcuno?
Èrimastoinsilenzio.
–
Voglio
parlarti
seriamente – ho detto. – Sei
troppo giovane per questo
genere di cose. L’ho detto a
Bheki e te lo ripeto. Devi
ascoltarmi. Sono piú vecchia
dite,soquellochedico.Siete
ancora dei bambini. Buttate
vialevostreviteprimaancora
disaperecos’èlavita.Quanti
annihai,quindici?Aquindici
anni si è troppo giovani per
morire. Si è troppo giovani a
diciottoanni.Troppogiovani
aventuno.
Si è alzato strofinando la
bendarossaconlapuntadelle
dita. Un pegno. Ai tempi del
codicecavallerescogliuomini
lottavano fino all’ultimo
sangue con altri uomini e
portavano il pegno della loro
dama sventolante sull’elmo.
Fiato sprecato predicare la
prudenza a questo ragazzo.
L’istintoallabattaglia,troppo
forte in lui, lo trascina. La
guerra: il modo in cui la
natura liquida i deboli e
favoriscel’accoppiamentodei
forti. Ritorna coperto di
gloria e il tuo desiderio sarà
appagato. Sangue e gloria,
sesso e guerra. E io, una
vecchia,
una
vecchia
moribonda, che lega un
pegnoattornoallatestadiun
ragazzo!
– Dov’è Bheki? – ha
chiesto.
Ho scrutato il suo volto.
Non aveva capito quello che
gli avevo detto? Lo aveva
dimenticato?–Siediti–gliho
detto.
Sièseduto.
Mi sono sporta verso di
lui. – Bheki è sottoterra – ho
spiegato. – È in una cassa in
fondo a una fossa con un
mucchio di terra a ricoprirlo.
Non lascerà mai piú quella
fossa. Mai, mai, mai. Capisci:
questononèungiococomeil
calcio, che quando cadi, ti
rialzi e torni a giocare. Gli
uomini contro i quali giocate
nondicono:Quelloèsoloun
bambino, spariamo proiettili
per
bambini,
proiettili
giocattolo. Non ti vedono
affatto come un bambino. Ti
vedono come il nemico e ti
odiano tanto quanto tu odi
loro. Non avranno rimorsi se
ti sparano: al contrario,
sorrideranno
compiaciuti
quando cadrai e faranno
un’altra tacca sulla canna del
fucile.
Mi ha guardato come se,
colpo dopo colpo, lo stessi
schiaffeggiando.
Ma
la
mascella era immobile, le
labbra serrate, non sí è
concesso un brivido. Dinanzi
agliocchilasolitapellicoladi
nebbia.
– Tu pensi che non
obbediranno agli ordini – ho
detto.–Tisbagli.Sonomolto
disciplinati. Ciò che li
trattienedallosterminaretutti
i bambini maschi, tutti voi
fino all’ultimo, non è
compassione né umanità. È
disciplina, nient’altro: ordini
superiori,
che
possono
cambiare ogni giorno. La
compassione è volata dalla
finestra. Questa è guerra.
Ascolta quello che ti dico! So
quellochedico.Tupensiche
io cerchi di dissuaderti dal
lottare. Ebbene, è vero. È
quello che sto facendo. Ti
dico: Aspetta, sei troppo
giovane.
Si
è
dimenato
nervosamente.
Discorsi,
discorsi! I discorsi avevano
pesato sulla generazione dei
suoi
nonni
e
sulla
generazionedeisuoigenitori.
Bugie, promesse, lusinghe,
minacce: hanno camminato
curvisottoilpesodituttiquei
discorsi. Lui no. Lui li ha
rifiutati i discorsi. A morte i
discorsi!
– Dici che è tempo di
combattere – ho aggiunto. –
Dicicheètempodivincereo
perdere. Lascia che ti dica
qualcosa su quel vincere o
perdere.
Lasciami
dire
qualcosa su quella o.
Ascoltami.
– Sai che sono malata. Sai
checos’ho?Houncancro.Ho
un cancro per tutta la
vergogna che ho sopportato
in vita mia. Ecco come si
prende il cancro: per l’odio
contro se stessi il corpo
s’incattivisce e comincia a
rodersi.
– Tu dirai: A che serve
consumarsi nella vergogna e
nell’odio verso se stessi? Non
ho voglia di sentire questa
storia su come si sente lei, è
solo un’altra storia, perché
nonfaqualcosa?Equandolo
dirai, io dirò: Sí. Dirò: Sí.
Dirò:Sí.
– Non posso rispondere
nient’altro che Sí, quando mi
fai quella domanda. Ma
lasciati dire come ci si sente
nel pronunciare quel Sí. È
come essere sotto processo
pertuttalavitaedaverequali
risposte consentite due sole
parole: Sí e No. Ogni volta
cheprendifiatoperparlare,il
giudice ti ammonisce: Sí o
No; niente discorsi. Sí,
rispondi.Eppuretuttelevolte
senti altre parole agitartisi
dentro,comequandounavita
ti si agita in grembo. Non
come un bimbo che scalci,
non ancora, ma come accade
proprio all’inizio, come
l’agitarsi nel profondo di una
certezza che la donna ha
quandoègravida.
– Non c’è solo morte
dentro di me. C’è anche vita.
La morte è forte, la vita è
debole. Ma ho un dovere
verso la vita. Devo tenerla in
vita.Devo.
– Tu non credi nelle
parole. Tu credi che siano
realisoltantoipugni,ipugni
e i proiettili. Ma ascoltami:
non senti che le parole che
pronuncio
sono
reali?
Ascolta!
Sembrano
inconsistenti come l’aria, ma
vengono dal mio cuore, dal
miogrembo.NonsonodeiSí,
nonsonodeiNo.Ciòchevive
dentro di me è qualcosa
d’altro, un’altra parola. E io
lotto per quella parola, a
modomio,lottoaffinchénon
venga soffocata. Sono come
quellemadricinesichesanno
che se la creatura che
aspettano è femmina sarà
portata via da loro e la
uccideranno, perché di lei
nonc’èbisogno,lafamiglia,la
comunità ha bisogno di
maschi dalle braccia forti.
Quelledonnesannochedopo
il parto qualcuno entrerà
nella stanza, qualcuno con il
volto coperto, prenderà il
neonato dalle braccia della
levatrice e, se è del sesso
sbagliato, volterà loro le
spalle,
per
riguardo,
soffocandolo, premendogli il
naso, tenendogli una mano
sulla
bocca,
cosí,
semplicemente. Un minuto
edètuttofinito.
– Piangi, se vuoi, viene
detto dopo alla madre: il
pianto è naturale. Ma non
chiedere: Che cos’è quella
cosa chiamata figlio? Che
cos’è quella cosa chiamata
figlia,chedevemorire?
– Non fraintendermi. Tu
sei un figlio, il figlio di
qualcuno. Non ho niente
contro i figli maschi. Ma hai
mai visto un neonato?
Lasciatelo dire, ti riuscirebbe
difficile notare una qualche
differenza tra un maschio e
una femmina. Tutti i neonati
hanno la medesima piega, il
medesimo gonfiore tra le
gambe. Il germoglio, il
virgulto che distingue il
maschio non è davvero gran
cosa. Troppo poco per
determinare la differenza tra
la vita e la morte. Eppure
tutto il resto, tutto ciò che è
indefinito,tuttociòcheposto
sotto pressione cede, è
condannatoalsilenzio.Iosto
difendendo ciò che è
condannatoalsilenzio.
– Sei stanco di ascoltare i
vecchi, lo so bene. Non vedi
l’ora di diventare un uomo e
farecosedauomo.Seistanco
di prepararti alla vita. È
venuto il tempo della vita,
cosí credi. Stai commettendo
un errore! La vita non è
seguire un bastone, una
bandiera, un fucile, e vedere
dovetiporterà.Lavitanonè
dietrol’angolo.Seigiànelbel
mezzodellavita.
Èsquillatoiltelefono.
– Stai tranquillo, non
risponderò–hodetto.
In silenzio abbiamo
aspettatocheiltrillocessasse.
– Non conosco il tuo
nome–hodetto.
–John.
John: un perfetto nom de
guerre.
–Cheprogettihai?
Sembravanoncapire.
– Cosa intendi fare? Vuoi
restarequi?
–Devoandareacasa.
–Acasa,dove?
Miharivoltounosguardo
ostinato, troppo stanco per
pensare un’altra bugia. –
Povero ragazzo
sussurrato.
–
ho
Non intendevo spiare. Ma
avevo le pantofole ai piedi, la
portadellastanzadiFlorence
era aperta, lui mi voltava la
schiena. Era seduto sul letto,
impegnato con un oggetto
che teneva in mano. Quando
mihasentitoèsobbalzatoelo
hainfilatosottolecoperte.
– Che cos’hai lí? – ho
chiesto.
– Niente – ha risposto
dandomi una di quelle
occhiateimpacciate.
Non avrei insistito se non
avessinotatocheuntrattodel
battiscopa in legno era stato
diveltodalmuroeoragiaceva
sul pavimento lasciando
scoperta la struttura in
mattonigrezzi.
–Cosastaicombinando?–
ho chiesto. – Perché stai
mettendo a soqquadro la
stanza?
Èrimastoinsilenzio.
–Mostramiquellochehai
nascosto.
Hascrollatolatesta.
Ho guardato meglio il
muro. C’era un buco tra i
mattoni dove era stato
inserito
un
aeratore;
attraverso il buco si
raggiungeval’interstiziosotto
lemattonelledelpavimento.
–
Stai
nascondendo
qualcosasottoilpavimento?
–Nonstofacendoniente.
Hofattoilnumerochemi
aveva lasciato Florence. Ha
rispostounbambino.–Posso
parlare
con
Florence
Mkubukeli – ho detto.
Silenzio. – La signora
Mkubukeli.Florence.
Mormorii,poiunavocedi
donna. – Con chi vuole
parlare?
– Con la signora
Mkubukeli.Florence.
–Nonèqui.
–SonolasignoraCurren–
ho spiegato. – Florence
lavoravaperme.Telefonoper
l’amico di suo figlio, il
ragazzo che si fa chiamare
John,nonconoscoilsuovero
nome.Èunacosaimportante.
Se Florence non c’è, posso
parlare con il signor
Thabane?
Di nuovo un lungo
silenzio. Poi la voce di un
uomo:–Sí,sonoThabane.
– Sono la signora Curren.
Si ricorda, ci siamo
conosciuti. Telefono per
l’amico di Bheki, l’amico di
scuola. Forse non lo sa ma è
statoinospedale.
–Loso.
– Ora ha lasciato
l’ospedale, o è scappato, ed è
venuto qui. Ho ragione di
credere che abbia un’arma,
non saprei dire di che tipo,
che lui e Bheki devono aver
nascosto nella stanza di
Florence. Penso che sia
questo il motivo per cui è
tornato.
– Sí – ha detto senza
espressione.
– Thabane, non le sto
chiedendo di usare la sua
autorità sul ragazzo. Ma lui
non sta bene. Ha preso un
brutto colpo e penso che sia
emotivamente instabile. Non
socomemettermiincontatto
con la sua famiglia, non so
neppureselasuafamigliaèa
Cape Town. Non vuole
dirmelo.Tuttociòchechiedo
è che qualcuno venga e parli
conlui,qualcunodicuiluisi
fidi, e che lo porti via prima
chegliaccadaqualcosa.
–
È
emotivamente
instabile.Cosaintendedire?
– Intendo dire che ha
bisognodiaiuto.Intendoche
potrebbe
non
essere
responsabile delle sue azioni.
Intendo che ha battuto
violentemente
la
testa.
Intendo che non posso
prendermi cura di lui, è al di
là delle mie possibilità. Deve
mandarequalcuno.
–Vedrò.
– No, non è abbastanza.
Vogliounapromessa.
– Chiederò a qualcuno di
venirloaprendere.Manonso
dirlequando.
–Oggi?
– Non posso assicurarle
chesiaoggi.Forseoggi,forse
domani.Vedrò.
–Thabane,lascicheledica
con chiarezza una cosa. Non
stocercandodiistruirequesto
ragazzo o chiunque altro su
che cosa deve fare della
propria vita. È grande
abbastanza e dotato di
volontà sufficiente per fare
ciò che vuole. Ma queste
morti, questi spargimenti di
sangue in nome del
cameratismo, li detesto con
tuttal’anima.Pensochesiano
unabarbarie.Eccoquelloche
volevodire.
– La linea è disturbata,
signoraCurren.Lasuavoceè
molto debole, molto debole e
molto lontana. Spero che lei
misenta.
–Lasento.
–Bene.Alloramipermetta
di dire che non credo che lei
ne capisca molto di
cameratismo.
– Ne capisco abbastanza,
grazie.
– No, non è cosí – ha
risposto,moltosicurodisé.–
Quando ci si getta anima e
corpo nella lotta come fanno
questi giovani, quando ci si
preparaasacrificarelavitagli
uni
agli
altri,
senza
condizioni, allora si crea un
legamecheèpiúfortediogni
altro legame che si possa
conoscere. Questo è il
cameratismo. Lo vedo tutti i
giorni con i miei occhi. La
mia generazione non ha
conosciuto niente di simile.
Ecco perché dobbiamo
lasciarli andare avanti, i
giovani. Li lasciamo andare
avanti ma noi restiamo alle
loro spalle. Questo lei non
può capirlo, perché è troppo
lontana.
–Sonolontana,certo,–ho
detto – lontana e debole. Ma
nonostante tutto, temo di
saperne abbastanza sul
cameratismo. I tedeschi
credevanonelcameratismo,e
i giapponesi, e gli spartani. E
ancheiguerrieridiShaka,ne
sono sicura. Il cameratismo
nonèaltrocheunamisticadi
guerra, di assassinio e morte,
mascherata dietro quello che
lei chiama un legame (quale
legame?
D’amore?
Ne
dubito).Nonhosimpatiaper
questo tipo di cameratismo.
Fate male, lei e Florence e
tutti gli altri, a lasciarvi
coinvolgere,
peggio,
a
incoraggiarlo nei bambini. È
solo un’altra di quelle fredde
costruzioni
mentali
esclusivamente maschili e
intrise di morte. Ecco quello
chepenso.
Abbiamodiscussodimolte
altre cose che non riporterò.
Ci siamo scambiati le nostre
opinioni. Ci siamo trovati
d’accordo sul fatto di non
essered’accordo.
Ilpomeriggiositrascinava.
Nessuno è venuto a prendere
il ragazzo. Io ero a letto,
intontita per le medicine, un
cuscino sotto la schiena, e
cercavo con un piccolo
aggiustamentodopol’altrodi
sopireildolore,desiderosadi
dormire, terrorizzata all’idea
delsognodiBorodino.
L’arias’èfattapiúcupa,ha
cominciato a piovere. Dalla
grondaia otturata proveniva
un insistente gocciolio. Il
tappeto davanti all’ingresso
emanava odore di urina di
gatto.Unatomba,hopensato:
un tomba tardoborghese.
Voltavo la testa da un lato e
dall’altro.Sulcuscinoicapelli
grigi, sporchi, sottili. E nella
stanza di Florence, nel buio
che s’andava infittendo, il
ragazzo,
coricato
sulla
schiena, con la bomba o quel
che sia in mano, gli occhi
spalancati, non annebbiati
ora, ma limpidi: pensieroso,
piú che pensieroso, assorbito
da visioni. Presagisce i
momenti di gloria, quando si
alzerà, finalmente se stesso,
eretto,
imponente,
trasfigurato. Quando il fiore
di fuoco si dischiuderà,
quandolecolonnedifumosi
solleveranno. La bomba
stretta al petto come un
talismano: come Cristoforo
Colombodistesonellacabina
della nave, con la bussola
serrata al petto, lo strumento
mistico che avrebbe dovuto
guidarlo verso le Indie, le
isole dei Beati. Gruppi di
fanciulle con il seno scoperto
loaccolgonoconcantieampi
gesti delle braccia mentre lui
si avvicina camminando
nell’acqua bassa; a guidarlo,
dinanzi a sé, l’ago che mai
vacilla, che sempre indica
un’unicadirezione,ilfuturo.
Povero ragazzo! Povero
ragazzo! Venute da chissà
dovelelacrimesonosgorgate
e mi hanno annebbiato la
vista. Povero John, che ai
vecchi tempi sarebbe stato
destinato a diventare un
giardiniere,amangiarepanee
marmellata a pranzo, a bere
daunbarattolodilattaseduto
sull’uscio di servizio, in
guerra ora per tutti gli
umiliati e i feriti, gli oppressi
eidenigrati,pertuttiipiccoli
giardinieridelSudafrica!
Nel freddo del primo
mattino ho sentito che il
cancello sul retro veniva
forzato.Vercueil,hopensato:
è tornato Vercueil. Poi ho
sentito il campanello, uno
squillo,
lunghi
trilli,
perentori, impazienti, e ho
capitochenoneraVercueil.
Mi ci vogliono interi
minuti adesso per fare le
scale, specialmente se sono
sotto l’effetto delle medicine.
Mentre scendevo, nella
semioscurità della casa,
hannocontinuatoasuonareil
campanello, a battere colpi
contro la porta. – Sto
arrivando! – ho gridato piú
forte che ho potuto. Ma ero
troppo lenta. Ho sentito il
cancello sul retro aprirsi di
schianto. Ne è seguita una
rafficadicolpiallaportadella
cucina, voci che parlavano
afrikaans. Poi, sordo e
insignificante, come un sasso
che ne colpisca un altro, ho
percepitouncolpod’armada
fuoco.
Poi è caduto il silenzio
attraverso il quale ho udito
chiaramente il tintinnio di
vetriinfrantumi.–Aspettate!
– ho gridato, e ho corso,
realmente, ho corso, non
credevo di esserne capace,
precipitandomiversolaporta
dellacucina.–Aspettate!–ho
gridato, battendo sul vetro
dellafinestra,mentrecercavo
a tentoni il chiavistello e il
catenaccio–Fermi,aspettate!
C’era qualcuno in piedi
sulla veranda, con un
soprabito blu, che mi voltava
la schiena. Nonostante mi
abbiasentito,nonsiègirato.
Ho
tolto
l’ultimo
catenaccio, ho spalancato la
porta e mi sono trovata in
mezzo a loro. Avevo
dimenticato di indossare la
vestaglia, avevo i piedi scalzi,
ero là nella mia camicia da
notte bianca come, per
quantopossoimmaginare,un
corpo ritornato dal regno dei
morti.–Aspettate!–hodetto.
–Nonfateglidelmale,èsolo
unbambino!
Eranointre.Dueeranoin
uniforme. Il terzo, che
indossava un pullover con
una fila di renne che correva
attorno al petto, aveva una
pistolapuntataversoilsuolo.
– Datemi la possibilità di
parlargli – ho detto, mentre
mi
inoltravo
tra
le
pozzanghere formatesi nella
notte. Mi hanno osservata
stupiti,manonhannocercato
difermarmi.
La finestra della stanza di
Florence era in frantumi. La
stanza era avvolta nel buio;
ma attraverso il buco ho
intravisto
una
figura
accucciata dietro il letto
nell’angolopiúlontano.
– Apri la porta, ragazzo
mio – ho detto. – Non gli
permetterò di farti del male,
teloprometto.
Era una bugia. Era
perduto, non era in mio
potere salvarlo. Eppure come
unflussomispingevaversodi
lui.Avreivolutoabbracciarlo,
proteggerlo.
Uno dei poliziotti mi è
venuto accanto, rimanendo
schiacciato contro il muro. –
Gli dica di venire fuori – ha
detto. Mi sono rivolta a lui
come
una
furia.
–
Andatevene! – ho urlato, e
sono caduta preda di un
attaccoditosse.
Il sole stava sorgendo,
roseo, in un cielo pieno di
nubiinfuga.
–John!–l’hochiamatotra
icolpiditosse.–Vienifuori!
Non permetterò che ti
tocchino.
Ora l’uomo del pullover
eraalmiofianco.–Glidicadi
consegnarelearmi–hadetto
avocebassa.
–Qualiarmi?
– Ha una pistola, e chissà
che altro. Gli dica di
consegnarcele.
–Primapromettachenon
glifaretedelmale.
Lesueditasisonorichiuse
sulmiobraccio.Hocercatodi
resistere,maeratroppoforte.
– Si prenderà una polmonite
se resta qua fuori – ha detto.
Qualcosa mi si è posato
addosso da dietro: un
cappotto, un soprabito, il
soprabito di uno dei
poliziotti.–Neemhaarbinne
– ha mormorato. Mi hanno
condotto in cucina e hanno
chiusolaporta.
Mi sono seduta, mi sono
rialzata. Il soprabito puzzava
di fumo di sigarette. L’ho
gettato sul pavimento e ho
aperto la porta. I piedi erano
lividi per il freddo. – John! –
ho chiamato. I tre uomini
erano assiepati intorno a una
radio. L’uomo che mi aveva
dato il cappotto si è voltato
con un’aria esasperata. –
Signora,èpericolosoqui–mi
ha ammonito. Mi ha
ricondottoincucina,manon
ha trovato la chiave per
chiuderelaporta.
–Èsolounbambino–ho
detto.
–Cilascilavorare,signora
–harisposto.
–Iovistoguardando–ho
detto. – Osservo tutto quello
che fate. Ve l’ho detto, è solo
unbambino!
Ha preso fiato come se
stesse per rispondere, poi ha
emesso un sospiro e ha
aspettato che finissi di
parlare. Un uomo giovane,
robusto,
dall’ossatura
massiccia.Figliodiqualcuno,
cuginodimolti.Innumerevoli
cugini,innumerevolizieezii,
prozie e prozii intorno a lui,
dietrodilui,sopradiluicome
un coro, che lo guidano, lo
incitano.
Cosa potevo dire? Che
cosa avevamo in comune che
avrebbepotutoconsentireun
rapporto,aeccezionedelfatto
che lui era lí per difendermi,
perdifendereimieiinteressi,
insensolato?
–Ekstaannieaanjoukant
nie–hodetto.–Ekstaanaan
dieteenkant.–Iostodall’altra
parte della barricata. Ma
anchesull’altrasponda,l’altra
sponda del fiume. Sulla riva
piú lontana, e guardo
indietro.
Siègirato,ispezionandoil
fornello,illavello,lemensole,
tenendo occupata die ou
damementreisuoicompagni
svolgevano il loro dovere
fuori.Tuttoinunsologiorno
dilavoro.
– Ecco tutto – ho detto. –
Hofinito.Nonstavoparlando
convoi,comunque.
Con chi allora? Con te:
sempre con te. Come vivo,
comehovissuto:lamiastoria.
Hasquillatoilcampanello.
Altri uomini, uomini con
stivali e berretti e tute
mimetiche,
camminavano
pestandoipiediperlacasa.Si
sono assiepati alla finestra
della cucina. – Hy sit daar in
die buitekamer – ha spiegato
un poliziotto, indicando la
stanza di Florence. – Daar’s
net die een deur en die een
venster.
– Nee, dan het ons hom –
ha detto uno dei nuovi
arrivati.
–Viavverto,osservotutto
quellochefate–horipetuto.
L’uomosiègiratoversodi
me. – Conosce il ragazzo? –
hachiesto.
–Sí,loconosco.
–Sapevacheèarmato?
Ho alzato le spalle. – Dio
salvi i disarmati di questi
tempi.
Qualcun altro è entrato,
una giovane donna in
uniformeconun’ariafrescae
fragrante. – Is dit die dame
dié?–hachiesto;epoirivolta
ame:–Dobbiamoevacuarela
casa per un po’, finché non
sarà tutto finito. Non c’è
qualche posto dove vorrebbe
andare,amici,parenti?
– Io non me ne vado.
Questaècasamia.
La sua cortesia, e le sue
premurenonhannovacillato.
– Lo so – ha detto – ma è
troppo pericoloso rimanere
qui. Dobbiamo chiederle di
allontanarsisoloperunpo’.
Gli uomini attorno alla
finestra avevano smesso di
parlare ora: erano impazienti
che me ne andassi. – Bel die
ambulans, ha detto uno di
loro.–Ag, sy kan sommer by
diestasiewag–harispostola
donna.Poisièrivoltaame.
– Venga adesso, signora...
– Aspettava che le dicessi il
mio nome. Non l’ho fatto. –
Una bella tazza di tè caldo –
haofferto.
–Iononmimuovodaqui.
Hannodatoallemieparole
lo stesso peso che si dà a
quellediunbambino.–Gaan
haal ’n kombers – ha detto
l’uomo–sy’samperblouvan
diekoue.
Ladonnaèsalitadisoprae
hafattoritornoconlacoperta
che avevo sul letto. Me l’ha
avvolta intorno, mi ha
sostenuto e mi ha infilato le
pantofole. Nessun segno di
disgusto per le mie gambe,
per i piedi. Una brava
ragazza,educataperdiventare
labravamogliediqualcuno.
– Ci sono delle pillole o
medicineoaltrochevorrebbe
portareconsé?–hachiesto.
–Iononmenevado–ho
ripetuto aggrappandomi alla
sedia.
Lei e l’altro uomo si sono
scambiati parole sussurrate.
Senza preavviso mi sono
sentita sollevare da dietro,
sotto le braccia. La donna mi
hapresoperlegambe.Come
fossi un tappeto mi hanno
portatafinoall’uscio.Ildolore
mi torturava la schiena. –
Mettetemigiú!–hogridato.
– Fra un momento – ha
detto
la
donna
per
tranquillizzarmi.
– Ho un cancro! – ho
urlato.–Mettetemigiú!
Cancro!Chegioiascagliare
quella parola contro di loro!
Li ha inchiodati là dove si
trovavanocomeuncoltello.–
Sit haar neer, dalk kom haar
ietsoor–hadettol’uomoche
mi sosteneva. – Ek het mos
gesêjymoetdieambulansbel
–. Con cautela mi hanno
sistematasuldivano.
– Dove ha male? – ha
chiesto la donna, corrugando
lafronte.
– Al cuore – ho risposto.
Sembrava perplessa. – Ho un
cancronelcuore–.Alloraha
capito; ha scrollato la testa
come se stesse scacciando
dellemosche.
– Le fa male essere
trasportata?
– Ho sempre male – ho
risposto.
Ha incontrato lo sguardo
dell’uomo che stava dietro di
me; qualcosa è passato tra
loro di cosí buffo che lei non
ha potuto trattenere un
sorriso.
– L’ho preso bevendo
dall’amaro calice – ho
insistito. Cosa importava se
mi credevano una svitata? –
Probabilmente lo prenderete
anche voi un giorno. È
difficilesfuggirgli.
C’è stato un frastuono di
vetri rotti. Entrambi sono
corsi fuori dalla stanza, mi
sono alzata e zoppicando gli
sonoandatadietro.
Niente era mutato ad
eccezionediunsecondovetro
rotto.Ilgiardinosulretroera
vuoto; i poliziotti, una mezza
dozzina
adesso,
erano
raggruppati sulla veranda, i
fucilispianati.
–Weg! – ha urlato uno di
lorofuriosamente.–Kryhaar
weg!
La
donna
mi
ha
riaccompagnato
dentro.
Quandohachiusolaportac’è
stata una breve esplosione,
una scarica di colpi, poi un
silenzio attonito, poi parole
bisbigliate; proveniente da
chissàdove,ilguaitodelcane
diVercueil.
Ho cercato di aprire la
porta, ma la donna mi ha
tenutoferma.
–Segliavetefattodelmale
nonveloperdoneròmai–ho
detto.
– È tutto a posto,
chiameremo
di
nuovo
l’ambulanza – ha detto, nel
tentativodirabbonirmi.
Ma l’ambulanza era già lí,
parcheggiatasulmarciapiede.
Gruppi di persone concitate
vi si erano raccolte intorno,
venute da ogni direzione,
vicini, passanti, giovani e
vecchi, bianchi e neri; dai
balconidegliappartamentidi
fronte la gente guardava giú.
Quando la donna e io ci
siamo affacciate sulla porta
d’ingresso
stavano
trasportando il ragazzo in
barella lungo il vialetto, con
addosso una coperta, poi lo
hanno
caricato
sull’ambulanza.
Ho fatto per salire
nell’ambulanza insieme a lui;
uno degli infermieri mi ha
persino sorretto per un
braccio per aiutarmi; ma è
intervenuto un poliziotto. –
Aspetti, manderemo un’altra
ambulanza per lei – ha
ordinato.
– Non voglio un’altra
ambulanza – ho protestato.
Ha assunto un’espressione
gentileesconcertata.–Voglio
andare con lui – ho detto, e
hofattounaltrotentativoper
salire a bordo. La coperta è
cadutaperterra.
– No – ha ordinato. Ha
fatto un cenno e l’infermiere
hachiusoleporte.
–CheDiociperdoni!–ho
sospirato. Con la coperta
stretta intorno alle spalle mi
sono avviata lungo Shoonder
Street,lontanodallafolla.Ero
quasi arrivata all’angolo
quandoladonnaindivisami
ha raggiunto rincorrendomi.
–Devetornareacasaadesso!
–mihaordinato.–Nonèpiú
casa mia – ho risposto
infuriata, e ho continuato a
camminare. Mi ha preso per
un braccio; mi sono liberata.
– Sy’s van haar kop af – ha
aggiunto senza rivolgersi a
nessuno in particolare,
rinunciandoall’impresa.
In Buitenkant Street, sotto
il cavalcavia, mi sono seduta
per riposarmi. Un costante
flusso di auto scorreva
imperterrito in direzione
della città. Nessuno che mi
notasse. Con i capelli
spettinati e la coperta rosa
avreipotutofarespettacoloin
Shoonder Street; qui, in
mezzo ai detriti e alla
sporcizia,
facevo
semplicemente parte di
questaterradelleombre.
Un uomo e una donna
sono passati dall’altro lato
della strada. Conoscevo la
donna? Era lei che Vercueil
aveva portato a casa, oppure
tutte le donne che bazzicano
l’Hotel Avalon e la rivendita
diliquoriSollyKramerhanno
le medesime gambe sottili e
deturpate? L’uomo, che
portava una busta di plastica
annodatasullespalle,nonera
Vercueil.
Mi sono avvolta meglio
nella coperta e mi sono
sdraiata. Nelle ossa sentivo il
rombo del traffico sul
cavalcavia. Le pillole erano a
casa, la casa in altre mani.
Potevo sopravvivere senza le
pillole? No. Ma volevo
sopravvivere? Cominciavo a
sentire quell’indifferenza e
quella pace che provano gli
animaliquandosentonocheè
giunta la fine e s’infilano,
pigri e infreddoliti, nel buco
del terreno dove tutto si
ridurrà al lento battito del
cuore. Dietro un pilastro di
cemento, in un luogo dove il
sole non splendeva da
trent’anni,
mi
sono
rannicchiata sul fianco sano,
per ascoltare il pulsare del
dolore che poteva anche
esserescambiatoperilbattito
delmiopolso.
Devo aver dormito. Deve
esser trascorso del tempo.
Quando ho aperto gli occhi
c’era
un
bambino
inginocchiato accanto a me,
chetastavatralepieghedella
coperta. Le sue mani
frugavano sul mio corpo. –
Non c’è niente per te – ho
provato a dire, ma mi si era
staccata la dentiera. Dieci
annialmassimo,conilcranio
rasato, i piedi nudi e uno
sguardo duro. Dietro di lui
due compagni, persino piú
piccoli. Mi sono tolta la
dentiera.–Lasciatemiinpace
– ho detto: – sono malata, vi
prenderete una malattia se
nonmilasciateinpace.
Lentamente
si
sono
allontanati, come corvi, sono
rimastiadaspettare.
Dovevo liberarmi. Con
sollievo, ho urinato là dove
giacevo. Grazie a Dio fa
freddo, ho pensato, grazie a
Dio
per
questo
intorpidimento: tutte le cose
si accordano per rendere
facileilparto.
I bambini si sono
nuovamente avvicinati. Ho
aspettato incurante le loro
mani rapaci. Il rombo delle
ruote mi cullava, come una
larva in un alveare, ero
assorbita dal brusio del
vortice del mondo. L’aria
rimbombava
di
suoni.
Migliaia di ali che passano e
ripassano senza sfiorarsi.
Come poteva esserci posto
per tutti? Come può esserci
postoneicieliperleanimedi
tutti i morti? Perché, dice
Marco Aurelio, esse si
fondono l’una nell’altra:
bruciano e fondono e cosí
vengono restituite al grande
ciclo.
Mortedopomorte.Cenere
d’ape.
Il lembo della coperta è
stato sollevato. Ho percepito
lalucesullepalpebre,eanche
freddo sulle guance dove le
lacrime avevano sostato.
Qualcosa mi premeva tra le
labbra,spintoconforzatrale
gengive. Mi sentivo soffocare
emisonodivincolata.Tuttie
treibambinieranointornoa
me
adesso,
avvolti
nell’oscurità, potevano anche
essercene altri dietro di loro.
Cosa stavano facendo? Ho
tentato di spingere via la
mano ma a quel punto ha
premuto con piú insistenza.
Un orribile suono si è
sprigionatodallamiagola,un
suono secco come di legna
spezzata. La mano si è
allontanata. – Non... – ho
detto;mamidolevailpalato,
era difficile pronunciare
parole.
Cosavolevodire?Smettila!
Non vedi che non ho niente??
Nonhaipietà??Cheassurdità.
Perchédovrebbeessercipietà
al mondo? Ho pensato agli
scarafaggi, a quei grandi
scarafaggi neri con il dorso
arcuato, moribondi, che
muovono debolmente le
zampette mentre le formiche
li assalgono a frotte,
mordendo le parti tenere, le
giunture,
gli
occhi,
strappando la carne della
bestiola.
Eraunbastone,nient’altro,
un bastoncino di pochi
centimetri, quello che mi ha
ficcatoinbocca.Hosentitoil
sapore dei granelli di
sporciziacheavevaattaccati.
Con la punta del bastone
mi ha sollevato il labbro
superiore. Mi sono scostata e
hocercatodisputare.Luisiè
alzato in piedi impassibile.
Conilpiedenudohascalciato
e una piccola pioggia di
sassolini e polvere mi ha
colpitolafaccia.
È passata un’auto che ha
proiettato sui bambini il
fascioluminosodeifari.Loro
si sono incamminati verso
Buitenkant
Street..
È
ripiombatal’oscurità.
Sono accadute davvero
queste cose? Sí, queste cose
sono avvenute. Non c’è
nient’altro da dire. Sono
avvenuteaunpassodaBreda
Street e Shoonder Street e
Vrede Street, dove un secolo
fa i patrizi di Cape Town
hanno dato ordini perché
fossero costruite case ariose
per loro e per tutti i loro
discendenti, senza prevedere
che un giorno, all’ombra di
quelle case, sarebbero tornati
arazzolareipolli.
C’era come una nebbia
nella mia testa, un fosco
turbine. Tremavo; parossismi
di sbadigli si susseguivano.
Per un po’ mi è sembrato di
esseresospesanelnulla.
Poi,qualcosamihaalitato
sulla faccia: un cane. Ho
cercato di scacciarlo ma ha
trovato un varco tra le mie
dita. Allora ho ceduto,
pensando: ci sono cose
peggioridelnasoumidodiun
cane, del suo alitare
affannato.Holasciatochemi
leccasse la faccia, le labbra,
che leccasse il sale delle
lacrime. Baci, se si vuole
guardarlidaunaltropuntodi
vista.
C’eraqualcunoconilcane.
Avevo riconosciuto l’odore?
Era Vercueil, oppure tutti i
vagabondi odorano di foglie
macerate, di biancheria
intima che marcisce nella
cenere? – Vercueil? – ho
gracchiato,eilcanehaguaito
con eccitazione, facendo un
profondo starnuto proprio
sullamiafaccia.
Unfiammiferohabrillato.
Sí, era Vercueil, con tanto di
cappello e tutto. – Chi l’ha
lasciataqui?–hadomandato.
– Io stessa – ho risposto,
cercando di evitare la zona
dolente del palato. Il
fiammifero si è smorzato.
Sonotornatelelacrime,cheil
canehaprontamenteleccato.
Con
quelle
scapole
sporgenti e il torace stretto
comeilcollodiungabbiano,
non potevo immaginare che
Vercueil potesse essere tanto
forte. Ma mi ha sollevato,
bagnaticcia com’ero e mi ha
portato via. Ho pensato:
quarant’anni da quando un
uomomihapresoinbraccio.
La sfortuna di essere alte. È
cosí che finirà la storia:
trasportatadabracciarobuste
attraverso la sabbia, oltre le
acque basse, oltre i frangenti,
fino alle piú oscure
profondità?
Eravamo lontani dal
cavalcavia, immersi in una
pace profonda. Come stava
diventando
tutto
improvvisamente
piú
sopportabile! Dov’era il
dolore?Ancheildoloreeradi
buon umore? – Non
torniamo in Shoonder Street
–hoordinato.
Siamo passati sotto un
lampione.Honotatolosforzo
che gli segnava i muscoli del
collo, sentivo il suo respiro
pesante. – Mi metta giú per
un momento – ho detto. Mi
ha messo giú e si è riposato.
Quando arriverà il momento
in cui la giacca gli cadrà di
dosso e grandi ali gli
spunterannodallespalle?
Mi ha portato su per
Buitenkant Street, abbiamo
attraversato Vrede Street, la
strada della pace, e poi,
camminando piú lentamente,
vacillando prima di muovere
il passo successivo, siamo
arrivati in un luogo alberato,
scuro. Attraverso i rami
scorgevolestelle.
Mihamessogiú.
– Sono cosí felice di
rivederla–hodetto,leparole
mi venivano dal cuore, erano
dette con il cuore. E poi: –
Sonostataattaccatadaalcuni
bambini prima che arrivasse
lei. Attaccata, o profanata o
esplorata, non saprei bene
cosaesattamente.Eccoperché
parlo in questo strano modo.
Mihannoinfilatounbastone
inbocca,nonriescoancoraa
capire
perché.
Che
divertimentocitrovano?
– Volevano i suoi denti
d’oro – mi ha spiegato. –
Ottengono denaro dal monte
deipegni.
–Dentid’oro?Strano.Non
ho denti d’oro. Mi sono tolta
la dentiera in ogni caso.
Eccoliimieidenti.
Da qualche parte nel buio
èandatoaprenderescatoloni
dicartone,scatoloniaperti.Li
ha distesi e mi ha aiutato a
sdraiarmi. Poi, senza fretta,
senzacerimonie,sièsdraiato
anche lui voltandomi la
schiena.Ilcanesièaccucciato
tralenostregambe.
–Vuoleunpo’dicoperta?
–hodomandato.
–Stobenecosí.
Ètrascorsodeltempo.
– Scusi, ma ho una sete
terribile – ho sussurrato. –
Non c’è dell’acqua in questo
posto?
Sièalzatoedètornatocon
una bottiglia. L’ho annusata:
vino dolce, la bottiglia mezza
piena.–Ètuttoquellocheho
– ha detto. L’ho buttato giú.
Nonèstatod’aiutoperlasete,
ma nel cielo le stelle hanno
cominciato a dondolare.
Tutto appariva remoto:
l’odore di terra umida, il
freddo, l’uomo accanto a me,
ilmiostessocorpo.Comeun
granchio che ripiega le chele,
stanco dopo una lunga
giornata, persino il dolore si
era assopito. Io sono
ripiombatanelbuio.
Quando mi sono svegliata
mi sono accorta che si era
girato e mi aveva posato un
bracciointornoalcollo.Avrei
potuto liberarmi, ma ho
preferito non disturbarlo.
Cosí mentre il nuovo giorno
avanzava a passi lenti, io
giacevofacciaafacciaconlui,
immobile. Una volta ha
apertogliocchi,all’ertacome
quelli di un animale. – Sono
ancora qui – ho mormorato.
Harichiusogliocchi.
È
sopraggiunto
un
pensiero:chi,dituttigliesseri
sulla terra, conosco meglio a
questo punto? Lui. Ogni
singolo pelo della sua barba,
ogni ruga della sua fronte mi
è familiare. Lui, non tu.
Perché lui è qui, accanto a
me,ora.
Perdonami, ho poco
tempo, devo fidarmi del mio
cuore e dire la verità. Cieca,
ignorante, io seguo la verità,
vadodovemiporta.
– È sveglio? – ho
mormorato.
–Sí.
–Iragazzisonomortitutti
e due adesso – ho detto. – Li
hannouccisientrambi.Losa?
–Loso.
– Sa che cosa è successo a
casa?
–Sí.
–Ledispiaceseparlo?
–Parlipure.
– Lasci che le racconti: ho
incontrato il fratello di
Florence il giorno in cui
Bheki è morto, fratello o
cuginooquelcheè.Unuomo
istruito. Gli ho detto che
speravo che Bheki non si
fossemailasciatocoinvolgere
nella,comepossochiamarla?,
nella lotta. È ancora un
bambino, ho detto: Non è
ancora pronto. Se non fosse
per quel suo amico, non si
sarebbelasciatocoinvolgere.
–Inseguitohoparlatocon
lui al telefono. Gli ho detto
sinceramente quello che
pensavo del cameratismo in
nome del quale ora quei due
ragazzi sono morti. Una
mistica della morte, cosí l’ho
definito. Ho biasimato le
persone come Florence e
come lui per non aver fatto
nienteperscoraggiarlo.
– Lui ha ascoltato
educatamente. Avevo diritto
allemieopinioni,mihadetto.
Manonloavevoconvinto.
– Ma ora mi chiedo: Che
diritto ho di avere opinioni
sul cameratismo o su altro
ancora? Che diritto ho di
desiderare che Bheki e il suo
amico non avessero preso
parte ai disordini? Avere
opinionisottovuoto,opinioni
che non interessano nessuno,
è,misembra,comenonavere
nulla. Le opinioni devono
essere ascoltate dagli altri,
ascoltate e soppesate, non
soloascoltatepereducazione.
Eperesseresoppesatedevono
avere un peso. Thabane non
ha preso in considerazione
quello che ho detto. Non ha
dato peso a quello che ho
detto. Florence non mi sente
neppure. Per Florence quello
che penso non ha nessuna
importanza,loso.
Vercueil si è alzato, è
andato dietro un albero, ha
urinato. Poi, con mia grande
sorpresa,ètornatoasdraiarsi.
Il cane si è rannicchiato
vicinoalui,latestasulcavallo
dei calzoni. Con la lingua ho
tastato la piaga che avevo in
boccaechesapevadisangue.
–Nonhocambiatoidea–
ho proseguito. – Continuo a
detestare questi appelli al
sacrificio che finiscono con
giovani morti dissanguati nel
fango. La guerra non è mai
ciòchefingediessere.Gratta
la superficie e troverai,
sempre,vecchichemandanoi
giovani a morire in nome di
questaoquell’altraastrazione.
A dispetto di ciò che dice
Thabane (non biasimo lui, il
futuro arriva camuffato, se si
presentasse
nudo
rimarremmo pietrificati alla
sua vista), rimane una guerra
dei vecchi contro i giovani.
Libertà o morte! gridavano
Bhekieisuoiamici.Paroledi
chi?Noncertoleloro.Libertà
omorte!,nonhodubbi,quelle
due bambine fanno le prove
nelsonno.No!Iovorreidire:
Metteteviinsalvo!
– A chi appartiene
veramente la voce della
saggezza, signor Vercueil? A
me, credo. Eppure, chi sono
io, chi sono io per avere una
voce? Come posso incitarli a
voltare onorevolmente le
spalle a quel richiamo? Che
cosa mi è dato fare se non
sedere in un angolo con la
boccachiusa?Iononhovoce;
l’ho perduta molto tempo fa,
forse non ne ho mai avuta
una.Nonhovoce,eccotutto.
Il resto dovrebbe essere
silenzio. Ma con questa,
qualunque cosa sia, questa
voce senza voce, io vado
avanti.Econtinuoaparlare.
Stava forse sorridendo
Vercueil? Aveva il volto
nascosto. In un sussurro
sdentatoimpastatodisibilanti
hocontinuato.
– Molto tempo fa è stato
commesso un crimine.
Quantotempofa?Nonloso.
Ma certamente prima ancora
del1916.Cosítantotempofa
cheiocisononatadentro.Fa
parte del mio retaggio. Fa
partedime,ionefaccioparte.
– Come ogni crimine
anche quello aveva il suo
prezzo.Quelprezzo,pensavo,
dovrà essere pagato con la
vergogna: con una vita di
vergogna e con una morte
vergognosa,illacrimata,inun
angolo buio. L’ho accettato.
Non ho cercato di sottrarmi.
Nonostantenonsitrattassedi
un crimine che avevo voluto
io, era stato commesso in
nomemio.Avoltemelasono
presa con gli uomini che
commettevano nefandezze
(ne è stato testimone lei
stesso,unarabbiavergognosa
tanto stupida quanto ciò
controcuisiscagliava)maho
accettato anche, in un certo
senso, che essi vivessero in
me. Cosí che quando negli
accessi di rabbia io li
desideravo morti, desideravo
anchelamiamorte.Innome
dell’onore. Di una nozione
onorabile dell’onore. Honesta
mors.
–Nonhoideadichecosa
sia la libertà, signor Vercueil.
Sono sicura che neppure
Bhekieisuoiamicil’avessero.
Forse la libertà è sempre e
soltanto ciò che rimane
inimmaginabile.
Eppure,
riconosciamo
la
sua
negazione
quando
la
vediamo, non è cosí? Bheki
noneralibero,elosapeva.Lei
non è libero, almeno non su
questaterra,enemmenoiolo
sono. Io sono nata in
schiavitú
e
molto
probabilmente morirò in
schiavitú. Una vita ai ceppi,
una morte ai ceppi: fa parte
del prezzo, non c’è da
scherzare,nédapiagnucolare.
– Quello che non sapevo,
quello che non sapevo (mi
ascolti bene ora!) è che il
prezzo era ancora piú alto.
Avevo sbagliato i calcoli. In
qualemomentosièinsinuato
l’errore?Avevaqualcosaache
fare con l’onore, con la
nozione alla quale mi
aggrappavo nella buona e
nellacattivasorte,derivatami
dall’educazionericevuta,dalle
letture, secondo cui l’animo
dell’uomo
d’onore
è
invulnerabile. Sono sempre
andata in cerca dell’onore,
dell’onore personale, usando
la vergogna quale guida.
Finché provavo vergogna
sapevodinonaverincontrato
ildisonore.Eccoilruolodella
vergogna: era un punto di
riferimento, qualcosa che
restava sempre al suo posto,
qualcosa verso cui poter
tornare, come un cieco,
qualcosa da toccare, che ti
indicasse il punto in cui ti
trovavi. Per il resto ho
mantenuto una discreta
distanza dal mio senso di
vergogna. Non ho esagerato.
La vergogna non è mai
diventata
un
piacere
indecente;nonhamaismesso
di mordermi. Non ne ero
orgogliosa,
me
ne
vergognavo.Lamiavergogna,
solo mia. Cenere nella mia
bocca giorno dopo giorno
dopogiorno,chenonhamai
smessodiavereilsaporedella
cenere.
–Èunaconfessionequella
che faccio qui, questa
mattina,signorVercueil–ho
detto. – Una confessione
piena per quanto è possibile.
Non nascondo alcun segreto.
Sonostataunabravapersona,
posso
confessarlo
liberamente.Sonoancorauna
brava persona. Ma che tempi
sonomaiquesti,seessereuna
brava persona non è
sufficiente!
– Quello che non avevo
calcolatoerachemoltodipiú
erarichiestocheilsoloessere
buoni.Perchéc’èinflazionedi
persone buone in questo
paese. Ce n’è da vendere, di
buoni o quasi buoni. Quello
che i tempi richiedono è ben
altro che la bontà. Questi
tempi richiedono eroismo.
Una parola che, quando la
pronuncio, sembra una
parola straniera sulle mie
labbra. Dubito di averla mai
usata prima, persino a
lezione.Perchéno?Forseper
rispetto. Forse per pudore.
Cosí come si abbassa lo
sguardo di fronte a un uomo
nudo. Penso che a lezione
avrei
usato
piuttosto
l’espressione status eroico.
L’eroe con il suo status di
eroe. L’eroe, quell’antica
figuraignuda.
Un profondo ruggito è
scaturito dalla gola di
Vercueil.Misonosportasudi
lui, ma tutto quello che
vedevoeralacortabarbasulla
sua guancia e un orecchio
peloso. – Vercueil! – ho
sussurrato. Non si è mosso.
Dormiva? Faceva finta di
dormire? Quanto di quello
che avevo detto era rimasto
inascoltato? Aveva sentito
quando parlavo della bontà e
dell’eroismo? Dell’onore e
dellavergogna?Continuavaa
essereunaveraconfessionese
nonvenivaascoltata?–Mista
ascoltando, oppure l’ho fatta
addormentare?
Sono andata dietro un
cespuglio.
Gli
uccelli
cantavano tutt’attorno. Chi
l’avrebbe detto che c’era un
tale tripudio di volatili nei
sobborghi! Era come in
Arcadia. Nessuna meraviglia
che Vercueil e i suoi amici
preferissero vivere all’aperto.
A che serve un tetto se non
solo per riparare dalla
pioggia? Vercueil e i suoi
compagni.
Mi
sono
sdraiata
nuovamente accanto a lui,
avevo i piedi freddi e
infangati. Era già piuttosto
chiaro ora. Distesi su quel
foglio di cartone, in quello
spazio aperto, tutti i passanti
avrebbero potuto vederci.
Cosí dobbiamo apparire
anche agli occhi degli angeli:
persone che si muovono in
case di vetro, ogni nostro
gesto visibile. Visibili anche i
nostri cuori, che battono in
petti di vetro. Il canto degli
uccelli ci investiva come una
pioggiadall’alto.
–Misentopropriomeglio
questamattina–hodetto.Ma
forse dovremmo tornare
adesso. Il miglioramento è
sempre un avvertimento del
peggiochedevevenire.
Vercueil si è seduto, si è
tolto il cappello, si è grattato
la testa con le lunghe unghie
sporche. Il cane ritornato
trotterellando da una delle
suesortitesiagitavaintornoa
noi. Vercueil ha ripiegato il
cartoneelohanascostoinun
cespuglio.
– Lo sa che mi è stato
asportatounseno?–hodetto
all’improvviso.
Sembrava
irrequieto,
imbarazzato.
– Adesso mi dispiace,
certo. Mi dispiace avere
questo marchio. Diventa
come voler vendere un
mobileconunosfregioocon
una bruciatura. È una sedia
ancora in buone condizioni,
dici, ma alla gente non
interessa. Alla gente non
piacciono gli oggetti segnati.
Sto parlando della mia vita.
Possononessereperfetta,ma
è pur sempre una vita, non
una vita a metà. Ho pensato
divenderlaodispenderlaper
salvareilmioonore.Machila
accetterebbe nel suo stato
attuale? È come tentare di
spendere una dracma. Una
moneta valida altrove, ma
non qui. Dalle caratteristiche
sospette.
– Ma non mi sono ancora
del tutto arresa. Sto ancora
cercando qualcosa per cui
valga la pena vivere. Lei ha
deisuggerimenti?
Vercueil si è rimesso il
cappello,seloèsistematoper
bene prima davanti e poi
dietro.
–
Mi
piacerebbe
comprargliene uno nuovo –
hodetto.
Ha sorriso. Mi sono
attaccata al suo braccio;
lentamente
ci
siamo
incamminati lungo Vrede
Street.
– Lasci che le racconti il
sognochehofatto–hodetto.
– L’uomo del sogno non
aveva il cappello, ma penso
che fosse lei. Aveva lunghi
capelli
oleosi
pettinati
all’indietro–.Lunghieoleosi;
sporchi,
anche,
che
pendevano sulle spalle come
tantecodeditopo;maquesto
nonl’hodetto.
– Eravamo al mare. Mi
stava insegnando a nuotare.
Mi teneva per le mani e mi
tirava mentre io, lunga
distesa, scalciavo. Indossavo
un costume lavorato ai ferri,
di quelli che si usavano ai
vecchi tempi, azzurro. Ero
bambina. Ma nei sogni si è
semprebambini.
– L’uomo mi tirava
camminando
all’indietro
nell’acqua, fissandomi negli
occhi.Avevagliocchicomei
suoi. Non c’erano onde, solo
qualche piccola increspatura
sull’acqua, che brillava nella
luce. Anche l’acqua era
oleosa. Quando il suo corpo
smuoveva la superficie,
un’onda lo investiva con la
densa lucentezza propria
dell’olio. Ho pensato tra me:
olio di sardine; io sono la
piccola sardina, mi sta
portando al largo nell’olio.
Volevo dirgli Torna indietro,
manonosavoaprirelabocca
per paura che l’olio vi fluisse
dentro e allagasse i polmoni.
Annegare nell’olio: non ne
avevoilcoraggio.
Ho fatto una pausa per
farloparlare,maèrimastoin
silenzio. Abbiamo voltato
l’angolodiShoonderStreet.
–Naturalmentenonlesto
raccontandoilsognoinmodo
del tutto innocente – ho
detto.–Ilraccontodettagliato
diunsognonascondesempre
unsecondofine,maquale?
–Ilgiornoincuil’hovista
per la prima volta dietro al
garageerailgiornoincuiho
avuto la brutta notizia sulle
mie condizioni, sul mio caso.
Era piú che una coincidenza.
Mi sono chiesta se lei non
fosse, perdoni la parola, un
angelovenutoamostrarmila
via.Naturalmentenonloera,
non lo è, non può esserlo, lo
sobene.Maquestaèsolouna
metà della storia, non è cosí?
Percepiamo le cose per metà,
maperl’altrametàlecreiamo
anche.
– Cosí ho continuato a
raccontarmi storie in cui lei
mimostrailcamminoeiola
seguo. E se non proferisce
parola,èperché,midico,agli
angeli non è dato parlare.
L’angelo cammina avanti, la
donnasegue.Luihagliocchi
aperti,luivede;leihagliocchi
chiusi, è ancora immersa nel
sonno terreno. Ecco perché
continuo a rivolgermi a lei
per farmi guidare, per avere
aiuto.
La porta d’ingresso era
chiusamailcancellosulretro
era spalancato. I vetri rotti
noneranostatispazzativia,la
portadellastanzadiFlorence
pendeva
sbilenca.
Ho
abbassato
lo
sguardo,
camminando
cautamente,
non ancora preparata a
guardare nella stanza, non
ancoraforteabbastanza.
La porta della cucina non
era chiusa. Non avevano
trovatolachiave.
–Vengadentro–hodetto
aVercueil.
Lacasaeraenoneracome
era stata. In cucina c’erano
cose fuori posto. Il mio
ombrelloeraappesodovenon
eramaistatoprima.Ildivano
era stato spostato e aveva
lasciato scoperta una vecchia
macchia sul tappeto. E su
tutto uno strano odore: non
di fumo di sigarette e sudore
ma qualcosa di piú pungente
epenetrantechenonriuscivo
a identificare. Hanno lasciato
il loro marchio su tutto. Ho
pensato:lavoratorimeticolosi.
Alloramisonoricordatadelle
cartesulloscrittoio,lalettera,
tutte le pagine scritte sinora.
Anche quella! Ho pensato:
avranno letto anche quella!
Dita sudice hanno voltato le
pagine, occhi che non
conoscono amore hanno
scrutato le nude parole. – Mi
aiuti a salire di sopra – ho
chiestoaVercueil.
La cartellina, lasciata
aperta l’ultima volta che ho
scritto, adesso era chiusa. La
serratura dell’archivio era
rotta. C’erano dei vuoti tra i
librisugliscaffali.
Le due stanze inutilizzate
eranostateentrambeforzate.
Avevano
frugato
nell’armadio,nellacassettiera.
Non è stato risparmiato
niente. Come nell’ultima
visita dei ladri. La ricerca un
mero pretesto. Il vero fine è
toccare, manipolare tutto.
Con spirito malvagio. Come
lo stupro: un modo per
insozzareunadonna.
Mi sono voltata verso
Vercueil, ero senza parole,
nauseata.
– C’è qualcuno di sotto –
hadetto.
Dal ballatoio potevamo
udirequalcunocheparlavaal
telefono.
La conversazione si è
interrotta. Un giovane in
uniforme
è
comparso
nell’ingresso e ci ha salutati
conuncennodelcapo.
–Cosacifaincasamia?–
glihochiesto.
–Èsolouncontrollo–ha
risposto gaiamente. – Non
volevamo che degli estranei
entrassero in casa –. Si è
ripreso cappello, cappotto e
fucile. Era del fucile
quell’odore?
–
Gli
investigatori saranno qui alle
otto – ha annunciato. – Io
aspetterò di fuori –. Ha
sorriso; sembrava credere di
avermi reso un servizio;
sembrava aspettarsi un
ringraziamento.
–Devofareunbagno–ho
dettoaVercueil.
Ma non ho fatto il bagno.
Ho chiuso la porta della
cameradaletto,hopresodue
delle pillole rosse e mi sono
sdraiata tremante da capo a
piedi.Iltremoreèpeggiorato
fino a scuotermi come una
foglia durante una bufera.
Avevo freddo ma il tremito
noneradovutoalfreddo.
Un minuto alla volta, mi
sono detta: non crollare
proprio adesso, pensa solo al
prossimoistante.
Iltremitosièplacato.
L’uomo, ho pensato:
l’unica creatura per cui una
parte dell’esistenza è affidata
all’ignoto, al futuro, come
un’ombra che si allunghi
davanti a lui. Che si ostina a
tentare di raggiungerla,
quell’ombra che avanza, per
trovare
una
dimora
nell’immagine della sua
speranza.Maio,iononposso
permettermi di essere uomo.
Devo essere qualcosa di piú
piccolo, di piú cieco, di piú
vicinoallaterra.
Ho sentito bussare e poi
Vercueilèentratoseguitodal
poliziottocheieriindossavail
maglioneconlerenne,orain
giacca e cravatta. Ho
ricominciato a tremare. Ha
fatto cenno a Vercueil di
lasciare la stanza. Mi sono
seduta in mezzo al letto. –
Non se ne vada, signor
Vercueil – ho detto; e poi al
poliziotto:–Chedirittohadi
entrareincasamia?
– Ci preoccupavamo per
lei –. Non sembrava affatto
preoccupato. – Dov’era la
notte scorsa? – E poi, visto
che non rispondevo: – È
sicura di poter stare da sola,
signoraCurren?
Nonostantetenessistrettii
pugni,iltremoreèaumentato
fino
a
scuotermi
convulsamente.–Iononsono
sola! – gli ho gridato. – È lei
cheèsolo!
Non si è lasciato
scoraggiare. Anzi, sembrava
incitarmiacontinuare.
Datti un contegno, ho
pensato!Tirinchiuderanno,ti
dichiareranno folle e ti
porterannovia!
– Che cosa vuole? – ho
chiestoconpiúcalma.
– Voglio solo farle alcune
domande.
Come
ha
conosciuto quel ragazzo,
Johannes?
Johannes: era dunque
quello il suo vero nome?
Sicuramenteno.
– Era un amico del figlio
della mia domestica. Un
compagnodiscuola.
Ha tirato fuori dalla tasca
unregistratoreelohaposato
sullettoaccantoame.
–Edov’èilfigliodellasua
domestica?
– È morto e sepolto.
Sicuramente sa già queste
cose.
–Checosaglièsuccesso?
–Glihannosparatolaggiú,
nellazonadeiFlats.
–Ecenesonoaltrichelei
conosce?
–Altricosa?
–Altriamici.
– Migliaia. Milioni. Piú di
quantinepossacontare.
– Intendevo, altri di quel
gruppo. Ce ne sono altri che
hannousatolasuacasa?
–No.
– E sa come sono arrivate
quellearminelleloromani?
–Qualiarmi?
– Una pistola. Tre
detonatori.
– Non ne so nulla di
detonatori. Non so neppure
cosasiaundetonatore.Mala
pistolaeramia.
–Gliel’hannorubata?
–L’hoprestataaloro.Non
aloro,alragazzo,aJohn.
–Gliel’hadatalei?Erasua
lapistola?
–Sí.
– Perché gli ha dato la
pistola?
–Perchésidifendesse.
– Perché si difendesse da
chi,signoraCurren?
– Perché si difendesse
dagliattacchi.
–Echetipodipistolaera,
signora
Curren?
Può
mostrarmiilportod’armi?
– Non ne so niente di tipi
dipistole.Cel’avevodatanto
tempo,
prima
che
cominciassero a fare tante
storiesulportod’armi.
– È sicura di avergliela
data? Sa che stiamo parlando
diunreatoperseguibile.
Le pillole cominciavano a
fare effetto. Il dolore nella
schiena pareva già piú
distante,
gli
arti
cominciavano a rilassarsi,
l’orizzonte si allargava di
nuovo.
–
Vuole
davvero
proseguire
con
queste
assurdità?–hodetto.Misono
sdraiataehochiusogliocchi.
Mi girava la testa. – Stiamo
parlando di persone morte.
Non potete piú fargli niente
adesso. Sono salvi. Avete già
eseguito le condanne. Perché
preoccuparsi di un processo?
Perché non dichiarate chiuso
ilcaso?
Ha ripreso il registratore,
ha maneggiato i tasti, lo ha
rimesso sul cuscino. – Un
semplicecontrollo–hadetto.
Conunlanguidogestodel
braccio ho spinto via il
registratore. Lo ha afferrato
primachecadesseperterra.
– Avete frugato tra le mie
carte private – ho detto. –
Avete preso libri che mi
appartengono. Li rivoglio
indietro.
Voglio
tutto
indietro. Tutte le mie cose.
Non sono cose che vi
riguardano.
–Nonlimangeremoisuoi
libri,signora.Riavràtuttoalla
fine.
– Non rivoglio tutto alla
fine. Rivoglio tutto adesso.
Sonomiei.Sonocoseprivate.
Ha scrollato la testa. –
Questa storia non è privata,
signora Curren. Lo sa bene.
Nonc’èpiúnientediprivato.
Il torpore aveva raggiunto
la mia lingua ora. – Se ne
vada – ho detto con la bocca
impastata.
–
Ancora
qualche
domanda. Dov’era la scorsa
notte?
–ConilsignorVercueil.
– È questo il signor
Vercueil?
Mi costava un grande
sforzo aprire gli occhi. – Sí –
homormorato.
–ChièilsignorVercueil?
–Epoiconuntonodeltutto
differente:–Wieisjy?
– Il signor Vercueil si
occupadime.Èilmiobraccio
destro.Vengaqui,Vercueil.
Ho allungato il braccio
trovando la stoffa del
pantalone di Vercueil, poi la
sua mano, la mano invalida
conleditaanchilosate.Conla
presa insensibile, rapace,
tipica dei vecchi mi ci sono
aggrappata.
–InGoodsnam–hadetto
il detective, già lontano,
altrove. In nome di Dio: una
mera
esclamazione,
o
un’imprecazione lanciata a
noidue?Holasciatolapresa,
cominciavo a scivolare
lontano.
Miècomparsadavantiuna
parola: Thabanchu, Thaba
Nchu. Ho cercato di
concentrarmi. Nove lettere,
anagramma di cosa? Con
grandesforzohospostatolab
all’inizio. Poi mi sono
addormentata.
Mi sono svegliata assetata,
confusa,
dolorante.
Il
quadrante dell’orologio mi
fissava, ma non riuscivo a
distinguerelelancette.Lacasa
era silenziosa del silenzio
dellecaseabbandonate.
Thabanchu: banch? bath?
Conmaniintorpiditemisono
liberata dal lenzuolo che mi
avvolgeva. Devo fare un
bagno?
Ma i piedi non mi hanno
condotta
in
bagno.
Tenendomi al corrimano,
piegata
in
due,
lamentandomi, sono scesa di
sottoehochiamatoilnumero
di Guguletu. Il telefono
squillava e squillava. Poi,
finalmente, qualcuno ha
risposto, la voce di un
bambino,unabambina.–C’è
il signor Thabane? – ho
chiesto. – No. – Allora posso
parlare
con
Florence
Mkubuleki?
No,
non
Mkubuleki, Mkubukeli? – La
signora Mkubukeli non abita
qui.–Malaconoscialmeno?
–Sí,laconosco.–Lasignora
Mkubukeli? – Sí. – E tu chi
sei?–SonoLily.–Li-li.–Sei
solaincasa?–C’èanchemia
sorella. – Quanti anni ha tua
sorella? – Ha sei anni. – E
quantiannihaitu?–Dieci.–
Puoi portare un messaggio
alla signora Mkubukeli, Lily?
–Sí.–Riguardasuofratello,il
signor Thabane. Deve dirgli
di stare attento. Dille che è
molto importante. Il signor
Thabanedevestareattento.Io
sono la signora Curren. Puoi
scrivertelo? E questo è il mio
numero –. Ho dettato il
numero, ho sillabato il mio
nome. Curren: sei lettere,
anagrammadicosa?
Vercueil ha bussato ed è
entrato. – Vuole mangiare
qualcosa?–hadetto.
– Non ho fame. Ma lei si
prepari qualcosa con quello
chec’è.
Volevo stare da sola. Ma
luièrimastolíemiguardava
con curiosità. Ero seduta a
letto, i guanti infilati, il notes
sulle ginocchia. Per mezz’ora
ero rimasta a contemplare la
paginabianca.
–Aspettosolochelemani
siriscaldino–hodetto.
Ma non erano le mani
fredde a impedirmi di
scrivere. Erano le medicine,
che ora prendevo in dosi
maggiori
e
piú
frequentemente. Sono come
fumogeni. Le ingoio ed esse
sprigionano una nebbia
dentro di me: la nebbia
dell’estinzione. Non posso
prendere le pillole e
continuareascrivere.Dunque
senza dolore niente scrittura:
una nuova terribile regola.
Solo che una volta prese le
pillole, niente piú è cosí
terribile,
tutto
torna
indifferente,indifferenziato.
Nonostante tutto, scrivo.
Nel cuore della notte, con
Vercueil che dorme di sotto,
io riprendo questa lettera per
dirti un’ultima cosa a
proposito di «John», quel
ragazzo testardo per il quale
nonhomaiprovatosimpatia.
Volevo dirti che, nonostante
la mia antipatia per lui, ora è
conme,piúpalesemente,piú
acutamente di quanto non lo
siamaistatoBheki.Luiècon
meoiosonoconlui:conluio
con il suo fantasma. Ora è
notte fonda, ma è anche il
grigio del mattino in cui se
n’eandato.Iosonoquialetto,
masonoanchenellastanzadi
Florenceconlasuafinestrae
lasuaportaenessun’altravia
d’uscita. Fuori dalla porta
uomini attendono, acquattati
come cacciatori, per regalare
al ragazzo la sua morte. Lui
tieneingrembolapistolache,
per un breve intervallo di
tempo, tiene a bada i
cacciatori; quello era il loro
grande segreto, suo e di
Bheki, quello che avrebbe
fatto di loro degli uomini; io
sono al suo fianco o mi libro
sudilui.Tienelacannadella
pistola tra le ginocchia; la fa
scorrere su e giú. Sta in
ascolto delle voci di fuori, io
ascolto con lui. Si sta
preparando per il fuoco che
soffocherà i suoi polmoni, il
calcio che spalancherà la
porta,iltorrentedifuocoche
lo spazzerà via. Si sta
preparando per sollevare la
pistola in quell’istante e
spararel’unicocolpocheavrà
il tempo di sparare nel cuore
dellaluce.
Non batte ciglio, gli occhi
fissi alla porta attraverso la
quale sta per lasciare il
mondo.Halaboccasecca,ma
non ha paura. Il cuore batte
ritmicamente nel petto come
unpugno,siapreesichiude.
I suoi occhi sono aperti
mentreimiei,nonostantestia
scrivendo,sonochiusi.Imiei
occhi sono chiusi perché
possanovedere.
In questo lasso di tempo
nonc’ètempo,sebbeneilsuo
cuorebattauntempo.Iosono
qui nella mia stanza in piena
notte ma sono anche con lui,
sempre, come sono con te
oltrel’oceano,libratainvolo.
Un tempo sospeso, ma
non eterno. Un tempo
presente, una sospensione,
prima del ritorno del tempo
in cui la porta si spalanca e
noi incontriamo, prima lui,
poi io, l’immenso bagliore
accecante.
IV.
Ho sognato Florence, era
un sogno o una visione. Nel
sogno la vedo di nuovo
camminare
lungo
Government Avenue, con
HopepermanoeBeautysulla
schiena.Tutteetreindossano
una maschera. Ci sono
anch’io,alcentrodiunafolla
di persone d’ogni tipo e
condizione. C’è aria di festa.
Iocostituiscol’attrazione.Ma
Florence non si ferma a
guardare. Lo sguardo fisso
dinanziasé,passaoltrecome
se camminasse in mezzo a
un’adunatadispettri.
Gli occhi della sua
mascherasonocomegliocchi
delle raffigurazioni nelle
antiche culture mediterranee:
grandi, ovali, con la pupilla
nel centro: gli occhi a
mandorladiunadea.
Io mi trovo di fronte agli
edifici
del
Parlamento,
circondata dalla folla, ed
eseguo i miei giochi di
prestigio con il fuoco. Dietro
di me torreggiano grandi
querce.Malamiamentenon
è concentrata sui giochi.
Osservo Florence. Il suo
cappotto scuro, il suo vestito
trasandato sono spariti. Con
la sottoveste bianca smossa
dalvento,ipiedinudi,ilcapo
scoperto e cosí pure il seno e
la spalla destra, procede; una
delle bambine, mascherata,
nuda,
le
trotterella
speditamente accanto, l’altra
allungaunbraccioaldisopra
della sua spalla per indicare
qualcosa.
Chi è questa dea che
appare nella visione con il
seno scoperto fendendo
l’aria? È Afrodite, ma non
Afrodite la dolce sorridente,
patrona del piacere: una piú
arcaicafigura,unafiguradella
necessità, di grida nel buio,
acute e laceranti, di terra e
sangue, che compare per un
istante,simostra,escompare.
La dea non pronuncia
richiami, non fa cenni. Il suo
occhioapertomavacuo.Vede
manonvede.
In fiamme, impegnata nel
mio numero, io rimango
paralizzata. Le fiamme che
escono da me sono azzurrine
come il ghiaccio. Non provo
dolore.
È una visione legata al
tempo del sogno della scorsa
notte ma è anche fuori dal
tempo. Per sempre la dea
procede lenta, per sempre
rapitainunaposadisorpresa
e rimpianto, ma io non la
seguo. Sebbene io continui a
scrutare nel vortice dal quale
è emersa la visione, la scia
della dea e delle sue figlie
divinerimanevuota:ladonna
che dovrebbe passare al suo
seguitononèlà,ladonnacon
serpidifuocotraicapelliche
agitalebracciamentregemee
danza.
Ho raccontato il sogno a
Vercueil.
– È vero? – mi ha
domandato.
–Vero?Certocheno.Non
èneppureautentico.Florence
nonhanullaachefareconla
Grecia. Le figure che
compaiono in sogno hanno
sempre un altro significato.
Sono segni, segni che stanno
peraltrecose.
–Eranovere?Leieravera?
–
ha
ripetuto,
interrompendomi, rifiutando
dilasciarsisviare.–Chealtro
havisto?
–Chealtro?C’èdell’altro?
Lei lo sa? – ho detto piú
dolcemente, seguendo il filo
deisuoipensieriora.
Ha scrollato la testa
confuso.
– Da quando ci siamo
incontrati – ho detto – io
sonorimastasullaspondadel
fiume ad aspettare il mio
turno. Aspetto qualcuno che
vengaemiconducadall’altra
parte. Ogni istante, ogni
giorno lo passo qui in attesa.
Ecco cos’altro vedo. Lo vede
anchelei?
Nonharisposto.
– La ragione per cui mi
ostino a non voler tornare in
ospedaleècheinospedalemi
metterebbero a dormire 1.
Questa è l’espressione che si
usa per gli animali, per
benevolenza, ma potrebbe
essere usata anche per le
persone.
Mi
farebbero
dormire un sonno senza
sogni. Mi farebbero ingoiare
foglie di mandragora per
farmi assopire, per farmi
cadere nel fiume e allora
annegherei e sarei trascinata
via.Nonvoglioattraversareil
fiume a quel modo. Non
posso permettere che accada.
Sono arrivata troppo oltre.
Nonpossopermetterechemi
chiudanogliocchi.
–Checosavuolevedere?–
hachiestoVercueil.
–Vogliovederecomeleiè
realmente.
Ha alzato le spalle,
diffidente.–Echisonoio?
– Soltanto un uomo. Un
uomo venuto senza essere
stato invitato. Di piú non
possoancoradire.Elei?
Hascrollatolatesta.–No.
– Se vuole fare qualcosa
per me – ho detto – può
aggiustare l’antenna della
radio.
– Non vuole che porti di
soprailtelevisore,invece?
–Mivieneilvoltastomaco
a guardare la televisione. Mi
favomitare.
– La televisione non può
dare il vomito. Sono solo
immagini.
– Non esiste niente di cui
si possa dire: sono solo
immagini. Ci sono uomini
dietroleimmagini.Invianole
loroimmaginipernausearela
gente.Losacosaintendodire.
– Le immagini non
possonodareilvomito.
Qualche volta fa cosí: mi
contraddice, mi provoca, mi
stuzzica, in attesa dei primi
segnalidiirritazione.Èilsuo
modo di canzonarmi, cosí
maldestro, cosí sgraziato che
mifatenerezza.
– Aggiusti l’antenna, per
favore, è tutto quello che le
chiedo.
Èandatodisotto.Qualche
minuto dopo ho udito il suo
passo pesante su per le scale
ed è tornato con il televisore
tralebraccia.Lohaposatodi
frontealletto,lohacollegato
alla presa, lo ha acceso, ha
armeggiatoconl’antennaesi
è fermato lí accanto. Era
pomeriggio. Contro un cielo
turchino sventolava una
bandiera. La banda suonava
l’innodellaRepubblica.
–Spenga–hoordinato.
Ha alzato ancora di piú il
volume.
–Spenga!–hourlato.
Si è girato di scatto,
incrociando il mio sguardo
furioso. Poi, con mia grande
sorpresa, ha cominciato a
muovere
i
piedi
ritmicamente. Dondolando i
fianchi, tendendo le braccia,
schioccando le dita, ha
improvvisato una danza, un
vero e proprio ballo, al ritmo
di una musica che non avrei
mai pensato adatta al ballo.
Canticchiava anche le parole.
Quali? Sicuramente non
quellecheioconoscevo.
– Spenga! – ho gridato di
nuovo.
Una vecchia, sdentata e
infuriata: dovevo essere uno
spettacolo. Ha abbassato il
volume.
–Spenga!
Ha spento il televisore. –
Non se la prenda cosí – ha
mormorato.
– E allora non sia sciocco,
signor Vercueil. E non mi
prendaingiro.Nonsiprenda
giocodime.
–
Sí,
ma
perché
prenderselatanto?
– Perché ho paura di
andare all’inferno e di dover
sentire Die stem per tutta
l’eternità.
Hascrollatolatesta.–Non
si preoccupi, – ha detto –
finiràtutto.Abbiapazienza.
– Non ho abbastanza
tempo per avere pazienza.
Forseleihatempo,maiono.
Hascossodinuovoilcapo.
–Forseancheleihatempo–
hasussurrato,rivolgendomiil
suo sorriso lascivo e pieno di
denti.
Èstatoperunistantecome
se il firmamento si fosse
spalancato con un’esplosione
di luce. Affamata di buone
notizie dopo una vita di
cattive notizie, incapace di
trattenermi, gli ho sorriso. –
Davvero?–hodetto.Hafatto
cennodisíconlatesta.Come
due folli ci sorridevamo l’un
l’altra. Ha schioccato le dita
per sottolineare il momento;
impacciato
come
un
pellicano, tutto piume e ossa,
haripetutounpassodellasua
danza. Poi se ne è andato, è
salitosullascala,hariparatoil
cavo rotto, e io ho riavuto la
miaradio.
Ma cosa c’era da sentire?
Le onde radio traboccanti
degli annunci commerciali di
tuttelenazionichevendonoi
loro prodotti, tanto che la
musica ne esce come
soffocata.
Mi
sono
addormentata
con
Un
americanoaParigiemisono
risvegliata con l’insistente
picchiettare
dell’alfabeto
morse. Da dove proveniva?
Daunanaveinaltomare?Da
unqualchevecchiovaporetto
che solca le acque tra Walvis
Bay e l’isola di Ascensione? I
punti e i trattini si
susseguivano senza fretta,
senza inciampi, in un flusso
che prometteva di rimanere
tale in eterno. Qual era il
messaggio? Era importante?
Quel picchiettare, come
pioggia, una pioggia di
significato,mieradiconforto,
rendeva sopportabile la notte
mentre giacevo in attesa che
si avvicinasse l’ora della
prossimapillola.
Dicochenonvoglioessere
messaadormire.Malaverità
è che senza il sonno non
resisterei. Qualunque cosa
porti con sé, il Diconal
almeno porta il sonno, o un
simulacrodelsonno.Quando
il dolore si ritira, quando il
tempo accelera, quando
l’orizzonte
si
alza,
l’attenzione,
concentrata
come una lente ustoria sul
dolore, può allentarsi per un
po’; posso tirar fiato,
dischiudere i pugni serrati,
stendere le gambe. Ringrazia
per questo momento di
misericordia, mi dico: per il
corpo malato ma intorpidito,
per l’anima assonnata, per
metà fuori dal bozzolo, che
cominciaafluttuare.
Ma la tregua non è mai
lunga. Le nuvole mi
ricoprono, i pensieri si
riaddensano per prendere la
forma di un fitto sciame di
mosche rabbiose. Scuoto il
capo e cerco di scacciarli via.
Questa è la mia mano, dico,
mentrespalancogliocchiper
fissarelevenechenesolcano
ildorso;questoèilcopriletto.
Poi,rapidocomeunfulmine,
qualcosa si abbatte. Un
momento sono persa, un
momento dopo sono lucida,
ancora là a fissare la mano.
Tra questi due istanti un’ora
può essere trascorsa o il
battito di un ciglio durante il
quale io ero assente, perduta,
in lotta contro qualcosa di
denso e gommoso che
m’invadelaboccaeafferrala
lingua alla radice, qualcosa
chevienedalleprofonditàdel
mare. Emergo scrollando la
testa come un nuotatore. In
gola un sapore di bile, di
zolfo. Pazzia! Mi dico: ecco
qualèilsaporedellapazzia!
Una volta mi sono
svegliata con la faccia rivolta
almuro.Avevounamatitain
mano, la punta spezzata.
Dappertutto, sul muro,
c’erano segni obliqui e
sgangherati, privi di senso,
prodottidameodaqualcuno
dentrodime.
Ho telefonato al dottor
Syfret. – Il Diconal mi fa
semprepiúunostranoeffetto
– ho spiegato, cercando di
descrivere il tipo di reazione.
– Mi chiedo se non ci sia
qualcosa di alternativo che
possaprescrivermi.
– Non credevo che si
considerasse ancora una mia
paziente – ha risposto il
dottor Syfret. – Dovrebbe
essere in ospedale, dove
potrebbero curarla. Non
possovisitarlapertelefono.
– Non le chiedo molto –
ho detto. – Il Diconal mi dà
delle allucinazioni. Non c’è
nient’altro
che
possa
prendere?
– E io le dico che non
posso darle delle cure senza
visitarla.Nonèmiaabitudine
farlo, né lo fanno i miei
colleghi.
Sono rimasta in silenzio
percosítantotempochedeve
averpensatochefossecaduta
la linea. La verità era che
vacillavo. Ma non capisce?,
volevo dirgli: sono stanca,
stanca da morire. In manus
tuas: mi affido alle sue mani,
si occupi di me, oppure, se
non può, faccia ciò che si
avvicina di piú a quello che
chiedo.
– Mi consenta un’ultima
domanda – ho detto. – Le
reazioni che ho io, le hanno
avuteanchealtrepersone?
–Ognipazientereagiscein
modo diverso ai medicinali.
Sí, è possibile che le sue
reazioni siano dovute al
Diconal.
– Allora se per caso le si
intenerisceilcuore–hodetto
– potrebbe ordinare una
nuova
prescrizione
telefonando alla farmacia
AvaloninMillStreet?Nonmi
faccio illusioni sulla mia
condizione, dottore. Non ho
bisognodicure,solodiaiuto
persopireildolore.
–Eseleicambiasseideae
volesse
vedermi,
in
qualunquemomento,signora
Curren, a qualsiasi ora del
giorno e della notte, non ha
chedatelefonare.
Un’ora piú tardi ha
squillato il campanello. Era il
corriere della farmacia che
portavalanuovamedicinain
una dose per quattordici
giorni.
Ho
telefonato
al
farmacista. – Tylox, – ho
chiesto – è il piú forte che
esiste?
–Checosaintende?
– Intendo, è l’ultimo che
prescrivono?
– Non è cosí che vanno le
cose, signora. Non c’è un
primoeunultimo.
Ho preso due delle nuove
pillole. Ancora una volta il
miracoloso recedere del
dolore,l’euforia,lasensazione
del ritorno alla vita. Mi sono
fatta il bagno, sono tornata a
letto, ho cercato di leggere,
sonosprofondatainunsonno
confuso. Nel giro di un’ora
erodinuovosveglia.Ildolore
si
stava
insinuando,
accompagnatodaunsensodi
nausea e dalla prima punta
della familiare ombra di
depressione.
La medicina contro il
dolore: un raggio di luce, ma
poibuioraddoppiato.
Vercueilèentrato.
–Hopresolenuovepillole
– ho detto. – Non c’è
miglioramento. Forse sono
solo un po’ piú forti; ecco
tutto.
– Ne prenda un’altra – ha
detto Vercueil. – Non è
obbligataadaspettarequattro
ore.
Il consiglio di un
alcolizzato.
– Lo farò di certo – ho
detto. – Ma se sono libera di
prenderle quando voglio,
perché non prenderle tutte
insieme?
Tranoiècadutoilsilenzio.
–Perchéhasceltoproprio
me?
–Nonl’hoscelta.
– Perché è venuto qui, in
questacasa?
–Nonavevacani.
–Ebasta?
–Pensavochenonavrebbe
fattostorie.
–Ehofattostorie?
Mièvenutovicino.Aveva
il viso gonfio, ho fiutato
l’alcolnelsuoalito.–Sevuole
che l’aiuti, lo farò – ha detto.
Si è chinato su di me, mi ha
preso per la gola, il pollice
posato lievemente sulla
laringe,letreditaanchilosate
chiusedietroilmioorecchio.
– No – ho sussurrato e ho
spinto via la sua mano. Gli
occhi mi si sono colmati di
lacrime. Ho afferrato le sue
mani battendomele sul petto,
in un gesto lamentoso
alquantostranoperme.
Dopo poco mi sono
calmata.Èrimastochinatosu
di me, lasciandomi fare. Il
cane ha posato il naso sul
bordodellettoannusandoci.
– Lascerebbe che il cane
dormaconme?–hochiesto.
–Perché?
–Periltepore.
–Nonlofarà.Dormesolo
conme.
– Allora dorma qui anche
lei.
Ho aspettato a lungo
mentre lui scendeva di sotto.
Ho preso un’altra pillola. Poi
la luce sul ballatoio si è
spenta. L’ho udito togliersi le
scarpe. – Si tolga anche il
cappello, per una volta – ho
detto.
Sièsdraiatoallemiespalle,
sopra la coperta. Mi ha
investitol’odoredeisuoipiedi
sporchi.Hafischiatopiano;il
cane è saltato sul letto, ha
eseguito la sua danza
circolare, si è sistemato tra le
sue gambe e le mie. Come la
spada di Tristano, per
mantenercicasti.
La medicina ha compiuto
il prodigio. Per mezz’ora,
mentre lui e il cane
dormivano, io sono rimasta
sdraiata, immobile, libera dal
dolore, l’anima che vegliava
guardandosiintorno.Dinanzi
ai miei occhi si è formata
l’immagine di Beauty che
cavalcava verso di me sulle
spalle
della
madre,
sobbalzando,
guardando
imperiosamenteavanti.Poila
visioneèandatasbiadendosie
nuvole di polvere, le polveri
diBorodino,sisonosollevate
roteando fino a offuscarmi la
vista, come le ruote del carro
dellamorte.
Ho acceso la luce. Era
mezzanotte.
Stenderò presto un velo
pietoso. Questa non ha mai
preteso di essere la storia di
un corpo, ma dell’anima che
esso ospita. Non ti mostrerò
ciò
che
troveresti
insopportabile: una donna
intrappolata in una casa in
fiamme che corre da una
finestra all’altra, che chiede
aiutoafferrandosiallesbarre.
Vercueil e il suo cane,
addormentati
tanto
placidamente accanto a
questo
torrente
di
disperazione. Compiono il
proprio dovere, in attesa che
l’anima emerga. L’anima,
neofita, ancora umida, cieca,
ignorante.
Adessoconoscolastoriadi
comehapersol’usodelledita.
È stato per un incidente
accaduto in mare. Hanno
dovuto abbandonare la nave.
Nellaconfusionelasuamano
è finita in una puleggia ed è
rimasta schiacciata. Per tutta
la notte lui con altri sette
uomini e un ragazzo sono
rimastiinbaliadeifluttisudi
unascialuppa.Ilgiornodopo
sonostatitrattiinsalvodaun
peschereccio russo e la mano
glièstatamedicata.Maallora
eratroppotardi.
– Ha imparato un po’ di
russo?–hochiesto.
Tuttociòchericordava,ha
detto,eraxorosho.
– Nessuno ha menzionato
Borodino?
– Non mi ricordo di
Borodino.
– Non ha pensato di
restareconirussi?
Mi ha guardato in modo
strano.
Non è mai piú stato in
maredaallora.
–Nonlemancailmare?–
hochiesto.
– Non metterò mai piú
piede su una barca – ha
rispostoseccamente.
–Perché?
–Perchélaprossimavolta
nonsareicosífortunato.
– Come può dirlo? Se
avesse fiducia in se stesso
potrebbe camminare sulle
acque.Noncredeneimiracoli
dellafede?
Èrimastoinsilenzio.
– O una tromba d’aria
potrebbe trascinarla fuori
dall’acqua e depositarla sulla
terraferma.Ecisonosemprei
delfini. I delfini portano in
salvo i naufraghi, no? A
proposito, perché ha fatto il
marinaio?
– Non pensi sempre al
futuro.Nonsemprelosai.
Ho pizzicato con dolcezza
l’anulare.–Senteniente?
– No. I nervi sono
atrofizzati.
Ho sempre saputo che
aveva una storia da
raccontare, e ora comincia a
raccontarla, comincia dalle
dita della mano. Storie da
marinaio. Ci credevo? In
fondononm’importava.Non
v’è bugia che non contenga
un nocciolo di verità. Si deve
solosaperascoltare.
Haanchelavoratoalporto,
sollevando
casse
e
scaricandole. Un giorno, ha
raccontato, nello scaricare
una cassa, hanno sentito un
cattivoodoreel’hannoaperta
trovandovi il corpo di un
clandestino che era morto di
fameinquelnascondiglio.
–Dadoveveniva?
– Dalla Cina. Da molto
lontano.
Ha anche lavorato per la
SPCA 2,alcanile.
– È là che ha preso ad
amareicani?
– Sono sempre andato
d’accordoconicani.
– Aveva un cane da
bambino?
– Mmh – ha mormorato,
senza intendere niente di
particolare. Da un pezzo
aveva deciso che poteva
permettersi di scegliere a
qualidellemiedomandedare
ascoltoeaqualino.
Nonostante ciò, pezzo
dopopezzohomessoinsieme
la storia di una vita oscura
come ogni altra su questa
terra. Cosa gli riserva il
futuro, mi domando, quando
l’episodio della vecchia nella
sua grande casa sarà
concluso?Unamanoinvalida,
incapacediadempiereatuttii
suoicompiti.Lasuaabilitàdi
marinaio nel fare i nodi,
persa.Nonpiúabile,nonpiú
presentabile. Giunto a metà
del cammino e senza una
moglie al fianco. Solo:
stoksielalleen: un bastone in
un campo vuoto, un’anima
solitaria, sola. Chi veglierà su
dilui?
–Chenesaràdileiquando
noncisaròpiú?
–Andròavanti.
–Nesonocerta;machici
saràafarlecompagnia?
Ha sorriso esitante. – Ho
bisogno di compagnia nella
miavita?
Non una replica. Una
domandaveraepropria.Non
lo sa. Lo sta chiedendo a me,
quest’uomocosírudimentale.
– Sí. Credo che abbia
bisogno di una moglie, se
l’idea non le sembra troppo
bizzarra. Persino quella
donna che aveva portato qui
andrebbe bene, se nel suo
cuore coltiva un qualche
sentimentoperlei.
Hascrollatolatesta.
– Non importa. Non è di
matrimonio che sto parlando
madiqualcosad’altro.Vorrei
poterle promettere che
veglierò su di lei, ma non ho
un’ideaprecisadiciòcheciè
consentito dopo la morte.
Forse non sarà affatto
permesso vegliare su alcuno,
o molto poco. Ogni posto ha
le sue regole e, non importa
quanto lo si desideri,
potrebbe
non
essere
consentito
aggirarle.
Potrebbero persino non
essere consentiti segreti,
vegliaredinascosto.Potrebbe
non esserci modo di
conservare un posto nel
cuore, segreto, per lei o per
qualcunaltro.Tuttopotrebbe
esserecancellato.Tutto.Èun
pensiero terribile. Sufficiente
afarciribellare,afarcidire:se
è cosí che vanno le cose,
rinuncio;eccoilmiobiglietto,
lo restituisco. Ma dubito
molto che la restituzione del
biglietto
sia
prevista,
qualunquesialacausa.
– Ecco perché non
dovrebbe restare cosí solo.
Perché
forse
dovrò
andarmenedefinitivamente.
Era seduto sul letto e mi
dava le spalle, incurvato,
teneva la testa del cane tra le
ginocchiael’accarezzava.
–Capisce?
– Mmh –. Quel mmh
potrebbe significare sí ma, in
realtà,nonsignificanulla.
–No,nonmicapisce.Non
mi capisce affatto. Non è la
prospettiva
della
sua
solitudine che mi sgomenta,
ma la prospettiva della mia
solitudine.
Ogni giorno esce a fare la
spesa. Alla sera cucina, poi
rimane curvo accanto a me,
peraccertarsichemangi.Non
homaifamemanonhocuore
di dirglielo. – Non riesco a
mangiare se mi guarda – ho
detto molto gentilmente, poi
honascostoilciboel’hodato
alcane.
La sua specialità è pane
bianco fritto nell’uovo,
guarnito con tonno e salsa di
pomodoro. Avrei dovuto
avere la lungimiranza di
darglilezionidicucina.
Nonostante
abbia
a
disposizione l’intera casa per
sistemarsi, vive di fatto nella
mia stanza. Lascia in giro
sacchettivuoti,buttaperterra
vecchie
cartacce,
che
turbinanocomefantasminon
appenasiformaunacorrente
d’aria. – Porti via la
spazzatura – l’ho pregato, ha
promesso di farlo, e qualche
volta lo fa, ma poi ne lascia
dell’altra.
Dividiamounletto,piegati
l’uno sull’altra come una
pagina piegata in due, come
due ali piegate: vecchi
compagni, compagni di
branda, congiunti, coniugi.
Lectus
genialis,
lectus
adversus.Leunghiedeipiedi,
quando si toglie le scarpe,
sonogiallastre,quasimarroni,
come corno. Piedi che tiene
lontani dall’acqua per paura
di cadere: cadere nelle
profonditàdoveèimpossibile
respirare.Unacreaturaarida,
una creatura d’aria, come
quelle
fate-locuste
di
Shakespeare con sferze di
ragnatela e impugnature
d’osso di grillo. Enormi
sciami,nateinaltomaresulle
ali del vento, là dove non si
scorge la terraferma, stanche,
si
ammucchiano
incessantemente le une sulle
altre, decise a ricoprire
l’Atlantico tante ve ne sono.
Ingoiate tutte, però, fino
all’ultima.Fragilialisulfondo
delmaresospiranocomeuna
miriadedifoglie;occhimorti
a milioni; e i granchi che si
aggiranotraloro,leafferrano,
ledivorano.
Luirussa.
A fianco del suo maritoombra tua madre ti scrive.
Perdonami se il quadro in
qualche modo ti offende. Si
deve amare ciò che è piú
vicino. Si deve amare ciò che
è a portata di mano, come
fannoicani.
SignoraV.
23 settembre, equinozio.
Una pioggia battente cade da
un cielo che si è rinserrato
contro le montagne, cosí
basso che lo si può
raggiungere con il manico
della scopa e toccarlo. Un
suono dolce e attutito, come
una grande mano, una mano
d’acquacheavvolgelacasa,il
picchiettare sulle tegole, lo
sgocciolare della grondaia
smettono di essere rumori,
divengono un infittirsi, un
liquefarsidell’aria.
– Cos’è questo? – ha
domandatoVercueil.
Avevainmanounpiccolo
scrigno di palissandro. Se
tenuto aperto contro la luce
secondo
una
certa
angolazione si intravede un
giovanedaicapellilunghicon
unabitodifoggiaantica.Sesi
cambia
angolazione,
l’immagine si scompone in
striature argentee dietro una
superficiedivetro.
– È una foto d’altri tempi.
Diprimadell’invenzionedella
fotografia.
–Chiè?
– Non sono sicura.
Potrebbe essere uno dei
fratellidimiononno.
– La sua casa sembra un
museo.
(È andato a ispezionare le
stanze in cui ha fatto
irruzionelapolizia).
– In un museo gli oggetti
recanodelleetichette.Questo
è un museo dove le etichette
sono andate perdute. Un
museo in rovina. Un museo
che dovrebbe essere dentro
unmuseo.
–Dovrebbevenderliquesti
vecchi oggetti se non li vuole
piú.
– Li venda lei se vuole.
Vendaancheme.
–Chevendo?
– Venda i capelli. Le ossa.
Si venda pure i miei denti. A
meno che non pensi che io
nonvalganulla.Èunpeccato
non avere una di quelle
carriole che usavano i
bambiniperportarcidentroil
fantoccio di Guy 3. Potrebbe
portarmi per le strade con
unaletteraappuntatadavanti.
Poi potrebbe darmi fuoco. O
potrebbe portarmi in luoghi
ancorapiúoscuri,ladiscarica
dei rifiuti per esempio, e
buttarmilà.
Primaerasolitoandaresul
balcone quando voleva
fumare. Adesso fuma sul
ballatoio e il fumo s’insinua
nella stanza. Non posso
sopportarlo. Ma è venuto il
tempo di cominciare ad
adattarsi a ciò che non
sopporto.
Mi ha visto mentre lavavo
la biancheria intima nel
lavandino.Eraunasofferenza
dover stare chinata: senza
dubbio dovevo offrire uno
spettacolo penoso. – Posso
farlo io – ha detto. Ho
rifiutato.Mapoinonriuscivo
a raggiungere le corde per
stendere,cosíhadovutofarlo
lui: la biancheria di una
vecchia,ingrigita,sfilacciata.
Quando il dolore morde
piú forte e io rabbrividisco e
impallidisco e un sudore
freddo s’impadronisce di me,
lui qualche volta mi tiene la
mano.Iomicontorcoaquella
stretta come un pesce preso
all’amo; sono consapevole di
avere dipinta in volto
un’espressione
orribile,
l’espressionediquandosièal
culmine
dell’amplesso:
brutale, famelica. A lui non
piace quell’espressione; gira
gli occhi dall’altra parte. Per
quanto mi riguarda, penso:
lascia che veda, lascia che
imparicomecisisente!
Porta un coltello in tasca.
Non
un
coltello
a
serramanico
ma
un
pericoloso coltello dalla lama
lunga e la punta affilata
conficcata in un tappo di
sughero.Quandovienealetto
loposasulpavimentoaccanto
asé,insiemeaisoldi.
Cosísonobenprotetta.La
morte ci penserà due volte
prima di avvicinarsi a questo
caneeaquest’uomo.
Mi ha chiesto, che cos’è il
latino?
Una lingua morta, gli ho
risposto,lalinguacheparlano
imorti.
– Davvero? – ha
domandato. L’idea sembrava
incuriosirlo.
–Sí,davvero–horisposto.
– La si sente solo ai funerali.
Ai funerali e ogni tanto ai
matrimoni.
–Loparla?
Ho recitato un brano di
Virgilio, Virgilio sui morti
senzasepoltura:
necripasdaturhorrendaset
raucafluenta
transportarepriusquam
sedibusossaquierunt.
Centumerrantannos
volitantquehaeclitora
circum;
tumdemumadmissistagna
exoptatarevisunt 4.
– Cosa vuol dire? – ha
chiesto.
– Vuol dire che se non
spedirà la lettera a mia figlia
io per cent’anni non troverò
pace.
–Nonèvero.
– Sí, è vero. Ossa: è la
parola latina che significa
diario. Qualcosa su cui sono
incisi i giorni della nostra
vita.
Piú tardi è tornato da me.
– Ripeta di nuovo il latino –
ha chiesto. Ho recitato il
brano mentre le sue labbra si
muovevano
come
per
riprodurre quei suoni. Sta
memorizzando, ho pensato.
Manoneracosí.Erailritmo
del dattilo che gli risuonava
dentro, con quella sua
capacitàdifarvibrareilpolso,
lagola.
– Era questo che
insegnava? Era questo il suo
lavoro?
– Sí, era il mio lavoro. Mi
guadagnavo da vivere cosí.
Restituendolavoceaimorti.
–Echipagava?
– I contribuenti. La gente
del Sudafrica, la gente
importanteequellameno.
– Potrebbe insegnarlo
ancheame?
–
Avrei
potuto
insegnarglielo. Avrei potuto
insegnarlemoltosuiRomani.
Non altrettanto sui Greci.
Poteiancorafarlo,manonci
sarebbetempopertutto.
Eralusingato,lovedevo.
– Troverebbe facile il
latino – ho detto. –
Riuscirebbe a memorizzare
unagranquantitàdicose.
Un’altra sfida lanciata, un
altro segnale che io so. Sono
come una moglie con un
maritochehaunarelazionee
voglia tenerla segreta, e lo
rimprovera per indurlo a
confessare. Ma le mie
allusioni non lo smuovono.
Lui non nasconde niente. La
sua ignoranza è reale. La sua
ignoranza:lasuainnocenza.
– C’è qualcosa che non
torna,nonèvero?–hodetto.
– Perché non parla,
semplicemente, restando a
guardare dove le parole la
conducono?
Ma lui era su una soglia
che non poteva oltrepassare.
Se ne stava in piedi,
immobilizzato, senza parole,
nascosto dietro il fumo della
sigaretta, strizzando gli occhi
cosíchenonpotessiguardarci
dentro.
Il cane gli girellava
intorno, poi si è avvicinato a
me, si è riallontanato,
irrequieto.
È possibile che sia il cane,
non lui, a essermi stato
mandato?
Non lo vedrai mai,
suppongo.
Mi
sarebbe
piaciuto mandarti una foto,
ma la macchina fotografica
mièstataportataviadailadri.
In ogni caso, non è di quelle
persone che vengono bene in
fotografia. Ho visto la foto
sulla sua carta d’identità.
Sembra un prigioniero che
qualcuno abbia strappato a
unacellabuia,spingendoloin
una stanza illuminata da una
luce accecante, mettendolo
controunmuroegridandogli
di stare fermo. Un’immagine
rubata, presa con la forza. È
come una di quelle creature
per metà fantastiche che in
fotografia appaiono solo in
formadimacchie,ombreche
si annidano nel sottobosco,
potrebbero essere uomini o
belve o semplicemente una
macchia
nell’emulsione:
inspiegabile,noncomprovata.
Oppureunadiquellecreature
che esorbitano dalla cornice,
chelascianonellatrappoladel
diaframma un braccio o una
gambaounatestavoltata.
– Le piacerebbe andare in
America?–glihochiesto.
–Perché?
– Per portare la lettera.
Invece di spedirla, potrebbe
portarla di persona: volare in
America e tornare qui.
Sarebbe una bella avventura.
Meglio che andare per mare.
Mia figlia verrebbe a
prenderlaesioccuperebbedi
lei.Leprocurereiibigliettiin
anticipo.Ciandrebbe?
Ha sorriso spavaldamente.
Ma alcuni dei miei scherzi
toccanountastoamaro,loso.
–Dicosulserio–hodetto.
Ma la verità è che non è
una proposta seria. Vercueil
con un bel taglio di capelli,
benvestito,chesiaggiranella
tua camera per gli ospiti alla
ricerca disperata di qualcosa
da bere, troppo timido per
chiedere; e tu nella stanza
accanto,
i
bambini
addormentati, tuo marito
addormentato, intenta nella
lettura di questa lettera, di
questa confessione, questa
follia,nonèpensabile.Nonlo
voglio, diresti tra i denti:
questo è ciò da cui sono
fuggita venendo qui, perché
deve
continuare
a
perseguitarmi?
A tempo perso ho
riguardato le fotografie che
mi hai mandato dall’America
nel corso degli anni,
osservando ciò che appare
sullosfondo,tuttequellecose
che volenti o nolenti sono
finite nel quadro quando hai
scattatolafoto.Nellafotoche
haimandatodeiduebambini
in canoa, per esempio, i miei
occhi vagano dai loro volti
alle increspature sull’acqua
del lago, al verde cupo degli
abeti, per poi tornare a
posarsi sui loro giubbotti
arancioni che sostituiscono i
vecchi braccioli. La loro
superficie grezza leggermente
sfavillantequasimiipnotizza.
Gomma o plastica o una via
di mezzo tra le due: una
qualche sostanza ruvida al
tatto, resistente. Perché
questo materiale, a me
sconosciuto,
forse
sconosciuto
all’intera
umanità, sagomato, sigillato,
gonfiato, legato al corpo dei
tuoibambini,rappresentaper
me tanto chiaramente il
mondo in cui vivi ora, e
perché mi deprime tanto?
Non ho una risposta. Ma
poiché questo mio scritto mi
hadivoltainvoltaportatoda
uno stato di smarrimento a
un
principio
di
comprensione, consentimi di
dire,contuttalaprudenzadel
caso, che forse mi deprime il
fatto che i tuoi bambini non
annegherannomai.Tuttiquei
laghi, tutta quell’acqua; una
terra di laghi e di fiumi; e
tuttavia,seperpurocasoloro
scivolassero dalla canoa,
galleggerebbero
tranquillamente nell’acqua,
sostenuti da quelle loro
brillanti ali arancioni, fino
all’arrivodiunmotoscafoche
li prelevi e li porti in salvo e
tuttotornerebbeaposto.
Un parco di divertimenti,
lo definisci sul retro della
fotografia.
Il
lago
addomesticato,
addomesticata la foresta,
ribattezzata.
Dici che non vuoi altri
bambini. La linea si
estinguerà, allora, con questi
due ragazzi, semi piantati
nelle nevi del continente
americano,
che
non
annegheranno mai, la cui
aspettativa di vita supera i
settantacinque anni e piú.
Persinoio,chevivosullerive
di acque che inghiottiscono
uomini robusti, dove l’età
media diminuisce ogni anno,
sto morendo di una morte
priva di illuminazioni. In che
cosa possono sperare questi
due poveri ragazzi, non certo
privilegiati, che remano in
quel parco di divertimenti?
Morirannoasettantacinqueo
ottantacinque anni, stupidi
comequandoeranonati.
Desiderolamortedeimiei
nipoti? Giunta a questo
punto, starai gettando via
questa pagina disgustata?
Vecchia
pazza!
starai
gridando?
Non sono nipoti miei.
Sono troppo lontani per
essere bambini miei in ogni
caso.Nonmilascioallespalle
una famiglia numerosa. Una
figlia. Un consorte e il suo
cane.
Non desidero affatto la
loro morte. I due bambini, le
cuivitehannosfioratolamia,
perlacronacasonogiàmorti.
No, desidero che i tuoi
bambini vivano. Ma non
saranno le ali che gli hai
assicurato attorno al corpo a
garantirgli la vita. La vita è
polvere incrostata tra le dita
deipiedi.Lavitaèpolvereche
scricchiola tra i denti. La vita
èmorderelapolvere 5.
Oppure:lavitaèannegare.
Cadere nell’acqua, andare a
fondo.
– Sta per abbattersi su di
me il tempo in cui dovrò
dipenderedall’aiutoaltruiper
i rituali piú intimi. È tempo
allora di porre fine a questa
dolorosa storia. Non che
dubiti della collaborazione di
Vercueil. Quando si tratta di
risoluzioni definitive, non
dubito piú di lui in alcun
modo.C’èsemprestatainlui
una vaga seppure inaffidabile
sollecitudine
nei
miei
riguardi, una sollecitudine
chenonriesceaesprimere.Io
sono caduta e lui mi ha
sostenuto. Non è stato lui a
cadere sotto le mie cure
quando è arrivato, ora lo
capisco, né io sono caduta
sotto le sue: siamo caduti
l’uno
sotto
l’altra,
incespicando e rialzandoci
ripetutamentedaallora,negli
altiebassidiquellareciproca
elezione.
Tuttavia lui è ben lungi
dall’essere una nurse, una
nourrice,unanutrice,comeio
laimmagino.Èarido.Ciòche
beve non è acqua ma fuoco.
Forse è per questo che non
riesco
ad
immaginare
bambini nati da lui: perché il
suosemesarebbearido,secco
ebrunocomepollineocome
lapolverediquestaterra.
Hobisognodilui,dellasua
presenza, del suo conforto,
delsuoaiuto,maancheluiha
bisogno di aiuto. Ha bisogno
dell’aiutochesolounadonna
può dare a un uomo. Non
seduzione ma induzione. Lui
non sa amare. Non parlo dei
moti dell’animo, ma di
qualcosadipiúsemplice.Non
sa come si ama, come non lo
sa un bambino. Non sa quali
chiusure lampo e bottoni e
ganci aspettarsi. Non sa cosa
vadove.Nonsacomefareciò
chedevefare.
Piú si avvicina la fine, piú
fedele diventa. Eppure devo
ancoraguidarelasuamano.
Ricordo il giorno in cui
sedevamo in macchina,
quando mi ha offerto i
fiammiferi e mi ha detto di
Farlo. Ero offesa. Ma ero
giusta con lui? Adesso mi
sembrachelasuaconcezione
della morte non sia diversa
dalla concezione che una
vergine ha del sesso. La
curiosità è la medesima. La
curiosità di un cane che ti
annusa in mezzo alle gambe,
scodinzolando,lalinguarossa
e goffa come un pene
penzolante.
Ieri,
mentre
mi
accompagnavainbagno,misi
è aperta la camicia e l’ho
sorpreso a fissarmi. Come
quei bambini in Mill Street:
nonmostravaalcunadecenza.
La decenza: l’inesplicabile; il
fondamento di ogni etica.
Cose che non facciamo.
Distogliamo lo sguardo
quando l’anima abbandona il
corpo, versiamo lacrime o
copriamo gli occhi con le
mani.Distogliamolosguardo
dalle cicatrici, luoghi da cui
l’anima ha lottato per uscire
ed è stata respinta indietro,
rinchiusa,ricucitadentro.
Gli ho chiesto se dava
ancoradamangiareaigatti.–
Sí–harisposto,mamentiva.
Perchéigattisonoscomparsi,
sono stati cacciati via. Mi
dispiace? No, non piú. Dopo
essermi presa cura di te, di
lui,nonc’èrimastopostoper
altro nel mio cuore. Il resto
può, come si dice, andare in
malora(gotothepot).
La scorsa notte, sentendo
avanzareilgelo,hocercatodi
telefonartiperdirtiaddio.Ma
non hai risposto. Ho
sussurrato il tuo nome. –
Figliamia,bambinamia–ho
sussurrato all’oscurità, ma
tutto ciò che ho visto è stata
una foto: una tua immagine,
non tu. Tagliata, ho pensato:
interrotta anche la linea. Ora
non c’è piú niente a
trattenermi.
Mamisonoaddormentata
e risvegliata, ed ero ancora
qui,equestamattinamisento
abbastanza in forze. Allora,
forse, non sono solo io a
chiamare.Forsequandosento
freddo è perché vengo
richiamata fuori dal corpo,
attraverso i mari, senza
saperlo.
Come vedi, credo ancora
neltuoamore.
Ti libererò presto da
questa catena di parole. Non
c’è bisogno di dispiacersi per
me. Ma dedica un pensiero a
quest’uomo rimasto indietro,
chenonpuònuotare,enonsa
ancoravolare.
Ho dormito e mi sono
svegliata infreddolita: lo
stomaco, il cuore, le ossa
raggelati.Laportadelbalcone
eraaperta,letendescomposte
dalvento.
Vercueil era sul balcone e
contemplava un mare di
foglie fruscianti. Gli ho
toccatoilbraccio,lespallealte
espigolose,inodiossutidella
spinadorsale.Conidentiche
mibattevanohodetto:–Che
cosastaguardando?
Non ha risposto. Gli sono
andatapiúvicino.Unmaredi
ombre sotto di noi, e uno
schermo
di
foglie
ondeggianti, fruscianti, come
scaglienell’oscurità.
–Èvenutoilmomento?–
hodetto.
Sono tornata a letto,
reimmergendomi nel tunnel
sotto le lenzuola fredde. Si è
apertounvarcofraletende;è
entrato accanto a me. Per la
prima volta non ho sentito
alcun odore. Mi ha preso tra
le braccia stringendomi con
vigore, cosí che il respiro mi
haabbandonatoinunistante.
Non v’era tepore che potesse
veniredaquell’abbraccio.
1[Ininglesel’espressionetoput
tosleepèuneufemismocheindica
lasoppressionedeglianimali].
2[SocietyforthePreventionof
CrueltytoAnimals].
3[Fantocciodagliabitidifoggia
antica che veniva portato per le
stradedaibambiniepoibruciatoil
5 novembre, giorno della
ricorrenza
della
cosiddetta
«congiura delle polveri», ordita da
Guy Fawkes, giustiziato per aver
tentato nel 1605 di far saltare in
aria re Giacomo I e il Parlamento.
Ancora oggi si festeggia la
ricorrenza con fuochi d’artificio,
mentre il fantoccio di Guy viene
bruciato su Parliament Hill a
Hampstead].
4 [«Non è concesso le rive
paurose, le rauche correnti |
passare, prima che l’ossa riposino
nella loro dimora: | cento anni
erranoeintornoallidosvolazzano:
| poi, finalmente ammessi, lo
stagno
bramato
rivedono»:
Virgilio, Eneide, trad. it. di Rosa
Calzecchi Onesti, Einaudi, Torino
1967,libroVI,vv.327-330,p.223].
5[Ininglesel’espressionetobite
thedustsignifica«morire»].
Il libro
I
L
CORPO
DI
U NA
donna chiamata ad
affrontarelamalattia.
Il corpo esile di un
derelitto alcolizzato. Il corpo
politico del Sudafrica afflitto
dall’apartheid. Il Sudafrica
deglianniOttanta,abitatoda
un cancro che lentamente
s’insinuasottopelleereclama
aségiovanivittime,iragazzi
delletownship,impegnatinei
boicottaggi delle scuole,
perseguitatidallapoliziaedai
militari.
La
signora
Curren,
un’insegnante in pensione,
diviene
suo
malgrado
testimone di eventi storici
violenti, di cui radio e
televisione non dicono nulla,
madicuisonoprotagonistii
figli
della
domestica:
l’anziana signora si ritrova a
dovermedicareeidentificare
i corpi dei ragazzi. Questa
lunga e lenta agonia,
individuale e privata, ma
anche collettiva e pubblica, è
racchiusanellepaginediuna
letteracheladonnalasceràin
ereditàallafiglialontana,che
da tempo ha voltato le spalle
al paese. Latore di questa
missiva sarà forse il signor
Vercueil,
il
misterioso
compagno dei suoi ultimi
giorni di vita: angelo
maledetto,
messaggero,
parassita?
In un tempo di strane
alleanze, in cui non ci sono
piúnépadri,némadri,incui
i bambini vengono temprati
alla guerra e alla morte, in
questa età di ferro è difficile
intravedere
un
futuro
diverso, quando il Sudafrica
potrebbe risorgere come una
fenice dalle proprie ceneri. Il
romanzo epistolare della
signora Curren rimane
dolorosamente
e
spietatamentedisincantato.
Traduzione
Concilio.
di
Carmen
L’autore
J. M. Coetzee ha vinto nel
2003ilpremioNobelperla
Letteratura ed è uno dei
piú importanti narratori
sudafricani. Einaudi ha
pubblicato: La vita e il
tempo di Michael K.,
Infanzia, Gioventú, Terre
al crepuscolo, Aspettando i
barbari,
Vergogna,
Elizabeth Costello, Nel
cuore del paese, Il Maestro
diPietroburgoeFoe.
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Foe
Aspettandoibarbari
ElizabethCostello
Terrealcrepuscolo
Gioventú
Infanzia
Vergogna
TitolooriginaleAgeofIron
©1990byJ.M.Coetzee,
byarrangementwithPeter
LampackAgency,inc55th
Avenue,
suite1613,NewYork10176-0187
USA
©2006GiulioEinaudieditore
s.p.a.,Torino
Incopertina:foto©Paula
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Images.
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