Orlando furioso di Ludovico Ariosto

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Orlando furioso di Ludovico Ariosto
«ORLANDO FURIOSO»
DI LUDOVICO ARIOSTO
di Corrado Bologna
Letteratura italiana Einaudi
1
In:
Letteratura Italiana Einaudi. Le Opere
Vol. II, a cura di AlbertoAsor Rosa,
Einaudi,Torino 1993
Letteratura italiana Einaudi
2
Sommario
1.
Genesi e storia.
1.1.
1.2.
1.3.
1.4.
1.5.
Un libro «che non comincia e non finisce».
Dall’Innamorato al Furioso.
La prima «forma» del Furioso.
La prima «mutazione» del Furioso.
Le altre «mutazioni» del Furioso.
5
8
14
23
27
5
2.
Struttura.
34
2.1.
2.2.
2.3.
2.4.
2.5.
2.5.1.
2.5.2.
2.5.3.
2.5.4.
2.5.5.
Lo «stile», la «forma», il «contenuto» del poema.
Il poema dello spazio.
Il poema del movimento: dello spazio in movimento.
«Microscopia» e «macroscopia».
Il «suono dei sospiri»: dalla lirica all’epica.
La forma dell’epica, fra terzina e ottava.
La dialettica fra ottava «lirica» e ottava «narrativa».
La struttura fonico-semantica del linguaggio ariostesco
Armonia musicale e «destino» dei personaggi nel Furioso.
Rime e rimanti.
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95
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3.
«Contenuti» e «temi».
114
3.1.
3.2.
3.3.
I «contenuti» del Furioso.
I «temi» del Furioso.
Sentieri interrotti.
114
117
120
4.
Fonti e modelli.
130
4.1.
Le «fonti» dell’Orlando Furioso.
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4.2.
I «modelli» dell’Orlando Furioso.
133
5.
Ariosto e il «Moderno».
137
6.
Nota bibliografica.
143
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4
1. Genesi e storia.
1.1. Un libro «che non comincia e non finisce».
L’Orlando Furioso è un poema che si rifiuta di cominciare, e si rifiuta di finire. Si rifiuta
di cominciare perché si presenta come la continuazione d’un altro poema, l’Orlando Innamorato di Matteo Maria Boiardo, lasciato incompiuto alla morte dell’autore. E si rifiuta di finire perché Ariosto non smette mai di lavorarci. […] Per tutta la sua vita, si
può ben dire, perché per arrivare alla prima edizione del 1516, Ariosto aveva lavorato
dodici anni, e altri sedici anni fatica per licenziare l’edizione del 1532, e l’anno dopo
muore1.
Italo Calvino, avviando il discorso intorno alla «struttura dell’“Orlando”»,
cioè del classico forse da lui più amato e più compreso («[…] la predilezione per
questo poema ha lasciato traccia nelle cose che ho scritto [...] »)2, colse perfettamente la natura intrinseca ed estrinseca di un testo cruciale per la storia della cultura europea: non catalogabile, mobile, proteiforme, molteplice, reticolare, policentrico. La contraddizione e la dialettica sono la sua cifra segreta; la trasformazione e il salto, la norma del suo ritmo.
Libro d’una vita, perché elaborato per quasi un trentennio e perché teatralizza mnemonicamente un’intera esistenza. Libro della memoria: anzi proprio libromemoria, che fin dall’ottava incipitaria si propone quale voce individuale modulata, secondo l’antico canone occitanico e petrarchesco, a fondere musica e parole («io canto») per raccontare la vita, individuale e collettiva, di tutti e di ciascuno
(«le donne, i cavallier, l’arme, gli amori, | le cortesie, l’audaci imprese […]»), trasfigurandola e fissandola in fantasmi-emblemi del non-tempo mitico («che furo al
tempo che passaro i Mori | d’Africa il mare […]»)3. Immediatamente, con replica
della protasi in orgogliosa, oraziana autolegittimazione («Carmina non prius | audita Musarum […] | […] cano»)4, il canone esibito con fierezza nell’avvio (Virgilio e Dante, ovviamente: ma anche, com’è stato segnalato, Eustache Deschamps, e
il Boiardo, e il Mambriano)5 viene leggiadramente abolito («Dirò d’Orlando in un
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I. CALVINO, La struttura dell’«Orlando» (1974), in ID., Perché leggere i classici, Milano 1991, pp. 78-88 (a p. 78).
ID., Piccola antologia di ottave (1975), ibid., pp. 89-95 (a p. 89).
3
L. ARIOSTO, Orlando Furioso, a cura di C. Segre, Milano 1976, p. 1 (da qui sono tratte anche tutte le successive
citazioni).
4 ORAZIO, Carmina, III, 1, 2-4.
5 Cfr. la sintesi dei dati in C. SEGRE, Testo letterario, interpretazione, storia: linee concettuali e categorie critiche, in
Letteratura italiana, diretta da A. Asor Rosa, IV. L’interpretazione, Torino 1985, pp. 21-140 (per E. Deschamps si veda
anche, autonomamente, G. TAVANI, Su una fonte poco nota per l’«incipit» del «Furioso», in AA. VV., Miscellanea di
studi in onore di Aurelio Roncaglia a cinquant’anni dalla sua laurea, 4 voll., Modena 1989, IV, pp. 1339-44).
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medesmo tratto | cosa non detta in prosa mai né in rima [...] »). Nel salto6, si vorrebbe dire per istantanea consumazione del secolarmente accumulato, con la grazia lieve dell’understatement («che ’l poco ingegno ad or ad or mi lima») si produce l’autoraffigurazione del testo (il quale, immediatamente, dice «io»: e continuerà, ambiguamente, a dirlo per tutta l’opera). L’apokatástasis, sognando se stessa al futuro, «risveglia» il presente7 e ristabilisce così lo spazio del nuovo, dell’inedito e dell’immaginabile proprio là dove la tradizione sembrava non consentire
altra esperienza del sublime che l’iterazione di se stessa.
Fin dall’inizio nel Furioso davvero tutto sembra già avvenuto, ogni esperienza
è già risolta, ogni parola consumata. Eppure, attraverso la fatica dell’inventio, quasi in un palinsesto il già detto si trascrive nel mai detto prima. Già nella seconda ottava del libro, appunto, la parola rima rima con prima (ed anzi è inclusa in quel rimante, secondo una tecnica che a luogo debito vedremo applicata con strategia
consapevole e perfetta) e con lima. Cose e parole si offrono quasi inedite, sempre
di nuovo fruibili e trasformabili, nel passaggio alla nuova dimensione verbale.
Passaggio che è anzitutto flusso inesauribile del tempo, e sublimazione del tempo
esistenziale in tempo diegetico. Il tempo perduto del sogno e della nostalgia («furo») si riattualizza nell’imperiosa asseverazione del presente («io canto»): ed è
l’urgenza della vocalità a contenere in sé la possibilità di un futuro diverso
(«dirò»)8.
Che cosa è, e che cosa vuol essere, il Furioso, per l’Ariosto e per il lettore del
suo tempo? Anzitutto, precisamente un libro «che non comincia e che non finisce». Anche la collocazione strategica, multiforme e ambigua, nella cultura del
tempo, accanto e dopo gli altri “romanzi di cavalleria”, parla in tal senso: tradizione e innovazione, tecnica dell’amplificatio (‘aggiunzione’, ‘giunta’, ‘ripresa’,
‘dilatazione’) e ideazione di strutture narrative mai tentate. Soprattutto, compimento in forma di libro totale d’un universo possibile, inglobante tutto il reale e
tutto l’irreale, tutto il detto e lo scritto, tutto il mai detto e il mai scritto, tutto il
pensato e tutto il pensabile: ed anche tutto l’impensabile.
Compendio originale e rivoluzionario commutatore di una tradizione narrativa erotico-avventurosa larghissima e già di per sé metamorfica, scandita ormai su
numerosi piani di scrittura, di lingua e di ricezione. Macchina testuale di immensa
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Si veda l’intelligente ricorso in chiave ermeneutica a questa categoria benjaminiana fatto da C. COLAIACOMO,
Camera obscura. Studio di due canti leopardiani, Napoli 1912, in particolare pp. 9-20.
7 Cfr. W. BENJAMIN, Das Passagen-Werk, 1982 (trad. it. Parigi capitale del XIX secolo, a cura di R. Tiedemann, Torino 1986, pp. 591-634 (Teoria della conoscenza, teoria del progresso), in particolare le pp. 594, 599 sgg.).
8 Uso il concetto di vocalità così precisato a più riprese da Paul Zumthor, di cui cfr. almeno La lettre et la voix. De
la «littérature» médiévale, 1987 (trad. it. La lettera e la voce. Sulla «letteratura» medievale, Bologna 1990), e da ultimo
la sua Prefazione a C. BOLOGNA, Flatus vocis. Metafisica e antropologia della voce, Bologna 1992, pp. 9-12.
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sapienzia retorico-enciclopedica, progettata sottilmente e costruita con ironia e lievità per produrre una replica “in forma di parole” della dialettica universale fra
Caos e Cosmo. Fabula svagata e divagante moltiplicata in un geometrico gioco di
specchi al fine di perimetrare l’universo, rinchiudendolo nella misura ciclopica ma
calibratissima del proprio circolo. Combinatoria di invenzioni e campionatura di
stili, zeppo di cultura, di letture, ma leggerissimo grazie alla loro cancellazione
esteriore nell’armonia sonora d’un ininterrotto ricercare. Muscoloso, possente corpo diegetico tutto tramato di vibratili terminazioni nervose, di sinapsi colleganti
cultura classica e moderna, informazioni e immaginazioni, biblioteca e laboratorio.
Il Furioso par nato apposta per connettere ed equilibrare livelli di cultura eterocliti, eterogenei, in un gigantesco, festoso gioco di tutte le combinazioni possibili. È «un campo di forze, che continuamente genera al suo interno altri campi di
forze»9. È un universo totale, tenuto insieme da energie abbastanza grandi da
esercitare coesione su altri universi, che vengono quindi assorbiti e inglobati, per
essere offerti “all’esterno” nella nuova forma. È, infatti, soprattutto un sistema in
dialettica permanente fra moto centripeto e moto centrifugo, tra forze risucchianti e forze espulsive. Il Furioso interpreta un vero e proprio gioco delle mediazioni,
attraendo al suo interno i miti, le leggende, le avventure, i contenuti, gli spazi, i
tempi, i personaggi, i nomi, la prosodia, le forme, i libri, gli autori, le parole e le
cose dell’intera tradizione cavalleresca nei volgari romanzi, per riproiettarli, ormai diversi, anche nel simbolico “esterno”, nelle strutture dell’immaginario generate dalla nuova, entusiasta quanto perplessa, società padana del primo Cinquecento. «Quello d’Ariosto è il gioco d’una società che si sente elaboratrice e depositaria di una visione del mondo, ma sente anche farsi il vuoto sotto i suoi piedi,
tra scricchiolii di terremoto»10.
Giusto nell’ultimo canto, quando si avvia alla conclusione («non è lontano a
discoprirsi il porto»: XLVI, 1, 2), il poema che ha condensato e metabolizzato la
traditio erotica e quella eroica, facendo recitare sui propri mutevoli fondali le Armi e gli Amori, i Cavalieri erranti e le Donne cortesi, ultimi eredi dei greci e dei
troiani, dei francesi e dei provenzali (cfr. poi la sezione 3), d’improvviso si apre
verso l’esterno, sembra di colpo riconoscere il pubblico che ha assistito a quelle
fantasmagorie nostalgiche e liberatorie: e incorpora anch’esso entro i propri mobili confini, lo trascrive in fantasma dandogli l’ambiguo statuto di personaggiospettatore, con una rassegna di nomi e di volti che vale altresì quale elaboratissima dedica conclusiva, paragonabile solo a poche altre famose, come quella (che
9
I. CALVINO, La struttura dell’«Orlando» cit., p. 80.
ibid., p. 87.
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Ariosto, peraltro, non poté conoscere) del Tristan di Thomas11, o quelle che punteggiano certi Trionfi di poeti in voga fra Quattro e Cinquecento.
A questo punto, anche qui alla lettera “non finendo” giacché si rilancia oltre
i bordi del testo, verso l’avvenire, il libro gioca il ruolo di mediatore tra il simbolico sociale e l’immaginario letterario, e trasferisce l’uno nell’altro livello: «Per una
specie di rovesciamento strutturale, il poema esce da se stesso e si guarda attraverso gli occhi dei suoi lettori, si definisce attraverso il censimento dei suoi destinatari. E a sua volta è il poema che serve da definizione o da emblema per la società dei lettori presenti e futuri, per l’insieme di persone che parteciperanno al
suo gioco, che si riconosceranno in esso»12.
1.2. Dall’Innamorato al Furioso.
Per circa un secolo e mezzo i cavalieri erranti della tradizione francese medievale
s’aggirano fra le corti padane, attardate nell’utopia tardogotica e nel processo di
rifeudalizzazione, soprattutto en quête d’avventure amorose e guerresche. A soddisfare il palato sempre più raffinato ed esigente di un pubblico che da strettamente “cortese” andava allargandosi alla “borghesia” arricchita delle città comunali o rifeudalizzate non bastarono le battaglie dell’epopea carolingia trasmessa
lungo il secolo XIV dai codici franco-veneti della Chanson de Roland (C, l’assai
rimaneggiato V4 e il rimato V7) e da alcuni altri grandi testi in lingua francigena
raccolti dai Gonzaga nella loro biblioteca di Mantova (fra tutti splendidi l’anonima Entrée d’Espagne e la continuazione di essa, dovuta a Niccolò da Verona)13 e
le avventure erotiche e bellicose del ciclo bretone, diffuso anche nell’Italia settentrionale14. Le stesse tematiche godettero anche di una larga diffusione in italiano – ma si dovrebbe dir meglio: nei diversi italiani regionali dell’area toscoemiliana e padana – garantita attraverso il doppio mezzo scritto-orale da innumerevoli canterini, saltimbanchi, recitatori più o meno improvvisati (ma a partire da
Antonio Pucci è noto anche un certo numero di auctores del genere, piccoli e
grandi)15.
11 Cfr. THOMAS, Les fragments du Roman de Tristan. Poème du XIIe siècle, a cura di B. H. Wind, Genève 1960,
pp. 162-63 (vv. 820-39 del frammento Sneyd 2).
12 I. CALVINO, La struttura dell’«Orlando» cit., p. 88.
13 Per brevità rinvio a C. BOLOGNA, La letteratura dell’Italia settentrionale nel Trecento, in Letteratura italiana.
Storia e geografia, diretta da A. Asor Rosa, I. L’età medievale, Torino 1987, pp. 511-600 (in particolare pp. 520-60). Si
vedano ora, su Entrée e testi connessi, anche gli importanti studi di A. Limentani, raccolti a cura di M. Infurna e F.
Zambon: L’Entrée d’Espagne e i Signori d’Italia, Padova 1992. Inoltre R. SPECHT, Recherches sur Nicolas de Vérone.
Contribution à l’étude de la littérature franco-italienne du quatorzième siècle, Bern - Frankfurt am Main 1982, in particolare pp. 70 sgg.
14 Cfr. D. DELCORNO BRANCA, I romanzi italiani di Tristano e la Tavola Rotonda, Firenze 1968; ID., L’Orlando
furioso e il romanzo cavalleresco medievale, Firenze 1973.
15 Cfr. D. DEROBERTIS, Problemi di metodo nell’edizione dei cantari (1960), Premessa ai cantari antichi (1970),
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Però sul piano delle tematiche-base (cfr. poi la sezione 3) nulla mutò, in sostanza, nella filière della produzione-trasmissione-rielaborazione, assolutamente
conservativa (come ha ben indicato Carlo Dionisotti, nel passaggio dal Boiardo
all’Ariosto, «dopo un rivolgimento totale, la revisione critica si sviluppò sulla linea stessa della tradizione quattrocentesca»16). E presto, a seguito della selezione
naturale generata dall’assestarsi di un mercato più largo, raggiunto e solleticato
dalla nuova industria editoriale – immediatamente smaliziata e abilissima nel far
leva sull’indotto pubblicitario sempre autorigenerantesi mediante la stessa diffusione dei libri di cavalleria17 – le vicende amorose dei paladini, in testa quelle contrastate e appassionanti dell’eroe eponimo di tanti libri, Orlando, finirono per dominare il mercato per un buon quarto di secolo, fra Boiardo ed Ariosto.
Il Furioso scompagina il quadro testuale e socioculturale, irrompendo sulla
scena non solo con nuove, geniali modulazioni della materia ormai topica e con
una dirompente forza retorico-stilistica e, specialmente, diegetica, ma altresì con
l’insistenza sul nuovo elemento della Follia. Tema capace di sostenere con ironica
lievità intellettuale un’allegorizzazione sul mondo eroico-cavalleresco, e anzi sul
Mondo intero, e per di più del tutto consono alla mutata situazione della cultura
europea: si pensi almeno all’elegantissimo archetipo del ricco filone umanisticorinascimentale, l’Encomium moriae erasmiano18, che esce presso Gourmont nel
1510, quindi da Manuzio, accendendo una moda che si fa presto maniera, dal De
Una toppa per l’«Orlando» laurenziano (1954), in ID., Editi e rari. Studi sulla tradizione letteraria tra Tre e Cinquecento, Milano 1978, rispettivamente pp. 91-109, 110-14 e 115-26; A. BETTARINI BRUNI, Intorno ai cantari di Antonio
Pucci, in I cantari. Struttura e tradizione. Atti del Convegno Internazionale di Montreal (19-20 marzo 1981), a cura di M.
Picone e M. Bendinelli Predelli, Firenze 1984, pp. 143-60.
16 C. DIONISOTTI, Dalla repubblica al principato (1971), in ID., Machiavellerie. Storia e fortuna di Machiavelli,
Torino 1980, pp. 101-53 (a p. 121). E si veda anche ID., Fortuna e sfortuna del Boiardo nel Cinquecento, in Il Boiardo
e la critica contemporanea, a cura di G. Anceschi, Firenze 1970, pp. 221-41.
17 Un ricchissimo panorama, anche bibliografico, dell’intera problematica in AA. VV., I libri di «Orlando Innamorato», Modena 1987.
18 Com’è noto c’è incertezza intorno all’effettiva conoscenza del libretto erasmiano da parte dell’Ariosto: cfr. G.
FERRONI, L’Ariosto e la concezione umanistica della follia, in AA. VV., Atti dei Convegni Lincei. Convegno internazionale su: Ludovico Ariosto, Roma 1974, pp. 73-92; ritiene possibile, anzi probabile, quella lettura C. OSSOLA, Métaphore et inventaire de la folie dans la littérature italienne du XVIe siècle, in AA. VV., Folie et déraison à la Renaissance, Bruxelles 1976, pp. 171-96 (in particolare pp. 173 sgg., 183 sgg.). Sul tema complessivo: C. SEGRE, Fuori del mondo. I modelli nella follia e nelle immagini dell’aldilà, Torino 1990 (per l’Ariosto specialmente il cap. VIII. Da uno specchio all’altro: la luna e la terra nell’«Orlando furioso», pp. 103-14, e I pazzi e la luna dietro al monte (Ariosto, «Sat. »,
III, 208-231), pp. 115-19). – In almeno un luogo del suo fondamentale commento lo stesso Segre collega direttamente Ariosto ed Erasmo (L. ARIOSTO, Orlando Furioso cit., p. 1387, nota a XXXIV, 82, 5-7 («Poi giunse a quel che par
sì averlo a nui, | che mai per esso a Dio voti non fêrse; | io dico il senno [. . .]»): «Cfr. : “Nullus pro depulsa stultitia
gratia agit”, Erasmo da Rotterdam, MORIAS EGKWMION Stultitiae Laudatio, XLI, donde pure l’elenco delle pazzie dell’ottava 85: cfr. per es. XL-XLII»). Per la presenza del testo erasmiano nella cultura italiana primo cinquecentesca, si vedano le interessanti osservazioni di A. ASOR ROSA, «Ricordi» di Francesco Guicciardini, in questo stesso
volume, pp. 67 sgg. – Raccoglie i loci ariosteschi intorno a Ragione, Amore, Senno, Follia V. CUCCARO, The Humanism of Ludovico Ariosto: From the “Satire” to the “Furioso”, Ravenna 1981, pp. 159 sgg.
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triumpho stultitiae di Faustino Perisauli (1524)19 all’Ospedale dei pazzi incurabili
di Tommaso Garzoni (1586). Ma non si dimentichi che proprio la commistione
Amore-Follia, arricchendosi di sofisticati tratti parodistici e autoparodistici, fino
alla mise en abîme della stessa categoria cavalleresca, maturerà nell’ultimo, supremo libro del genere (che quel genere finirà per ribaltare ed azzerare, consumandolo dall’interno): il Don Quijote del Cervantes (1605-15).
Ma a sua volta il Furioso s’innesta nel cuore del circolo produzione-consumo
della letteratura d’amore-e-d’avventura. Non si comprende la genesi, né la violenza innovativa di quel grande libro, se non pensandolo proprio quale l’autore lo
pensò, o almeno, con sommo understatement, lo dichiarò: appunto una delle
giunte all’Orlando Innamorato. Un libro, insomma, che “non incomincia” dentro
di sé perché è “incominciato” già da sempre, altrove.
La prima notizia sicura (tolte le allusioni, assai discutibili ad esperienze di
poesia eroico-cavalleresca rinvenute nelle Satire e, all’altezza del 1503, nell’elegia
De diversis amoribus, e tolto il capitolo noto come Obizzeide, databile al 1504, su
cui si tornerà: cfr. il § 2. 5. 1)20 d’un lavoro dell’Ariosto intorno ad un testo indefinito, ma che può essere soltanto l’Orlando, non proviene dalla corte di Ferrara,
ma da quella, agonisticamente affine, di Mantova. È contenuta, com’è noto, nella
lettera che da quella città la marchesa Isabella d’Este, sposata a Francesco Gonzaga, invia il 3 febbraio 1507 (con la controfirma «B[enedictus] Capilupus») a
suo fratello, il cardinale Ippolito. Sembra quasi che questi abbia voluto offrirle in
dono, per la nascita del terzogenito Ferrante, l’eco della voce a lei carissima dei libri cavallereschi diffusi nella sua città natale, e da lei raccolti – con l’aiuto di cortigiani e amici come Francesco de Donato o Giovan Pietro Gonzaga da Novellara – e conservati nella sua libreria particolare21: non solo le delizie raffinate del
più elegante e piacevole fra gli intellettuali ferraresi, ma perfino – primizia assoluta – la lettura a viva voce dell’autore (già stimato per la poesia «de tanta elegantia
e de tanto piacere quanto alcun’altra che mai ne vedesse fare») d’un romanzo ancora in progresso. Isabella è felice per il bambino, ma più ancora, parrebbe, per il
diletto che le ha donato il poeta raccontandole quella che si direbbe più di una
19
Cfr. F. PERISAULI, De triumpho stultitiae, a cura di A. Viviano e G. Fabbri, Firenze 1963.
I testi si leggono in L. ARIOSTO, Opere minori, a cura di C. Segre, Milano-Napoli 1954, rispettivamente pp. 8892 (De diversis amoribus: la traduzione è a fronte), e pp. 164-71 (Obizzeide). Cfr., per i dati biografici, M. CATALANO, Vita di Ludovico Ariosto ricostruita su nuovi documenti, 2 voll., Genève 1930-31, I, pp. 282 sgg.
21 Cfr. ibid., pp. 286 e 297. Inoltre il classico lavoro di A. LUZIO e R. RENIER, La coltura e le relazioni letterarie di
Isabella d’Este-Gonzaga, in «Giornale storico della letteratura italiana», XXXIII (1899), pp. 1-61, ed ora A. TISSONI
BENVENUTI, Il mondo cavalleresco e la corte estense, in AA. VV., I libri di «Orlando innamorato» cit., pp. 13-33 (in
particolare pp. 28 sgg.).
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trama (forse l’Ariosto le avrà letto qualcosa di compiuto, dei versi o dei canti interi, visto che la «narratione» s’estende per un paio di giorni):
[...] la ringratio de la visitacione et particularmente di havermi mandato il dicto m. Ludovico per che, ultra che ’l me sia stato acetto, representando la persona di la S. V. R.
ma, luy anche per conto suo mi ha adduta gran satisfactione havendomi, cum la narratione de l’opera ch’el compone, facto passare questi dui giorni, non solum senza fastidio, ma cum piacere grandissimo, che in questa, come in tutte le altre actione [sic] sue,
ha havuto buon Iudicio ad elegere la persona in lo caso mio22.
Dunque, la traccia originaria che l’Orlando lascia dietro di sé comparendo
sulla scena, ancora informe e incompiuto, ancora letteralmente e pienamente
“non cominciato” e “non finito”, è il piacere d’una nobildonna, di una fra le
«donne cortesi» le cui ombre popoleranno il libro, scandendone, come si mostrerà meglio fra poco, il ritmo narrativo. Curioso destino d’un libro del quale è
nota per così dire prima la ricezione che la genesi testuale: è destinato quasi naturalmente al successo visto che lo connota, quando non è ancora ufficialmente nato, il sorriso di soddisfazione e di approvazione di quell’Isabella che (chissà se già
da allora) si trasfigurerà, entro il poema, nella bella donzella Is[s]abella (e su di lei
avremo parecchio altro da dire: cfr. pp. 304-5). La stessa Isabella – non si trascuri
il dettaglio – che tre lustri prima, nell’agosto 1491, aveva fatto pressione sul Boiardo per avere in lettura i canti del III libro dell’Innamorato (libro che il giovane
Alfonso d’Este possedeva già in forma manoscritta, e che Isabella avrà potuto leggere grazie a lui, con la mediazione del solito Francesco de Donato)23.
Sarà databile, quindi, agli anni intorno al 1505 («o, se si vuol essere ancora
più guardinghi, al triennio 1504-1506»)24 il disegno generale del lavoro di Ariosto
intorno al Furioso, e l’inizio della scrittura. Ossia proprio al momento in cui sul
mercato editoriale padano circola e si moltiplica, per una febbrile attività editoriale che denuncia l’attenzione dei lettori verso il prodotto, la serie maggiore di testi “orlandiani”.
Anzitutto, il Boiardo. Già nel febbraio 1483 Pietro Giovanni da San Lorenzo
poteva vendere l’Innamorato («quilli Libri de Orlando»)25, che doveva essere stato impresso qualche mese prima, a Paolo Antonio Trotti, potente consigliere economico-fiscale di Ercole I d’Este (ma di questa princeps d’un testo composto pro22 I. D’ESTE, Lettera a Ippolito d’Este del 3 febbraio 1507 (documento n. 130), in M. CATALANO, Vita di Ludovico Ariosto cit., II, pp. 78-79. Si veda altresì G. BERTONI, L’«Orlando furioso» e la Rinascenza a Ferrara, Modena
1919, p. 315, e H. HAUVETTE, L’Arioste et la poesie chevaleresque à Ferrare au début du XVIe siècle, Paris 1927, pp.
101 sgg.
23 Cfr. M. CATALANO, Vita di Ludovico Ariosto cit., I, p. 297, nota 33.
24 ibid., p. 293.
25
Cfr. N. HARRIS, L’avventura editoriale dell’«Orlando Innamorato», in AA. VV., I libri di «Orlando innamorato»
cit., pp. 35-100 (a p. 43).
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babilmente proprio a Ferrara, fra il 1476 e il ’79, e forse curata dall’autore stesso
con l’interessamento della famiglia d’Este, non si è conservato neppure un esemplare). Quattro anni più tardi, nel febbraio 1487, Piero de’ Piasi pubblicava a Venezia un’altra edizione, attestata oggi da un’unica copia alla Marciana di Venezia
(pure da un solo esemplare, descritto nel 1957 da Roberto Ridolfi, ma oggi smarrito, è testimoniata una “copia tipografica” di quest’edizione, stampata nel settembre 1481 da Christoforo de Pensa da Mandello). Nel ’95 appariva, per le cure
di Simone Bevilacqua da Pavia, El Fin del Inamoramento d’Orlando, a sua volta ridotto, oggi, ad una sola copia nella Staatsbibliothek di Monaco di Baviera (Augusto Campana nel 1937 dimostrò che si tratta dei primi otto canti del libro III, con
notevoli cambiamenti rispetto alle altre redazioni note)26.
Scomparsi tutti i manoscritti circolanti in parallelo alle stampe, di cui pur abbiamo notizia; scomparse di fatto la tiratura delle prime due edizioni e le altre che
diversi dati indiziari fanno ipotizzare: l’Innamorato circolò, fin da subito, veramente come un libro “di consumo”. Cioè come un prodotto tipico dei momenti
di ampliamento e metamorfosi del pubblico27: libro che “si consuma” materialmente per l’avidità dei lettori, ma che nel contempo, per un effetto tipico del meccanismo di circolazione non élitaria ed anzi di largo mercato (per quanto non necessariamente già “di massa”), “produce” nuovi spazi di fruibilità della materia
trattata, e insomma si offre quale fondamento d’un microcanone, accendendo subito l’agonismo imitativo-contestativo.
Un invito praticamente irresistibile a continuare l’Innamorato risiedeva, banalmente, nella sua abrupta interruzione «in arsi»28, per la morte del Boiardo
(1494), nel cuore della fabula («[…] però vi lascio in questo vano amore | de Fiordespina ardente a poco a poco […]»)29. L’opera (cioè la trama, l’universo cavalleresco, i personaggi, le caratteristiche tecnico-formali della nuova codificazione
dell’“ottava” rispetto alle strutture prosodico-linguistiche dei prodotti canterini)
era già affermata: autori e editori risposero all’orizzonte d’attesa con pronto e sagace intuito industriale.
Proprio nel 1505 la prima edizione dell’Innamorato apparsa nel nuovo secolo, dovuta a Giorgio de’ Rusconi, milanese trapiantato a Venezia, mostra quanto
sia già alto il livello della contaminazione: dietro al titolo, conservato nella ristam-
26
Cfr. ibid., pp. 75-76.
Per dati e discussioni di dettaglio su tutta la questione cfr. ibid., pp. 64-87.
28 C. MICOCCI, «Orlando Innamorato» di Matteo Maria Boiardo, in Letteratura italiana. Le Opere, diretta da A.
Asor Rosa, I. Dalle Origini al Cinquecento, Torino 1992, pp. 823-67 (a p. 830, nota 28).
29
M. M. BOIARDO, Orlando Innamorato, III, IX, 26,5-6, a cura di G. Anceschi, 2 voll., Milano 1978, da cui sono
state tratte tutte le citazioni successive.
27
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pa del 1506 e in quella curata a Milano da Gottardo da Ponte nel 1507 (El fine de
tutti gli libri de lo innamoramento de Orlando del Conte Matheo Maria Boiardo
conte de Scandiano. Cosa nova), che «sembra una manifesta bravata editoriale»30,
si cela in realtà il “quarto libro” con cui Nicolò degli Agostini intendeva in maniera esplicita riprendere e “continuare” il lavoro boiardesco. Un Quinto libro e
Fine de tutti li libri de lo Innamoramento de Orlando, di Raffaele Valcieco da Verona, esce nel marzo del 1514, coinvolgendo ancora il Rusconi ed il celebre editore Niccolò Zoppino; un semestre più tardi ancora Rusconi (con autoconcorrenzialità che sarà solo apparente, segnalando invece il grado d’attenzione del pubblico intorno agli sviluppi di quella storia interrotta) imprime un altro Quinto libro dello innamoramento de Orlando, del solito Nicolò degli Agostini, lo specialista più affermato nel genere (ancora negli anni 1520-21, mentre andrà in stampa
già la seconda edizione del Furioso, lo Zoppino pubblicherà un suo “sesto” libro,
che si proclamerà perentoriamente Ultimo e fine de tutti li libri de orlando inamorato). E tra 1514 e ’18, in ambiente editoriale eccentrico (Perugia), ma certo già
sostenuto nell’interesse da una ricca circolazione canterina, Pierfrancesco de’
Conti scandisce presso Bianchino del Leone il numero sei della serie (El sexto libro del inamoramento d’Orlando […] intitulato il Rugino), rimbalzato subito sul
vivacissimo mercato padano attraverso la ristampa milanese di Nicolò da Gorgonzola31.
Tutte queste cinque “continuazioni”, o “giunte”, di cui abbiamo notizia (ma
saranno state ancora più numerose?) garantivano al lettore, mediante la stessa serialità esibita dal numero sequenziale in frontespizio, la conservazione della fabula
amata, e insomma la permanenza all’interno di un coerente, solido universo testuale in espansione. In espansione, oltretutto, secondo un movimento circolare,
spiraliforme. Attraverso questo moto progressivo ogni momento della “storia” si
collega all’intero “pacchetto” precedente di personaggi, dati, fatti, situazioni, connettori, intrecci, che, solo, lo rende comprensibile; e quindi porta con sé tutto il sistema informativo di tipo genetico da cui dipende, trasmettendolo alle «giunte»
successive con le alterazioni-integrazioni-trasformazioni che egli stesso opera. In
qualche modo potremmo dire che nell’universo del romanzo cavalleresco l’«enciclopedia» prevale sulla diegesi, nel senso che il fluire del racconto implica in permanenza una fittissima, condizionante rete relazionale, non solo interna a ciascuna
opera nella sua relativa autonomia testuale, ma estesa alla sommatoria delle opere
fra loro interconnesse. La decodifica dei singoli tratti narratologici presuppone la
30
31
N. HARRIS, L’avventura editoriale cit., p. 77.
Cfr. ibid., pp. 79-84.
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costituzione e la costante riattivazione del reticolo mnemonico nella sua globalità.
L’intrinseca natura della narrativa cavalleresca, fatta di aggiunte, rifacimenti, sviluppi, digressioni, riprese, è archivistica, tassonomica, enciclopedico-memoriale.
Quest’universo letterario (ma anche immaginario) funziona al modo di un megatesto che ingloba numerosi microtesti, a loro volta ramificati e reciprocamente
intrecciati, articolandoli secondo i principi di analogia/affinità e di variatio/amplificatio. Al suo interno, se non i contenuti, certo la metodica costruttiva e la procedura di fruizione sono all’incirca le stesse su cui si fondano i theatri «della memoria»
o «della sapienza» che (come tornerò a dire) vengono progettati, nello stesso periodo in cui si diffonde la moda dei cantari e degli Orlandi, per dar vita ad una “macchina testuale” labirintica, imponente, complicatissima, capace di catalogare e di
conservare ogni possibile dato memorabile (fra l’altro, anche i testi degli autori classici, anatomizzati per loci di facile repertoriamento), trasformandoli tutti in argomenti retoricamente recuperabili all’occorrenza. Vedremo che lo stesso Furioso dimostra più che una superficiale conformità con il Theatro della Sapientia di Giulio
Camillo, pensato come «il grande archivio della memoria poetica che ci fornisce i
materiali già pronti all’uso, già predisposti per essere imitati, variati, emulati»32.
All’incirca come nelle moderne forme di produzione “a puntate” per consumo ed intrattenimento (nell’Ottocento il feuilleton, ai nostri giorni i fotoromanzi,
dapprima quelli stampati, poi quelli televisivi definiti telenovelas), l’influsso del
meccanismo sulle modalità di codificazione testuale si esercita piuttosto sul piano
della ricezione che su quello della scrittura. È il tempo industriale della produzione, indotto dalla crescente richiesta del pubblico, a trasformare ognuna delle
“continuazioni” del poema-base in una tessera del mosaico, in una “puntata” della “serie”, che si lega alla successiva secondo le tecniche approntate dall’epica,
grazie ad un segnale implicito (del tipo «continua») perfettamente cifrato dall’autore di ciascuna “giunta” e decodificato dal lettore, quindi ripreso a chiare lettere
proprio sul frontespizio, e nei sistemi di liaison fra ottava e ottava, canto e canto,
libro e libro, dall’autore della “giunta” successiva.
1-3.La prima «forma» del Furioso.
In questa corrente ininterrotta ove si riversano testi-chiave capaci di plasmare un
codice nuovo, divenendo modelli di riferimento impliciti o espliciti per i “conti32 L. BOLZONI, Costruire immagini. L’arte della memoria tra letteratura e arti figurative, in La cultura della memoria, a cura di L. Bolzoni e P. Corsi, Bologna 1992, pp. 57-97 (alle pp. 84-85). Cfr. inoltre ID., Il teatro della memoria.
Studi su Giulio Camillo, Padova 1984; C. BOLOGNA, Il «Theatro» segreto di Giulio Camillo: l’«Urtext» ritrovato, in
«Venezia Cinquecento. Studi di storia dell’arte e della cultura», I (1991), 2, pp. 217-71 (attraverso cui si ricostruirà anche la bibliografia specifica).
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nuatori”, anche il Furioso mescola le sue acque all’altezza del 1518. Nella seconda
edizione milanese, impressa per le cure di Nicolò da Gorgonzola, della «giunta»
all’Innamorato composta da Pierfrancesco de’ Conti (che viene definito un poco
misteriosamente «El Conte»), il frontespizio stesso risuona come un plagio del titolo ariostesco, e lancia un ponte straordinario a saldare i due capolavori del genere cavalleresco: El Sexto libro del innamoramento Dorlando nel qual si tratta le
mirabil prodece che fece il giouene Rugino figliolo di Rugier da Risa e di Bradamante sorella di Rinaldo da monte albano Intitulato Orlando Furibundo. La volontà di
sviluppare la fabula in termini di snodo genealogico dell’épos, e di accrescimento
dal sapore più “borghese” che “cortese” (le gesta delle figliolanze, le parentele incrociate), com’era già avvenuto in parte per l’epopea carolingia nei “cicli” francoveneti33, sfiora il grottesco e la parodia. “Parodia”, ovviamente, nell’accezione
propria della ri-scrittura “a calco”, non necessariamente “ironica”, di un testo
fondativo, ma anche in quella, già fatta balenare da Quintiliano (VI, 3, 9), del contro-canto (parà + odé)34, ossia della diegesi che si struttura su una base già nota,
entrando con quella in emulazione e perfino in antagonismo. La terza edizione
(Venezia, Francesco Bindoni e Matteo Pasini, 1525), che attribuisce il libro a
«Pierfrancesco deto el Conte da Camerino» e deriva per via diversa dalla perugina perduta, censura il plagio ariostesco, ma del Furioso conserva l’insistenza sull’elemento magico-mirabile, intitolando fluvialmente: Il sexto Libro delo Inamoramento di Orlando doue si narra del figliol di Rugiero et Bradamante excelse proue,
et di tutti li palladini, di Marfisa, Scardaffo, et de Aquilante, asprissime battaglie,
bagordi, torniamenti, et amorose historie, fabule, et incanti35.
Il titolo s’è fatto, a questo punto, catalogo-profluvio, accumulazione di personaggi e di gesta, imbonimento da cantimpanca: ma la fabula promessa e accennata per sommi capi torna ad essere quella tradizionale, dell’Innamorato e delle sue
prime “giunte”, ed anche del Mambriano, dell’Orlando laurenziano, della Spagna,
del Danese, dell’Ancroia, dell’Aspramonte, dei vari Padiglioni, del Morgante di
33
Il Si veda quanto ho sintetizzato al riguardo in C. BOLOGNA, La letteratura dell’Italia settentrionale cit., pp. 534 sgg.
Cfr. C. DI GIROLAMO e I. PACCAGNELLA, La parola ritrovata. Fonti e analisi letteraria, Palermo 1982 (utile anche per la ricostruzione bibliografica), e ivi in particolare i contributi di C. SEGRE, Intertestuale /interdiscorsivo.
Appunti per una fenomenologia delle fonti, pp. 15-28 (poi come Intertestualità e interdiscorsività nel romanzo e nella
poesia, in ID., Teatro e romanzo. Due tipi di comunicazione letteraria, Torino 1984, pp. I03 -18); G. FERRONI, Da Bradamante a Ricciardetto. Interferenze testuali e scambi di sesso, pp. 137-59; I. PACCAGNELLA, I francolini di Marco
Polo. Fonte, citazione, parodia, pp. 160-78.
35 Di grande interesse, per questi aspetti della fortuna ariostesca e del reciproco influsso rispetto al resto della letteratura cavalleresca coeva, il volume di M. BEER, Romanzi di cavalleria. Il «Furioso» e il romanzo italiano del primo
Cinquecento, Roma 1987, specialmente la parte 11. Il romanzo cavalleresco italiano del primo Cinquecento, pp. 141-305
(e ivi il cap. 1. Serialità e riscrittura. Il romanzo cavalleresco tra il primo e il secondo «Furioso» e i «Cinque Canti»). Alla stessa studiosa, in collaborazione con D. Diamanti e C. Ivaldi, si deve la cura di Guerre in ottava rima, 4 voll., Modena 1989.
34
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Pulci, dell’epica d’origine francese, e dei cantari “popolari”36. Il Furioso è ormai
troppo celebre perché lo si possa plagiare smaccatamente fin dal titolo. L’innovazione suprema dell’Ariosto all’interno del codice cavalleresco, l’idea della follia,
dell’ira forsennata che fa l’eroe addirittura «furibondo», si eclissa di nuovo negli
imitatori, per rifulgere nell’opera-fondamento, nuovo prototipo che taglia con decisione la linea di continuità, pur conservandola dialetticamente al proprio interno: appunto per il suo ruolo apparente, e (ironicamente) dichiarato, di sesta
“giunta” all’Innamorato.
Dopo la prima testimonianza del 1507, nella lettera di Isabella d’Este Gonzaga, una seconda traccia del Furioso si ha due anni più tardi, in un biglietto di
Alfonso I d’Este al cardinale Ippolito; e parla già di un libro, di un testo abbastanza cospicuo ed esteso da venir diffuso. Ma è fondamentale proprio la categoria in cui l’opera viene classificata, e con la quale probabilmente (il tono del riferimento sembra alludere a cosa ben nota) già da tempo se ne parlava a corte: «La
S. V., […] haveremo a caro la ni mandi quella gionta fece m. Lud. co Ariosto a lo
Innamoramento de Orlando»37.
Secondo Michele Catalano la «gionta» era, probabilmente, «una copia della
prima redazione che l’Ariosto aveva doverosamente offerto al suo protettore, non
appena ne ebbe terminata la versificazione»38. E di simili «redazioni più brevi»
dell’edizione del 1516, secondo Catalano, Ariosto dovette stenderne più d’una, in
quella che, ricorrendo a una formula ideata da Contini per altro fine, oserei chiamare un’«approssimazione […] all’oggetto mentale»39. È comunque impossibile
precisare meglio le fasi genetiche di questo stadio elaborativo. Un cenno di Celio
Calcagnini nel suo dialogo Equitatio, databile agli anni 1503 -508 («[…] et vel giganticis et Heroicis et pene ™d’xoij facinoribus, quod opus scio tibi esse sub fermento [...] »), riporta altrettanto genericamente ad un lavoro in corso, ad opera
dell’Ariosto, su temi che attraverso il filtro umanistico sono descritti come eroico36 Oltre ai lavori citati di D. De Robertis, N. Harris e M. Beer, cfr. almeno gli importanti contributi di R. BRUSCAGLI, “Ventura” e “inchiesta” fra Boiardo e Ariosto, in Ludovico Ariosto: lingua, stile e tradizione. Atti del Congresso organizzato dai comuni di Reggio Emilia e Ferrara (12-16 ottobre 1974), a cura di C. Segre, Milano 1976, pp. 107-36;
L. BLASUCCI, Riprese linguistico-stilistiche del «Morgante» nell’«Orlando Furioso», ibid., pp. 137-55; P. ORVIETO,
Differenze “retoriche” fra il «Morgante» e il «Furioso». (Per un’interpretazione narratologica del «Furioso»), ibid., pp.
157-73. Inoltre: ID., Pulci medievale. Studio sulla poesia volgare fiorentina del Quattrocento, Roma 1978; I cantari.
Struttura e tradizione cit. ; M. C. CABANI, Le forme del cantare epico-cavalleresco, Lucca 1988.
37 ALFONSO I D’ESTE, Lettera al cardinale Ippolito del 5 luglio 1509 (documento n. 156), in M. CATALANO,Vita di Ludovico Ariosto cit., II, pp. 92-93 (il primo corsivo è mio).
38 ibid., I, p. 295.
39 La formula è di G. CONTINI, Implicazioni leopardiane (1947), in ID., Varianti e altra linguistica. Una raccolta di
saggi (1938-1968), Torino 1970, pp. 41-52 (a p. 52). ID., Come lavorava l’Ariosto (1937), in ID., Esercizi di lettura sopra autori contemporanei con un’appendice su testi non contemporanei, edizione aumentata di Un anno di letteratura,
Torino 1974, pp. 232-41, alle pp. 233-34, parla di «una perenne approssimazione al valore» nell’accostamento all’opera di poesia, e di «approssimazione al fantasma» e della «sua definizione» nel lavoro variantistico.
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«Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto - Corrado Bologna
mitologici40. Non molto di più si deduce da un altro riferimento, questa volta in
una lettera autografa del poeta datata a Roma il giorno di Natale del 1509, nella
quale si parla di una «historia da dipingere nel padaglione del mio [Ruggiero a
nova la]ude de V. S. »41 (ma il nome è illeggibile nell’originale), che sembrerebbe
riferirsi al progetto della descriptio dell’ultimo canto (XLVI, 97), legato all’esaltazione delle nozze tra il capostipite della dinastia estense e Bradamante.
Le notizie si fanno, invece, precise e chiarissime a partire dal luglio 1512. Il
giorno 14 Ariosto scrive al marchese di Mantova, Francesco Gonzaga, illustrandogli lo stato, ancora decisamente provvisorio, del proprio autografo:
Prima per il Molina, e poi per Ierondeo me è stato fatto intendere che vostra ex. tia haveria piacere de vedere un mio libro al quale già molti di (continuando la inventione del
conte Matheo Maria Boiardo) io dedi principio. Io, bono e deditissimo servitore de Vostra Signoria, alla prima richiesta le haverei satisfatto, et hauto de gratia che quella si
fusse degnata legere le cose mie, s’el libro fusse stato in termine da poterlo mandare in
man sua. Ma, oltra ch’el libro non sia limato né fornito anchora, come quello che è
grande et ha bisogno de grande opera, è anchora scritto per modo, con infinite chiose e
liture, e trasportato di qua e de là, che fôra impossibile che altro che io lo legessi: e de
questo la Ill. ma Signora Marchesana sua consorte me ne pò far fede, alla quale (quando fu a questi giomi) a Ferrara io ne lessi un poco42.
La descrizione è di straordinaria efficacia: visualizza a perfezione la serie di
varianti e le glosse marginali (che s’immaginano miranti a delineare le connessioni tra le parti, con i rinvii e richiami: insomma i nodi e gli snodi testuali) le lezioni
indecise, gli spostamenti di versi e di ottave, i pentimenti e le cassazioni (liture).
Dalla «narratione» fatta alla marchesa Isabella, cinque anni prima, a Mantova, alla lettura che l’appassionata nobildonna richiede ora, a Ferrara, il testo s’è trasformato, ha preso nuove fattezze, soprattutto è cresciuto di mole: ormai è «grande», e richiede una «grande opera» di rifinitura. Il giorno successivo il marchese
risponde ad Ariosto dicendosi ansioso di leggere il suo testo, che secondo le indicazioni del poeta continua a pensare (e quindi a chiamare) «continuazione» dell’Innamorato, senza alcun riferimento ad un titolo autonomo:
M. Ludovico. Il desiderio che havemo di vedere quella composizione vostra, principiata per continuare la inventione dil Conte Matheo Maria Boiardo, è major anchor
che non vi è sta referto. Et poi che per gentileza vostra ce dati cussì bona intentione di
farcine participe, como per la vostra de 14 instantis havete facto, starimo in expectatio-
40
Cfr. M. CATALANO, Vita di Ludovico Ariosto cit., I, pp. 290 Sgg.
L. ARIOSTO, Lettera a Ippolito d’Este del 25 dicembre 1509, in ID., Lettere, a cura di A. Stella, in ID., Opere,
III, Milano 1984, pp. 138-39 (a p. 139).
42 L. ARIOSTO, Lettera a Francesco Gonzaga del 14 luglio 1512, ibid., p. 151.
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ne de vederni lo effecto, et quanto più presto restaremovine cum maior obligo, offerendoni ad ogni piacere vostro de continuo paratissimi43.
Da quel momento il lavorio correttorio dev’essere stato fervido, ma assolutamente segreto. Per tre anni non si trova altra informazione, fra le lettere e nella ricca collezione di documenti riguardanti l’Ariosto raccolti da Catalano. Nel
settembre 1515, d’improvviso, con una missiva del cardinale Ippolito al marchese Francesco, la notizia ufficiale che il Furioso è concluso e ci si accinge alla
stampa:
Essendo per far stampar un libro de m. Ludovico Ariosto mio servitore, et a questo bisognandomi mille risme de carta, mando il presente exhibitore per condurne hora una
parte da Salò e, fatto ch’habbia questa condutta, per rimandarlo, o lui o altri, tanto
ch’io n’habbia tutta questa summa. Prego V. ra Ex. tia che per mio amore sia contenta
de commettere a suoi officiali che sia lasciato passare senza pagamento alcuno de dacio
o altro itnpedimento [...] , et V. ra Ex. tia lo deve far volentera, perché essa anchora
n’haverà la sua parte del piacere et legendola vi trovarà esse nominata con qualche laude in più d’un loco, et se ben forse non così altamente che se arrivi alli meriti di v. ra ex.
tia, almeno per quanto s’hanno potuto estendere le forze del compositore44.
Del Furioso, dunque, seguiamo con precisione solo le tappe estreme, con
qualche traccia velata che traspare negli intermezzi del silenzio testimoniale.
Il 22 di aprile del 1516 l’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto da Ferrara, diviso in quaranta canti, esce dalla tipografia di Giovanni Mazzocco di Bondeno, con
dedica «allo illustrissimo e reverendissimo cardinale donno Ippolito d’Este suo
signore»; le copie tirate sono circa duemila secondo i calcoli di Michele Catalano,
intorno alle milletrecento secondo quelli più prudenti di Conor Fahy45. Il successo è immediato, e l’eco fra i cortigiani estensi e quelli gonzagheschi, ormai strettamente imparentati, fulminea, e mirante a spazzar via la fama del Boiardo, fìn dal
primo istante, di fronte alla «novità» e alla «bellezza» del Furioso. Infatti pochissimi giorni più tardi, in una lettera indirizzata da Mantova a Federico Gonzaga
«primogenito Marchionale», che in quei giorni si trovava a Lione, Ippolito Calandra (ricordato nel Furioso, XLII, 85, 4) annuncia l’evento oltre i confini della corte ferrarese e della sua propria, in termini entusiastici, assolutamente partigiani
(dal contesto appare chiaro che non ha affatto avuto modo di leggere il libro per
43
F. GONZAGA, Lettera a Ludovico Ariosto del 15 luglio 1512 (documento n. 217), in M. CATALANO, Vita di
Ludovico Ariosto cit., II, p. 123.
44 I. D’ESTE, Lettera a Francesco Gonzaga del 17settembre 1515 (documento n. 259), ibid., pp. 150-51.
45 Cfr. ibid., I, p. 431, e C. FAHY, L’«Orlando furioso» del 1532. Profilo di una edizione, Milano 1989, pp. 100-1;
ID., L’autore in tipografa: le edizioni ferraresi dell’«Orlando Furioso», in AA. VV., I libri di «Orlando innamorato» cit.,
pp. 105-15 (alle pp. 106-7).
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intero, nel paio di giornate trascorse dall’arrivo dell’Ariosto con la cassa delle copie fresche di stampa):
Non eri l’altro vene in questa terra mess. Ludovico Ariosto, gentilhomo ferrarese, quale à portato una capsa di libri, li qualli lui à composto sopra a Orlando, ch’è quasi tanto
volume come l’Innamoramento di Orlando, et lui l’à intitulato Orlando Furioso, quale è
un bello libro, più bello che non è lo Innamoramento di Orlando. Lui ne ha donato uno
al Ill. mo S. v. ro patre et uno a madama v. ra matre et uno al R. mo Cardinale; li altri lui
li vole fare vendere. Se piace a la S. V. che io ve ne manda uno, io li mandorò [sic], perché io so che quella si dileta di havere di questi libri, maxime una Opera nova et così
bella como è questa. Como lui li facia vedere, io ne comprarò uno et il farò ligare et il
mandarò ala S. V. [...] 46
Isabella d’Este, suo marito Francesco Gonzaga e il fratello di questi, il cardinal Sigismondo, sono i primi lettori del libro stampato di cui ci sia rimasta testimonianza: proprio loro che furono (almeno Isabella con certezza) i primi ascoltatori della fabula e del “getto” iniziale. Si chiude in questo modo il circolo oralità/scrittura, nato fra corte e corte, lungo l’intero asse padano che lega Ferrara a
Mantova, e che l’autore ha voluto controllare e gestire rigorosamente, dal principio all’esito finale, fino alla consegna delle prime copie nelle mani dei signori (così come, s’immagina, avrà fatto anzitutto con il cardinale Ippolito d’Este, dedicatario, ispiratore e sponsor dell’opera).
Ma non sfuggirà che, una volta assolto il dovere dell’omaggio cortese, l’Ariosto pensa immediatamente all’aspetto commerciale dell’impresa tanto faticata,
trascurando finanche il dono per Federico: il meccanismo del mercato, spietato e
cogente, impone che l’auctor si trasformi senza riserve in promotore della diffusione (vien fatto di pensare all’impegno di Alessandro Manzoni, tanti secoli dopo,
nel diffondere l’edizione illustrata del suo romanzo, che tuttavia gli causerà un
enorme danno economico). Per Ariosto le vendite dovettero pur realizzarsi: ed
anzi, come si deduce dai documenti conservati, il libro andò a ruba. Quattro anni
e mezzo dopo la sua uscita, ai primi di novembre del 1520, in occasione di una gita a Ferrara, il poeta Giangiacomo Bardelone (ricordato anch’egli, insieme al Calandra, nel Furioso), consegnerà al poeta, per commissione di Mario Equicola, la
somma di sei lire in moneta mantovana, ricavato delle vendite sul territorio veronese47. Ariosto, tuttavia, si lamenterà con lo stesso Equicola – pur ringraziandolo
per l’amichevole impegno promozionale – per l’esiguità della somma, accennando con fierezza all’esaurimento della tiratura su tutto il territorio italiano:
46 I. CALANDRA, Lettera a Federico Gonzaga del 7 maggio 1516 (documento n. 272), in M. CATALANO, Vita
di Ludovico Ariosto cit., II, pp. 157-58 (a p. 158).
47 Cfr. ibid., I, p. 530; sull’attività di procuratore di libri svolta dal Bardelone cfr. anche ibid., p. 466, nota 10.
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«Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto - Corrado Bologna
Per m. Gian Iacomo Bardelone ho havuto sei lire di nostra moneta, li quali vostra M. tia
mi ha rimessi, credo, per parte de li denari che si hanno d’havere dal venditore de li
miei Orlandi a Verona. Di che ringratio quella, ma mi paron pochi a quelli ch’io aspettava; e non posso credere che quel libraro li habbia expediti tutti, perché in nessuno altro luogo di Italia non so dove ne restino più da vendere: e se fin qui non gli ha venduti, non credo che più li venda. Per questo serìa meglio che il libraro li rimettesse qui,
perché súbito troverei di expedirli, perché me ne son dimandati ogni dì. 48.
Una ventina di giorni dopo la sua prima lettera, il 28 maggio, Ippolito Calandra ne spedì un’altra allo stesso Federico Gonzaga, ancora a Lione, ancora a proposito del Furioso e dell’impossibilità di farlo rilegare prima di spedire, insieme
con altri testi cavallereschi. Il che da una parte ci assicura (con un cenno della lettera precedente) che la prima edizione non aveva avuto tirature speciali per destinatari insigni, e dall’altra fa sospettare un’insistenza, in quel periodo, del Gonzaga lontano per avere il libro, in solido con un “pacchetto” canonico del genere
(Boiardo, Pulci, un cantare minore), desiderato accanto all’Ariosto, e comunque
selezionato dall’intellettuale mediatore, si vorrebbe dire quasi per una “legge di
vischiosità delle letture”: perché un romanzo tira l’altro, e lo scandaloso confronto già impostato dal Calandra il 7 maggio, che deve aver acceso la curiosità di Federico, esige ormai prove tangibili:
Io credo che la Sig. ria Vostra inanti dì habia hauto alcuni libri de la stampa del Paganino et uno Orlando Furìoso di mess. Luduico [sic] Ariosto, ma non era ancora ligato
queli altri libri di bataglia che me mandò a domandare la Sig. ria Vostra, ma presto serane ligatti et per il primo meso che agada [sic] io li mandarò alla S. V. Quali libri sono
questi, zovè lo Inamoramento di Orlando et lo Inamoramento di Re Carlo et Morgante
magiore. Io ho tolto questi perché me pare a mi che siano li più belli che li sonno et credo che piacerano alla Sig. ria V. ra49.
Almeno un’altra famosa missiva di un lettore d’eccezione, quella inviata da
Niccolò Machiavelli a Lodovico Alamanni il 17 dicembre 1517, con l’entusiastico
giudizio del segretario fiorentino attesta la fortuna immediata dell’Orlando, e per
di più ci mette al corrente d’una conoscenza fra i due scrittori, riconducibile forse alla residenza fiorentina dell’Ariosto, nel 1513: conoscenza probabilmente intensa, visto il tono verbale acceso e scherzoso con cui Machiavelli esprime il dispiacere per l’esclusione dal catalogo degli uomini illustri del canto XLVI:
Io ho letto a questi di Orlando Furioso dello Ariosto, et veramente il poema è bello tutto, et in molti luoghi è mirabile. Se si truova costì, raccomandatemi a lui, et ditegli che
io mi dolgo solo che, havendo ricordato tanti poeti, che m’habbi lasciato indietro come
48
L. ARIOSTO, Lettera a Mario Equicola dell’8 novembre 1520, in ID., Lettere cit., p. 177.
I. CALANDRA, Lettera a Federico Gonzaga del 28 maggio 1516 (documento n. 276), in M. CATALANO, Vita
di Ludovico Ariosto cit., II, pp. 159-60.
49
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«Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto - Corrado Bologna
un cazzo, et ch’egli ha fatto a me quello in sul suo Orlando, che io non farò a lui in sul
mio Asino50.
Per qualche anno, fino ad un momento imprecisato che potremmo indicare
fra il 1518 e il ’19, l’accoglienza fortunata del Furioso deve aver soddisfatto l’Ariosto, al pari del suo pubblico, cortese e non. I documenti residui parlano soprattutto, per quel periodo, di traffici, affari, salari, prebende, incombenze diplomatico-amministrative; o accennano al successo con cui venivano messe in
scena le commedie ariostesche51. In un caso dimostrano l’affettuosa sollecitudine
dei marchesi per l’Ariosto, alla scomparsa di suo cugino Rinaldo 52. Il persistente
favore cortigiano verso il libro è dimostrato da alcune cedole del Zornale de Ussita dell’amministrazione del cardinale Ippolito d’Este, nelle quali i funzionari
registrano, il 12 maggio e il 6 giugno 1517 (per ironia della sorte – ma con svista
altamente significativa per quanto riguarda l’appercezione della novità presso i
“non addetti ai lavori” – confondendo entrambe le volte, e la prima completamente, il titolo del Furioso con quello dell’ancor celebre e amato romanzo del
Boiardo!):
A Lucha fiorentino adì 12 dicto (magio) L. una m. per comprare uno Inamoramento de
Orlando composto per m. Ludovico Ariosto per el S. nostro Ill. mo.
A messer Lorenzo libraro soldi octo m. per haver ligato in albe uno inamoramento de
Orlando Furioso53.
Del pari, un registro di Guardaroba del 1517 rammenta che il libraio Sigismondo Mazzocco (non saprei dire se imparentato con il Giovanni Mazzocco
stampatore del libro) acquistò
uno orlando furioso in albe, coperto de cordoan sfoghezato; un Orlando del Conte
Math. Maria ligato in alve coperto di cordoan morello; uno Morgante maggiore54.
Il Furioso, introducendosi imperiosamente nello scaffale dei cartolai e dei librai accanto ai libri di cavalleria già affermati, muta il canone per così dire “dall’interno del mercato”, dapprima viaggiando in parallelo al Boiardo, al Pulci e agli
50 N. MACHIAVELLI, Lettera a Lodovico Alamanni del 17 dicembre 1517, in ID., Lettere, a cura di F. Gaeta, Milano 1961, p. 383.
51 Cfr. M. CATALANO, Vita di Ludovico Ariosto cit., II, pp. 194-95, documento n. 350 (del 2 marzo 1519) e pp.
195-96, documento n. 352 (dell’8 marzo 1519); per le commedie ariostesche rappresentate alle corti di Ferrara e di
Mantova cfr. ibid., I, pp. 572 sgg.
52 Cfr. I. D’ESTE GONZAGA, Lettera a Ludovico Ariosto del 12 luglio 1519 (documento n. 376), ibid., pp. 2067; F. GONZAGA, Lettera allo stesso, datata lo stesso giorno (documento n. 377), ibid.
53 ibid., II, p. 173, documento n. 306 (del 12 maggio 1517) e p. 174, documento n. 309 (del 6 giugno 1517). Cfr. G.
BERTONI, L’«Orlando furioso» e la Rinascenza a Ferrara cit., p. 312 (nota relativa al testo di p. 47).
54 Citato da Bertoni, ibid.
Letteratura italiana Einaudi
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«Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto - Corrado Bologna
altri piccoli e grandi classici del genere, poi, lentamente, trovandosi sempre piú
solo in vetta alle “classifiche” di apprezzamento.
Due anni e mezzo dopo l’uscita del libro, una lettera di Alfonso Paolucci a
Lucrezia Borgia accenna a scambi epistolari e ad incontri fra l’Ariosto e Pietro
Bembo, in quel momento a Roma55: e questo proprio nel periodo in cui il poeta
dovette incominciare a riflettere sulla struttura linguistica del suo libro, e progettare una progressiva revisione “grammaticale” del testo in direzione toscaneggiante, per minimi ma chiari segni riconosciuta da Santorre Debenedetti56 già attiva fra 1516 e ’21. Frattanto, nel ’16, ad Ancona, era comparsa la prima “grammatica” italiana, le Regole grammaticali della volgar lingua del Fortunio, che assumeva a fondamento gli «auttori toschi», cioè Dante, Petrarca, Boccaccio57: e l’ampio, intricato dibattito sulla lingua si allargò, a ondate successive, negli anni seguenti, con il Discorso over Dialogo circa la lingua fiorentina attribuito al Machiavelli e datato dal Dionisotti58 a prima dell’ottobre 1524, l’Epistola delle lettere
nuovamente aggiunte di Gian Giorgio Trissino (1524) fino all’uscita delle Prose
della volgar lingua di Bembo (1525), in contemporanea con il primo commento
petrarchesco a stampa, dovuto al Vellutello, e con il Libro de natura de Amore di
Mario Equicola (scomparso subito dopo l’uscita del libro). Ma, com’è noto, tutti
i grammatici, Bembo in testa, tacquero sul Furioso, a proposito sia delle prime
due forme dalla patina linguistica padana, sia della definitiva, radicalmente e coerentemente uniformata al diktat bembiano59. Rimane misterioso in particolare
questo silenzio tenace del Bembo. A lui l’Ariosto si rivolse come ad un maestro
stimato, forse a più riprese, giacché nel Norditalia fin dagli anni ’12-13 si sapeva
già della preparazione delle Prose. Un riscontro modesto quanto significativo di
possibili contatti fra i due letterati già nei primi anni Venti (e che, ad ogni modo,
secondo Dionisotti «non è probabilmente casuale»)60 potrebbe indicarsi nell’uso,
proprio all’inizio delle Prose (I, 2), e con la funzione di avviare il dibattito intorno
al lessico toscano, del termine raro rovaio per ‘vento di tramontana’, che Ariosto
nel febbraio 1523, a Castelnuovo di Garfagnana, pose in apertura della satira IV
55 Cfr. A. PAOLUCCI, Lettera a Lucrezia Borgia del 23 dicembre 1518 (documento n. 340), in M. CATALANO,
Vita di Ludovico Ariosto cit., II, pp. 189-90, e cfr. anche ibid., I, p. 464.
56 Cfr. S. DEBENEDETTI, Quisquilie grammaticali ariostesche (1930), in ID., Studi filologici, con una nota di C. Segre, Milano 1986, pp. 211-16; ID., Per la data di un “baratto” ariostesco (1933), ibid., pp. 217-21.
57
Cfr. G. F. FORTUNIO, Le regole grammaticali della volgar lingua, Ancona 1516 (e si veda la sola edizione moderna, a cura di M. Pozzi, Torino 1973).
58 Cfr. C. DIONISOTTI, Machiavelli e la lingua fiorentina, in ID., Machiavellerie cit., pp. 267-363, in particolare p.
326.
59 Su questo e su altri “silenzi” del Bembo cfr. ID., Introduzione alla sua edizione di P. BEMBO, Prose e Rime, Torino 1960, pp. 9-70, specialmente p. 45 (per Poliziano) e p. 50 (per l’Ariosto).
60 ibid., p. 78, nota 6.
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«Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto - Corrado Bologna
(v. 3)61. E comunque il rapporto si fece stretto certamente dopo l’uscita della
grammatica bembiana: lo garantisce la famosa lettera del 23 febbraio 1531, con
cui Ariosto annuncia a Bembo una visita per sottoporgli, dice, il testo corretto
nella prospettiva della terza edizione («Io sono per finir di rivedere il mio Furioso»), e specialmente, aggiunge, per «imparare da lei quello che per me non sono
atto a conoscere»62.
Il rifiuto di Bembo di prendere atto della prorompente inventio ariostesca significa irrigidimento nell’astrazione destorificante, tipica delle Prose, ed esclusione
del libro contemporaneo al quale tutti guardavano già come al capolavoro moderno, nell’ottica di una grammaticalizzazione formalistica, poggiata sulla codifica antiquaria e legittimata dai soli classici delle “origini”, Petrarca restando supremo nella
terna canonica: «La filologia del rigetto, la selezione spietata da cui escono i campioni normativi delle Prose, esclude insieme l’arcaicità e la contemporaneità troppo
effusiva per un’altra dimensione che […] non è storica bensì categoriale»63.
1.4.
La prima «mutazione» del Furioso.
La seconda edizione del Furioso (1521) nasce in mezzo a queste spinte e a queste
contraddizioni. In realtà l’esigenza primaria, fra il ’16 e il ’21, non si riferiva tanto
al contenuto, ma alla lingua, specialmente al quadro lessicale e morfosintattico.
Parla chiaro la lettera del 15 ottobre 1519 all’amico Mario Equicola: il quale, non
si dimentichi, è un intellettuale di fiducia di Isabella d’Este, uno studioso, un collezionista e un cacciatore di codici preziosi, in contatto con molti filologi e poeti
in tutt’Italia (Angelo Colocci, Giulio Camillo, Gian Giorgio Trissino, Bembo medesimo), e già quindici-vent’anni prima dell’uscita dalle Prose aveva «annunciato
il proposito di occuparsi in apposito scritto del rapporto fra le due lingue [scil. latino e italiano], al tempo stesso ponendo la sua candidatura al principato della
nuova letteratura volgare»64:
È vero ch’io faccio un poco di giunta al mio Orlando furioso, cioè io l’ho comminciata;
ma poi da l’un lato il Duca, da l’altro il cardi. le, havendomi l’un tolto una possessione
che già da più di trecent’anni era di casa nostra, l’altro un’altra possessione di valore appresso di dece mila ducati, de facto e senza pur citarmi a mostrare le ragion mie, m’hanno messo altra voglia che di pensare a favole. Pur non resto per questo ch’io non segua
facendo spesso qualche cosetta; s’io seguiterò, non mi uscirà di mente di fare il debito
61
Cfr. L. ARIOSTO, Satire, edizione critica e commentata a cura di C. Segre, Torino 1987, p . 34 e p. 90, nota 1.
ID., Lettera a Pietro Bembo del 23 febbraio 1531, in ID., Lettere cit., p. 457.
63 G. MAZZACURATI, Pietro Bembo e il primato della scrittura (1980), in ID., Il rinascimento dei moderni. La crisi culturale del XV1 secolo e la negazione delle origini, Bologna 1985, pp. 65-147 (a p. 126).
64 C. DIONISOTTI, Gli umanisti e il volgare fra Quattro e Cinquecento, Firenze 1968, pp. 129-30.
62
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«Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto - Corrado Bologna
mio; e tanto meglio che non ho fatto pel passato, quanto questo debito da quel tempo
in qua è cresciuto in infinito65.
Di fatto il. «poco di giunta», quella «qualche cosetta» che, immerso in altri pensieri, Ariosto riesce ad integrare nel Furioso fra l’autunno del 1519 e la fine dell’anno successivo, non muta, almeno in apparenza (cfr. poi il § 1. 5), l’assetto globale del
libro (la menzione dell’Equicola, cui fa cenno il «debito», anziché «crescere» si ridurrà invece dai quattro versi del ’16 e ’21, XL, 7, all’unico del ’32, XLVI, 14). Nella seconda edizione, uscita presso il milanese Giovan Battista da la Pigna il 13 febbraio del ’21 – ancora una volta a spese del poeta, che di nuovo si occupa della diffusione e perfino dello smercio delle copie66 – esso rimane articolato nei quaranta
canti del 1516, con aggiunte ed eliminazioni di poche ottave (il confronto è agevolato dalla tavola comparativa delle tre stampe che Debenedetti allegò alla sua edizione dei frammenti- autografi)67. Nel complesso sono aggiunti solo centiventuno versi, e 2912 su 32944 sono quelli che subiscono qualche modificazione68. Tuttavia la
stampa è «tipograficamente peggiore» di quella del ’16, e numerose sono «le libertà
che lo stampatore [...] si è preso col testo ariostesco»69. Il «poco di giunta» di cui il
poeta parla all’Equicola implicò dunque, senza dubbio, una preliminare ripulitura
delle mende editoriali, e quindi un profondo ripensamento del sistema espressivo.
Un censimento razionale e dettagliato dei fenomeni, e insomma «uno spoglio
completo della lingua del Furioso nelle sue tre redazioni» (fatta eccezione per «i
cambiamenti riguardanti la sintassi del periodo», che per ragioni pratiche «saranno [...] registrati frazionalmente»70) dev’essere rinviato al momento in cui sarà finalmente disponibile la concordanza diacronica del poema, impostata da Cesare
Segre nel 1965, prevista come prossima alla conclusione per il 1975 e più volte interrotta per difficoltà di finanziamento del progetto. Nell’insieme, tuttavia, la forma linguistica esibisce, lungo l’intera evoluzione dalla prima alla terza “forma” –
ma già nel quinquennio fra la prima e la seconda e quindi prima dell’indirizzo totalitario sancito dalle Prose bembiane – un confronto intenzionale e consapevole
con la produzione letteraria toscana dell’ultimo Quattrocento, in particolare le
Stanze del Poliziano e il Morgante del Pulci71. Lo indica ad esempio un fenomeno
65
L. ARIOSTO, Lettera a Mario Equicola del 15 ottobre 1519, in ID., Lettere cit., p. 173.
Cfr. M. CATALANO, Vita di Ludovico Ariosto cit., I, pp. 531 sgg.
67 Cfr. I frammenti autografi dell’Orlando furioso, a cura di S. Debenedetti, Torino 1937, pp. 157-60.
68
Cfr. M. CATALANO, Vita di Ludovico Ariosto cit., I, p. 530, nota 27.
69 C. SEGRE, Nota al testo, in L. ARIOSTO, Orlando furioso secondo l’edizione del 1532 con le varianti delle edizioni del 1516 e del 1521, a cura di S. Debenedetti e C. Segre, Bologna 1960, pp. 1649-97 (alle pp. 1687 e 1691).
70 ID., Le concordanze diacroniche dell’«Orlando furioso». Concezione e vicende dell’opera, in Ludovico Ariosto: lingua, stile
e tradizione cit., pp. 231-35 (a p. 234); si veda altresì A. ZAMPOLLI, Procedura per l’elaborazione automatica, ibid., pp. 237-44.
71
Cfr. specialmente L. BLASUCCI, Riprese linguistico-stilistiche cit. ; N. MARASCHIO, Lingua, società e corte di
una signoria padana fra Quattro e Cinquecento, in Ludovico Ariosto: lingua, stile e tradizione cit., pp. 29-38; A. STEL66
Letteratura italiana Einaudi
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«Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto - Corrado Bologna
altamente rappresentativo quale il dittongamento: «gli esiti di koinè incontrano
[...] un limite difficilmente valicabile a partire dalla stampa di A [l’edizione 1516],
dove l’orientamento verso il dittongo è già definito, trovando poi in B e C [le edizioni 1521 e ’32] una progressiva omogeneizzazione»72.
In questo senso dall’originaria base linguistica, già toscaneggiante ma ancora
trattenuta dall’invischiamento in una koinè padana non distante da quella del
Boiardo lirico ed epico73, palese nella prima “forma” del ’16, l’Ariosto si allontana, sempre più mirando ad incorporare il modello espressivo dei grandi auctores
della Toscana trecentesca, per spontanea autocensura e per esigenza di un’intrinseca regolamentazione (testimoniata in parallelo al Furioso anche dalla scrittura
privata e «documentaria» dell’epistolario)74. Era forse già mosso su questa strada
dalle indicazioni del Fortunio che, parrebbe, l’Ariosto conobbe prima di dare
l’imprimatur alla seconda edizione75, ed anche (non lo si può escludere finché i
numerosi materiali ancora inediti non emergeranno dall’oblio) dal fitto dibattito
intorno alla lingua elaborato nel primo quarto del secolo da alcuni filologi del
Nord e del Centro in stretti rapporti di scambio e d’informazione reciproca, alcuni dei quali non furono estranei all’ambiente ferrarese e all’assidua frequentazione dell’Ariosto (Trissino, Camillo e il gruppo veneto legato a Trifon Gabriele, l’Equicola, i fiorentini, Calmeta, Claudio Tolomei, Colocci: ma non si potrà dimenticare lo stesso Bembo)76.
Nel moto costante lungo le tre tappe del’16, del’21 e del’32, la linea di tendenza di Ariosto è riassumibile nei due moti sincroni e coerenti di depadanizzazione e di toscanizzazione. Per il dittongamento e per altri fenomeni fonetici, ma
anche lessicali e morfosintattìci (ad esempio nell’adeguamento alle consuetudini
grammaticali del Petrarca e del Boccaccio per quanto concerne il passaggio – al
quale accenna il Fortunio, e che Bembo, Prose, III, 32, normalizzerà – dal perfetLA, Note sull’evoluzione linguistica dell’Ariosto, ibid., pp. 49-64; M. BEER, Romanzi di cavalleria cit., pp. 23 sgg. Per
l’influsso delle Stanze sul Furioso cfr. C. DIONISOTTI, Introduzione cit., specialmente pp. 32 sgg.
72 A. STELLA, Note sull’evoluzione linguistica dell’Ariosto cit., p. 50. Inoltre cfr. G. GHINASSI, Il volgare mantovano tra il Medioevo e il Rinascimento, nello stesso volume, pp. 7-28. Quindi M. VITALE, La lingua volgare della cancelleria sforzesca nell’età di Ludovico il Moro, in AA. VV., Milano nell’età di Ludovico il Moro, Milano 1983, pp. 35386; AA. VV., Koinè in Italia dalle Origini al Cinquecento. Atti del Convegno di Milano e Pavia (25-26 settembre 1987),
a cura di G. Sanga, Bergamo 1990, in particolare M. A. GRIGNANI, Koinè nell’Italia settentrionale. Note sui volgari
scritti settentrionali, pp. 35-53 e G. SANGA, La lingua lombarda. Dalla koinè alto-italiana delle Origini alla lingua cortegiana, pp. 79-163 (con ampia bibliografia).
73
Cfr. P. V. MENGALDO, La lingua del Boiardo lirico, Firenze 1963.
74 Cfr. A. STELLA, Note sull’evoluzione linguistica dell’Ariosto cit.
75 Cfr. S. DEBENEDETTI, Quisquilie grammaticali ariostesche cit., pp. 212-13.
76 Sul tema mi permetto di rinviare, per brevità, ai dati e alle argomentazioni esposti in C. BOLOGNA, Tradizione
testuale e fortuna dei classici italiani, in Letteratura italiana, diretta da A. Asor Rosa, VI. Teatro, musica, tradizione dei
classici, Torino 1986, pp. 445-928 (ed ora, come volume autonomo, Tradizione e fortuna dei classici italiani, Torino
1993), passim: cfr. l’Indice dei nomi.
Letteratura italiana Einaudi
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«Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto - Corrado Bologna
to debole al forte, con relativi esiti participiali, secondo i tipi perse, perso 1516 >
perdé, perduto 1521, 1532; rese, reso 1516 > rendé, renduto 1521, 1532), «le scelte
del Furioso concordano generalmente con quella che sarà l’evoluzione della lingua italiana, anticipando spesso l’uso e la norma delle Prose; l’incertezza o l’anomalia sono da attribuire alla memoria, a volte occasionale, di un’auctoritas, ma
anche a una prudente variatio o alla funzionalizzazione delle opposizioni fonetiche di esiti latini, toscani, di koinè»77.
Rispetto all’edizione del ’16, quella del ’21 segna «oltre l’abbandono delle scorie padane, [...] irreversibili acquisti ritmici e sintattici»78. La prima edizione del
Furioso, pur assorbendo e superando la stessa koinè nella moltiplicazione polifonica dei registri linguistici e nel policentrismo diegetico, esalta, nel conclusivo trionfo
filoestense del canto XLVI, la supremazia della cultura padana – con al centro l’asse dinastico, politico e intellettuale Ferrara-Mantova – e le sue propaggini fino ad
Urbino (Guidubaldo di Montefeltro si accasa con Elisabetta, figlia di Federico I
Gonzaga, ed Eleonora, nipote di questi, sposa Francesco Maria I della Rovere, duca urbinate)79 rispetto alla cultura del resto d’Italia (Firenze e Roma, ma anche, agli
estremi opposti, le corti di Milano e di Napoli). La seconda “forma”, invece, s’impone come libro “italiano”: comunque né solo “toscano” né solo “padano”.
In quest’espansione oltre i naturali confini della Padania di un romanzo tanto legato alle esperienze e alle situazioni ferraresi svolge immediatamente un preciso ruolo di volano il mercato editoriale. Poco più d’un anno dopo l’uscita del
secondo Orlando la nobile Antonia del Panza, vedova di Ludovico Spagna, che
aveva prestato all’Ariosto le cento lire marchesane necessarie all’impresa, si vide
restituire la somma con un acconto di dodici lire sui guadagni80. Il 16 febbraio del
’21, tre giorni dopo la tiratura dell’ultimo foglio, un atto del notaio Aldobrandino
Acquabelli dettaglia i termini dell’emptio librorum m. ri Iacobi a Liliis: l’Ariosto,
definito «poesie professor», cede al libraio (di fatto un «cartolarius») «centum libros intitulatos nomine Orlandi furiosi» [sic] al prezzo «librarum sexaginta marchesinorum» perché li venda in esclusiva «in civitate Ferrarie et eius districtu»81.
Il 22 giugno l’incarico per lo smercio a Genova «et eius districtu» dei libri «compositos vulgari sermone, appellatos Orlando furioso» viene affidato da Ariosto al
nobile Lorenzo da Ponte82; altri documenti, fra il 1522 e il ’24, parlano di copie
dell’Orlando legate e vendute insieme con il Morgante e il Mambriano83. E ancora
77
A. STELLA, Note sull’evoluzione linguistica dell’Ariosto cit., p. 50 (e cfr. p. 58).
ibid., p. 63.
79 Cfr. M. CATALANO, Vita di Ludovico Ariosto cit., I, p. 376.
80 ibid., pp. 530-31; e cfr. II, p. 224, documento n. 412.
81 ibid., II, pp. 232-33, documento n. 424.
82
ibid., pp. 236-37, documento n. 433.
83 Cfr. G. BERTONI, L’«Orlando furioso» e la Rinascenza a Ferrara cit., pp. 312-13.
78
Letteratura italiana Einaudi
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«Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto - Corrado Bologna
nel 1531, il 31 marzo, mentre il poeta andava completando la revisione in vista
della stampa definitiva, nel Libro de partide del banco di Romano de Lardi si legge,
dal Guardaroba di Alfonso I, d’un sostanzioso pagamento a «M. Ros[s]o Cartolaro per havere ligato quatro Orlandi furiosi» insieme ad altro materiale di biblioteca84. Il 30 ottobre 1521 è un Giovan Francesco Gonzaga che, «ex castris», cioè
dal campo di battaglia contro i Francesi, scrive ad Ippolito Calandra (lo stesso
funzionario di corte che cinque anni prima aveva procurato una copia della prima
edizione al duca Federico, allora a Lione) appena due righe imperiose e bramose,
ma pignolissime, per poter accedere ad un piacere pieno e perfetto:
Hyppolito. Mandane Orlando Furioso, lo inamoramento di Orlando et Morgante Mazor, advertendo tutti siano di bona stampa et di lettere un poco grossette et ben legibile [...]85
Contemporaneamente e con forte escursione socioculturale – il che mi sembra soprattutto da sottolineare – in tutti questi casi risalta l’esatto riferimento al
Furioso, non più confuso con l’Innamorato, come avveniva fra ’16 e’17 (anzi, ora
è l’Ariosto ad aprire la serie, invertendo l’ordine cronologico): dominio del mercato significa anche capacità di imporsi con il proprio esatto titolo, non grazie all’equivoco (si pensi al frontespizio del Sexto libro di Raffaele Valcieco, già ricordato) o avventiziamente. Non sono solo i notai, precisi per professione, a sillabare esattamente il titolo del Furioso: è anche il signore cortese, e con lui i librai e,
sarà legittimo immaginare, i numerosi comuni lettori “borghesi”.
Si può dire che ormai il Furioso s’è emancipato dalla categoria in cui un po’
per solida consuetudine seriale e per la pressione modellizzante del “ciclo” eroico-cavalleresco padano, un po’ per elegante, leggiadramente autoironico understatement, all’inizio il suo stesso autore l’aveva relegato. Il Furioso non è più, non
sarà mai più, una “giunta” all’Innamorato.
1.5.
Le altre «mutazioni» del Furioso.
Fra il 1521 e il ’25 il duca Alfonso d’Este acquistò, presso i librai Francesco Gigli
e Bonfiolo Siverio, una mezza dozzina di copie della seconda edizione, due delle
quali portò con sé partendo per la Spagna86. E con il 1524 le tipografie milanesi,
veneziane e fiorentine avviano una serie nutrita di ristampe, che sfuggono in gran
parte al controllo dell’Ariosto: fra 1524 e ’31 (per quanto le indagini non siano
esaustive) si contano almeno diciassette edizioni diverse: «nessuna opera nuova in
84
Cfr. ibid., e M. CATALANO, Vita di Ludovico Ariosto cit., II, p. 312, documento n. 578.
G. F. GONZAGA, Lettera ad Ippolito Calandra del 30 settembre 1521 (documento n. 438), ibid., pp. 238-39.
86 Cfr. ibid., I, p. 532.
85
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«Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto - Corrado Bologna
Italia, dopo l’invenzione della stampa, aveva saputo conquistare in brevissimo
tempo una popolarità così immensa»87.
S’impone, quindi, un ritorno dell’autore alla guida del processo di divulgazione del suo libro. E proprio a questo punto, nell’estate 1525, esplode il “caso”
delle Prose bembiane.
L’impressione dell’Ariosto di fronte a quel primo, drastico sforzo di razionalizzazione d’una abitudine oscillante, come s’è già accennato, dovette essere
profonda. Per un verso è ammissibile che già la lingua del primo Furioso fosse più
regolata di quella degli altri “poemi” o “romanzi” coevi; ed esistono anche le prove di un effetto-feedback all’interno del “genere”88; inoltre è legittimo asserire,
con Devoto, che Ariosto «non prende sul tragico l’esigenza normalizzatrice, e
tanto meno teorizza: neanche dopo che […] il Bembo ebbe a definire […] l’esigenza linguistica unitaria, nello spazio (toscana) e nel tempo (arcaica)»89; ed infine hanno grande peso scientifico le fondamentali osservazioni di Migliorini sull’irriducibilità della prassi correttoria ad un sistema linguistico univoco, stanti la
conservazione d’alternanze di fenomeni in contrasto e l’introduzione di incongrui
ipercorrettismi90. Tuttavia la vitalità, l’esuberante freschezza del Furioso 1516-21
sembrano passare, negli anni giusto intorno al ’25, in un cerchio di fuoco iniziatico, attraverso la prova del confronto senz’appello con la regolamentazione normativa bembiana. E fra il ’25 e il ’32, in un momento di vitalità ridotta della letteratura e di crisi delle strutture culturali in Toscana (cui sanno a malapena reagire
i «gioveni amatori de le toscane rime» che nel ’27 stampano a Firenze la cosidetta
Giuntina di rime antiche)91, è il padano Furioso, insieme appunto alle Prose del veneto Bembo e all’Arcadia del napoletano Sannazaro, a sancire la conferma del toscano a lingua letteraria nazionale.
Di fatto la “mutazione” del Furioso (per conservare un termine consono alla
sensibilità cinquecentesca, e usato difatti da Girolamo Ruscelli nel 1556, in un discorso sulla metamorfosi del testo nelle tre edizioni)92 ha preso l’avvio, così sul
87
Cfr. ibid., p. 533.
Sulla questione, che mi sembra rilevante, cfr. M. BEER, Romanzi di cavalleria cit., pp. 141 sgg. Cfr. anche, a p.
142, l’interessante asserto: «Il Furioso riempie […] lo spazio lasciato aperto dalle Prose della volgar lingua alla regolamentazione narrativa, prima che venga interamente occupato dalla teorizzazione aristotelica».
89 G. DEVOTO, Il Tasso e la tradizione linguistica nel Cinquecento (1958), in ID., Itinerario stilistico, introduzione
critico-bibliografica di G. A. Papini, Firenze 1975, pp. 55-80 (a p. 57).
90
Cfr. B. MIGLIORINI, Sulla lingua dell’Ariosto (1946), in ID., Saggi linguistici, Firenze 1957, pp. 178-86 (in particolare pp. 179 e 186).
91 Un’edizione anastatica della Giuntina è ora disponibile: Sonetti e canzoni di diversi antichi autori toscani, 2 voll.,
Firenze 1977: I. Introduzioni e indici, di D. De Robertis; II. Testo (la frase virgolettata è nella dedica dell’opera).
92 Cfr. G. RUSCELLI, Annotazioni et avvertimenti sopra i luoghi difficili et importanti del Furioso, Venezia 1556
(fascicolo autonomo, allegato all’ed. Valgrisi del Furioso), ff. d1r-e1v: «Mutazioni et miglioramenti che M. Ludovico
Ariosto avea fatti per mettere nell’ultima impressione del Furioso».
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piano dei contenuti come su quello delle forme, ben prima del ’21. Ho già accennato (5 I. 4) al «poco di giunta», al lavorio che, con il solito gusto autoironico che
lo spinge a minimizzare progetti e fatiche anche colossali, Ariosto definisce, parlandone nell’ottobre del ’19 con l’ Equicola, «fare qualche cosetta». Si sarà trattato, evidentemente, di qualcosa di più impegnativo dei centoventuno versi aggiunti rispetto alla princeps (corrispondenti, globalmente, alla misura diappena una
quindicina di ottave) e dei neppure tremila (uno scarso 10 per cento del totale) ritoccati o rifatti. Il progetto di “giunta” interna, in realtà, prevedeva anche l’inserzione di episodi nuovi nel quadro, peraltro abbastanza solido, fermato nel ’16.
Il senso, la portata diegetica, la cronologia, la distribuzione diacronica di questa “giunta” rispetto al disegno complessivo, hanno costituito negli ultimi quarant’anni uno dei problemi critici più spinosi e disputati, sul piano filologico ed
esegetico.
Ormai s’è acquisito, tuttavia, un consenso pressoché universale intorno all’idea che la “giunta” coincida con i Cinque canti93 esclusi dall’Ariosto durante il
periodo di ripulitura/rielaborazione, e per così dire di raffreddamento del poema
ancora allo stato di magma: esempio tangibile, proprio nella loro espunzione, dell’autocontrollo ariostesco calato sul meccanismo diegetico e sulla corrispondenza
linguistica agli schemi narrativi (cfr. anche le sezioni 3 e 4).
Per comprendere il senso del dibattito94 occorre fare un passo in avanti, spostandoci a una dozzina d’anni dopo la morte di Ariosto, nel cuore di quella celebrazione encomiastica del Furioso che sarà legittimata appieno dal Discorso intorno al comporre dei romanzi di Giambattista Giraldi (1554). Nel 1545 esce l’edizione aldina del Furioso, quarantaseiesima della serie, unica degli eredi di Manuzio.
Il frontespizio esalta la novità: «[...] et di più aggiuntovi in fine più di cinquecento stanze del medesimo auttore non più vedute»: sono i Cinque canti, appunto,
conservati con religiosa fedeltà da Virginio, figlio di Ludovico, e da lui affidati alla più prestigiosa tipografia italiana, come spiega nella presentazione Antonio
Manuzio, perché divenisse pubblico «l’ultimo frutto» del poeta. L’anno seguente,
a Firenze, Bernardo Giunti ristampa isolatamente quell’appendice; lo stesso farà
a Pesaro, nel ’56, il Cesano. Nel ’48 Gabriele Giolito de’ Ferrari, facendo rivede93 Un’edizione del testo, corredata da utilissimi materiali analitici (Introduzione, pp. 7-19) e bibliografici (pp. 19599), fu curata quale «Strenna Utet» da L. Firpo, Torino 1964; cfr. anche l’edizione a cura di L. Caretti, Torino 1977
(con introduzione di L. CARETTI, Storia dei «Cinque canti», pp. V-XXI, ripresa poi in ID., Antichi e moderni. Studi
di letteratura italiana, Torino 1978, pp. 121-31, e apparato di Note, pp. 147-233).
94 Per ricostruire la bibliografia cfr. ID., Storia dei «Cinque canti» cit., pp. V1-V11, nota 1; M. BEER, Romanzi di cavalleria cit., pp. 186-87, nota 7. A proposito di un assai precoce e poco noto intervento crociano concernente anche i
Cinque canti cfr. C. BOLOGNA, Croce e la filologia, in «Rassegna di studi crociani», IV (1993), 5, pp. 49-55. Per
quanto segue cfr. specialmente L. FIRPO, Introduzione alla sua edizione dei Cinque canti cit., pp. 10-11.
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re con scrupolo il testo, forse proprio da Virginio Ariosto (l’autografo restò fra le
carte di famiglia fino a poco prima del 1560), lo propone in forma nuova e rivoluzionaria: non più quale “giunta” al Furioso, bensì come «cinque canti d’un nuovo
libro nuovamente aggiunti e ricorretti».
L’anno stesso in cui appare il Discorso del Giraldi, e in chiara polemica con
questi, un suo allievo, il ferrarese Giovan Battista Pigna (che diventerà segretario
e storiografo ufficiale di Alfonso II d’Este), riferendosi implicitamente alla viva
testimonianza di Ariosto, ne Gli eroici, saggio sulla poesia epica, insiste sull’idea
del libro nuovo:
L’Ariosto […] un poema cominciò, che dalla inventione del Furioso non si partiva, del
quale (forse contro sua voglia, per non esser egli stato il publicator d’esso) cinque canti
si leggono, che il palagio del signor delle Fate hanno nel primo aspetto. Egli dicea che
questa era un’orditura e che deliberato avea di trapporvi abbattimenti e viaggi e altre
somiglianti cose, che compimento le dessero. […] Questi Cinque Canti fanno un Poema tale, quale è Odissea che seguita l’Iliade in Ulisse […]. Giudicano alcuni ch’essi da
lui sarebbono stati sparsi qua e là per vari luoghi del suo Orlando, il che egli non disse
già mai. Anzi, pur per contrario, lasciossi intendere ch’egli di fare un’altra opera intendea, che dovesse star da per sé. 95
La glorificazione del Furioso ha generato teratologiche attribuzioni di varie
“giunte” alla fabula del poema (ad esempio incomincia a diffondersi, alimentata
da un poligrafo notoriamente plagiario e falsario quale Anton Francesco Doni, la
notizia di un Rinaldo ardito in dodici canti, da ricondursi allo scrittoio ariostesco)96; e nello stesso tempo scorpora i Cinque canti come fossero un altro testo rispetto al grande poema, per eccitare l’attenzione del pubblico e per moltiplicare a
ondate successive l’effetto celebrativo.
Venendo all’approccio filologico, si può trascurare la preistoria della quaestio, e muovere dai primi interventi di Cesare Segre97. In prima istanza, rifacendosi alle ricerche precedenti e accogliendo in linea di massima la datazione (però
«troppo esatta e categorica»98) fermata da Michele Catalano e proposta già da Bo95 G. B. PIGNA, I romanzi, nei quali della poesia e della vita dell’Ariosto si tratta, Venezia 1554, pp. 117 sgg. Si noti
che, secondo l’autorevole opinione espressa da P. TROVATO, Con ogni diligenza corretto. La stampa e le revisioni editoriali dei testi letterari italiani (1450-1570), Bologna 1991, p. 213, «è verosimile […] che la decisione di tralasciare la
stanza di collegamento con il Furioso, che costituisce l’attacco dei Cinque canti nell’unico manoscritto noto (AB XL45;
C XLVI 68), sia stata presa nella tipografia aldina»; si veda anche il cap. XII, pp. 299 Sgg. (in particolare pp. 318 sgg.)
96 Ho sott’occhio un’edizione di Rinaldo ardito di Lodovico Ariosto. Frammenti inediti publicati sul manoscritto originale da I. Giampieri e G. Ajazzi, Firenze 1846. Si veda, per questo libro apocrifo (forse in qualche modo legato, però, agli
eredi dell’Ariosto), per gli altri “romanzi di Rinaldo” e per i Cinque canti, M. BEER, Romanzi di cavalleria cit., pp. 143 sgg.
(alle pp. 188-89, nota 15, bibliografia sul Rinaldo ardito). Cfr. anche C. BOLOGNA, Tradizione testuale e fortuna dei classici italiani cit., pp. 445-928, in particolare pp. 693 sgg. (e nel volume autonomo cit., pp. 404-5, nota 42, e pp. 410 sgg.).
97 Cfr. C. SEGRE, Appunti sulle fonti dei «Cinque canti» (1954), in ID., Esperienze ariostesche, Pisa 1966, pp. 97109 e ID., Studi sui «Cinque canti» (1954), ibid., pp. 121-77.
98 ibid., p. 170, nota 55.
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nollo e Hauvette99, irrobustita da valutazioni soprattutto linguistiche100, Segre interpretò i Cinque Canti come una serie d’abbozzi per una “giunta” successiva al
1526, e insomma all’incirca collocabili «negli anni fra il 1525 e a 1532», tra l’episodio de «“Lo scudo della regina Elisa” e l’ultima revisione delle Sat[ire] »101:
quindi nel lustro consecutivo alla lettura delle Prose, fervido per la revisione della
stampa 1521 in vista della progettata terza edizione (però secondo Segre alquanto
posteriori ai Cinque canti sarebbero anche i frammenti autografi del Furioso editi
da Debenedetti).
Piú tardi (1960), un decisivo intervento di Carlo Dionisotti102 ha riportato la
datazione ad un momento antecedente, fra 1519 e ’22. Gli estremi sono inchiodati
in basso dall’elaborazione, in Ferrara (verso il 1519: l’edizione è del ’21), de La
morte del Danese («opera bizzarra di un rimatore non professionista certamente
incontinente e frettoloso» che «si presenta come la trama, decomposta, della tappezzeria ariostesca»)103, in cui l’autore, Cassio da Narni, rielaborò l’episodio dell’avventura nel ventre della balena ideato dall’Ariosto (Cinque canti, IV, 32 sgg.), e
in alto dall’ascensione di Antoniotto Adorno alla carica di doge di Genova (1522):
data dopo la quale risulterebbe inammissibile il riferimento oltraggioso alla famiglia Adorno, insieme ai Doria, come a una celebre banda di corsari (ibid., III, 71).
Non più, quindi, la lettura di un Ariosto nostalgico, che «ritorna al Morgante,
di preferenza che all’Innamorato, nei Cinque canti», e di un «ritorno all’antico»
conseguenza, nei fatti, fra la seconda e la terza edizione del Furioso, «di uno svolgimento nuovo della concezione morale dell’Ariosto, meno staccata, meno misurata»104; non una disposizione arcaicistica dell’Ariosto, assimilabile in qualche
modo a quella già assunta da un Luigi Pulci dinanzi an’allegorismo dei filosofi
neoplatonici della cerchia ficiniana ed alla voga neocortese del romanzo cavalleresco. Bensì una fase di fatto antica, anzi arcaica, della progettazione di una
«giunta» al poema, e da porsi fra prima e seconda edizione, non fra seconda e terza, ove tutto cambia, lingua e ideazione poetica, clima etico, ragioni estetiche.
Lanfranco Caretti è propenso a risalire fino agli «immediati dintorni di quel 1517
99 Cfr. L. BONOLLO, I «Cinque canti» di L. Ariosto, Mantova 1901, p. 30, e H. HAUVETTE, L’Arioste et la poésie chevaleresque cit., pp. 157 sgg. e p. 353.
100 Cfr. C. SEGRE, Studi sui «Cinque Canti» cit., pp. 167 sgg. e 172 sgg., a proposito della sostituzione di tosto a
presto (già studiata da S. DE BENEDETTI, Quisquilie grammaticali ariostesche cit. ),e di alcune innovazioni linguistiche presenti nei Cinque canti e, in parallelo, nelle Satire.
101
ibid., pp. 168 e 170. Si veda altresì M. CATALANO, Vita di Ludovico Ariosto cit., 1, p. 600 (e in generale sui
Cinque canti, pp. 598 sgg.).
102 Cfr. C. DIONISOTTI, Per la data dei «Cinque canti», in «Giornale storico della letteratura italiana», CXXXVII
(1960), pp. 1-40; ID., Appunti sui «Cinque canti» e sugli studi ariosteschi, in AA. VV., Studi e problemi di critica testuale, Bologna 1961, pp. 369-82.
103
M. BEER, Romanzi di cavalleria cit., p. 155.
104 C. SEGRE, Appunti sulle fonti dei «Cinque canti» cit., pp. 108-9.
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in cui la stagione della “favola” [...] andava cedendo alla stagione riflessiva e amara delle Satire e delle lettere, del carteggio garfagnino soprattutto»105.
Dovremo quindi eliminare dal quadro referenziale della “mutazione” in atto fra
’21 e ’32 i Cinque canti, estranei alla ferma volontà di libro perché «espunti irrevocabilmente dal Furioso, e rimasti in qualche misura inconditi nella loro struttura meccanicamente aggiuntiva che rinvia alla tecnica canterina»106. In questa luce, il passaggio dalla prima alla seconda “forma” sembra avvenire per forza di levare (se è lecito,
come mi pare, far ricorso alla celebre formula michelangiolesca): per eliminazione di
materia, fino a raggiungere l’Idea celata nel cuore della massa linguistico-narrativa.
Sarà utile invece, per chiarire la loro posizione nell’orizzonte letterario del
primo Cinquecento, un esame comparativo fondato sul presupposto della possibile reciproca influenza, come quello ch’è stato condotto da Marina Beer sulla
produzione cavalleresca maggiore e minore, «tra epigoni, imitatori e rivali dell’Ariosto», su cui la maniera ariostesca influisce «in primo luogo per la morfologia e
per la sintassi, e solo in un secondo momento, dopo il 1521, per le storie»: ma della quale, pure, i Cinque canti risentono, nella loro «legnosità» diegetica107.
La seconda palese “mutazione” fra il 1521 e il ’32, e soprattutto dopo il ’25, è
una «dilatazione dall’interno» che fa «proliferare episodi da episodi, creando
nuove simmetrie e nuovi contrasti»108. Essa s’avvia con la riflessione tecnicamente linguistica sulle Prose e qualche viaggio diplomatico a Padova, dove forse Ariosto incontrò Bembo. Modificazioni stilistiche ed innovazioni narrative, ed anche
interventi sulle parti storiche, in relazione alla nuova situazione concreta, politicodiplomatica, ideologico-culturale, religiosa dell’Italia e dell’Europa degli anni
Trenta, sono state esaminate in dettaglio, offrendo uno spaccato del progressivo
adattamento ai rinnovati quadri mentali, epistemici e prasseologici, d’un libro che
l’autore ed il lettore percepivano destinato a divenire un classico moderno109.
La revisione è quasi compiuta nel giugno 1531, ed Ariosto progetta di mandare
in stampa il nuovo libro nell’autunno, come risulta da una lettera che Marco Pio da
Carpi invia l’8 di quel mese da Ferrara, dove ha potuto parlare con il poeta, a Guidubaldo della Rovere, che è in Urbino, per garantirgli ossequiosamente la primizia
non appena sarà disponibile (la lettera fornisce fra l’altro un’esatta filigrana della
“mutazione” – di cui lo scrivente sembra entusiasta – a quello stadio cronologico):
105
L. CARETTI, Storia dei «Cinque canti» cit., p. X111, nota I.
ibid., p. xv.
107 M. BEER, Romanzi di cavalleria cit., pp. 145 e 148. Per la ricostruzione della genesi dei Cinque canti si veda L.
ROSSI, Sui «Cinque canti» di Lodovico Ariosto, in «Bollettino Storico Reggiano», VII (1974), 28 (Numero speciale dedicato al Convegno Ariostesco Reggio Emilia a Lodovico Ariosto nel quinto centenario della nascita 1474-1974), pp. 91-150.
108 I. CALVINO, La struttura dell’«Orlando» cit., p. 78.
109
Cfr. almeno A. CASADEI, La strategia delle varianti. Le correzioni storiche del terzo «Furioso», Lucca 1988; C.
FAHY, L’autore in tipografia cit., pp. 109-12; ID., L’«Orlando furioso» del 1532 cit.
106
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Vero è che M. Ludovico Ariosto ha agionti quatro Canti in meggio del suo libro, ma ancora non li ha datto fuora; ben dice che presto li darà, perché vuol far restanpar tutto il
libro insieme, nel qual ancora senza li Canti ha mutate stancie, versi et parole assai et,
per quanto mi dice, non lo farà stampare per sino al setembre; ma, sia quando se voglia,
V. E. tia subito lo haverà [...] 110.
Lo stesso Ariosto, rivolgendosi al marchese di Mantova per ottenere, com’era già avvenuto undici anni prima, l’esenzione del dazio della carta occorrente per
la stampa, il 15 gennaio del ’32 allude al desiderio di ampliare ancora il poema:
che se hora ho aggiunto da quattrocento stanze al detto libro, spiero all’altra additione
di aggiungervene molte piú; e come in questa ho nominato vostra ex. tia con qualche
laude, non sono ancho per tacerla ne l’altre. Io fo pensier ancho di stampare alcune altre mie cosette [...] 111.
Ma che Ariosto pensasse, sia pure genericamente, ad una quarta edizione da
avviare appena uscita la terza, lo mostra il mandato con ordine d’acquisto, siglato
il 23 gennaio ’32 per conto del duca Federico Gonzaga dai suoi funzionari (Gian
Giacomo Calandra, Francesco Gazolo), di «quattrocento riseme [sic] di carta per
fare stampare la fine de Orlando Furioso»112: il doppio della quantità servita per
l’impressione del 1516. Quando esce dalla tipografia di Francesco Rosso, l’unico
stampatore attivo a Ferrara in quel periodo, la tiratura assomma a 2650-2900
esemplari, ciascuno composto di 62 fogli (31 quaderni); il testo è disposto su due
colonne di cinque ottave per pagina; i canti sono ormai 46, con un numero di ottave per ciascuno oscillante fra 72 (il canto IV) e 199 (il XLIII), per un totale di 4842
ottave (cfr. poi p. 284, nota 1O1); 38 736 sono i versi; 279 680, infine, le parole, secondo un’analisi computerizzata di David Robey comunicata da Conor Fahy113.
Com’è noto Ariosto intervenne in tipografia, facendo interrompere la lavorazione e sostituendo con un nuovo testo il foglio numerato A3-A6; contenente le
settantotto ottave delle stanze I, 18-II, 14: «così s’ebbero esemplari scorretti ed
esemplari buoni»114, diversificati per quanto riguarda le copie pergamenacee (Tipo Io e Tipo 2o). E non casualmente gli esemplari con quel foglio rifatto sono «aristocratici», copie offerte in omaggio a potenti, «ovvero serbate [...] per uso dell’Autore sempre malcontento dell’opera sua»115 (una sola ne resta, oggi di proprietà di Cesare Segre, già alla Melziana di Milano). Nelle ventiquattro copie su110 MARCO PIO DA CARPI, Lettera a Guidubaldo della Rovere dell’8 giugno 1531 (documento n. 583), in M.
CATALANO, Vita di Ludovico Ariosto cit., II, p. 313.
111 L. ARIOSTO, Lettera a Francesco Gonzaga del 15 gennaio 1532, in ID., Lettere cit., p. 461.
112 M. CATALANO, Vita di Ludovico Ariosto cit., II, p. 319, documento n. 592.
113 Per l’ultimo dato cfr. C. FAHY, L’«Orlando furioso» del 1532 cit., p. 146.
114 DE BENEDETTI, Nota alla sua edizione di L. ARIOSTO, Orlando furioso, 3 voll., Bari 1928, III, pp. 397-447
(a p. 414).
115 ibid. ; l’elenco aggiornato delle ventiquattro copie residue è in C. FAHY, L’«Orlando furioso» del 1532 cit., pp. 19-31.
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«Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto - Corrado Bologna
perstiti dell’edizione 1532 (cinque sole in pergamena, le altre cartacee), completando la fruttuosa collazione già intrapresa da Debenedetti, Conor Fahy ha schedato duecentottantasette varianti, ed ha così potuto identificare le tappe estreme
della stampa licenziata dall’Ariosto.
L’autore di fronte al ne varietur del testo: è una storia lunga, interessante, e fra
Ariosto e Manzoni, almeno, ha molto da insegnare circa il «rapporto di scritturazione» impostato dalla nuova tecnologia tipografica, non foss’altro perché è più
semplice bloccare un solo torchio, una volta che si sia convinto il tipografo, e sostituire una sola volta dei fogli, piuttosto che tentare d’inseguire innumerevoli copisti distribuiti in spazi e in tempi diversi116.
I primi esemplari, pronti l’8 ottobre del’32, sono inviati, nell’ordine, al duca
Alfonso d’Este, a Federico Gonzaga e a Gian Giacomo Calandra, perché la faccia
avere ad Alfonso d’Avalos, marchese del Vasto e viceré di Milano: tutti, si sa, ampiamente lodati nel testo, e tutti subito prodighi di ringraziamenti e di lodi all’autore117. Il 9, la spedizione a Margherita Paleologa Gonzaga e ad Isabella d’Este: è
nell’evocazione di quest’ultima che s’era aperta la vicenda del libro, fra narrazione e scrittura; ed è nel suo nome che ora si chiude. Ma ormai l’Ariosto è famoso,
e s’interessa in primo luogo alla reazione dei potenti: appena esce dalla tipografia
si rivolge anzitutto ai signori, e solo il giorno successivo pensa alle «donne cortesi». Non si potrebbe riconoscere, forse, “mutazione” più radicale di questa, nell’atmosfera e nei modi di diffusione-ricezione del Furioso, calibrata dall’autore in
persona. Ariosto morì il 6 luglio 1533, afflitto per essere stato «mal servito et assassinato» dal tipografo118 e pensando ad una nuova stampa, ma vedendo già accendersi per il suo poema i bagliori d’un altro successo. Successo che s’interruppe però con la sua scomparsa (molte copie rimasero invendute), a dimostrazione
una volta di più della liaison ormai perversa, accentuata dalla propaganda politico-culturale, fra interesse per il libro e mitografia dell’autore. Il resto della vicenda editoriale, con le stampe del Blado voluta dal fratello Galasso (1533) e le successive, nel mutato clima culturale che s’avvia alla crisi tridentina, è ormai tutta
un’altra storia. È la storia di quello che, a partire dall’affettuosa memoria dei cortigiani e poi con la glorificazione di Pietro Aretino, si incominciò a chiamare il
«divino» e «benedetto» Ariosto119.
116 La storia di questa variazione, antropologica, letteraria e tecnica, è stata brillantemente ricostruita da P. TROVATO, Con ogni diligenza corretto cit., al quale si ricorrerà per dati documentari e bibliografia specifica. E si veda altresì A. PETRUCCI, La scrittura del testo, in Letteratura italiana, IV cit., pp. 285-308 (con l’appendice di quaranta illustrazioni: Da Francesco da Barberino a Eugenio Montale).
117 Cfr. M. CATALANO, Vita di Ludovico Ariosto cit., I, p. 602.
118 ibid., p. 604.
119
Cfr. V. CIAN, Pietro Aretino per Lodovico Ariosto. Un capitolo dimenticato. Per nozze Pellizzari-Mazzoni, Torino
1911, p. 14, vv. 50-52; e Cfr. M. CATALANO, Vita di Ludovico Ariosto cit., I, pp. 609-10.
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«Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto - Corrado Bologna
2. Struttura.
2.1.
Lo «stile», la «forma», il «contenuto» del poema.
Didimo Chierico, il fantasma archeologico che Foscolo frappose come un velo tra
sé e il suo pubblico quale traduttore dell’Itinerario sentimentale di Yorick,
beveva sempre acqua pura. Aveva non so qual controversie con l’Ariosto, ma le ventilava da sé; e un giorno mostrandomi dal molo di Dunkerque le lunghe onde con le quali
l’Oceano rompea sulla spiaggia, esclamò: Così vien poetando l’Ariosto120.
Nella sequenza di metafore acquee con cui, nel capitolo X della Notizia intorno a Didimo Chierico, vengono classificati i grandi classici della letteratura antica e moderna, se a Dante spetta il paragone con «un gran lago circondato di
burroni e di serve sotto un cielo oscurissimo, sul quale si poteva andare a vela in
burrasca», e a Petrarca quello con «tanti canali tranquilli ed ombrosi, dove possono sollazzarsi le gondole degli innamorati co’ loro strumenti; e ve ne sono tante, che que’ canali, diceva Didimo, sono oramai torbidi, o fatti gore stagnanti»,
all’Ariosto tocca, appunto, la comparazione con l’immagine delle ondate oceaniche: lunghe, forti e tenaci, inarrestabili, necessarie. Nessuna delle tre acque, evidentemente, è quella su cui Didimo vorrebbe correr le sue pacifiche vele; ma al
di là dell’idiosincrasia, resta la perfetta iconicità dell’exemplum, la visualizzazione della frase ariostesca, che diviene quasi allegoria d’uno stile. E non sarebbe
difficile seguire la fortuna (più o meno inconsapevole) di quest’iconologia oceanica del Furioso fino ai nostri giorni: almeno fino alla splendida “rilettura” teatrale di Edoardo Sanguineti e Luca Ronconi, basata sull’ipotesi di partenza che
«questo stesso movimento a onde ariostesco è il movimento del dramma fuori
dello spazio teatrale»121.
Ma piú conta, qui, dar risalto al dato tecnico: l’insistenza sull’aspetto formale,
piuttosto che su quello contenutistico.
E quando Benedetto Croce, nel 1917, aprendo il capitolo v del saggio sull’Ariosto (L’attuazione dell’Armonia) vorrà definire «la forza magica» che compie il
«prodigio» dell’armonizzazione nello «stile» (cioè «l’espressione del poeta e la sua
120 U. FOSCOLO, Viaggio sentimentale di Yorick […] Notizia intorno a Didimo Chierico, in ID., Opere, edizione
nazionale, V. Prose varie d’arte, a cura di M. Fubini, Firenze 1951, P . 181. L. BLASUCCI, Osservazioni sulla struttura
metrica del «Furioso» (1962), in ID., Studi su Dante e Ariosto, MilanoNapoli 1969, pp. 73-112, a p. 106, nota 1, propone- mi sembra correttamente- che dietro la suggestiva (e fortunata) immagine foscoliana siano da riconoscere «le
singole ottave che scandiscono la narrazione», piuttosto che «i singoli versi che si avvicendano con dinamica continuità in una stessa ottava» (ipotesi, di E. SACCONE, Note ariostesche, in «Annali della Scuola Normale Superiore di
Pisa. Sezione di lettere, arti e filosofia», serie II, XXVII (1959), 3-4, pp. 193-242 (alle pp. 216 sgg.).
121
Orlando Furioso di Ludovico Ariosto, a cura di G. Bartolucci, riduzione di E. Sanguineti, regia di L. Ronconi,
Roma 1970, p. 19 (la frase è di Sanguineti).
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«Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto - Corrado Bologna
anima stessa», in cui dunque «consisteva tutto intero l’Ariosto, col suo cantare armonioso»), si riferirà al «tono dell’espressione, quel tono disinvolto, lieve, trasmutabile in mille guise e sempre grazioso, che i vecchi critici chiamavano “aria confidenziale”»122. Per questa ragione il Furioso non dev’essere letto quale «libro euritmico di alto soffio morale, come i Promessi Sposi», né come a Faust o altre opere
«nelle quali conviene discernere parti poetiche e legamenti impoetici»: in esso si
deve invece «seguire, oltre la particolarità dei racconti e delle descrizioni, un contenuto che è sempre il medesimo e si attua in forme sempre nuove e ci attrae con la
magia di questa, insieme, medesimezza ed inesauribile varietà di apparenze»123.
Ma non aveva già provveduto qualcuno degli “addetti ai lavori”, tanto tempo
prima, a distinguere proprio per il suo stile impareggiabile e intraducibile a Furioso, vetta e summa della letteratura cavalleresca europea, dalla pletora di testi
appartenenti al genere che l’avevano preceduto e accompagnato: dico il più sottile e sagace lettore, quindi scrittore, della categoria, Miguel de Cervantes? Si rilegga una scheggia del dialogo fra il Curato e il Barbiere mentre razzolano fra i libri
di Don Chisciotte:
– [...] Ahí anda el señior Reinaldos de Montalbán con sus amigos y compañeros, más ladrones que Caco, y los doce Pares, con el verdadero historiador Turpín; y en verdad
que estoy por condenarlos no más que a destierro perpetuo, siquiera porque tienen parte de la invención del famoso Mateo Boyardo, de donde también tejió su tela el cristiano poeta Ludovico Ariosto; al cual, si aquì le hallo, y que habla en otra lengua que la
suya, no le guardaré respeto alguno; pero si habla en su idioma, le pondré sobre mi cabeza.
– Pues yo le tengo en italiano – dijo el Barbero –; mas no le entiendo.
– Ni aun fuera bien que vos le entendiérades – respondió el Cura –; y aquì le perdonáramos al señor Capitán que no le hubiera traido a España y hecho castellano; que le
quitó mucho de su natural valor [...] 124
È necessario, allora, affrontare la questione della “struttura testuale”, del legame fra “contenuto” e “forma” del romanzo a partire da quest’insistenza sul dato stilistico-formale di Ariosto come rivitalizzatore ed armonizzatore dei molti dati inerti della tradizione cavalleresca, conservati e trasmessi dalla forza inerziale
del “ciclo”. Sono la lingua, lo stile, l’armonia, l’ironia, ovvero la presa di distanza,
la creazione di un punto di vista (anzi di molti e dialettici punti di vista) all’interno
della fabula, ma soprattutto nei confronti della tradizione, a riscattare Ariosto dal
peccato manieristico.
122
B. CROCE, Ariosto (1917), a cura di G. Galasso, Milano 1991, p. 69.
ibid., pp. 81-82.
124 M. DE CERVANTES SAAVEDRA, El ingenioso hidalgo Don Quijote de la Mancha. Primera parte, 1605, cap.
V1 (trad. it. Don Chisciotte della Mancia, Milano 1974, p. 45). Vedo ora che la stessa pagina è parzialmente citata nel
bel saggio di C. MICOCCI, «Orlando Innamorato» cit., p. 864, nota 2.
123
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«Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto - Corrado Bologna
Già Boiardo, è vero – lo ha lucidamente indicato Claudia Micocci – aveva
pensato il suo libro «come dispositivo formale capace di tenere insieme materiali
e registri diversi e fornire un efficace controllo alle operazioni di commistione»
prodotte «mediante un denso gioco di corrispondenza tra il disegno della struttura e figuratività linguistica». Ma la complessità del suo sforzo «di ridurre all’orizzontalità romanzesca la verticalità del progetto», pur sfuggendo al rischio della
mera parodia del genere romanzo cavalleresco, sembra ribadire soprattutto il
meccanismo della riscrittura sulla falsariga del modello, dell’utilizzazione dei sistemi referenziali che il modello stesso offre, tuttavia «saturandoli di materiali diversi con il ricorso ad autori, opere e tradizioni estranei allo statuto del genere,
trasferendone gli elementi nel nuovo contesto»125.
L’Innamorato, però, pare generarsi per così dire all’opposto del modello michelangiolesco visibile in Ariosto: non «per forza di levare», ma «per forza di aggiungere». Il suo sublime non è conquistato per Consunzione, ma per accumulazione della traditio. È (mutatis mutandis) nell’ottica kitsch del collezionismo, nostalgico e ironico nel tentativo di rivivificare il feticcio della propria alienazione,
che s’intende, estremizzando un poco, l’ideologia sottesa al libro del Boiardo.
L’«addensamento di loci derivati dalle diverse zone della tradizione che l’autore
controlla», l’immissione nell’Innamorato «di tutto il peso dell’elaborazione dei temi e della lingua propria a ciascun genere già dall’autore frequentato»126 (compresa la lirica amorosa), fanno del poema boiardesco un ideale Archivio della Tradizione, un enciclopedico Catasto degli Stili sapientemente edificato, articolato e
di nuovo scombinato per gioco. È il gioco della permutazione e della performatività, che trae ed offre piacere “provando e riprovando”, mediante un inesauribile, ma altresì lezioso perché autocompiaciuto, esercizio d’erudita sperimentazione
coestesa all’intero arco della tradizione letteraria.
Boiardo, in questo cumulo di rovine, si muove con grazia lieve e leggiadramente parodica, si diverte (in senso davvero etimologico!) a sondare ora un percorso, ora l’altro, distendendo l’eleganza signorile della “ divagazione” piacevole
sui frammenti, sui fossili, sui reperti archeologia che va allineando e catalogando
per il diletto dell’imitazione-rifacimento degli stili e delle forme, siano essi consunti o ancora vitali. Si aggira con intelligenza, con fine mestiere ed anche con genio, tra le macerie ideologiche, immaginali, linguistiche, nel campo della sua memoria cortigiana ove si ammassano le rovine delle idee prodotte dalla cultura cor125
ibid., pp. 863-64.
ibid. Di una «parodizzazione del dettato e delle figure dell’epica» si parla a p. 862. Per tutto ciò si veda anche
l’utile studio di R. ALHAIQUE PETTINELLI, L’immaginario cavalleresco nel Rinascimento ferrarese, Roma 1983;
inoltre G. BERTONI, Nuove ricerche su M. M. Boiardo e sulle sue relazioni con i signori di Ferrara, in «Archivum Romanicum», II (1918), pp. 85-91.
126
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«Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto - Corrado Bologna
tese e delle forme letterarie (e linguistiche, e stilistiche) chiamate ad esprimerle
durante il medioevo e le sue propaggini nella rifeudalizzazione quattrocentesca.
Rovine che stanno insieme, appunto, solo entro lo spazio rigorosamente conchiuso e strenuamente protetto della Corte127.
Il poema boiardesco (ha ragione in questo la Micocci, che si richiama a Giorgio Agamben) è concepito al modo d’un tópos outópos perfetto, come un non-dove in cui il testo prende luogo e consiste. Un Libro-Eden, un Poema-Giardino
delle Delizie che riscatta, rinnovandolo entro forme inedite, il tópos-icona boccacciano del Libro chiuso dalla cornice testuale al modo del «Palagio con bello e
gran cortile nel mezzo», isolato su «una piccola montagnetta, da ogni parte lontano alquanto alle nostre strade», che il libro stesso contiene, e con cui coincide; risultando il testo il «luogo» dell’esclusione del reale e del tempo e della «noia», e
dell’inclusione del solo piacere del narrare, al fine di «trarre [...] l’animo a sé e dal
noioso pensiero rimuoverlo almeno per alcuno spazio di tempo». L’Innamorato è,
dunque, il «luogo utopico di cui la metafora del perdere la chiave circoscrive esattamente il perimetro»128:
[...] ciascun ponga ogni sua noia in cassa,
et ogni affanno et ogni pensier grave
dentro ve chiuda, e poi perda la chiave.
Et io, quivi a voi tuttavia cantando,
perso ho ogni noia et ogni mal pensiero […]129
Ma si tratta di un ben nostalgico Paradiso già perduto, di un hortus conclusus
che fa da specchio alla Corte, ed è invischiato nei rituali teatrali e nei protocolli
simbolici di cui essa si addobba, giacché unicamente da essa riceve senso e voce.
Infatti nella corte, per Boiardo, l’intera esperienza del vivere e dello scrivere si riflettono e si sostanziano.
Qui mi pare riconoscibile un decisivo scarto dell’Ariosto dal modello boiardesco (solidalmente antropologico, simbolico e letterario), che fa dell’Innamorato l’ultimo grande romanzo cortese e del Furioso il primo grande romanzo moderno (e comunque, se non ancora “borghese”, certo “postcortese”, o “extracortese”).
Anche il Furioso nasce a corte e per la corte, cresce su di essa, recita il proprio
127
Cfr. A. TISSONI BENVENUTI, Il mondo cavalleresco e la corte estense cit., specialmente L’«Orlando Innamorato» e la corte, pp. 27 sgg. Resta fondamentale, per la ricezione dell’Innamorato, C. DIONISOTTI, Fortuna e sfortuna del Boiardo nel Cinquecento cit.
128 C. MICOCCI, «Orlando Innamorato» cit., p. 864 (il riferimento che precede è a G. AGAMBEN, Stanze. La parola e il fantasma nella cultura occidentale, Torino 19772, p. 154).
129 M. M. BOIARDO, Orlando Innamorato cit., II, XXX1, 1, 6-8 e 2, 1-2.
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ruolo sui mobili fondali della sua teatralità, la celebra nel canto “profetico” dalle
ricche tonalità dantesche (XXXV, 6-8) e, attraverso i suoi protagonisti, lungo tutta l’opera, segnatamente nella “galleria” di uomini illustri del canto XLVI. Ma
Ariosto non chiude il Palazzo della Corte a chiave, perdendola: apre, con altre
chiavi, porte diverse, quelle dei fantastici Palazzi di Atlante e del Paradiso terrestre, labirinti e giostre delle illusioni che poi fa sfumare ironicamente: così come
tutte le immagini di sogno, al risveglio, devono sfumare per lasciar luogo all’“io”
che, grazie alla loro scomparsa, torna in sé130.
Egli giunge dove mai Boiardo avrebbe osato spingersi: all’azzeramento, di
fatto, della realtà storica della corte (di quella estense, di quella gonzaghesca) ed
alla sua riproposizione in termini di realtà virtuale, come astratto riferimento onirico, pura categoria spazio-temporale proiettata fuori della storia. La corte è
proiettata da Ariosto nel mito, che fonda la storia perché le dà fondamento (i «cavallieri» e le «donne cortesi» recitano in un ambiente cronotopico che, appunto
come avviene nella narrazione mitologica, viene definito «quella età» pre-istorica,
opposta in feconda dialettica alla concretezza dell’«ora» – XIII, 1: e cfr. le «antique istorie» di VIII, 52, I, le «cortesi donne» che «ebbe l’antiqua etade» di XXVI, 1, ecc. – su un palco che vorrei dire «cubistico», diffratto su molti livelli prospettici) e nell’utopia (ecco il sogno della corte a venire: che è, di fatto, l’attuale di
Ferrara o di Mantova, ma che la sospensione extratemporale/extraspaziale del testo consente di sognare “al futuro”).
Calvino ha colto perfettamente che questa è la natura del Furioso: dall’inizio
esso «si annuncia come il poema del movimento»131. C’è, immediatamente, il movimento zigzagante dei cavalieri e dei cavalli, e della trama poggiata sulle loro gesta e sulle loro mosse, la quale, interpretando lo spazio testuale come un labirinto
o come una scacchiera (il che è lo stesso, poiché il labirinto è solo la sommatoria
delle infinite possibili permutazioni del movimento in un spazio paradossalmente
chiuso e aperto), segue le orme dei cavalli e cavalieri, le perde, le ritrova, le sovrappone. Al di sotto, c’è il movimento compiuto dall’autore per seguire gli innumerevoli pezzi-personaggi: ora dal basso, ora dall’alto, ora salpando con i cavalie-
130 Cfr. W. BENJAMIN, Das Passagen-Werk cit., trad. it. p. 601 (frammento N4, 1): «Nell’immagine dialettica, ciò
che è stato in una determinata epoca è sempre, al tempo stesso, “il sempre-già-stato”. Esso, però, si manifesta di volta
in volta come tale solo agli occhi di un’epoca assolutamente determinata: quella in cui l’umanità, stropicciandosi gli
occhi, riconosce come tale proprio quest’immagine di sogno. E in quest’attimo che lo storico si assume il compito dell’interpretazione del sogno». E cfr. infra, nota 15.
131 I. CALVINO, La struttura dell’«Orlando» cit., p. 81. E cfr. anche l’eccellente studio di G. BARLUSCONI,
L’«Orlando furioso» poema dello spazio, in Studi sull’Ariosto, a cura di E. N. Girardi, Milano 1977, pp 39-130. E. SACCONE, Il soggetto del Furioso, in ID., Il soggetto del Furioso e altri saggi tra quattro e cinquecento, Napoli 1974, pp.
234 sgg., parla di un «andirivieni» testuale.
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ri in alto mare, ora affrontando con loro catabasi o anabasi iniziatiche. E c’è il movimento che compie, ambigua come Proteo, e difatti in esso identificata, la natura, la voce del testo132. Ma al di sotto di tutto, il più profondo movimento di questo, che è l’unico libro di tutta la nostra letteratura davvero composto di spazio e
dell’energia che lo attraversa, è quello fonetico-simbolico della lingua e dei piani
semantici sintattici e narrativi che agli altri si legano: è il vero, decisivo “movimento” di cui il Furioso è il poema (crr. § 2. 3).
2.2.
Il poema dello spazio.
Se è lecita un’estrapolazione un poco forte, ma sostanzialmente corretta anche sul
piano storiografico, ricorrendo a categorie benjaminiane si potrebbe dire che l’Innamorato corrisponde al modello analogico-accumulativo del collezionismo, per
cui, in vista d’un ideale enciclopedico di «completezza», «l’oggetto [è] sciolto da
tutte le sue funzioni originarie per entrare nel rapporto più stretto possibile con
gli oggetti a lui simili», e s’aggancia ad «un grandioso tentativo di superare l’assoluta irrazionalità della semplice presenza dell’oggetto mediante il suo inserimento
in un nuovo ordine storico appositamente creato: la collezione. E per il vero collezionista ogni singola cosa giunge a diventare un’enciclopedia di tutte le scienze
dell’epoca [...] »133. Il Furioso aderisce, al contrario, al modello iconico e onirico
dell’immagine dialettica, del salto, dello scarto ironico per cui il mito si schiarisce
in risvegliante ed anche sorridente utopia, sognando il futuro mentre il presente,
attraverso quelle immagini-di-sogno, «urge al proprio risveglio»:
Le immagini dialettiche sono costellazioni tra le cose alienate e l’avvento del significato,
trattenute nell’istante dell’indifferenza tra morte e significato.
Il risveglio è forse la sintesi della tesi della coscienza onirica e dell’antitesi della coscienza desta? Il momento del risveglio sarebbe allora identico all’«ora (Jetzt) della conoscibilità» in cui le cose indossano la loro vera – surrealistica – faccia. Similmente in Proust è importante come tutta la vita sia in gioco nel punto di rottura – dialettica in grado
supremo – della vita, il risveglio. Proust comincia con un’esposizione dello spazio di chi
si desta. [...]
Il canone della dialettica è il recupero degli elementi onirici al risveglio. Esso è esemplare per il pensatore e vincolante per lo storico134.
132 Proteiformi (perché cambiano ambiguamente forma o perché vengono sincronicamente o diacronicamente
connotati da molteplici valori), sono alcuni “luoghi” cruciali del poema, ad esempio l’isola-mostro di Ebuda, i castelli di Atlante: essi lasciano trapelare una nostalgia per lo spazio plastico e dinamico. Cfr. G. BARLUSCONI, L’«Orlando Furioso» poema dello spazio cit., pp. 54 sgg. e IIO sgg. (sulla «realtà [...] proteiforme» del Furioso).
133 W. BENJAMIN, DasPassagen-Werk cit., trad. it. p. 268 (nella sez. H. Il collezionista). Per un rapporto fra “demone del collezionismo” e scrittura romanzesca-enciclopedica cfr. I. CALVINO, Lezioni americane. Sei proposte per
il prossimo millennio, Milano 1988, p. 119.
134 W. BENJAMIN, Das Passagen-Werk cit., trad. it. rispettivamente p. 604, frammento N5, 2 (che è, in realtà, una
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«Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto - Corrado Bologna
Un esempio per tutti significativo: Ariosto rielabora, contestualizzandoli alla
fabula, i nomi dei personaggi canonizzati dalla tradizione: e su di essi gioca creativamente, con un trattamento inavvertito che si esercita insieme sui piani fonico e
semantico (cfr. anche il § 2. 5). E così fa di Isabella d’Este (la «liberale e magnanima Isabella»: XIIII, 59, 5) il modello (per lui res sunt consequentiae nominum)
dell’eroina Isabella, e lega quest’ultima, anche attraverso una catena di rimanti
“parlanti” che riemerge con moto sinuoso, a ondate musicali (ella: sella: bella:
donzella [...]), a Bradamante (che ad Isabella si lega, quale capostipite mitica della dinastia estense), a Marfisa (grande rivale in amore di Bradamante in un’incredibile singolar tenzone fatta «a pugni e a calci, poi ch’altro non hanno»: XXXVI,
50, 8; finché una «voce orribile»: ibid., 59, I, svela che è la gemella di Ruggiero),
ad altre protagoniste del poema. Infine conduce a morte «colei che fu sopra le
belle bella» (XX, 132, 3), l’eroina “fantasma” e “prototipo” ideale, nel tempo mitico, della signora cortese, in modo che «per l’avvenir [...] ciascuna ch’aggia | il
nome tuo, sia di sublime ingegno, | e sia bella, gentil, cortese e saggia, | e di vera
onestade arrivi al segno», e attraverso la scrittura poetica «Parnaso, Pindo et Elicone | sempre Issabella, Issabella risuone» (XXIX, 29).
Credo si possa affermare che Ariosto, e con lui il Furioso, escono dalla corte,
la superano, l’attraversano sognandola utopicamente, per traguardare lo spazio
esterno ad essa, così come le lunghe onde dello stile che solcano l’intero LibroOceano per slanciarlo oltre, verso il cielo lunare degli straordinari canti XXXIVXXXV. Canti che in realtà non si svolgono in cielo, né sulla luna, ma in uno spazio perfettamente onirico, archetipico, capace non di “collezionare”, ma di “sognare” (e così “trasformare”, o “delirare”) l’intera tradizione letteraria (cfr. anche
la sezione 4).
È uno spazio che si apre più volte nel Furioso: nello splendido sogno di Orlando (canti VIII-IX), che, qui sognatore com’è altrove sognato135, viene detto
mediante un linguaggio in cui “si risvegliano” Dante, Petrarca, il Boccaccio dell’Amorosa Visione, e l’Entrée d’Espagne, il Mambriano, la Chanson de Roland, Andrea da Barberino; ma anche nell’ottava del “riposo” di Ruggiero, ben strano cavaliere il quale, «poi che più cose imaginate s’ebbe» (XXV, 85, 1), prende a scrivere una lettera a Bradamante, che contiene perfino dei versi (ibid., 86, 4-5) e inlettera di Th. W. Adorno a W. Benjamin del 5 agosto 1935), pp. 600-1, frammento N3a, 3, p. 602., frammento N4, 4.
135 Si vedano i due fini studi di S. LONGHI, Orlando Insonniato. Il sogno e la poesia cavalleresca, Milano 1990
(parte I. Il sogno di Orlando nel «Furioso», pp. 15 -39; parte II. Ariosto e la cultura del sogno, pp. 41-81) e di M.
BEER, Romanzi di cavalleria cit., cap. 1. Il sogno di Orlando, pp 35-81 (p 50 per I’«uso “parodico”, “narrativo” o “depotenziato”, oltre che strumentale e burocratico, del lessico dei classici volgari» come “tecnica di straniamento” applicata da Ariosto con speciale eleganza e sottigliezza nel canto VIII: ma cfr. tutto il 5 2. L’«elocutio»: come parla il sogno).
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«Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto - Corrado Bologna
fine abbandona «il corpo stanco» (ibid., 93, 3) al Sonno: proprio come fa l’Autore (o il Testo?) nella chiusa del canto («giunto al fin mi veggio | di questo canto, e
riposarmi chieggio»: ibid., 97, 7-8), subito prima di tornare a cantare, appunto, di
Bradamante (XXVI, 2).
È uno spazio composto non da “cose”, ma dagli elementi fondamentali che
compongono così il macrocosmo come il microcosmo, di quello speculare, cioè il
corpo dell’uomo: Aria Acqua Fuoco Terra. Ariosto li elenca spesso, in senso reale
o invece (ma senza sostanziale differenza) metaforico: ad esempio nell’ottava 20
(riecheggiante nella 21) del canto VIII, bruciata dal «sole ardente» per il quale
«l’aria e l’arena ne bolle», e si eccita «sol la cicala col noioso metro» che «le valli e
i monti assorda, e il mare e il cielo». O in due ottave non casualmente contigue
(25-26) del canto XX. Poi in un solo verso dove l’intero cosmo è chiamato a partecipare ad un dolore d’amore: «In terra, in aria, in mar, sola son io» (XXV, 36, 1);
il fuoco, come dirò fra poco, ardeva nell’ottava 29 di quel canto, e torna a fiammeggiare (né l’acqua riesce ad estinguerlo) poche ottave più in là, nella 43; e infìne, nella 62, dove per il potere magico d’un fauno «s’agghiaccia il fuoco, e l’aria si
fa dura». Quindi, specialinente, nella dislocazione strategia delle ottave 47-69 del
canto XXXIV (quello del più mirabile viaggio di Astolfo, in cerca del senno d’Orlando) e distribuiti ordinatamente, con scientifica esattezza, come modelli spaziali delle principali avventure del libro, a ribadire che “contenuti” e “forme” in esso sono speculari (difatti sempre in XXXIV, 77, 7-8, risuona, ormai esausto e ironicamente consunto, il «metro» della cicala, l’antichissima, mitica ispiratrice del
poeta: «Di cicale scoppiate imagine hanno | versi ch’in laude dei signor si fanno»).
Compongono lo spazio dell’ambientazione narrativa del Furioso, dunque, i
quattro elementi universali, costitutivi del macro- e del microcosmo per la tradizione fisica antica e medievale, per la medicina di Aristotele e di Galeno, per l’astronomia, l’astrologia, l’alchimia che Ariosto conobbe e che alcuni suoi amici
praticarono, ponendola alla base di utopici progetti di ri-creazione artificiata del
cosmo, in forma di parole. Penso ancora una volta specialmente a Giulio Camillo
(insegnante di retorica a Bologna o forse nella stessa Ferrara intorno al 1520: e più
tardi in stretto rapporto, comunque, con Ercole II), alla sua «materia prima», che
è Proteo, e che su diversi piani mutuamente convertibili può divenire Oro, o Discorso fluente, o Memoria universale. La materia prima è il movimento, la ricerca,
il desiderio: «a tutti par che quella cosa sia, | che più ciascun per sé brama e desia»
(XII, 20, 7-8). Per Camillo essa si trova «fra il non niente et il non qualche cosa»136: nello stesso tópos outópos del testo in perenne movimento, nello sforzo di
136 Cfr. G. CAMILLO, De transmutatione, in L. BOLZONI, Il teatro della memoria cit., pp. 99-106 (alle pp. 100 e
102): «De prima materia et quid sit. Che cosa sia materia prima, et come la possiamo trovare fra il non niente et il non
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«Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto - Corrado Bologna
inseguirla, afferrarla, rinchiuderla nelle infinite “stanze” del testo, che si autoinglobano e si aprono l’una nell’altra, “traducendola” in una Lingua tanto mobile e
proteica da resistere alle malie della Realtà e a quelle dell’Irreale. «Il desiderio è
una corsa verso il nulla, l’incantesimo di Atlante concentra tutte le brame inappagate nel chiuso d’un labirinto, ma non muta le regole che governano i movimenti
degli uomini nello spazio aperto del poema e del mondo»137. Le strutture mentali
del Furioso, e quelle linguistico-narrative che ad esse si adattano, per essere comprese esigono un accostamento delicato e metodico, ma altresì libero, fantasioso
come lo è il testo. Sono strutture leggermente e rapidamente mutevoli ma anche
molto compatte, esatte e trasparenti quanto molteplici. Ho sempre pensato che
proprio attraverso il Furioso, libro amatissimo, Calvino sia giunto a determinare le
sei categorie che per lui condensano il senso della Modernità (Leggerezza, Rapidità, Esattezza, Visibilità, Molteplicità e Compattezza, o Densità)138.
L’Acqua. «Il mare», anzitutto, quello «d’Africa» che apre il poema (I, 1, 4)
prima ancora che si faccia parola della terra, così come apriva due libri cari ad
Ariosto, che a più riprese li riscrive, avendoli sempre in mente accanto all’Eneide:
l’Iliade, poema d’una guerra combattuta oltremare, e l’Odissea, poema acquatico
della nostalgia trascritta in onde, rotte, labirinti acquei. Mare che è (come ha compreso Jorge Luis Borges aprendo con splendida accumulazione la sua lirica Ariosto y los árabes) lo stesso spazio del libro (forse di ogni libro, e del Furioso come
prototipo ideale e sistema combinatorio capace di generare ogni possibile libro),
metafora profonda della Lingua che nel suo ondoso attraversamento del testo-labirinto «unisce e separa» personaggi, avventure, sogni, secoli, universi:
Nadie puede escribir un libro. Para
que un libro sea verdaderamente,
se requieren la aurora y el poniente,
siglos, armas y el mar que une y separa139
E difatti il Mare è lo spazio che “separa” ed “unisce” i due estremi mentali
dell’immensa Guerra del libro. È lo spazio della distanza e della distinzione, che
solo l’Autore può scavalcare – come nelle fiabe l’Orco o l’Eroe con stivali fatati –
qualche cosa, et quante cose l’ascondano. La materia prima esser Protheo et l’istesso essere, il vero genere generalissimo reale. [...] Adunque in questa imagine de Protheo se colocarà la materia prima con tutte le essentie, le nature et le
sustantie delle cose che sono etterne […]».
137 I. CALVINO, La struttura dell’«Orlando» cit., p. 86.
138 Cfr. 1D., Lezioni americane cit. (l’ultima Lezione, che avrebbe dovuto intitolarsi Consistency, cioè appunto Compattezza, o Densità, com’è noto non fu mai scritta, per la morte di Calvino).
139 J. L. BORGES, Ariosto y los árabes, in El otro, el mismo (1969), in ID.,Opera poética, Madrid 1972, p. 186 (sono i vv. 1-4 della lirica); cfr. l’explicit (vv. 93-96): «En la desierta sala el silencioso | libro viaja en el tiempo. Las auroras
| quedan atrás y las nocturnas horas | y mi vida, este sueño presuroso».
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«Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto - Corrado Bologna
senza nave, volando con il pensiero là dove è necessario il suo intervento per recuperare all’Ordine del récit qualche filo della “gran tela” il cui capo, lasciato a se
stesso, rischierebbe d’ingarbugliarsi o di smarrirsi nella memoria; e nel salto, annunciato con le necessarie cautele, si porta dietro Testo e Lettore:
Ma differendo questa pugna alquanto,
io vo’ passar senza navilio il mare.
Non ho con quei di Francia da far tanto,
ch’io non m’abbia d’Astolfo a ricordare.
(XXXIX, 19, 1-4).
E nel canto conclusivo si scoprirà, per galleggiamento dell’antico tópos del testo-Nave, che tutti noi lettori abbiamo viaggiato con Ariosto su un Furioso -imbarcazione:
Or, se mi mostra la mia carta il vero,
non è lontano a discoprirsi il porto;
sì che nel lito i voti scioglier spero
a chi nel mar per tanta via m’ha scorto;
ove, o di non tornar col legno intero,
o d’errar sempre, ebbi già il viso smorto.
(XLVI, 1, 1-6).
L’Acqua è il pericolo, la mobilità incontrollata, la minaccia oscura, ma anche
la via della comunicazione e della salvezza. Molti personaggi, specie guerrieri, in
tutto il libro nuotano in acque mosse. Chi non è in grado di farlo, muore: come
quell’eremita del canto XXIX, 6-7, che un pagano scaglia in mare, al modo tenuto da Ercole con Lica nelle Metamorfosi ovidiane (IX, 217-18), e che, secondo
una delle versioni ipotizzate da Ariosto con ironica Quellenforschung, «[…] mori
per non saper notare, | fatti assai prieghi e orazioni invano» (XXIX, 7, 4-5).
In acque turbolente e perigliose Ariosto lascia momentaneamente Ruggiero,
quando la tempesta (magnifica pìèce de théâtre tessuta di violente sonorità che
aprono squarci di fondali pittorici) affonda la nave su cui l’eroe viaggia (XLI, 921) e lui si salva «per forza di piedi e di braccia | nuotando» (ibid., 22, I-2). Come
in certe tecniche della cinematografia moderna, specie dei cartoons, ove solo l’improvvisa presa di coscienza del personaggio di fronte alla minaccia lo “fa cadere”,
perdendolo, mentre l’inconsapevolezza lo conserva nella dimensione dell’irrealtà
(o del sogno!) nella quale le leggi fisiche non si applicano: così qui direi che è la
riemergenza del personaggio e dei suoi “casi” alla memoria dell’Autore a salvarlo:
Ma mi parria, Signor, far troppo fallo,
se, per voler di costor dir, lasciassi
tanto Ruggier nel mar, che v’affogassi.
(XLI, 46, 6-8).
Subito Ruggiero, in una scena di vivacità e iconicità straordinarie, riprende a
nuotare, «con piedi e con braccia | percotendo […] l’orribil onde» (ibid., 47, 1-2);
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«e fece voto di core e di fede | d’esser cristiana se ponea in terra il piede» (ibid.,
48, 7-8): passaggio che mi pare un indubbio, esplicito rovesciamento situazionale
della scena dell’eremita «volato» in acqua e affogato nonostante «prieghi e
orazïoni».
Infine, nell’episodio di Ruggiero, è l’Acqua a tornare sola protagonista, con
una cascata di onde: in rima inclusiva con mondi, 47, 6; fuor di rima a 50, 2-3, ed
anche 7, ove «onde» è solo foneticamente – e non morfologicamente e semanticamente – identico, essendo qui avverbio di moto da luogo, però incorporante, per
così dire, nel moto spaziale che è chiamato ad evocare, il dinamismo delle onde
marine140. Queste infatti, annunciate da mar di 50, 8 (esso riecheggia poi in 51, 7)
tornano a 51, 2; e le acque, chiudendosi sul naufragio i cui unici spettatori siamo
noi, insieme con l’autore, si rifrangono in rima inclusiva lungo l’intera ottava 51:
Cresce la forza e l’animo indefesso:
Ruggier percuote l’onde e le respinge,
l’onde che seguon l’una all’altra presso,
di che una il leva, un’altra lo sospinge.
Così montando e discendendo spesso
con gran travaglio, al fin l’arena attinge;
e da la parte onde s’inchina il colle
più verso il mar, esce bagnato e molle.
Fur tutti gli altri che nel mar si diero,
vinti da l’onde, e al fin restâr ne l’acque.
Nel solitario scoglio uscì Ruggiero,
come all’alta Bontà divina piacque.
Poi che fu sopra il monte inculto e fiero
sicur dal mar, nuovo timor gli nacque
d’avere esilio in sì strette confine,
e di morirvi di disagio al fine.
(XLI; 50 e 51)
Né dovrà sfuggire che le ottave 48-49, brevissimo stream of consciousness del
nuotatore in pericolo di vita, condensano in sedici versi quasi il senso dell’intero
libro (la guerra, le sfide fra paladini e guerrieri pagani, l’amore e la morte, il mare
e la terra, Dio e gli uomini): tant’è vero che risuonano, inequivocabili perché
estremamente rari, i due rimanti in rima inclusiva dell’incipit (Mori : amori, 49, 2
140
Una delle “novelle” gaddiane, la n. 158 (che cito qui a titolo meramente esemplificativo dell’aequivocatio sul termine) è fondata su un identico jeu de mots, ironizzando sull’affettazione dell’ambiguità: «Un tedesco, bramoso di volgere a suo idioma una lirica, la qual s’apre: “Onde venisti?”, andava interrogando l’autore se “Onde” potesse voltarsi
per l’appunto con “Wellen” […]» (C. E. GADDA, Il primo libro delle favole, a cura di C. Vela, Milano 1990, p. 66, e
in Opere di C. E. Gadda, a cura di D. Isella, IV. Saggi Giornali Favole e altri scritti, II, a cura di C. Vela, G. Gaspari, G.
Pinotti, F. Gavazzeni, D. Isella e M. A. Terzoli, Milano 1992, p. 50).
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e 6). Sempre di nuovo la memoria è rìcondotta all’origine dall’energia mnestica
concentrata nel fossile fonetico-rimico-semantico.
Ma è Acqua anche l’Oceano dell’avventura con l’Orca (XI, 36 sgg.) e di
quella con il «mostro cieco» (XVIII, 33, 1) riscritto sul modello di Polifemo, che
giunge correndo «lungo il lito del mar» (ibid., 29, 3-4) e viene chiamato Orco
(non a caso, ma per quella precisissima funzione di memoria fonico-semantica, e
insomma di musicalità portatrice del senso, a cui ho accennato, e su cui tornerò
nei paragrafi seguenti). Non è senza ragione, poi, se la «tana» del «mostro cieco», pericoloso e ambiguo confine, in bilico mirabile, proteiforme, fra due elementi (è «cavata in lito al mar dentr’uno scoglio»), a contrasto del cavernoso
buio interno appare esternamente luminosissima, qual è la pagina stessa che il
poeta sta accingendosi a scrivere, e ha sott’occhio proprio in «quel» momento:
«Di marmo così bianco è quello speco, | come esser soglia ancor non scritto foglio» (ibid., 33, 2 e 3-4).
Acqua e Terra si confondono, si traducono, si mescolano o s’intridono reciprocamente, grazie ai cavalieri che in quei casi fungono da mediatori epistemici.
Una delle molte «belle donzelle» va «cercando un cavalliero, | ch’a far battaglia usato, come lontra, | in acqua e in terra fosse» (XXXV, 34, 1-3). Lo stesso Orlando, gran nuotatore per tutto il poema, qualche canto prima aveva rovesciato il
moto salvifico di Ruggiero, passando, ormai folle, dalla terra all’acqua e subendo
una metamorfosi genetica, per quanto metaforica: «Orlando è nudo, e nuota com’
un pesce» (XXIX, 48, 2), e «sa nuotar come una lontra» (XXX, 5, 1).
L’Acqua sotterranea, che sgorga naturalmente nei pozzi quasi provenisse dagli inferi, lascia traccia nel Furioso: e sospetto che dal «liquor molle e beve» del
pozzo misterioso e sconosciuto in cui Ruggiero scaglia il «sacro scudo», che tuttora vi «nuota» (XXVI, 93, 4 e 94, 6), abbia ispirato, ai nostri giorni, quell’onirico
e fantasticante, evaporante e cervellotico, malinconioso romanzo ariostesco, fatto
d’acqua e di sogni lunari, che è il Poema dei lunatici di Ermanno Cavazzoni141.
Parimenti Acqua ed Aria spesso si scambiano i ruoli, essendo mercurialmente irnprendibili entrambe: e si liquefà l’Aria ed evapora l’Acqua, che si solidifica,
alla fine del libro, nel «giaccio» della morte (XLVI, 140, 6). Allora si vola così co141 Cfr. E. CAVAZZONI, Il poema dei lunatici, Torino 1987. Il libro si apre (pp. 11-12) sugli «scritti in bottiglia nel
fondo dei pozzi» che galleggiano accanto a «cose [...] strampalate» (mentre il metallo, almeno lui, rimane sul fondo) e
sulle «voci o lamenti» che da quei pozzi svaporano, giacché «l’acqua dei pozzi [è] comunicante nel sottosuolo» e «sente molto la luna» ; per chiudersi (p. 287), dopo ariostesche battaglie campali, con ministri e prefetti che volano nell’aria e poi a capofitto piombano giú, «a insabbiarsi dentro la terra, a sparire in una miniera o in un pozzo secco». Nel risvolto di copertina l’editore colloca «questo racconto di “follia padana”», ilare e visionario, «nell’aura di una lunga
tradizione fantastica inaugurata dal Folengo e dall’Ariosto». Anche nelle Satire ariostesche, III, vv. 166 sgg., la metafora acquea prolifera tra pozzi secchi e ruscelli della memoria e dell’oblio: cfr. l’ed. Segre cit., pp. 27 sgg.; sul passo
si ferma anche G. BARLUSCONI, L’«Orlando Furioso» poema dello spazio cit., pp. 97 sgg.
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me si naviga. Già in Dante, d’altra parte, la salita al cielo della Luna è ritmata dalle «due metafore della navigazione e del volo di Beatrice»142: e un confronto fra il
canto II del Paradiso e il XXVI dell’Inferno ha permesso a Maria Corti di riconoscere che «il lessico della navigazione è usato per un volo verso il cielo della Luna,
cioè verso l’alto, al contrario del folle volo di Ulisse»143. Così Astolfo, sull’Ippogrifo, muove il suo destriero «per l’aria lento lento», esattamente alla maniera in
cui «si parte col pilota inante | il nochier che gli scogli teme e ’1 vento» (XXIII,
16, 2 e 5 -6).
Ed anche il «vaso | in che il senno d’Orlando era rinchiuso» (XXXIX, 57, 12), in fondo, contiene solo «un liquor suttile e molle, | atto a esalar, se non si tien
ben chiuso» (XXXIV, 83, I-2: non sfugga il ritorno della cadenza-rimanti a cinque
canti di distanza, rinchiuso : suso : uso nella prima occorrenza citata, chiuso : uso :
infuso nella seconda). Proprio facendolo aspirare ad Orlando, Astolfo riuscirà,
per evaporazione di bollicine cerebrali, a reimmettere l’Aria-Acqua nel suo corpo, restituendogli armonico equilibrio delle parti nel tutto:
Aveasi Astolfo apparecchiato il vaso
in che il senno d’Orlando era rinchiuso;
e quello in modo appropinquògli al naso
che nel tirar che fece il fiato in suso,
tutto il votò: maraviglioso caso!
che ritornò la mente al primier uso;
e ne’ suoi bei discorsi l’intelletto
rivenne, più che mai lucido e netto.
(XXXIX, 57)
Se la fisica e la pneumatologia neoplatoniche intridono l’idea e il brano, le annulla e sublima l’ironia magnifica che, con la catena vaso : naso: caso, accosta le rime -uso / -aso. Un’affine alternanza, tutt’altro che casualmente, tornerà ad esempio nell’evocazione, alla morte di Brandimarte, allorché Orlando leva l’elmo all’amico, ucciso da orribile colpo (XLII, 13), della serie rimica canonica ed eccelsa,
viso : diviso : paradiso, vv. I, 3, 5, intrecciata con quella che direi “comica”, naso :
rimaso : occaso, vv. 2, 4, 6.
La Terra. Proprio l’orbe intero, la Terra intesa proprio come pianeta, con tutti i suoi continenti, antichi e recentemente scoperti (nel canto XV le nuove scoperte geografiche sono ripercorse a volo nelle ottave 18-27), e condensati, come
avviene nelle favole in cui un sol giro di frase valica monti e mari, nella misura di
una stanza (qui, in una o due delle infinite “stanze”, le ottave, che articola il Li142
143
M. CORTI, Percorsi dell’invenzione. Il linguaggio poetico e Dante, Torino 1993, p. 151.
Ibid.
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bro-Labirinto-Palazzo incantato). E le isole: terre isolate dalla terra, terre marme,
a partire da quella paradisiaca di Alcina su cui Ruggiero cala dall’ «aria ove le
penne stese» il suo Ippogrifo (VI, 20, 2: ma cfr. fino all’ottava 23)e da quella di
Ebuda, l’«Isola del Pianto» su cui poco più tardi, ancora volando sull’Ippogrifo
(X, 107-11), Ruggiero scende per salvare Angelica dall’Orca: la stessa isola sulla
quale, entrando con una barchetta tra le fauci del mostro, nel canto successivo
approderà Orlando, per salvare Olimpia incatenata sul medesimo scoglio (XI, 142), e poi Cipro (XVIII, 136 sgg.), e «Lipadusa», nel canto XLIII (150 sgg.). E i
molti anfratti, i buchi comunicanti con il Sotto mobile e acqueo, tipico quello metaforizzato dove cerca scampo Pinabello, «come volpe alla tana» (XXII, 74, 6). E
le grotte, cavità materne e iniziatiche che immettono all’umido o infuocato ventre
della Terra, ma anche all’ombra, alla morte: quella ad esempio che inghiotte a lungo (XII, 88-93) Orlando come una «tomba [...] | dove la viva gente sta sepolta»
(ibid., 90, 1-2: sepolto in rima anche a 93, 7) e dove ritroverà la vita solo negli occhi d’una giovane «donna di giocondo viso» che siede «appresso a un fuoco»
(ibid., 91, 1-2).
E poi, soprattutto, lo spazio terrestre: la terra nebulosa e plastica, che fin dall’inizio (I, 5-6), nel lungo catalogo delle terre attraversate da Orlando per amore
di Angelica e poi nell’apertura dei fondali alberati (ibid, 10, 7 e 11, 3), offre la
sconfinata, mutevole e gommosa base spaziale-simbolica su cui intrecceranno le
loro mosse allegoriche figure da scacchi, i «pedoni e cavallieri» (II, 37, 2: e cfr.
VII, 35, 6), «le donne» e «i cavallieri» e con loro «i [...] destrieri» (XV, 76, 1 e 5).
Il libro è, dal primo momento, una scacchiera terragna ma elastica, dantescamente ostile, ombrosa, ventosa, rumorosa (Angelica «fugge tra selve spaventose e scure, | per lochi inabitati, ermi e selvaggi. |Il mover de le frondi d’olmi e di verzure |
che di cerri sentia, d’olmi e di faggi,| fatto le avea con subite paure | trovar di qua
di là strani vïaggi»: I, 33, 1-6). Questa terra-foresta è una scacchiera proteiforme
animata come in certe fiabe dotate di «potere ermeneutico»144 (Schiaccianoci, Alice in Wonderland, La boîte à joujoux. . . ), che si aprono, si svolgono e si chiudono
spiegando (interpretando!) l’inganno su cui sono costruite, e come nei sogni, o negli incubi. È sottile, ironica e verissima l’intuizione di Italo Calvino: «L’Orlando
furioso è un’immensa partita di scacchi che si gioca sulla carta geografica del mondo, una partita smisurata, che si dirama in tante partite simultanee. La carta del
mondo è ben più varia d’una scacchiera, ma su di essa le mosse d’ogni personaggio si susseguono secondo regole fisse come per i pezzi degli scacchi»145.
144 Su di esse si sofferma I. CALVINO, Sulla fiaba, a cura di M. Lavagetto, Torino 1988 (e cfr. l’Introduzione di Lavagetto, pp. XX11 sgg.).
145 Italo Calvino racconta l’Orlando Furioso, a cura di C. Minoia, Torino 1988, p. 38 (utilizzo quest’edizione per praticità; il titolo dell’edizione originaria del 1970, oggi esaurita e difficilmente reperibile, era: Orlando furioso di Ludovico Ariosto raccontato da Italo Calvino).
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Il Fuoco. Le fiamme della discesa di Astolfo (geniale “parodia” del viaggio infero dantesco, unica possibile in tutta la nostra letteratura) nell’ «infernal caliginosa buca» (XXXIII, 128, 1) dove «quanto va più inanzi, più s’ingrossa | il fumo
e la caligine» (XXXIV, 7, 1-2), fumo che «dal fuoco infernal qui tutto esala»
(ibid., 9, 4; infine il «fuoco eterno» – ibid., 69, 6 – verrà sublimato in aria nell’ottava seguente, 70, 1-2: «tutta la sfera varcano del fuoco | et indi vanno al regno de
la luna»). Ma anche le altre, simboliche fiamme che invoca Grifone a cui «par de
lo scorno | del suo compagno esser macchiato e brutto», tanto che «esser vorrebbe stato in mezzo il foco, | più tosto che trovarsi in questo loco» (XVII, 91, 5-8), e
quindi quelle che, nell’apertura dell’ottava immediatamente seguente, continuano
a bruciare per la rabbia, sviluppando lo stesso livello metaforico («Arde nel core,
e fuor nel viso avampa»). E le molte fiamme che ardono, per ira e per sdegno
(XXVI, 132, 2; XLII, 54, 1-2, a proposito delle armi d’un cavaliere: «piena d’un
foco eterno è quella mazza, | che senza consumarsi ognora avampa»), o per gelosia o per amore, o per tutti questi sentimenti (come nel canto in cui Orlando scopre le tracce dell’amore di Angelica e Medoro: XIX, 28 sgg.), in numerosi altri
«luoghi» mnemonico-narrativi di questo teatro universale, ben oltre il confine
della prassi ripetitiva tipica del petrarchismo. A partire, direi, dal «grave incendio» che «il savio imperador [...] estinguer vòlse» di I, 7, 7-8, fino al «caldo | de le
fiamme d’amor» che bruciano le ossa e la «medoa» di Rinaldo, ancora per «Angelica la bella», al capo estremo del poema (XLII, 28, 7 - 29, 2).
Ma fra i molti esempi allegabili voglio soffermarmi solo sull’attivazione narrativa degli stilemi canonici nella straordinaria visualizzazione dell’incendio amoroso di Angelica e Medoro in XIX, 28, 5: «Arder si sente, e sempre il fuoco abonda»; altrove, a proposito di Bradamante: «Con gli occhi ardenti e coi sospir di
fuoco | le mostra l’alma di disio consunta» (XXV, 29, 5-6). Interessante anche perché riprende e trasforma su un nuovo livello semantico e metaforico la fiammata
e il tuono che quindici ottave prima, con sofisticata ironia, hanno presentato l’immagine e la sonorità di Ruggiero, rinnovato Achille della mitologia moderna, dalla violenza più che infernale. Violenza comparabile, agli inizi leonardeschi della
“civiltà delle macchine”, oltre che allo scatenamento – senza possibilità di difesa
– delle forze sotterranee, solo alle più diaboliche Armi da Fuoco (qui i due famosi cannoni di Alfonso d’Este, «Terremoto» e «Gran diavolo»), di cui il Furioso diviene l’epopea, esaltandone a più riprese (cfr. anche, a XI, 23 -27, «La machina
infernal») la tremenda, artificiale meraviglia, in grado d’incorporare la vitalità e
l’energia che nel tempo del mito furono proprie dei cavalieri ed oggi risiedono solo nella Macchina, e in ultima analisi capaci di conquistare l’universo elemento
per elemento:
La forza di Ruggier non era quale
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or si ritrovi in cavallier moderno,
né in orso né in leon né in animale
altro più fiero, o nostrale od esterno.
Forse il tremuoto le sarebbe uguale,
forse il Gran diavol; non quel de lo ’nfemo,
ma quel del mio signor, che va col fuoco
ch’a cielo e a terra e a mar si fa dar loco.
(XXV, 14).
Come la Terra e l’Acqua si toccano sui bordi ambigui, pericolosi e affascinanti dove le onde si frangono (strabiliante la visività, graficamente e foneticamente scolpita, di «onde entra ne la terra, onde esce l’onda» (XIV, 106, 5) con rimanti in catena semantica, circonda : sponda : onda (cfr. il § 2. 4), dove i mostri si
celano nelle cavità ombrose, e dove salpano i viaggi verso l’avventura, così, nella
mai sistematizzata ma sempre attiva cosmologia mitica dell’Ariosto, l’Acqua e il
Fuoco combattono la loro dialettica eterna: giacché nel fondo imperscrutabile
dell’Una si nasconde e urge l’Altro. Ariosto sintetizza questa dialettica con suprema grazia e ironia, mi pare, nella descrizione dell’ archibugio, costruito «col
fuoco dietro ove la canna è chiusa» (IX, 29, 1), che alla fine del canto – quando
altri metaforici fuochi sono caduti dal cielo per riprodurre in immagine e in suono il crollo terrificante di cavalli e cavalieri (ibid., 77, 1) – Orlando getta da una
barca in mare aperto, nei più profondi abissi, perché quel «maledetto, [...] abominoso ordigno» che fu «fabricato nel tartareo fondo | [...] per man di Belzebú
maligno» torni «all’inferno, onde usc [ì]» (ibid., 91, 1-5)146. E la stessa dialettica
riprende e sviluppa nella geniale vicenda delle due fonti, «di che l’una dà il fuoco, e l’altra il tolle; | e al mal che l’una fa, nulla soccorre, | se non l’altra acqua che
contraria corre» (XLII, 35, 5-8; e cfr. 37, 2, ove Rinaldo giunge «a ber la fiamma
in quel ghiacciato rivo»).
L’Aria. Il vento, anzitutto. Quello che, per figura allegorica, parla con i marinai nel canto II, «e soffia e grida e naufragio minaccia» (29, 7). Quello che spira
nelle distese e nei meandri di tutto il libro. Il qui già udito, impetuoso «mover de
le frondi e di verzure» del canto I, 33, 3, che crea assai teatrali scenari di luci e
d’ombre, dei quali ancora Tasso, nella Gerusalemme, spesso ricorderà l’iconica
visualizzazione e la fragorosa sonorità (l’ottava intera, riecheggiante in quella che
segue, è scandita dall’allitterazione in fricativa: fugge, selve spaventose, frondi,
verzure, faggi, fatto, vïaggi, veduta, valle, aver). Quello che «stride» (XXXII, 97,
146 Sul tema delle armi cfr. ibid., cap. 1V. Orlando, Olimpia, l’archibugio, pp. 31-37. Inoltre D. DELCORNO
BRANCA, L’Orlando Furioso e il romanzo cavalleresco medievale cit., pp. 57-79 (Il tema delle armi come fattore di “entrelacement”) e 81-103 (Armi incantate e cavalleria).
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6) in una notte di pioggia vibrante di echi fonici, che è fra i più bei notturni del
Furioso. Quello che soffia sul mare e nelle vene di alcuni personaggi ventosi/aerei, nel Furioso: «Marfisa a quel parlar fremer s’udia | come un vento marino in
un scoglio» (XXXVI, 21, 5 -6); «Triema a Rinaldo il cor come una foglia» (XLII,
51, 5). Quello dalla cui «rabbia [...] che si fende | ne le ritorte, escono orribil suoni» (XLI, 12, I-2). Quello che gonfia le vele della barca nell’episodio appena ricordato di Orlando (IX, 91, 7-8) come in numerosissime altre occasioni; una ne
ricordo, a causa della splendida eco allitterativa, articolata sull’intero ventaglio
dell’apofonia vocalica, per accentuare al massimo grado, attraverso il suono del
sospiro ventoso, l’iconicità della descriptio: «Spirando il vento prospero alla poppa [...] » (VIII, 26, 1); un’altra per lo stesso sapiente uso, fra l’altro, dell’allitterazione, ed anche della rima equivoca (e inclusiva: cfr. p. 312) alto: alto: assalto: «Al
vento di maestro alzò la nave | le vele all’orza, et allargossi in alto» (XVIII, 141, 12); un’altra per l’affettuoso, giocoso diminutivo (alterato di scarsa frequenza nel
Furioso) e per il gioco, ancora, di doppie rime inclusive e “contenute” (cfr. sempre il § 2. 4): «Un ventolin che leggiermente all’orza | ferendo, avea adescato il legno all’onda»(XXII, 9, 1-2), con rime rinforza: forza e soprabonda: sponda. E le
brezze che spirano, al modo (e nella memoria!) della petrarchesca aura (l’aura /
laura / Laura), fra le molte «auree crespe chiome» (XXIV, 86, 7) o «aurei crespi
crini» (XXXII, 17, 8) del poema, inserendo preziosi intarsi “lirici” nel flusso epico della diegesi147.
Nel Furioso si salta, ci si eleva, si volteggia, si vola molto. Volano, com’è giusto che sia, molti angeli ed arcangeli, dalle rodomontesche fattezze. Un demonio
che s’infila nel corpo del «ronzino» di Doralice lo fa impazzire di «furor»: e quello «spiccò in aria un salto, | che trenta piè fu lungo e sedeci alto» (XXVI, 128, 8 e
129, 7-8); la fonte è, alla lettera, l’Innamorato (I, 1V, 73, 7-8): tuttavia quel salto
epico e diabolico, che Boiardo faceva durare per il paio di versi del distico, fulmen in clausola narrativo d’una scena vivace, in Ariosto s’estende per ben due ottave, e occupa quasi tutta la 130, che si chiude con altri salti e con una fuga veloce come «una saetta» (ibid., 130, 8). Cavallo e Cavallerizza galleggiano a lungo
nell’aria («Quando si vide in alto, gridò forte | (che si tenne per morta) la donzella»: ibid., 130, 3-4): ancora una volta, come per un ralenti cinematografico, da
cartoon, il tempo narrativo si fa di gomma, elastico, onirico. E l’urgenza del volo,
che è di tutto il Furioso com’è di ogni sogno, prende forma in immagini d’ironica
leggerezza.
147 I due emistichi, fra molti altri, indicano la vischiosità lessicale-semantica del petrarchismo, diretto o “mediato”
dal Bembo, però sempre camuffato e censurato, o ironizzato. Studia attentamente i «procedimenti di rimozione semantica che Ariosto adotta nei confronti del codice petrarchesco» M. C. CABANI, Fra omaggio e parodia. Petrarca e
petrarchismo nel «Furioso», Pisa 1990, pp. 67 sgg.
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«Volteggiano», cioè “si aggirano” qui vari personaggi, anzitutto Astolfo (XV,
12, 1; ma cfr. XXI, 38, 2); e Ariosto stesso, in altro luogo (Satire, III, 64-66), rinuncia a veri viaggi: «sicuro in su le carte | verrò, più che sui legni, volteggiando».
E «volare», lungo il libro, significa molte cose: fra l’altro, anche produrre il rumore del volo, o attraversare l’aria con scatto fulmineo. Uno straordinario spezzone
di teatro, rumoroso ed orrifico (è forse una delle «secentisterie» che, nell’Ariosto,
infastidivano Leopardi)148, è condensato in due versi volatili: «Non pur per l’aria
gemiti e querele, | ma volan braccia e spalle e capi sciolti» (XII, 80, 3 -4); e la «vischiosità» semantica149, non meno forte sul piano struttivo di quella lessicale, subito dopo insiste sull’elemento aereo, però derubricando la metafora al valore
proprio del volo, con paragone ornitologico (d’ispirazione latamente dantesca):
«Come per l’aria, ove han sì larga piazza, | fuggon li storni da l’audace smerlo»
(ibid., 84, 5-6). Così in altro, lontanissimo luogo del poema, lo scontro fra paladini e saraceni, che fa «volare» le lance a pezzi, sommuove l’Aria e l’Acqua con il
suo fracasso:
Quando allo scontro vengono a trovarsi
e in tronchi vola al ciel rotta ogni lancia,
del gran rumor fu visto il mar gonfiarsi,
del gran rumor che s’udì sino in Francia.
(XLI, 69, 1-4)
E nell’ultimo canto, un’altra lancia d’un pagano esplode letteralmente, «Volando» come un uccello, a schiantarsi contro lo scudo di Ruggiero, forgiato da
Vulcano, e che appartenne ad Ettore (XLVI, 116, 3-4):
E se non che la lancia non sostenne
il grave scontro, e mancò al primo assalto,
e rotta in scheggie e in tronchi aver le penne
parve per l’aria, tanto volò in alto [...]
(XLVI, 117, 1-4).
«Vola» in mare l’eremita scagliato da un pagano feroce che ho ricordato poco fa (XXIX, 6, 3-4: «e poi ch’una e due volte raggirollo, | da sé per l’aria e verso
il mar lo scaglia»). E Orlando, impazzito, fa «volare» addirittura un asino (l’ironia, qui, è suprema, e si fa asciuttamente linguistica, giocando sul calembour popolare dell’«asino che vola», rifacimento del già petroniano Asinus in tegulis), con
148
Si veda G. LEOPARDI, Zibaldone di pensieri, p. 4 dell’originale, edizione critica e annotata a cura di G. Pacella, 3 voll., Milano 1991, I, p. 7 (cfr. l’edizione a cura di F. Flora, 2 voll., Milano 1937, I, p. 7).
149 Com’è noto ha per primo sottilmente individuato questa legge di «vischiosità» («una parola per rima ne porta
con sé un’altra»; «una reminiscenza è seguita da un grappolo di altre»), a proposito dell’intertestualità dantesca nel
Furioso, C. SEGRE, Esperienze ariostesche, Pisa 1966, pp 57 sgg. Ha sviluppato la ricerca, con pari eleganza, C. OSSOLA, Dantismi metrici nel «Furioso», in Ludovico Ariosto: lingua, stile e tradizione cit., pp. 65-94, in particolare pp.
90 sgg.
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«Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto - Corrado Bologna
una rodomontata di quelle a cui s’ispirerà Cervantes (l’asino volante ha anche lui,
come la lancia del canto XLVI, metaforiche penne da uccello):
et alto il leva sì, ch’uno augelletto
che voli in aria, sembra a chi lo vede.
Quel va a cadere alla cima d’un colle,
ch’un miglio oltre la valle il giogo estolle.
(XXIX, 53, 5-8).
E così nel canto XLIII «vola» la barca di Rinaldo sul Po, andando «pel fiume
[...] come per l’aria augello» (52, 8), giacché sembra «aver le penne» (56, 2); e scivola lungo la deriva di dodici ottave (51-63) come un acquatico «falcon ch’al grido del padron risponde» (63, 4).
Ma l’Aria è anche il Cielo, l’Alto. È il paesaggio di sogno del canto XXXIV,
che ci trascina con moto ascensionale del punto di vista in posizione sovrastante,
applicando una tecnica descrittiva di spettacolosa forza visualizzante, per la quale ci si trattiene a fatica, non volendo attualizzare in eccesso, dall’evocare un metodo del montaggio cinematografico. Dopo aver condotto il proprio Testo rasoterra, nel labirinto della foresta, seguendo i sentieri dei cavalli e dei cavalieri,
Ariosto accompagna Astolfo nel volo aereo dell’Ippogrifo, cavallo alato, e descrive dall’alto il suo teatro, visualizzandolo come potrebbe farlo solo una macchina
da presa in movimento elevato (per tutti si potrebbero citare alcuni passaggi di
Effetto notte di François Truffaut o le scene iniziali di Il cielo sopra Berlino di Wim
Wenders, volo d’angelo assai fabuloso). È, del pari, l’attraversamento aereo, cui
consegue un altro infero, ipotizzato da Gradasso in odio a Rinaldo, che mostra
come nel Furioso si viaggi prima di tutto nella mente, nelle menti dei personaggi
che moltiplicano quella del poeta:
Sie certo, se tu andassi ne l’estreme
fosse di Stigie, o fossi in cielo assunto,
ti seguìrò, quando abbi il destrier teco,
ne l’alta luce e giú nel mondo cieco [...]
(XXXI, 96, 5-8)
(splendida citazione, tutt’altro che parodica, del «mondo cieco» di Inferno, XXVII, 25, mediante la quale il memorabile viaggio mistico di Dante viene evocato e
ribaltato nell’ideale, fulmineo percorso dell’Odio di Gradasso, capace di condensarsi in un solo verso, a sua volta di spiccata memorabilità).
E non vorrei trascurare un dettaglio forse di qualche interesse: ad una almeno affine visione superna, fìsica e per traslato metafisica, fa cenno Giulio Camillo
nelle pagine introduttive dell’Idea del theatro (libro intriso del principio d’un valore simbolico dei quattro elementi cosmici), ipotizzando un’uscita dal «bosco»
(che è «il nostro mondo inferiore») ed una salita per un’erta (che «sono i cieli») fino ad un «colle» (che è «il sopraceleste mondo»), e svelando poi l’allegoria nelLetteratura italiana Einaudi
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«Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto - Corrado Bologna
l’accezione esoterica per lui consueta: « [...] a voler bene intender queste cose inferiori, è necessario di ascendere alle superiori, et di alto in giú guardando, di
queste potremo haver più certa cognizione»150.
Al pari della celebre salita aerea di Alessandro Magno in Paradiso su un cestello trascinato da due (o quattro) grifoni (non escluderei che Ariosto conosca ed
imiti qui, come in altri luoghi, e sia pure mediatamente, proprio il Romanzo del
macedone)151, il volo di Astolfo in groppa all’Ippogrifo (che ispirerà a sua volta,
negli anni Venti e Trenta del nostro secolo, alcune fra le più eleganti immagini di
mitologia fantascientifica del ciclo interplanetario di Flash Gordon, dovuto alla
matita di Alex Raymond) permette una visione onirica dalla forte valenza eticovalutativa, alla quale non sarà estraneo anche il ricordo dell’«aiuola che ci fa tanto feroci»152 apparsa a Dante durante il suo viaggio mentale «per tutte quante | le
sette spere» (Paradiso, XXII, 151 e 133-34):
Poi monta il volatore, e in aria s’alza
per giunger di quel monte in su la cima,
che non lontan con la superna balza
dal cerchio de la luna esser si stima.
Tanto è il desir che di veder lo ’ncalza,
ch’al cielo aspira, e la terra non stima.
De l’aria più e più sempre guadagna,
tanto ch’al giogo va de la montagna.
(XXXIV, 48)
E lassú, nel cielo della Luna, nel Paradiso Terrestre, come nei paradisiaci giardini terrestri spira «una dolce aura» che «facea sì l’aria tremolar d’intorno, | che non
potea noiar calor del giorno» (ibid., 50, 5 e 7-8); vi sorge «un palazzo in mezzo alla
pianura, | ch’acceso esser parea di fiamma viva» (ibid., 51, 5-6). Così anche l’Aria e il
Fuoco riattizzano la loro dialettica di archetipi opposti, nella mobilità linguistico-metaforica che è il vero movimento dell’Ariosto. Un movimento utopistico perché antigravitazionale, in contrasto dialettico con il moto della Fortuna e del Destino: lo “rappresenta” il volo di Astolfo, così come l’altro “è”, in figura, nel giro inarrestabile della ruota che, se ti slancia verso l’alto, alla fine sempre ti ripiomba giú, verso la terra.
150 G. CAMILLO, L’idea del theatro, Venezia 1550, pp. 11-12 (ed ora cfr. l’edizione a cura di L. Bolzoni, Palermo
1990, pp. 54-55).
151
Cfr. C. SEGRE, Fuori del mondo cit., pp 103 sgg. Segnalo di passaggio, ripromettendomi di tornare più articolatamente in altra sede sul manoscritto (che pubblicherò) e sul problema, che un puntuale nesso fra la cultura cavalleresca
ferrarese ed il poema in ottave su Alessandro Magno conservato nella Biblioteca Nazionale «Vittorio Emanuele II» di
Roma (ms. S. Martino ai Monti, 10) fu suggerito da G. A. CAPY, The Medieval Alexander, a cura di D. J. A. Ross, Cambridge 19652, p. 272: «If there was ever a poem whose spirit was that of Boiardo and Ariosto it is this work».
152
Cfr. (anche per l’ispirazione senechiana del tema in Dante) A. TRAINA, «L’aiuola che ci fa tanto feroci». Per la
storia di un «topos», in AA. VV., Forma futuri. Studi in onore del cardinale Michele Pellegrino, Torino 1975, pp. 232-50.
Letteratura italiana Einaudi
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«Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto - Corrado Bologna
2.3.
Il poema del movimento: dello spazio in movimento.
L’Orlando Innamorato intendeva narrare «tutte le cose sotto della luna» che «son
sottopost[e] a voglia di Fortuna», in primo luogo la guerra, «instabile, voltante e
roïnosa, | e più fallace che alcuna altra cosa»153. L’Orlando Furioso, anche in questo ironica ed autoironica «giunta» all’Innamorato, ripensa la tradizione cavalleresca fondendola con quella dei viaggi iperurani, lunari e celesti, Luciano in primo
luogo154, ed estende la narrazione a ciò che si conserva e si svolge «nel cerchio de
la luna». Il sintagma è ripreso a XXXIV, 67, 3, ove si spiega che «la medicina che
può saggio | rendere Orlando, là dentro si serra» (ibid., 5 -6); diviene il «regno de
la luna» all’ottava 70 («luna» conserva esattamente l’area semantica in 67, 7 e 68,
4, mentre a 73, 7 in rima e a 74, 4 echeggia «Fortuna», con la sua «ruota» a 74, 2).
Riemerge infine, costituendo una forte liaison lessicale, semantica e diegetica fra
canto e canto, all’inizio del XXXV, in una straordinaria coppia di ottave in cui
Ariosto stesso si maschera per leggero autosarcasmo da secondo Orlando folle
per amore: riuscendo così, insieme, ad accennare al racconto del recupero del
senno d’Orlando e a sorridere sulla tradizione lirica petrarchistica. Tant’è vero
che riprende, di fatto negandone la semantica, la serie di rimanti (altrove anche
più ampia) viso : paradiso di lentiniana, dantesca e petrarchesca ascendenza155, già
più volte impiegata e comunque emersa nella scena della follia di Orlando
(XXIII, 128, 1 e 5), alternandola con l’equivocatio su poggi, rimante petrarchesco.
Quindi sorride anche su se stesso, sulle proprie Rime petrarchistiche, riconducendo il senno (divenuto «ingegno»!) dal «cerchio de la luna» alla più terrestre,
carnale cartografia del corpo dell’amata:
Chi salirà per me, madonna, in cielo
a riportarne il mio perduto ingegno?
che, poi ch’uscì da’ bei vostri occhi il telo
che ’l cor mi fisse, ognior perdendo vegno.
Né di tanta iattura mi querelo,
pur che non cresca, ma stia a questo segno:
ch’io dubito, se più si va sciemando,
di venir tal, qual ho descritto Orlando.
Per rïaver l’ingegno mio m’è aviso
153
M. M. BOIARDO, Orlando Innamorato cit., I, XV1, 1, VV. 1, 3 e 7-8.
154 Cfr. C. SEGRE, Fuori del mondo cit., pp. 11-66 (con bibliografia); per Luciano in Ariosto in particolare pp. 103 e 107.
155 Cfr. R. ANTONELLI, Metrica e testo, in «Metrica», IV (1986), pp. 37-66, specialmente le pp. 65-66: «serie rimiche, tradizioni rimiche complessive e particolari [...] sono in realtà la dimostrazione non solo del peso della tradizione e della storia, ma anche una delle caratterizzazioni massime dello specifico del linguaggio poetico: il rapporto
del tutto arbitrario e soggettivo che stabilisce le relazioni fra i rimanti diviene nel tempo rapporto storicamente necessario a connotare una condizione e un impegno».
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«Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto - Corrado Bologna
che non bisogna che per l’aria io poggi
nel cerchio de la luna o in paradiso:
che ’l mio non credo che tanto alto alloggi.
Ne’ bei vostri occhi e nel sereno viso,
nel sen d’avorio e alabastrini poggi
se ne va errando; et io con queste labbia
lo corrò, se vi par ch’io lo rïabbia.
(XXXV, 1 e 2)
L’identificazione di Ariosto con Orlando, per giocosa e autoironica che sia,
era già stata anticipata al canto XXX, nell’ottava 1 e poi nella 4 («Non men son
fuor di me, che fosse Orlando; | e non son men di lui di scusa degno […]»: vv. 12); e nella 3, intermedia:
Ben spero, donne, in vostra cortesia
aver da voi perdon, poi ch’io vel chieggio.
Voi scusarete, che per frenesia,
vinto da l’aspra passïon, vaneggio.
Date la colpa alla nimica mia.
(XXX, 3, 1-5).
In quel caso l’altissimo rilievo che essa assume è sottolineato dal fatto che costituisce la chiave per realizzare – attraverso l’accostamento in rima di cortesia e
frenesia, ed un gioco ironico su lemmi di stampo petrarchesco («nimica mia») – la
«ripresa tematica» del livello diegetico-pazzia d’Orlando.
La pazzia è strettamente legata, in tutto questo libro che è fatto di movimento, alla scrittura, al suo essere salto, equivoco, ambiguità, digressione, scarto dalla
norma e dalla strada. Orlando impazzisce perché legge i messaggi di reciprocità
d’amore scambiati da Angelica e Medoro; li legge in arabo, la lingua dell’Altro
(XXIII, 110, 1-2). Così va cercando col pensiero lontano dalla retta via (ibid., 103,
5 sgg.), e quindi va procacciandosi «ne la speranza il mal contento» (ibid., 104, 78); erra «pel bosco […] tutta la notte» (ibid., 129, 1), e quando vede «l’ingiuria
sua scritta nel monte» (ibid., 129, 5) fa «a volo alzar» le schegge dei sassi e della
scrittura (ibid., 130, 1-2). Ed è ancora Ariosto, un Orlando sdoppiato, che rovesciando l’antica formula negativa del clericus Thomas a proposito dell’Amore,
tanto fortunata fino a Dante e Petrarca («esprové ne l’ai»)156, dichiara: «Credete a
chi n’ha fatto esperimento, | che questo è ’l duol che tutti gli altri passa» (ibid.,
112, 3-4). Impazzito, Orlando «esce» fuori di sé. Il verbo è iterato più volte, giacché nella follia i sentieri spesso si biforcano (ibid., I; 113, 2, 6 e 8). Poi «ritorna in
sé alquanto» (ibid., 114, 1); infine «va» (ibid., 115, 5), seguendo nuovi tracciati.
156 È il v. 147 del frammento Torino 1 del Roman de Tristan di Thomas, ed. Wind cit., p. 75. Cfr. A. RONCAGLIA,
Il trovatore Bernart de Ventadorn. Materiali e appunti per il Corso di Filologia romanza […]. Anno accademico 1984-85,
Roma 1985, pp. 50 sgg.
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«Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto - Corrado Bologna
Con identico moto spiraliforme Bradamante si arrotola su se stessa, perdendosi
(«[…] né seppe mai trovar la strada. | Or per valle or per monte s’avvolgea […]»:
XXII, 98, 2-3). Così farà, secoli più tardi, Odradek, l’ultimo avatar occidentale
del trickster, l’uomo-trottola-gomitolo sognato da Franz Kafka.
La pazzia è un movimento a zig-zag («Di qua, di là, di su, di giú discorre»:
XXIV, 14, 1). È un’uscita dal sentiero («prima che pigli il conte altri sentieri
[…]»: XXIII, 99, 5). È, una digressione, appunto, una divaricazione del cammino157. La pazzia moltiplicata nel numero dei percorsi genera il labirinto dalle infinite digressioni. Impazzendo, Orlando non fa che replicare il gesto fondativo del
libro: cioè proprio la digressione, il cambiamento di strada. Ariosto ribadisce così
la propria identificazione con Orlando, cavaliere dalla rotta impazzita, ogni volta
che parla del cammino di lui, o del proprio: «Bisogna, prima ch’io vi narri il caso,
| ch’un poco dal sentier dritto mi torca» (VIII, 51, 1-2). E subito dopo, al verso 8,
introduce Proteo nella storia. Poco prima, ottava 50, 1, a proposito di Angelica,
ha detto, allitterando con un verso scandito quasi dall’ambio equino: «Tutte le
vie, tutti li modi tenta». E Testo-Cavallo, guidato dal Cavaliere-Ariosto, imbocca
sentieri sempre diversi, e di quando in quando «si torce» da quello «dritto» – come dalla «dritta via» l’archetipico pellegrino, in altra selva dai molti sentieri – per
inseguire venture e casi nuovi. Questo alternarsi di «senno» e «follia», di «dritto
sentiero» e di «sentiero torto» è il ritmo del Furioso, poema scritto (e da leggersi)
secondo il «passo del Cavallo» (tema tanto caro, anche sul piano teorico, a Šklovskij e al formalismo sovietico).
La narrazione degli innumerevoli «casi» richiede il movimento zigzagante
della digressione, che è il movimento di Proteo, il solo in grado d’afferrare la «materia prima» e incatenarla alla lingua, come Angelica allo scoglio: «Nascono casi,
e non saprei dir quanti» (XIII, 39, 1). Volendo seguirli (inseguirli) tutti Ariosto/Orlando impazzisce. Cioè, alla lettera, etimologicamente, de-lira, esce dal
“solco”, dalla strada, fa digressioni per scegliere (e così “uscire”, a sua volta, dalla pazzia):
Pazzia sarà, se le pazzie d’Orlando
prometto raccontarvi ad una ad una;
che tante e tante fur, ch’io non so quando
157 L’allusione è, chiaramente, a J. L. BORGES, Il giardino dei sentieri che si biforcano (1941), testo riproposto nel
1944 quale prima parte di Ficciones (trad. it. Finzioni. La biblioteca di Babele, Torino 1955; alle pp. 79-91, il racconto
dallo stesso titolo, senza dubbio ispirato dal Furioso). A Borges, e nel contempo all’Ariosto ed al gioco dei tarocchi,
pensò I. CALVINO, Il castello dei giardini incrociati, Torino 1973 (cfr. la Nota, pp. 123-28, in particolare 125): esso
«vuol essere una specie di macchina per moltiplicare le narrazioni partendo da elementi figurali dai molti significati
possibili come un mazzo di tarocchi» (1D., Lezioni americane cit., p. 117). Non è senza interesse che anche il Boiardo
avesse composto, sia pur come mero gioco poetico d’intrattenimento sociale, dei capitoli intitolati Tarocchi: se ne veda ora l’edizione a cura di S. Foà, Roma 1993 (con Introduzione, pp. 7-25).
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«Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto - Corrado Bologna
finir: ma ve n’andrò scegliendo alcuna
solenne et atta da narrar cantando,
e ch’all’istoria mi parrà opportuna.
(XXIX, 50, 1-6).
Volere/dovere scegliere impone il moto ondulatorio dell’«entrare»/«uscire»
dalla «pazzia» alla ragionevole argomentazione, dalla foresta alla radura ove l’orizzonte è chiaro e torna univoco, lasciando intravedere la «fine» (il fine) del Libro. Come Ariosto, come Orlando, come Angelica, come Ruggiero e gli altri protagonisti, anche noi Lettori ci perdiamo spesso, non ritroviamo il sentiero giusto.
Sempre, comunque, il nostro camminare nel Testo è quête di un punto di partenza,
di una direzione e possibilmente d’un punto di arrivo. La perdita del senso d’orientamento nell’intreccio dei Testi-cavalli e dei Cammini-trame coincide con lo
smarrimento che è perdita del sentiero, della «dritta via», per noi come per l’Autore e per i personaggi, tanto che le ramificazioni dei sentieri e quelle degli alberi
coincidono, e nel delirio la Selva è il Labirinto dei sentieri interrotti. «Ruggier riman confuso e in pensier grande, | e non sa ritrovar capo né via» (XXXV, 64, 1-2).
Zerbino segue «invan di Bradamante i passi, | perché trovò il sentier che si torcea |
in molti rami ch’ivano alti e bassi» (XXIII, 43, 2-4); il Labirinto è per lui, come
sarà per Borges, la forma imaginale della Perplessità. E lui resta immobile, perplesso, incastrato (anche sintatticamente) tra il «forse che sì» e il «forse che no»,
proprio come se si trovasse di colpo proiettato dalla Selva al Labirinto inscritto sul
soffitto a cassettoni di una sala del Palazzo Ducale di Mantova: «tra il sì Zerbino e
il no resta confuso» (XXIV, 34, 2). Solo la Fortuna – che decide del destino terrestre, come la Luna su cui volano il senno e le cose perdute in Terra – può aiutare a
ritrovarsi, a riprendere il movimento rettilineo: «Fortuna mi tirò fuor del camino |
in mezzo un bosco d’intricati rami» (XXV, 60, 1-2). «Fin dall’inizio il Furioso si annuncia come il poema del movimento, o meglio, annuncia il particolare tipo di movimento che lo percorrerà da cima a fondo, movimento a linee spezzate, a zig zag.
Potremmo tracciare il disegno generale del poema seguendo il continuo intersecarsi e divergere di queste linee su una mappa d’Europa e d’Africa, ma già basterebbe a definirlo il primo canto [...] , una sarabanda tutta smarrimenti, fortuiti incontri, disguidi, cambiamenti di programma. È con questo zig zag tracciato dai cavalli al galoppo e dalle intermittenze del cuore umano che veniamo introdotti nello spirito del poema. [...] . Il procedere svarato non è solo degli inseguitori d’Angelica ma pure d’Ariosto: il movimento “errante” della poesia d’Ariosto»158.
La quête di percorsi sempre nuovi e sempre digredienti spinge l’Ariosto (come hanno intuito Sanguineti e Ronconi, mettendo in scena il Furioso come siste158
ID., La struttura dell’«Orlando» cit., pp. 81-82.
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«Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto - Corrado Bologna
ma complesso di eventi teatrali in movimento, di «assoluta contemporaneità e simultaneità reciproca») a «tradurre in simultaneità di tempo quel suo romper le fila e riprenderle», portando in primo piano sul palcoscenico della narrazione, e ponendolo in assoluta evidenza, «l’artificio tecnico su cui il poema è costruito», e
che il lettore è invitato a cogliere ed apprendere immediatamente, recuperando di
continuo i piani multipli della storia159.
L’andirivieni della fabula corrispondente sul piano del contenuto a quello del
lascia-e-prendi, tecnica della progressione per fratture e “suture” diegetiche160, è il
movimento labirintico di Ariosto/Orlando, e con lui degli altri cavalieri (movimento del ragno che tesse la tela, di Dedalo che iinitando l’animale mitico edìficò
il Labirinto, di Petrarca «buon testor de gli amorosi detti»)161:
Ma perché varie fila a varie tele
uopo mi son, che tutte ordire intendo,
lascio Rinaldo e l’agitata prua,
e torno a dir di Bradamante sua;
(II, 30, 5-8);
Di molte fila esser bisogno parme
a condur la gran tela ch’io lavoro;
(XIII, 81, 1-2).
Non solo Orlando, ma ogni cavaliere, «avvolgendosi su di sé come in un gomitolo, ripercorre il tracciato del proprio inseguimento, ma, ad un certo punto,
gli si erge di fronte il muro del castello, ostacolo invalicabile ed impedimento alla
prosecuzione della ricerca»162. Il Castello è un Labirinto. E così come avviene in
un celebre film di Luis Buñuel, L’angelo sterminatore, una volta entrati non si esce
più, nonostante nulla di reale paralizzi il movimento e precluda la fuga: «ciascuno
vi rimane murato dal proprio desiderio insoddisfatto, incapace di desistere dal-
159 Cfr. Orlando Furioso di Ludovico Ariosto cit., p. 17 (la prima frase è in un intervento di Ronconi; la seconda in
uno di Sanguineti).
160 Su questo punto di grande rilievo cfr. almeno: L. BLASUCCI, Osservazioni sulla struttura metrica del «Furioso»
(1962), in ID., Studi su Dante e Ariosto, Milano-Napoli 1969, pp. 73-112 (in particolare pp. 99 sgg.); G. BRONZINI,
Tradizioni di stile aedico dai cantari al «Furioso», Firenze 1966; A. M. CIRESE, Note per una nuova indagine sugli
strambotti delle origini romanze, della società quattro-cinquecentesca e della tradizione orale moderna, in «Giornale storico della letteratura italiana», CXLIV (1967), pp. 1-54 e 491-564, in particolare pp. 540 sgg.; A. LIMENTANI,
L’«Entrée d’Espagne» e i Signori d’Italia cit., cap. V. La lingua e il metro, pp. 203-89; R. ALHAIQUE PETTINELLI,
L’immaginario cavalleresco cit., pp. 77-151; M. C. CABANI, Le forme del cantare epico-cavalleresco cit., pp. 157-217
(La regia della narrazione); ID., Costanti ariostesche. Tecniche di ripresa e memoria interna nell’«Orlando Furioso», Pisa 1990, cap. 1. La tecnica della ripresa nell’ottava ariostesca, pp. 9-60, cap. 11. Le riprese interstrofiche, pp. 61-114,
cap. in. Riprese a distanza e “memoria interna”, pp. 115-259. Per i precedenti boiardeschi e canterini: M. PRALORAN
e M. TIZI, Narrare in ottave. Metrica e stile dell’«Innamorato», Pisa 1988, specie M. PRALORAN, Per una fenomenologia delle strutture formali dell’«Innamorato» ibid., pp. 121-211.
161 Sul tema cfr. G. GORNI, La metafora di testo, in «Strumenti critici», XIII (1979), 38, pp. 18-32, e C. SEGRE,
Avviamento all’analisi del testo letterario, Torino 1985, pp. 28 sgg.
162
G. BARLUSCONI, L’«Orlando furioso» poema dello spazio cit., p. 62 (da qui anche la frase virgolettata che
segue).
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«Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto - Corrado Bologna
l’inseguimento, in una tragica tensione. E movimento della vita appare così cristallizzato, ridotto a semplice meccanismo ossessivo». Ma in realtà non c’è mai
tragedia nel Furioso, e si armonizzano anche le paralisi, le perdite, le morti, come
quella di Isabella. Ciò che avviene è una dilazione del desiderio, che, sul piano
onirico, fa pendant a quella che, sul piano espressivo, si può definire poetica della
preterizione e della digressione.
Questa poetica si fonda sul «segreto di ritmo, una cattura del tempo che possiamo riconoscere dalle origini: nell’epica per effetto della metrica del verso, nella
narrazione in prosa per gli effetti che tengono vivo il desiderio d’ascoltare il seguito»163. E mi pare di straordinario rilievo che proprio la stessa metafora ariostesca,
per cui il Testo è associato ad un cavallo in movimento, ed il ritmo narrativo è il vario passo dell’animale, fosse già stata esibita in forma di racconto, ancor più esplicitamente, dallo scrittore che rappresenta il modello prosastico di Ariosto, ossia il
Boccaccio del Decameron: in quella geniale novella (VI, 1) sulla quale il più acuto
interprete artiste del Furioso, fra i moderni, Italo Calvino, ha fermato l’attenzione:
«Madonna Oretta, quando voi vogliate, io vi porterò, gran parte della via che a andare
abbiamo, a cavallo con una delle belle novelle del mondo». […] Di che […] madonna
Oretta, udendolo, […] piú sofferir non poté […], [e] piacevolmente disse: «Messer,
questo vostro cavallo ha troppo duro trotto, per che io vi priego che vi piaccia di pormi
a piè»164.
«La novella – commenta Calvino – è un cavallo: un mezzo di trasporto, con
una sua andatura, trotto o galoppo, secondo il percorso che deve compiere, ma la
velocità di cui si parla è una velocità mentale. […] Il cavallo come emblema della
velocità anche mentale marca tutta la storia della letteratura, preannunciando tutta la problematica propria del nostro orizzonte tecnologico»165. E a questa metafora, sorridente e irridente (Guglielmo IX, primo poeta volgare, già dichiarava
di aver composto una lirica «en durmen sus un chivau»166, dormendo mentre il
cavallo camminava da solo: e lo dichiarava nella medesima poesia così composta!), si lega con misteriosa tenacia la capacità di certi scrittori geometrici e sognanti d’«inseguire il fulmineo percorso dei circuiti mentali che catturano e collegano punti lontani dello spazio e del tempo»167.
A dominare il tempo mira anche la digressione: «è una strategia per rinviare la
conclusione, una moltiplicazione del tempo all’interno dell’opera, una fuga perpe-
163
I. CALVINO, Lezioni americane cit., p. 39.
G. BOCCACCIO, Decameron, a cura di V. Branca, Torino 1980, pp. 718-19.
165 I. CALVINO, Lezioni americane cit., p. 40.
166
Cfr. GUGLIELMO IX D’AQUITANIA, Poesie, edizione critica a cura di N. Pasero, Modena 1973, p. 92.
167 I. CALVINO, Lezioni americane cit., p. 47.
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«Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto - Corrado Bologna
tua; fuga da che cosa? Dalla morte, certamente […]»168. E d’altra parte, è proprio
Ariosto a sottolineare il valore della tecnica digressiva, in qualche misura autorizzandola come prassi ironica e autoironica di relazione con il Testo, nel momento in
cui fa brevi riassunti della trama, e piú ancora allorché approva l’anodina eliminazione, ad opera del lettore, di una parte del testo, cioè di un percorso “marginale”,
che ha voluto a forza inserire la fonte per antonomasia, il «Turpino» spesso citato
(cfr. per esempio XXIV, 44,7-8: «Non si legge in Turpin che n’avvenisse; | ma vidi
già un autor che più ne scrisse»; e ibid., 45, I: «Scrive l’autore […]»; «Turpino»,
che altrove – cfr. XXXIII, 85, 4-5, confrontato con il contenuto dell’ottava 84 – risulta identificabile con il Mambriano). Un esempio soltanto: «Lasciate questo canto, che senza esso | può star l’istoria, e non sarà men chiara. | Mettendolo Turpino,
anch’io l’ho messo, | non per malivolenzia né per gara. […] Passi, chi vuol, tre carte o quattro, senza | leggerne verso, e chi pur legger vuole, | gli dia quella medesima credenza | che si suol dare a finzïoni e a fole» (XXVIII, 2, I-4 e 3, I-4).
Il Furioso è una cavalcata infinita, un’equitatio che non ha limiti. Come Rinaldo, anch’esso «cavalca e quando annotta e quando aggiorna, | alla fresca alba e all’ardente ora estiva, | e fa al lume del sole e de la luna | dugento volte questa via,
non ch’una» (XXVII, 12, 5-8).
Ma se il testo è un cavallo che corre, sempre spezzando il proprio cammino e tornando indietro e cercando altrove la propria meta, nel Furioso è detto con chiarezza
che la stessa. pazzia è la «selva», la Foresta misteriosa in cui fl Testo-cavallo s’inoltra:
E quale è di pazzia segno più espresso
che, per altri voler, perder se stesso?
Varii gli effetti son, ma la pazzia
è tutt’una però, che li fa uscire.
Gli è come una gran selva, ove la via
conviene a forza, a chi vi va, fallire:
chi su, chi giú, chi qua, chi là travia.
(XXIV, 1, 7-8 e 2, 1-5).
Orlando impazzisce «così come» esce di strada, perdendo la rotta nel labirinto boscoso della sua quête:
Il suo camin (di lei chiedendo spesso)
or per li campi or per le selve tenne:
e sì come era uscito di se stesso,
uscì di strada; […]
(XII, 86, 1-4).
Ciò conferma che, al pari degli altri personaggi che corrono, si muovono, si
cercano, aprono, chiudono, intrecciano sentieri e cammini, Orlando è la propria
168
Ibid., p. 46.
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«Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto - Corrado Bologna
strada follemente digressiva169 consiste nel movimento introdotto nel Libro dal
suo nome e dalla sua figura. Ed è, non sfugga, il movimento ondoso dell’Oceano.
Ma soprattutto è quello a zig-zag che sulla Scacchiera compie il Cavallo. Direi che
è il passo dell’ironia, della presa di distanza, del sogno.
La struttura erratica, priva di sviluppo longitudinale, policentrica, polifonica
e multispaziale del Furioso, con vicende che attraverso l’entrelacement «si diramano in ogni direzione e s’intersecano e biforcano di continuo»170, è un corrispettivo strutturale-funzionale del modello genetico, che è quello illustrato qui nella sezione 1. L’autore l’ha generata per «giunte» successive, per dilatazioni dall’interno, a scatole cinesi, con proliferazione di episodi l’uno dall’altro, creando «nuove
simmetrie e nuovi contrasti», dunque progressivamente e ininterrottamente armonizzando.
Se il Furioso è il romanzo-poema non del Luogo (la corte), né del Non-luogo
utopico (la corte ideale), bensì del Movimento-fuori-del-Luogo, nello Spazio puro,
il suo ritmo non sarà quello della logica (e quindi della sintassi) fondata sulla subordinazione, della progressione rettilinea e dell’avanzamento cronologico lineare.
Al contrario, la sua lingua si adatta, cedevole e sensibilissima, al «movimento di
“aggiramento avvolgente” dei nuclei semantici del poema, che trasferisce a livello
di organizzazione fantastica della materia l’accostamento percettivo della realtà,
nel quale la successione delle manifestazioni accentua la presenza degli oggetti, che
si mostrano in tutte le loro facce. […] Ecco perché si è parlato dei punti focali del
poema come di “vortici di energia”, da cui i movimenti aggiranti delle vicende si irradiano per richiudersi su di essi in spirali dalle volute concentriche»171.
Non conta se il moto sia a zig-zag o a spirale: comunque si tratta di uno scarto che con Benjamin potremmo ancora una volta definire salto. Ed è nel salto che
il testo urge al risveglio, attraverso l’immagine dialettica di se stesso come proie169 Mi paiono interessanti, a questo proposito, le ricerche condotte, su un piano storico-letterario diversissimo e
certo incommensurabile con quello ariostesco, da E. Manzotti intorno alla «digressione» come «insensibile declinare
tematico in direzioni nuove, […] declinare che si fa pervasivo soprattutto al livello, narrativamente microscopico, del
paragrafo e del periodo», e che si trasforma in un «fondamentale strumento euristico, […] veicolo insostituibile di
progressione e scandaglio nella molteplicità dei significanti e dei significati» nella costruzione del romanzo di Gadda
(E. MANZOTTI, Introduzione alla sua edizione critica commentata di C. E. GADDA, La cognizione del dolore, Torino
1987, pp. VII-LI, alle pp. XXVII-XXVIII). Mediante quella che Gadda medesimo definiva «consecuzione ciclica», o
se si vuol dire altrimenti «elicoidale» (non troppo dissimile dalla ripresa a distanza che illustrerò fra poco per l’Ariosto, anche per l’insistenza mnemonico-evocativa su elementi fonico-simbolici) il Romanzo si impianta su strutture sintattiche e semantiche che «vengono […] a costituire un omologo formale della con-fusione degli spazi» nella descrizione anche minuziosa (ibid., pp. XXX-XXXI).
170 ID., La struttura dell’«Orlando» cit., pp. 78-79. Cfr. G. BARLUSCONI, L’ «Orlando furioso» poema dello spazio
cit., pp. 46 sgg., e per l’entrelacement D. DELCORNO BRANCA, L’Orlando Furioso e il romanzo cavalleresco medievale cit., pp. 15-56.
171 G. BARLUSCONI, L’«Orlando furioso» poema dello spazio cit., p. 101.
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«Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto - Corrado Bologna
zione “al futuro” del proprio sogno. Ma è proprio Ariosto, allo snodo di una fra
le più ardue e divaricanti digressioni, ad usare in senso figurato il sostantivo (in rima inclusiva doppia – poiché al v. 6 fa eco assalto – con alto), nel momento in cui
propone implicitamente la propria identificazione con Astolfo (di fatto a parlare
è il Testo, salito appunto “in alto” con Ariosto/Astolfo):
Resti con lo scrittor de l’evangelo
Astolfo ormai, ch’io voglio far un salto,
quanto sia in terra a venir fin dal cielo;
ch’io non posso più star su l’ali in alto.
(XXXV, 31, 1-4).
Si tratta di un distanziamento del testo da se stesso grazie al quale esso si autorappresenta, costituendo una serie multipla di punti di vista e di narrazione. Ad
essi la lingua aderisce con esattezza mirabile, risuonando per evocare, per alludere, per ri-chiamare i suoi personaggi ad azioni che iterano altre azioni già da sempre avvenute.
Dico “richiamare” anche in senso letterale, perché, come cercherò di mostrare, la lingua del Furioso suona, musicalmente, a ondate successive, quasi sviluppasse armonie e “temi” orchestrati per sinuoso andirivieni, alla maniera in cui sono strutturate certe opere liriche moderne (. penso a Wagner, ma anche a Puccini,
e in parte a Verdi), nelle quali l’orchestra spesso, all’uscita dal fondale di un determinato personaggio, “richiama” la “sua” aria: quella, cioè, che lo connota perché è il suo “pezzo forte”, la sua aria-base, o perché è risuonata alla sua prima apparizione in scena, e ad ogni nuova emersione timbrico-tematica rievoca dunque
proprio quella comparsa archetipica, sempre riplasmando, con esattezza, rapidità,
molteplicità di punti di vista, l’“ora” sul “prima”, il “qui” sull’“altrove”.
In questo senso ripeto che il Furioso è un libro strutturato e narrato come un
sogno. Come un sogno si struttura mediante tempi (diegetici ed extradiegetici)172
accavallati, inclusi l’uno nell’altro, anche contraddittori, giacché il suo tempo è un
non-tempo, risultante dalla fusione di realtà-mito-utopia; e mediante piani spaziali incentrati su perni multipli, organizzati dalla pluralità prospettica. Come un sogno il Furioso si dipana, si allarga, tendendo all’infinito, con velocità vicina alla simultaneità173, connettendo spazi, tempi, rapporti, personaggi, racconti incongrui,
172 Sul rapporto fra i due livelli sono fondamentali: H. WEINRICH, Tempus. Besprochene und erzählte Welt, 1964
(trad. it. Tempus. Le funzioni dei tempi nei testi, Bologna 1978); P. RlCŒUR, Temps et récit, 3 voll., 1983-85 (trad. it.
Tempo e racconto, 3 voll., Milano 1986-88).
173
La simultaneità percettiva-descrittiva annulla lo sviluppo diacronico, come appunto nel sogno, e sostituisce i
rapporti gerarchici, sintagmatici, con rapporti paradigmatici, di affinità per somiglianza-contiguità: cfr. S. FREUD,
Die Traumdeutung, 1900 (trad. it. L’interpretazione dei sogni, in ID., Opere, III, Torino 19672, pp. 286 sgg.). E la simultaneità situazionale è parte costitutiva dell’universo ariostesco molteplice, in espansione. Si veda, anche in rapporto a quanto s’è detto nella nota 50, I. CALVINO, Lezioni americane cit., p. 105: «Nei testi brevi come in ogni episodio
dei romanzi di Gadda, ogni minimo oggetto è visto come il centro d’una rete di relazioni che lo scrittore non sa trattenersi dal seguire, moltiplicando i dettagli in modo che le sue descrizioni e divagazioni diventino infinite. Da qualsia-
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sulla base di assonanze e consonanze, di affinità armoniche, di giochi anagrammatici, di implicazioni foniche transustanziate in collegamenti semantici nella
scelta delle rime (specie di quelle tecniche, impiegate con razionale e sofisticata
strategia) e dei rimanti.
Come un sogno, il Furioso distanzia se stesso dal reale per affondare nella memoria. Il digredire, il divagare, mirano a «distanziare nello spazio il “luogo della
memoria”, per poterlo ritrovare sempre nuovo e sempre diverso ad ogni “ripresa”. Lo spazio dell’Ariosto, in questo senso, è veramente una memoria che si è calata nelle cose, che si è connaturata con i luoghi, facendosi dimensione percorribile»174. E come un sogno, traduce anzitutto in immagini, grafico-fonetiche e poi
iconiche, le “idee” e i “personaggi”.
Se il Theatro camilliano è la Mente dell’Uomo che, deificato grazie ad un iter
iniziatico, pensa l’Universo nelle sue Idee radicali e nelle loro infinite possibili relazioni, e lo domina e lo trasforma trasformando al contempo se stesso, il Furioso,
scaturito entro la medesima sensibilità intrisa di neoplatonismo e d’ermetismo, e
insomma di cultura “spirituale”, è il grande «theatro» ariostesco, ove, visualizzando il linguaggio nella forma del labirinto testuale e verbalizzando la stessa iconicità del significato (la vita, come questo poema, è un labirinto da attraversare sognando, per trasformarlo), la Memoria dell’Autore impara a “giocare” tutte le possibili opportunità di mutazione e di connessione delle “storie”, domandole e guidandole come altrettanti cavalli. O come figure di un ideale teatro dei pupi, che
un burattinaio elegante e sagace sa far muovere, combattere, incontrarsi e scontrarsi, senza che mai i fili, pur intrecciandosi, s’aggroviglino inconsultamente. O
come altrettanti pezzi degli scacchi, che impongono ferree regole di gioco, ma richiedono insieme fantasia e coraggio, capacità d’inventare e di rischiare, senso
della strategia e dell’avventura, memoria sterminata e rapidissimo oblio che permetta di selezionare e conservare solo i dati e le mosse essenziali allo sviluppo dell’intreccio-gioco. Al pari di ciò che avviene nella ricostruzione della traditio culturale, anche nella lettura (e quindi, a monte, nella scrittura) di un libro quale il Furioso, che è anche un vivente Archivio, un théatron ove si interpreta linguisticamente la tradizione letteraria italiana, «occorre saper dimenticare molte cose, se si
vuole custodire ciò che è essenziale»175.
Il funzionamento linguistico-diegetico profondo del Furioso – al di sotto delsi punto di partenza il discorso s’allarga a comprendere orizzonti sempre più vasti, e se potesse continuare a svilupparsi in ogni direzione arriverebbe ad abbracciare l’intero universo».
174 G. BARLUSCONI, L’«Orlando furioso» come poema dello spazio cit., p. 102.
175 Un’importante apertura di questo fronte originale di ricerca ha permesso per ora di riconoscere la presenza di
letture erasmiane nella filigrana del Furioso: G. FRAGNITO, Intorno alla “religione” dell’Ariosto: i dubbi del Bembo e le credenze ereticali del fratello Galasso, in «Lettere italiane», XLIV (1992), pp. 208-39.
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la nazionalizzazione garantita dall’emergenza dell’Autore-Testo che, di tanto in
tanto, “rientra in sé” dal proprio delirio (ma è proprio allora che, di fatto, “esce”
dal Testo-sentiero, abbandonando un testo-cavallo) – è dunque quello del movimento e dell’intreccio mnemonico-armonico-onirico: della memoria attivata
dal/nel ritmo, su pure basi associativo-musicali. Così funzionano i “teatri della
memoria” del primo Cinquecento, destinati a render fruibile in termini di eloquenza il sapere universale, le radici profonde delle Idee sottostanti al reale e all’irreale. Così funziona il Theatro della Sapientia di Giulio Camillo.
L’orditura del discorso mediante «varie fila e varie tele» si traduce allora nell’orditura dell’armonia, di quella «perpetua catarsi armonica»176, o, se si allegorizza, di
quell’Armonia in cui Benedetto Croce intuì l’occulto, profondo centro del Furioso:
ed anche la metafora del testo assume, così, l’immagine della performance musicale,
anch’esso interrotto, franto, digressivo, autogenerantesi per affinità mnemonica:
Signor, far mi convien come fa il buono
sonator sopra il suo instrumento arguto,
che spesso muta corda, e varia suono,
ricercando ora il grave, ora l’acuto.
Mentre a dir di Rinaldo attento sono,
d’Angelica gentil m’è sovenuto,
di che lasciai ch’era da lui fuggita,
e ch’avea riscontrato uno eremita.
[...] prima che le corde rallentate
al canto disugual rendano il suono,
fia meglio differirlo a un’altra volta,
acciò men sia noioso a chi l’ascolta.
(VIII, 29);
(XXIX, 74, 5-8).
2.4. «Microscopia» e «macroscopia».
Prima di procedere all’analisi dettagliata di questa “memoria musicale”, ci si soffermerà su un problema metodologico. Prendiamo alla lettera la frase di Hugo
Schuchhardt che Ernst Robert Curtius pone fra le epigrafi del suo capolavoro critico, e che riecheggia con esattezza anche in una pagina di Leo Spitzer: «La combinazione paritetica del microscopico e del macroscopico rappresenta l’ideale
della ricerca scientifica»177.
Nel caso d’un libro quale il Furioso, che è fra i più complessi e cospicui (e non
176 E. R. CURTIUS, Europäische Literatur und lateinisches Mittelalter, 1948 (trad. it. Letteratura europea e Medio
Evo latino, a cura di R. Antonelli, Firenze 1992, p. 439).
177 Cfr. E. R. CURTIUS, Europäische Literatur cit., trad. it. p. 6; e si veda L. SPITZER, Critica stilistica e semantica
storica, a cura di A. Schiaffini, Bari 1965, pp. 149-50: «soltanto la combinazione e la dosatura corretta dei due metodi
[scil. “microscopico” e “ macroscopico”] può portare a cogliere pienamente lo sforzo creatore [. . .]».
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solo sul piano quantitativo) della nostra letteratura, e la cui storia rielaborativa
(sulla quale ci si è intenzionalmente soffermati a lungo) è tanto ampia e sofferta,
qualsiasi analisi adeguata della struttura testuale che intenda affrontare i nodi linguistici tra “forma dell’espressione” e “forma del contenuto” richiederebbe preventivamente congrua strumentazione tecnica, fatta di limpidi ed esaustivi apparati “macroscopici” e di molteplici sondaggi settoriali “microscopici”, a definizione d’immagine sufficientemente alta da consentire di cogliere sfumature stilistiche e dettagli formali, metrici, linguistici (grafematici, lessicali, morfosintattici).
Come ho già accennato, però, prima di tutto grava pesantemente su quest’aspetto della ricerca la mancanza di una concordanza diacronica estesa alle tre edizioni curate dall’Ariosto. Quando essa sarà disponibile potrà offrire, oltre alla
spettrografia correttoria, un rimario trasparente, appunto, anche in senso diacronico, oltre che «liste di frequenza e di rango in cui risultino gli incrementi e i decrementi percentuali nell’uso di singole parole» nelle tre edizioni, «e naturalmente, di conseguenza, le parole abbandonate» nella seconda o nella terza «e quelle
ivi introdotte per la prima volta»178. Insieme con l’apparato critico dell’edizione
Segre-Debenedetti essa consentirà di apprezzare, specie mediante indagini quantitative, il processo evolutivo linguistico, almeno lessicale e rimico (il che sul piano dello stile potrebbe eventualmente rivelare anche delle scelte involutive).
Ovviamente (lo ricordavo citando le parole dello stesso Segre, coordinatore
del progetto), per ragioni tecniche questa concordanza (ma a rigore teorico qualsiasi concordanza) non potrà registrare, e quindi proporre alla valutazione scientifica, né le metamorfosi semantiche né i cambiamenti intervenuti nelle correzioni
riguardanti la sintassi del periodo. E tanto meno, aggiungo, qualsiasi concordanza, proprio per la sua peculiare natura di sistema tassonomico “di grado zero”,
permetterà mai di valutare le oscillazioni semantiche, in rima e nel contesto versale o trans-versale, quelle legate alla dinamica variantistica e quelle sincronicamente pertinenti. Ad esempio: le iterazioni-alterazioni sillabiche entro singole ottave o
in funzione di liaison fra ottave, con effetti fonosimbolici o allusivi-evocativi di
personaggi, situazioni contestuali, particolari momenti narratologici; la genesi e
l’architettura, poggiate sull’eco sillabica o lessicale o sinonimica, di uno spazio semantico e addirittura di un’intera frase o di un blocco narrativo; l’utilizzazione di
rime tecniche, spesso in combinazione e con effetti di mutua interferenza, a fini
semanticamente connotativi e stilisticamente espressivistici.
Ciò che l’elaborazione elettronica non può restituire, in sostanza, sono proprio la “grammatica” e la “sintassi” della poesia: l’interferenza reciproca tra i piani
del significante e del significato, tra la forma linguistico-stilistica e la costruzione di
178
C. SEGRE, Le concordanze diacroniche dell’«Orlando furioso» cit., p. 233.
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piani diegetici, tra la dislocazione struttiva di lemmi-chiave, di catene rimiche e di
rimanti o perfino di catene di rimanti e la loro riemergenza mnemonica, nella lettura, quale momento d’interconnessione che attraversa percorsi e livelli della narrazione. E non si potrà, in questa luce, non richiamare la prospettiva tracciata da
Gianfranco Contini nel definire la memoria dantesca, cioè proprio la memoria «interna» della Commedia, quale struttura «non […] puramente verbale, per eccitazioni provenienti da oggetti affini», bensì «organizza[ta] in figure ritmiche»179.
Gli sforzi recenti, raffinati e consapevoli, di messa a punto del problema dell’intertestualità, così in sede teorica come in sede analitica, e particolarmente nello studio di testi versificati, inducono ad assegnare valore fondativo, in ordine anche alle posizioni ideologiche e formali-stilistiche, al rapporto (spesso genetico!)
dei fattori fonico-espressivi con la costruzione frastica e l’articolazione metricostrofica. Nella specie, come cercherò di indicare, questi elementi rivelano un ruolo assolutamente radicale nella “struttura del testo” ariostesco.
Così come da tempo vediamo abbastanza chiaramente nella questione delle
fonti, dopo il grande studio di Pio Rajna (1876, 19002)180, annoverabile fra i monumenti fondativi della filologia romanza, così possediamo già (e ad esse faremo
com’è ovvio ricorso), alcune utilissime, talora addirittura preziose, ricerche di
base – “microscopiche”, nell’accezione appena indicata – in genere condotte su
settori delimitati del libro e su ben definiti fenomeni linguistici, metrici, intertestuali o su speciali aspetti stilistici o narratologici: ad esempio sui rapporti tecnico-formali con la tradizione canterina e con il Boiardo e sull’intenzionale distanziamento da essi, particolarmente per quello che attiene ai moduli tradizionali e
agli stilemi fossilizzati, all’entrelacement della fabula, all’“esordio” di ogni canto
ed ai collegamenti dei canti fra di loro, alle “riprese” da ottava a ottava o a distanza (e quindi a quella che ho già definito la “memoria interna” del poema),
all’uso dell’enjambement e della dittologia, alle strutture sintattiche, alle varietà
della prosodia, all’allocuzione nei confronti del lettore, all’istituto della citazione estratta dagli auctores (non solo gli epici ma anche i lirici), all’iterazione aggettivale181.
Si potrà percepire l’innovazione, ed anzi proprio la rivoluzione ariostesca, la
decodifica/transcodifica operata dal Furioso nel tessuto della fabula, nelle moda179
G. CONTINI, Un’idea di Dante. Saggi danteschi, Torino 1976, p. 83.
Cfr. P. RAJNA, Le fonti dell’Orlando furioso. Ristampa della seconda edizione 1900 accresciuta d’inediti, a cura di
F. Mazzoni, Firenze 1975.
181 Oltre agli studi ricordati nella nota 160 (e segnatamente M. C. CABANI, Costanti ariostesche cit. ) si vedano almeno: E. TUROLLA, Dittologia e “enjambement” nell’elaborazione dell’«OrlandoFurioso», in «Lettere italiane», X
(1958), pp. 1-20; A. M. CARINI, L’iterazione aggettivale nell’«Orlando Furioso», in «Convivium», XXXI (1963), pp.
19-34. E cfr. anche infra, pp. 288-89 e nota 114.
180
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lità della sua esposizione, nella commissione dei “toni” e dei “livelli” come pure
nell’accesso a molte e disparate “fonti”, solo se si coglierà e si svilupperà appieno
un’indicazione che ci veniva già offerta dall’antico maestro Rajna, sulla soglia del
suo eruditissimo laboratorio: «Il Furioso non continua l’Innamorato, sibbene la
materia dell’Innamorato. […] L’ufficio del condurre a termine un’opera altrui è
umile troppo, perché egli ci si possa accomodare»182.
2.5.
Il «suono dei sospiri»: dalla lirica all’epica.
2.5.1. La forma dell’epica, fra terzina e ottava. La critica novecentesca apre il
suo confronto con l’Ariosto ideando, per la forma metrico-strofica del Furioso,
l’immagine efficacissima dell’«ottava d’oro»183. Pochi anni or sono, poi, riprendendo l’altra formula di grande incisività con cui Francesco De Sanctis ai primi
dell’Ottocento figurava per metafora nello sbocciare e morire della rosa la vicenda
dell’ottava rima attraverso la storia delle nostre lettere, Giovanni Pozzi ha così riassunto la bipartizione fondamentale che articola il genere durante gli anni di preparazione e di progressiva rielaborazione del Furioso: «L’ottava di distici delegata alla materia descrittiva, il cui archetipo ideale risale al Poliziano, e l’ottava di largo
taglio delegata alla materia narrativa, il cui archetipo risale all’Ariosto, costituiscono i due tipi dominanti nel corso trionfale del componimento in stanze durante il
cinquecento; la tensione dialettica, fra i quattro poli delle due materie e delle due
forme metriche die’ luogo ad infinite combinazioni e variazioni, le quali appagarono i numerosissimi e spesso esimi operatori che man man seguirono»184.
Nata per l’invenzione o comunque mediante la codificazione del Boccaccio
(Filostrato, scritto a Napoli forse fra 1336 e ’38; Teseida, databile al ’39-40; Ninfale fiesolano), e rapidamente impostasi come metro diegetico per eccellenza con il
Fiorio e Biancifiore (trascritto dopo il 1343 da un copista toscano che ebbe
sott’occhio un antigrafo settentrionale) e i non molti cantari superstiti del secolo
XIV, l’ottava narrativa «non ha probabilmente rapporti diretti con l’ottava isolata, “lirica”, quella dello strambotto e del rispetto, nella forma “siciliana” (ABABABAB) o “toscana” (ABABABCC)»185. Boccaccio offrì dunque all’ottava un
modello di rango e di tono elevato, in alternativa al distico baciato dell’antico e
ormai desueto roman in lingua d’oïl e, per le parti di registro più alto, ripensando
l’épos classico, in modo specifico Stazio; a questo modello si affiancò presto una
182
P. RAJNA, Le fonti dell’Orlando furioso cit., pp. 40-41 (il corsivo è dell’autore).
Cfr. AA.VV., «L’ottava d’oro» – celebrazioni ariostesche, I. Ferrara 1928-VI, Milano 1930; un secondo volume apparve in occasione del IV centenario della morte: L’ottava d’oro. La vita e l’opera di Ludovico Ariosto. Letture tenute in
Ferrara per il quarto centenario della morte del poeta, Milano 1933.
184
G. POZZI, La rosa in mano al professore, Friburgo 1974, pp. 128 sgg.
185 P. G. BELTRAMI, La metrica italiana, Bologna 1992, p. 93.
183
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tradizione narrativa di tipo popolareggiante, anisosillabica, con struttura rimica
non sempre perfetta e ritmo prosodico dell’endecasillabo non canonico 186. In
particolare fu grande il successo del Teseida nell’area padana durante il secolo
XV: lo sancirono un lussuoso manoscritto (oggi a Milano, B. Ambrosiana, D.
524.inf.) con il testo ed il commento di Pietro Andrea de’ Bassi, amministratore
fino al 1447 del marchesato estense (il quale «appare, a metà del sec. XV, come
uno dei punti di raccolta e di consacrazione autorevole delle opere volgari del
B[occaccio]»)187, e qualche decennio più tardi l’edizione ferrarese del 1475, dovuta ad Agostino Carneri, con il medesimo sistema di testo e commento bassiano188. La diffusione, in quella stessa area e sul fronte appenninico tosco-emiliano,
della tradizione romanzesca in prosa e in versi, italiana e francese, soprattutto affidata all’ottava rima di Antonio Pucci, di Andrea da Barberino, di Luigi Pulci e
di opere anonime quali l’Orlando laurenziano o la Spagna in rima, costituisce il
terreno su cui fioriscono dapprima l’Innamorato, in «risposta sia al Morgante,
[…] sia al Teseida»189, quindi lo stesso Furioso. Già sul discrimine fra Tre e Quattrocento, con il Pucci, primo lettore-copista-interprete del Boccaccio190, secondo
una notevole intuizione di Alberto Limentani, «si verificano […] quell’abbassamento del tono, quella normalizzazione formale che sono necessari al successo
del genere e della forma». Si favorisce in tal modo «una convergenza tra tematica
(o “materia”) avventuroso-cavalleresca e tematica epica, che provoca una in parte
involontaria “demistificazione” delle idealità elitarie e individualistico-aristocrati-
186 Cfr. C. DIONISOTTI, Appunti su antichi testi, in «Italia medioevale e umanistica», VII (1964), pp. 99-131; A.
RONCAGLIA, Per la storia dell’ottava rima, in «Cultura neolatina», XXV (1965), pp. 5-14; M. PICONE, Boccaccio e
la codificazione dell’ottava, in Boccaccio: secoli di vita. Atti del Congresso internazionale «Boccaccio 1975» (Università di
California, Los Angeles, 17-19 ottobre 1975), a cura di M. Cottino-Jones ed E. F. Tuttle, Ravenna 1977, pp. 53-65; G.
GORNI, Un’ipotesi sull’origine dell’ottava rima, in «Metrica», I (1978), pp. 79-94; A. BALDUINO, «Pater sempre incertus». Ancora sulle origini dell’ottava rima, ibid., III (1982), pp. 107-58; ID., Le misteriose origini dell’ottava rima, in
I cantari cit., pp. 25-48; G. GORNI, Le forme primarie del testo poetico, in Letteratura italiana, diretta da A. Asor Rosa, III/1. Le forme del testo. Teoria e poesia, Torino 1984, pp. 439-518 (specialmente pp. 498-501); M. MARTELLI, Le
forme poetiche italiane dal Cinquecento ai nostri giorni, ibid., pp. 519-620 (specialmente pp. 530-43). Un utile contributo di sintesi, che aggiorna la bibliografia ed apre interessanti linee di ricerca sui rapporti fra trattatistica metrica e
produzione in ottava, sul ruolo delle Stanze bembiane e della letteratura di corte nella fortuna dell’ottava “lirica”, sul
rapporto tra forma “lirica” e sua funzionalizzazione “narrativa”, è nello studio di F. CALITTI, Della ragion poetica
dell’ottava. Per una storia dell’ottava rima, Tesi di dottorato in Italianistica (Quarto ciclo), discussa con G. Savarese
presso l’università «La Sapienza» di Roma nel 1992 (ringrazio Floriana Calitti per avermi concesso di leggere nell’attuale forma il suo lavoro, che auspico possa essere presto reso pubblico a stampa).
187
V. BRANCA, Tradizione delle opere di Giovanni Boccaccio, II. Un secondo elenco di manoscritti e studi sul testo
del «Decameron» con due appendici, Roma 1991, p. 199, nota 99; sul commento bassiano cfr. soprattutto le pp. 536-37
(con integrazioni bibliografiche).
188 Si veda anche R. BRUSCAGLI, Stagioni della civiltà estense, Pisa 1983.
189 C. MICOCCI, «Orlando Innamorato» cit., p. 859.
190
Cfr. A. E. QUAGLIO, Antonio Pucci, primo lettore-copista-interprete di Giovanni Boccaccio, in «Filologia e critica», I (1976), pp. 15-79.
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«Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto - Corrado Bologna
che instaurate in un tempo ormai remoto, in piena società feudale-cortese di
Francia, da Chrétien de Troyes e da Marie de France»191.
Pulci, Boiardo, Ariosto, conducono l’ottava del romanzo epico-cavalleresco a
piena maturità, facendone lo strumento opportuno per la narrazione distesa e per
la pausa lirico-intimistica, per l’intreccio della voce extradiegetica con i diversi
piani dell’esposizione narrativa, per l’inserzione di tratti comici, descrittivi, spettacolari e perfino “teatrali” (o comunque “teatrabili”). Ma il dibattito intorno al
genere epico e alla forma metrico-strofica da usare continua a lungo, anche dopo
il Furioso, e di fatto collega con un fitto tessuto teorico-poetologico l’esperienza
di Ariosto a quella del Tasso.
Con la Poetica (1549-50) del Trissino esso s’intreccia alle riflessioni di stampo
aristotelico ancora dopo l’uscita del Furioso ridiscuterà il ruolo dell’ottava nel genere nuovo del “romanzo”, spesso con posizioni assai critiche: Trissino propone
l’endecasillabo sciolto, applicato nel 1524 al teatro con la Sofonisba e nel ’47 (per
la prima volta) anche all’epica con La Italia liberata da Gotthi192; per Girolamo
Muzio (Arte poetica, 1551) «più sono atti a la lira che a la tromba | i ternarii e le
stanze […]»193; Bernardo Tasso, padre di Torquato, accetterà di comporre in ottave l’Amadigi solo dietro insistenza dei committenti: e non fosse stato per il gradimento del pubblico, avrebbe continuato a ritenere che l’ottava «non sia rima
degna, né atta a ricever la grandezza e dignità eroica»194; la Poetica d’Aristotele
vulgarizzata e sposta da Ludovico Castelvetro (edita nel 1570) insiste sulla necessità, nell’epica, d’una sequenza di versi fluida ininterrotta (al modo, parrebbe,
proprio degli sciolti trissiniani):
quel verso col quale si dee palesare una favola grande, varia, antica e magnifica dee esser
tessuto con una catena che non sia spezzata, ma continuata e atta a ricevere th;n peribolh;n cai\ th;n mestóthta, di cui parla Ermogene, avendo rispetto alla moltitudine e alla varietà delle cose che con esso si deono narrare; e tale è la catena del verso eroico della lingua greca e della latina, ma non è già tale la catena dell’ottava rima della lingua vulgare, trovata come si crede da Giovanni Boccaccio perché ci fosse in luogo dell’eroico195.
191
A. LIMENTANI, L’«Entrée d’Espagne» e i Signori d’Italia cit., p. 255.
Su cui cfr. almeno il Convegno di studi su Gian Giorgio Trissino (Vicenza, 31 marzo – 1O aprile 1979), a cura di
N. Pozza, Vicenza 1980, nonché M. MARTELLI, Le forme poetiche dal Cinquecento ai nostri giorni cit., pp. 535 sgg.
Sul rapporto fra Poema cavalleresco e poema eroico rimangono utili le pagine di E. BONORA, Il classicismo dal Bembo al Guarini, in Storia della Letteratura Italiana, diretta da E. Cecchi e N. Sapegno, IV. Il Cinquecento, Milano 1965,
pp. 149-711 (in particolare pp. 503-25).
193
G. MUZIO, Dell’arte poetica, III, 1067-68, in Trattati di poetica e retorica del Cinquecento, a cura di B. Weinberg, 4 voll., Bari 1970-74, II, p. 195.
194 B. TASSO, Lettera a Luigi d’Avila, in ID., Lettere, a cura di A. F. Seghezzi, Padova 1733, I, pp. 198-202 (a p.
198). La lettera è riportata anche da E. BONORA, Il classicismo dal Bembo al Guarini cit., pp. 515-16, e da M. MARTELLI, Le forme poetiche dal Cinquecento ai giorni nostri cit., p. 537.
195
L. CASTELVETRO, Poetica d’Aristotele vulgarizzata e sposta, a cura di W. Romani, 2 voll., Bari 1978-79, II, pp.
157-58.
192
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La difesa del poema cavalleresco in ottava viene assunta, com’è noto, sorattutto dal Giraldi Cinzio (1554), il quale esclude di fatto l’uso della terzina e dello
sciolto, ed esalta il poema in ottave per la sua capacità di miscelare il racconto scorrevole a «digressioni che contengono giostre, tornei, amori, bellezze, passioni dell’animo, campo, edifici e simili altre cose»; anche in questo, sccondo lui, esso riesce
«grande e magnifico», e sa sfruttare con il massimo di eleganza le possibilità offerte dalla forma nel concedere «riposo e […] quiete al dicitore, ed a chi ascolt[a]»196.
Girolamo Ruscelli, in una sofisticata, completa analisi dell’ottava quale strumento espressivo peculiare del nuovo romanzo (Del modo di comporre in versi
nella lingua italiana, 1559), rileva che «l’ordine della testura» è esatto e duttile al
contempo nella strofe di otto versi, la quale pare plasmata per l’epica («quella sorte di testura è attissima a questo bisogno di spiegar soggetto lungo et continuato
et vario»), e sottolinea come le sue regole ne permettano l’impiego non solo narrativo e siano note «fino al volgo», che ne fa uso per l’improvvisazione197. Il tema
del «riposo», dell’elasticità che la forma-ottava riesce ad introdurre nel movimento narrativo, è cruciale, come in Giraldi Cinzio, anche nella lettura del Ruscelli.
Per lui, studioso esperto di retorica e di metrica e inoltre assai attento, nel suo interesse per l’ars combinatoria d’origine lulliana (ma con innovazioni camilliane),
agli aspetti simbolico-ideologici dell’espressione e delle forme poetiche198, l’ottava è soprattutto un luogo, uno spazio armonico, abbastanza ampio e nel contempo
abbastanza chiuso e riparato, grazie alla soglia protettiva del distico conclusivo,
perché la lingua possa distendervisi e subito prendervi riposo, insomma muoversi, oltrepassarsi e ritrovarsi, esattamente come fa il viandante stanco che scandisce
in tappe ristoratrici un viaggio impegnativo:
Onde con tanta leggiadria così chi legge, come chi ascolta, aspettando, alla guisa che nel
suono, la cadenza della stanza nella sua chiusura, si rasserena tutto quand’ella viene, prende posa con la lingua o con l’orecchie et sopra tutto col pensiero, del quale è proprio il
sollevarsi et sospendersi quando fa l’operation sua, et si pruova effettualmente che lo star
così molto fa stancar non solamente se stesso, ma ancora il corpo nostro, che in quell’atto
viene come abbandonato da gli spirti che s’alzano a sollevare, o a sostener la mente nell’operation sua. Et per questo, sì come i viandanti par che non sentano noia nell’andare,
quando sanno esser loro vicinissima qualche osteria o casa da riposarsi, così il pensier nostro, nell’operation sua di sospendersi nella consideratione o attenzione delle cose che
udiamo, par che sempre stia fresco et lieto, sapendo che nel fin d’ogni otto Versi quella
leggiadrissima chiusura, o cadenza armonica, lo farà prender posa gioiosamente199.
196 G. B. GIRALDI CINZIO, Discorso intorno al comporre dei romanzi, in ID., Scritti critici, a cura di C. Guerrieri
Crocetti, Milano 1978, pp. 79 e 100.
197 G. RUSCELLI, Del modo di comporre in versi nella lingua italiana (1559), Venezia 1563, pp. 97-98.
198
Cfr. L. BOLZONI, Il teatro della memoria cit., pp. 93 sgg.
199 G. RUSCELLI, Del modo di comporre in versi cit., p. 99. Per quanto precede è utile (anche bibliograficamen-
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Nella critica s’è radicata, non impropriamente, l’idea che di per sé l’ottava
consenta la dialettica fra moto e pausa, il ritmato fluire del racconto e della sua
sospensione provvisoria, attraverso la distribuzione dell’energia in un regolato
dinamismo che si potrebbe per metafora definire di corrente alternata; ed anche
la considerazione storica degli sviluppi e adattamenti della forma corrobora l’immagine un poco impressionistica. Dalle raffinatissime Stanze di Poliziano in poi
l’ottava subisce un’evoluzione e un mutamento strutturale-funzionale in cui il
Furioso svolge il ruolo primario: «assume, per quanto impiegata narrativamente,
una sua struttura squisitamente lirica, facendo procedere il racconto, se così è
possibile esprimersi, per successive soste simmetriche. È insomma, quello scandito dall’ottava postpolizianea, un tempo in qualche modo fermo o, se si vuole,
un tempo che, precisamente misurabile, si traduce invariabilmente in una misura spaziale. […] Né il progresso verso lo sbocco dell’ottava tassiana avrebbe conosciuto, da Poliziano in poi, deviazioni di sorta, se non fosse stato per l’esperienza, splendidamente solitaria, dell’ottava ariostesca, collocabile al punto d’incontro tra la geometrica simmetria di una struttura rimica e la liquidità sinuosa
del verso sciolto»200.
Il Boccaccio giovanile, ancora emozionato dal modello del romanzo francese
in versi, aveva ideato – soprattutto in alternativa alla terza rima dantesca – la nuova forma narrativa secondo una chiave decisamente “prosastica” (e non a caso
sarà appunto in prosa il frutto più maturo dello scrittore). L’anonima traditio canterina aveva tradotto l’ottava in un eccellente strumento della circolazione scrittoorale, facendone «il modulo recitativo-musicale, il “periodo” declamatorio sul
quale la materia avventurosa e leggendaria correva dalla bocca del cantambanco
agli orecchi del suo auditorio, prendeva figura e suggestione e probabilità, soprattutto si fissava e rendeva riconoscibile in precisi ritmi e cadenze»201. Il Pulci,
la cui ottava «nervosa e spezzata si compiace di ricalcare da vicino la tecnica sommaria dei modelli canterini»202, aveva prodotto una struttura abnorme, disarmo-
te) F. CALITTI, Della ragion poetica dell’ottava cit., cap. 1. Il mistero dell’ottava rima. Premesse, pp. 6-44 del dattiloscritto.
200 M. MARTELLI, Le forme poetiche dal Cinquecento ai giorni nostri cit., p. 539.
201 D. DE ROBERTIS, Storia del Morgante, Firenze 1958, p. 209 (ma cfr. l’intero cap. 11. Il mondo dell’ottava, pp.
209-351).
202 L. BLASUCCI, Osservazioni sulla struttura metrica del «Furioso» cit., p. 75. Su quest’aspetto si vedano almeno
P. ORVIETO, Pulci medievale cit., pp. 9-12 (p. 10: «Il Morgante è, in sostanza, un serbatoio inesauribile di forme, una
estrema propaggine dell’enciclopedismo medievale») e 106-42 (con interessante esemplificazione dei nessi fra la scrittura pulciana e quella dei canterini), oltre alle brevi pagine (ed alla bibliografia) di S. CARRAI, «Morgante» di Luigi
Pulci, in Letteratura italiana. Le Opere, I cit., pp. 769-89 (in particolare pp. 784 sgg.). Utili le considerazioni di D. DE
ROBERTIS, Una toppa per l’«Orlando» laurenziano cit.
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nica, «affetta […] da una sua incontenibile eretistica ipercinesi» che la lasciava
«sostanzialmente asimmetrica e “rotta”», con una frequenza altissima, all’interno
delle singole stanze, di endecasillabi accentati di 4a, 7a e 10a, «volti […] alla realizzazione di macchie espressionistiche» e portati ad emergere in brusco contrasto
con gli altri più regulati, «scartando ad ogni piè sospinto verso il ritmo del decasillabo con anacrusi monosillabica»203.
Com’è noto, però, alla fortuna dell’ottava contrasta non poco, fra Quattro e
Cinquecento (dopo il successo trecentesco, in ispecie con i Trionfi del Petrarca, e
su altro fronte con il Dittamondo di Fazio degli Uberti e il Centiloquio di Antonio
Pucci), la fioritura della terzina, adibita a compiti politico-parenetici e insomma
ad una poesia meditativa, riflessiva e didascalica; anche l’epica e il romanzo vennero attirati dal campo magnetico della forma-terzina, e i contatti diedero vita a
episodi di notevole interesse letterario e storico-culturale. La forma godette di
ampia, solida fortuna per tutto il Quattrocento in ambiti differenziati: «e di questa sua disponibilità è direttamente responsabile l’eccezionale latitudine tematica
della Commedia dantesca»204, che a sua volta mostrava, già nell’autorevole fonte
(l’ipotesi fu avanzata nel Trecento da Antonio da Tempo, ed è stata di recente ripresa e sviluppata in sede critico-filologica), «una stretta affinità strutturale con il
progetto metrico del serventese»205.
In terza rima, ad esempio, Antonio Cornazzano (autore anche di una Vita di
Nostra Donna sempre in terzine, del 1471) aveva composto una Sforzeide, articolata in dodici libri e trentasei capitoli, e nello stesso metro erano comparsi lavori
teatrali, cronache rimate, versioni da Giovenale, Plauto e Terenzio; saldando la fabula virgiliana e il metro dantesco, Tommaso Cambiatore aveva tradotto l’Eneide
in terzine, e suscitato così l’irritazione del Guarino. Esclusivamente affdata a questo metro è la produzione bucolica. Nella seconda metà del secolo XV spazi tematici e funzioni politico-satirico-moraleggianti propri della frottola nel periodo
precedente. Anche nella raccolta di rime ariostesche, come in tutti i canzonieri
coevi, la forma-capitolo (accanto alle Satire in terza rima)206 ha una posizione ed
un ruolo cospicui, in senso qualitativo e quantitativo.
L’Ariosto dovette provare, in una data assai difficilmente determinabile ma
non distante dal lustro 1500-505 (proprio la scelta metrica suggerisce di fermarsi
a una datazione molto alta), la forte tentazione della terza rima per dare l’avvio al
203
M. MARTELLI, Le forme poetiche dal Cinquecento ai nostri giorni cit., p. 540.
A. TISSONI BENVENUTI, La tradizione della terza rima e l’Ariosto, in Ludovico Ariosto: lingua, stile e tradizione cit., pp. 303-13 (a p. 303).
205
G. GORNI, Le forme primarie del testo poetico cit., p. 494.
206 Cfr. A. TISSONI BENVENUTI, La tradizione della terza rima cit., pp. 305 sgg.
204
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«Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto - Corrado Bologna
suo primo progetto di romanzo epico-cavalleresco. La cosiddetta Obizzeide – di
fatto un capitolo incompiuto (duecentoundici versi residui) dedicato alla celebrazione di un Obizzo d’Este, eroico (e forse fantasticamente riplasmato, al modo
che varrà per i cavalieri archetipici del Furioso) antenato duecentesco degli Estensi – sarà-forse la sperimentazione di cui nel 1503 Ariosto parla nel carme De diversis amoribus (cfr. qui, p. 224). Impressionante è l’incipit del capitolo, che dall’esibizione delle fonti ispiratrici alla scelta del lessico e perfino dei moduli rimici
denuncia già in atto il processo ideativo-compositivo che culminerà nel 1516 con
il Furioso. Proprio la terzina iniziale, come ha notato Antonia Tissoni Benvenuti,
si rifà al medesimo luogo dantesco che ispirerà l’esordio del poema:
le donne, e ’ cavalieri, li affanni e li agi
che ne ’nvogliava amore e cortesia
là dove i cuor son fatti sì malvagi207,
da cui si genera, con intrusione d’una reminiscenza virgiliana relativa agli arma (difatti anche nell’Eneide in posizione incipitaria) e con la consueta amplificatio a mo’ di glossa, l’avvio dell’Obizzeide:
Canterò l’armi, canterò gli affanni
d’amor, ch’un cavallier sostenne gravi,
peregrinando in terra e ’n mar molti anni208.
Inequivocabile centro irradiativo sono gli affanni | d’amor, esaltati dal fortissimo enjambement che, mentre spezza il respiro metrico versale, lega il discorso
collegando i soggetti-base distribuiti da Dante su due versi contigui; e la “fonte”
dantesca (tematicamente e formalmente più che soltanto “epica”) si riaffaccerà,
ancor piú impetuosa, nell’apertura del Furioso, precisandosi, con l’immissione di
emistichi dedotti dall’incipit del Mambriano (fonte “cavalleresca”!) e da una ballata di Eustache Deschamps (fonte “lirica”!), a indicare una selezione e un impegno nei confronti della traditio, dei suoi “argomenti” e della sua “lingua”209 (cfr.
poi qui, p. 325).
Già, però, nella terzina dell’Obizzeide s’intuisce l’urgenza della misura-ottava: nell’ampliamento della frase oltre il bordo del terzo verso, nella connessione
di trittici contigui con il supporto di un solo slancio d’energia espressiva.
Si riconosce con precisione maggiore quest’impazienza della misura breve,
quest’ambizione di più largo respiro di narrazione, in alcuni fenomeni che è più
207 D. ALIGHIERI, Purgatorio, XIV, 109-11, in ID., La Commedia secondo l’antica vulgata, a cura di G. Petrocchi,
4 voll., Milano 1967, III. Purgatorio.
208 L. ARIOSTO, Obizzeide, vv. 1-3, in ID., Opere minori cit., p. 164.
209
Cfr. gli studi ricordati nella nota 5 di p. 220, nonché A. TISSONI BENVENUTI, La tradizione della terza rima
cit., pp. 309-10.
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«Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto - Corrado Bologna
agevole schedare e quantificare nella piccola scheggia realizzata del progetto in
terzine, ma che con impressionante puntualità si ritrovano nel poema in ottave,
raffinati e complicati nel meccanismo intrinseco e nella funzionalizzazione diegetica (cfr. poi il § 2. 5. 3).
Cito anzitutto il ritorno frequente, e quasi periodico, dei lemmi-chiave incastonati nell’incipit210, variamente connessi anche sul piano semantico, più volte
replicati in differenti “accordi” di reciprocità, e riemergenti quasi per una fissazione lessicale (in certi casi accresciuta dall’anagrammaticità dei vocaboli)211, che
dà vita ad una forte ritmicità fonetico-semantico-narrativa. Il testo, in conclusione, è irrorato e “tenuto” dal ripetersi calibrato di cadenze musicali che s’intrecciano in un ordito dall’aspetto di una partitura complessa e raffinata (anche altri
vocaboli sinonimi o semanticamente affini di quelli d’apertura subiscono una simile iterazione oscillante e ad incrocio multiplo)212.
Rilevo poi, a carico delle forme “tecniche” nel sistema rime/rimanti, alcune rime
equivoche, di varia qualità213, ma soprattutto il ricorso abbastanza frequente (che diverrà frequentissimo ed anzi canonico nel Furioso, in particolare nel distico di clausola) alla rima “inclusiva”. Intendo per “inclusivo” un nesso rimico nel quale di norma
(propongo che in questo caso si parli di una “inclusiva semplice”) un rimante coincide con la rima, ed è quindi pienamente e linearmente incluso in almeno un altro rimante collegato (l’“inclusiva ricca” distingue il rimante-base dalla rima, giacché prevede la presenza prima della tonica di almeno un fonema in comune fra i rimanti, senza connessioni etimologiche). In più di un’occasione questo tipo di rima è utilizzato
quale “ponte” interstrofico, in grazia della sua forza prevalentemente fonico-simboli-
210 Così arme torna nelle terzine VIII (V. 22), XI (V. 31), XXVII (V. 81), XLIII (V. 128), LXIII (V. 188); cavallier nelle terzine X (V. 29), XI (V. 32), XXVI (V. 76, con la dittologia «duci e cavallieri»), XXXIV (V. 101, con la dittologia
«donne e cavallierì»), XLII (V. 125); mar nelle terzine V (V. 15) e XVI (V. 46).
211 Ad esempio, tramite la figura dell’anagramma si impiccano foneticamente arme e mar(e), insieme (quasi a perfezione) con amor, assente nell’Obizzeide al di là dell’incipit, così come i suoi affanni. Si noti che l’anagramma pressoché pieno armi / amori, con trasferimento della tonica dalla sillaba ar ad or, si conserverà nell’incipit del Furioso.
212 Riemergono a distanza, intrecciandosi, almeno questi lemmi-chiave: re, nelle terzine 1V (v. 11, due volte), XII (v.
35), XVIII (v. 52), XXII (v. 64), XXIV (v. 70), XXX (v. 90), XXXVIII (v. 112), XLV (v. 135), XLVIII (v. 142), LIV (v.
160), LVIII (v. 172), LX (v. 180), LXV (v 195), LXVIII (v. 22); battaglia, nelle terzine VIII (v. 23), XXVII (v. 79), XXXVIII (v. 113), LII (v. 154); pugna, nelle terzine XI (v. 32), XXIV (v. 71), LIV (v. 162), LXVI (v. 197), LXVIII (v. 204),
[LXXI] (v. 211); nazion(e), nelle terzine IX (v. 26), XLII (v. 126), XLIX (v. 145), LXVI (v. 166), LXIX (v. 206); guerrier(o), nelle terzine VIII (v. 22), XVII (v. 51), XXXI (v. 92), XXXVII (vv. 110-11), XLIII (v. 129), LVI (v. 167), LVII (v.
170); gente, nelle terzine X (v. 28), XV (v. 45), XVII (v. 49), XXX (v. 89), XXXI (v. 93), XLVI (v. 137), LVII (v. 170).
213 Una rima equivoca (di fatto pressoché identica) lega nelle terzine XXX-XXXI (vv. 89 e 93) gente : gente. Un’equivoca contraffatta è nella terzina LII (vv. 154 e 156), s’oda : soda. Addirittura un’equivoca triplice, scandita su tre
versi, nelle terzine LIX-LXX (vv. 206 e 208, 210), franca : franca : franca. Qui e in seguito, ove non altrimenti indicato,
faccio uso del lessico stabilito da R. ANTONELLI, Rima equivoca e tradizione rimica nella poesia di Giacomo da Lentini, I. Le canzoni, in «Bollettino del centro di studi filologici e linguistici siciliani», XIII (1977), pp. 20-126 (a p. 31,
nota 59); e cfr. ID., Repertorio metrico della scuola poetica siciliana, Palermo 1984, pp. LVI-LVIII.
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«Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto - Corrado Bologna
ca, che in certa misura spegne nell’eco sonora, al modo dell’aequivocatio, l’apertura di
sempre nuovi orizzonti diegetici naturalmente connessi al ventaglio lessicale214.
Registro altresì un tipo di rima che mi risulta finora mai rilevato, e quindi ancora da
sottoporre a sondaggi ed analisi sul piano strutturale, funzionale e storico-formale, e
che suggerisco di definire “rima contenuta” (un rimante è contenuto pienamente, al
modo della rima “inclusiva”, ma non linearmente, e dunque con eco dovuta a frammenti fonetici, e senza nesso etimologico o semantico, in almeno un altro rimante)215.
Noto infine che alcuni rimanti sono strettamente collegati anche sul piano semantico216.
Ma è forse ancor più esattamente percepibile, quest’implicita (ma certo in
Ariosto non inconsapevole) dialettica terzina-ottava trapelante al livello dell’Urtext del Furioso, nella tendenza delle terzine a fondersi, sciogliendosi l’una nell’altra mediante il moto discorsivo, e a raggrupparsi diegeticamente in sovraunità di
due-tre e perfino quattro-cinque elementi, che di fatto costituiscono una sola arcata frastica, sintatticamente articolata217.
Tutti questi dati intrinseci all’ordito fonico-lessicale e alla trama semanticodiegetica attestano l’impulso ariostesco ad “aprire” la tradizionale terzina dell’épos quattrocentesco: e proprio in questo si può forse riconoscere uno sforzo dell’Ariosto, già al livello dell’Obizzeide, «di innalzare il genere epico dal livello del-
214 Così, nell’incipit, vv. 1-3, affanni : anni; nella terzina XLVII (vv. 139 e 141), tale : capitale; e con ruolo altresì di
liaison interstrofica nelle XX-XXI (vv. 59 e 61), riga : briga, XXXII-XXXXIII (vv. 95, 97 e 99), orse : torse : morse;
XLIX-L (vv. 146, 148 e 150), erra : terra : guerra (e si noti l’incrocio con errore, v. 149, che torna, non in rima, nella
LXIV, v. 190); LIX-LX (vv. 176 e 178), onta : monta; LXX-LXXI (vv. 209 e 211), ripugna : pugna. Si definiscono tecnicamente “derivative”: LXIII (vv. 187 e 189), sostenerti : tenerti; con liaison: XVII-XVIII (vv. 50, 52 e 54), alcuno :
uno: ciascuno; LVI-LVII (vv. 170 e 174), voglia : invoglia; LXVI-LXVII (vv. 197 e 201), convegna : vegna.
215 Trovo una rima “contenuta” (non importa – qui come nel resto del mio discorso – se “rovesciata”, cioè organizzata secondo l’ordine rimante contenente > rimante contenuto) almeno nelle seguenti terzine: VIII-IX (vv. 20 e
24), capitani : piani; XV-XVI (vv. 40 e 43), volto : volo; XIX-XX (vv. 56 e 60), mese : marchese. In anagramma quasi
pieno, nelle terzine XXX-XXXI (vv. 90 e 92) i rimanti (che, pur non rimando fra loro, assuonano) tenea : eterna; sulla stessa associazione fonica sono collegabili nelle terzine XXXII-XXXIV (vv. 94 e 100), in rima -erva (che consegue
immediatamente alle citate -ea ed -erna, ed è con loro assonante), caverna : caterva.
216 Collegamenti semantici fra rimanti nelle terzine XXXIX-XL (vv. 116 e 118), francesca : tedesca; XLII-XLIII (vv.
125 e 129), cavalliero : guerriero; nella terzina XLIX (vv. 145 e 147), difende: offende; nella terzina LI (vv. 151 e 153),
megliore : inferiore; nelle terzine LII-LIII (vv. 155 e 157), promessa : concessa.
217 Sono legate in un unico giro di frase, partitamente, le terzine VI-IX, vv. 16-27 (segnatamente le VII-IX); X-XI
(vv. 28-33); XIII-XIV (vv. 37-42); XV-XVI (vv. 43-48); XVIII-XIX (vv. 52-57); XXIV-XXVIII (vv. 70-84); XXIXXXX (vv. 85-90); XXXI-XXXIV (vv. 91-102); XXXV-XXXVI (vv. 103-8); XXXVII-XXXIX (vv. 109-17); XLIIXLIII (vv. 124-29); XLIV-XLVI (vv. 130-38); LV-LVI (vv. 163-68); LXI-LXIII (vv. 181-89); LXIV-LXV (vv. 190-95);
LXIX-LXX, con l’appendice dell’unico verso composto nella terzina monca LXXI (vv. 205-211). L. BLASUCCI, Osservazioni sulla struttura metrica del «Furioso» cit., p. 82, nota 1, ha posto in rilievo «lo sforzo di tendere la terzina a
strutture narrative di ampio respiro, attraverso l’adozione di strutture sintattiche complesse; e insieme, la cura di non
infrangere l’unità delle singole misure metriche, deviandole verso risultati prosastici o discorsivi (come avverrà invece,
con precisa intenzione stilistica, per le Satire), ma di conservare quella saldezza e quella proporzione ritmica che poi
caratterizzerà, con ben altra sapienza e ampiezza di respiro, le ottave del Furioso». Anche A. TISSONI BENVENUTI, La tradizione della terza rima cit., p. 310, sottolinea il fenomeno della tendenza alla fusione ed al raggruppamento
delle terzine nell’Obizzeide, «quasi tendessero alla misura dell’ottava».
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«Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto - Corrado Bologna
l’Innamorato al livello alto, “tragico”, dell’Eneide»218. Ma solo nella maturazione
della nuova ottava la svolta stilistico-narrativa riuscirà a compiersi adeguatamente.
2.5.2. La dialettica fra ottava «lirica» e ottava «narrativa». Compiuta la scelta
di genere (dunque, di campo referenziale rispetto alla tradizione e operativo
quanto al nesso funzionale forma-contenuto), ma conservando e modificando in
profondità le acquisizioni formali dell’“esercizio” -Obizzeide, l’Ariosto rifiuta con
decisione la struttura del Morgante, traguardando invece l’esperienza boiardesca,
che per l’ampiezza del respiro narrativo riesce ad ampliare l’ottava in «uno spazio
avventuroso», aperto ed utilizzato spesso senza riferimento ad una norma di proporzione metrica, corrispondente – sul piano delle macrostrutture – alla forte
oscillazione numerica nella distribuzione per canti219.
L’ottava, già nel primo Furioso, si richiude in qualche modo su di sé, in una
circolazione interna del suono e del senso, e privilegia la struttura bipartita, del tipo simmetrico: 4 + 4 (pur con l’inevitabile sommatoria in clausola 2 + 2, imposta
sul piano fonetico-lessicale dallo scarto rimico del distico), con pausa abbastanza
ferma al quarto verso, o la più articolata 4 + 2 + 2, o del tipo asimmetrico: 6 + 2
(quella che Giuseppe De Robertis descrisse come «una “tesi” prolungata, un’“arsi” scattante, stretta»220), o infine la multipla: 2 + 2 + 2 + 2 (cui Ariosto ricorre in
particolare nelle descrizioni o nei momenti effusivo-intimistici dei personaggi),
che aumentano la “liquidità” del sistema. Questa fluidità è comunque accentuata
anche dal fatto che «l’Ariosto si preoccupa di sottrarre alla rima il ruolo di momento forte del verso: e non solo mediante il frequente ricorso all’enjambement,
218 Ibid. Si noti che il De Sanctis, riprendendo una linea esegetica antica, preferiva associare il Furioso all’epopea classica ed a quella peculiarissima della Commedia, strappandolo alla clausura del “genere” poema-romanzo cavalleresco, al
quale il libro, in maniera così visibile lungo l’intera vicenda della sua ricezione ed interpretazione, è renitente «L’Ariosto
ha creato un mondo, che ha in sé il suo scopo, le sue leggi, la sua forma, così vivo e originale e vero, come è il mondo
omerico o il mondo dantesco» (F. DE SANCTIS, Una «storia della letteratura italiana» di Cesare Cantú (1865), in ID.,
Saggi critici, a cura di L. Russo, 3 voll., Bari 1953, II, p. 187). Sul passo cfr. le riflessioni di M. S. SAPEGNO, «Italia»,
«Italiani», in Letteratura italiana, diretta da A. Asor Rosa, V. Le Questioni, Torino 1986, pp. 169-221 (a p. 220, e nota
28). Rilievo che nel 1917 Benedetto Croce chiude il suo saggio (Ariosto cit., p. 107) rammentando la definizione (e prendendo le distanze da essa) di Ariosto come «l’Omero ferrarese». Anche Calvino, a proposito di Ruggiero e Bradamante,
nel divulgare la «trama» del Furioso in forma di «racconto» presso un pubblico non specialistico, ha parlato di due «eroi
di tragedia classica, straziati da un conflitto interiore» (Italo Calvino racconta l’Orlando furioso cit., p. 126).
219 Questo il numero delle ottave per i singoli canti (il riferimento ai canti è fra parentesi, in cifre romane): 81 (I);
76 (II); 77 (III); 72 (IV); 92 (V); 81 (VI); 80 (VII); 91 (VIII); 94 (IX); 115 (X); 83 (XI); 94 (XII); 83 (XIII); 134 (XIV);
105 (XV); 89 (XVI); 135 (XVII); 192 (XVIII); 108 (XIX); 144 (XX); 72 (XXI); 98 (XXII); 136 (XXIII); 115 (XXIV);
97 (XXV); 137 (XXVI); 140 (XXVII);102 (XXVIII); 74 (XXIX); 95 (XXX); 110 (XXXI); 110 (XXXII); 128
(XXXIII); 92 (XXXIV);80 (XXXV); 84 (XXXVI); 122 (XXXVII); 90 (XXXVIII); 86 (XXXIX); 82 (XL); I02 (XLI);
I04 (XLII); 199 (XLIII); I04 (XLIV); 117 (XLV); 140 (XLVI). Come ho già detto (cfr. p. 245) le ottave sono complessivamente 4842 nella terza edizione, del 1532.
220
G. DE ROBERTIS, Lettura sintomatica del primo dell’«Orlando», in «Paragone. Letteratura», I (1950), 4, pp.
12-17 (a p. 15).
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ma anche attraverso la destinazione alla sede rimica di parole “deboli” (aggettivi
o pronomi possessivi, dimostrativi, indefiniti) o, addirittura, “vuote” (gli aristotelici sincategoremi); evitando soprattutto che sulla parola-rima cada anche il peso
della figura, in particolare della metafora. Ne risulta un organismo perfettamente
liquido, privo di un qualsivoglia sussulto che non sia se non una beve increspatura della superficie»221.
Questo carattere tipico dell’ottava ariostesca nella sua forma estrema, colta
nel 1532 dopo un complesso lavorio adattativo-rielaborativo, è riassumibile come
dialettica fra l’astrazione in piena autonomia ritmico-melodica («l’ottava costituisce un microcosmo armonico, nel cui giro si consuma un intero movimento narrativo»)222 e la capacità di conservare e dislocare adeguatamente il flusso nel collegamento interstrofico, attuato specialmente mediante i versi di clausola («i quali nell’ottava ariostesca assumono sempre una funzione melodicamente risolutiva»)223, e in particolare con l’insistenza sulla funzione-ponte del distico finale.
Molto sarebbe da dire sulle forme della versificazione e dell’accentazione endecasillabica nel Furioso. In pagine di notevole ricchezza esegetica Luigi Blasucci
ha illustrato il valore tecnico-materiale, in sede linguistica e prosodica, dell’«effetto di geometrica identità di senso e di metro» e del «processo di sublimazione ritmica del reale»224. Ha riconosciuto vari coefficienti di evidenziazione melodica
che coinvolgono il distico e le posizioni ad esso affini di clausola frastica, ha rilevato appunto che nell’ottava ariostesca i versi conclusivi d’un giro di frase vengono investiti di un ruolo decisivo nell’armonizzazione “musicale” del racconto,
conquistando «il massimo di fluidità e di agevolezza ritmica», ed ha analizzato la
frequente ironia insita nella scioltezza metrica e lessicale dei due versi conclusivi:
ma guardando con particolare occhio di riguardo alla «variazione di accenti rispetto al verso precedente»225. Come esemplificazione allegherei almeno il progressivo rallentamento, seguito subito da uno scatto improvviso, di XLV, 26, 3-6:
«e lo rivegga poi che ’l sol il raggio | all’austro inchina, e lascia breve il giorno, | lo
trova deserto, orrido e selvaggio; | così pare alla donna al suo ritorno» (il v. 3 è un
endecasillabo a maiore; il 4 è a minore; il 5 di nuovo a maiore: ma due forti battute sulla 2a e sulla 5a sillaba, e la sinalefe in 6a posizione, impongono un brusco
scarto al passo; chiude il nuovo slancio del v. 6, normale a maiore).
L’oscillazione fra endecasillabi a maiore e a minore, frequente in tutto il poe221
M. MARTELLI, Le forme poetiche dal Cinquecento ai nostri giorni cit., pp 540-41. E cfr. anche qui, pp. 276 sgg.
L. BLASUCCI, Osservazioni sulla struttura metrica del «Furioso» cit., p. 79.
223 Ibid., p. 89.
224
Ibid., pp. 88-89.
225 Ibid., p. 107.
222
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ma, s’infoltisce nelle clausole: come ha rilevato Saccone226, spesso gli accenti di
clausola cadono sulle sillabe pari (segnatamente in 4a, 8a, 10a sillaba), contribuendo a creare un effetto di distensione, di rallentamento, e insomma di quella che,
per ricorrere al lessico musicale, definirei il temperamento della tensione raccolta
nella sestina precedente. Secondo le indicazioni di Carrara e di Bigi227 si constata,
nel Furioso, la rarità degli endecasillabi con accenti di 4a e di 7a, che nel lavoro
correttorio fra 1516 e ’32 Ariosto mirò ad eliminare dal corpo del testo, proprio a
causa del loro carattere «prosastico», trasandato e un poco negligente. Ancora
più scarsi, segnala sempre Blasucci, sono questi endecasillabi in sede di clausola
frastica; e dove compaiono non è difficile «individuarvi una specifica intenzione
espressiva»: ad esempio in II, 46, 4, ove si rende ritmicamente lo straordinario volo dell’Ippogrifo: «che per via strana, inusitata e nuova | cavalca armato il quadrupede augello»228.
Segnalo qualche caso in cui lo scarto si fa sensibile, anche per la sapiente distensione frastica degli enjambements e per gli ictus ribattuti delle allitterazioni, e
sottopone ad una sorta di improvvisa “frenata” la corsa ritmica del “narrare”, costringendo il lettore-spettatore ad adeguare il passo a quello testuale, specie là dove esso si apre in radure o in orizzonti lenti e descrittivi:
Dico che, come arriva in su la sponda
del fiùme, quel pròdigo vècchio scuòte
il lembo pieno, e ne la turbida onda
tutte lascia cader l’impresse note.
(XXXV, 12, I-4)
Un forte ictus ineliminabile in prima sede conserva, aprendo un’ottava descrittiva, un endecasillabo a maiore quale: «nàviga in su la pòppa uno eremìta»
(XV, 42, 1). La violenza d’una descrizione si fa lacerante espressività sincopata:
«Non sasso, merlo, trave, arco o balestra, | né ciò che sopra il Saracin percuote, |
ponno allentar la sanguinosa destra | che la gran porta taglia, spezza e scuote»
(XVII, 12, 1-4). Altrettanto forte è la battuta iniziale d’una scena di battaglia, come sempre nel Furioso di grande sonorità anche onomatopeica, e costituita da sei
vocaboli, quasi tutti bisillabi (quindi con tonica sulla prima), connessi a due a due
dalle sinalefi, fino a spezzare il verso in tre membri, rappresentativi di aspri squarci su altrettante scene della convulsa, rapidissima azione, che sembra così spartita
226
E. SACCONE, Note ariostesche cit., pp. 217-18 e 226 sgg.
Cfr. E. CARRARA, I due Orlandi, Torino 1935, e ID., Marganorre, in «Annali della R. Scuola Normale Superiore di Pisa. Sezione di Lettere, Storia e Filosofia», serie II, XVIII (1940), pp. 1-20; E. BIGI, Petrarchismo ariostesco, in
ID., Dal Petrarca al Leopardi. Studi di stilistica storica, Milano-Napoli 1954, pp. 47-76 (in particolare pp. 67-68, ove si
sottolinea nell’Ariosto una «sensibilità viva e attenta alla regolata e contemperata “variazione” dei suoni»).
228
L. BLASUCCI, Osservazioni sulla struttura metrica del «Furioso» cit., pp. 97 e sgg. (a p. 98 cita l’esempio riportato); e cfr. pp. 81 sgg.
227
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in altrettanti tableaux vivants ed è accesa dalla coloritissima sventagliata sui timbri
vocalici: «(Úrta, àpre, càccia, attérra, tàglia e fénde» (XVIII, 57, 1). Poco dopo
sboccia un altro simile verso, quadrimembre, ove sono sempre le sinalefi a condizionare il passo del ritmo diegetico: «ha stocco e mazza e destrier molto egregio»
(XVIII, 106, 8); e cfr. XLII, 69, 3-4: «Di dieci in dieci miglia va mutando | cavalli
e guide, e corre e sferza e punge» (qui lo spazio dell’elenco caotico è amplificato
dal «mutando» che sporge, per l’enjambement, nel verso successivo); XLIV, 87, 78: «taglia busti, anche, braccia, mani e spalle; | e il sangue, come un rio, corre alla
valle». Tre distinti spazi metrici e descrittivi sembrano assumere versi quali «I
Greci son quattro contr’uno, et hanno | navi coi ponti da gittar ne l’onda» (XLIV,
81, 1), nel primo dei quali l’enjambement esalta l’iconicità, lanciando un visibile
ponte in una sorta d’arrembaggio fonetico-prosodico, e quindi diegetico, sulle
«navi» del secondo.
Lo spezzamento dei versi in frammenti mono-, o al piú bisillabici, di frequente
allitteranti e fondati sulla variatio vocalica o, invece, l’immissione di avverbi o vocaboli lunghi, che occupano un intero emistichio, sono spesso collegati ad una simile
esigenza espressivistica di ritmare il passo del discorso rallentandolo in un ambio
morbido o, al contrario, fluidificandolo in un trotto sostenuto o velocizzandolo al
massirno nel galoppo sfrenato. Registro qui, exempli gratia, solo i casi di IX, 62, 5:
«che se ’l re fa che, chi lo sfida, cada»; XXII, 86, 1: «Chi di qua, chi di là cade per
terra»; XXIV, 2, 5; «chi su, chi giú, chi qua, chi là travia», riecheggiante poco dopo
(ibid., 14, 1) in «Di qua, di là, di su, di giú discorre», già ricordato ad altro scopo:
cfr. p. 266; XXXIII, 117, 7: «S’io il fo, me non, ma Dio ne loda solo»; XXXIV, 81,
7-8: «sol la pazzia non v’è poca né assai; | che sta qua giú, né se ne parte mai»; XLVI, 66, 5: «Non più di lei, chi a ceppo, a laccio, a ruota | sia condannato [...] ». Nelle ottave 35-36 del canto VII la ricerca ansiosa di Ruggiero da parte di Bradamante
genera una splendida descriptio del moto, ora lento e semanticamente fisso su cose
tutte uguali, per dire liberazione di un inutile ricercare («D’alloggiamento va in alloggiamento»: 35, 3), ora scattante per l’erompere dell’ansia e della speranza interiori, che si fanno immagini e idee in fuga, terrestre o perfino aerea («Né può né
creder vuol che morto sia; | [...] | Non sa né dir né imaginar che via | far possa o in
cielo o in terra […]»: 36, 1 e 5). Sull’altro fronte, la liquidità si traduce in morbido
flusso di poche parole increspate dall’onda degli accenti esatti. «Innavedutamente
manifesta» (VI, 1, 8); «umanissimamente gli rispose» (XXII, 38, 2); e il verso anche
graficamente fulmineo: «miracolose di cavalleria» (XIII, 7, 2).
Esistono versi frasticamente spezzati in due membri. (XI, 35, 7: «fremono
l’onde. Orlando in sé raccolto»; XXXIX, 71, 2: «tagliare | i ponti tutti. Ah sfortunata plebe»; XLI, 84, 6: «le tagli or si; né pur è Durindana»; XLV, 69, 7: «l’un come l’altro. Appresentossi l’uno»); altri replicati con intrusione di giochi retorici
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«Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto - Corrado Bologna
quali certe figure della repetitio (per esempio XIX, 26, 6-7: «roder si sentì il cor
d’ascosa lima; | roder si sentì il core»; XLI, 6, 2-3: «ch’esser non può più la vittoria mia: | esser non può più mia»); altri del tutto frantumati (per esempio XLVI,
23,. 2: «qual fuor, signor (diss’ella), il viso mostra»).
Può esser segnalato anche, in quest’ottica, un uso sintomatico della sinalefe
che sposta (giungendo perfino ad annullare di fatto) toniche pur importanti, e nei
casi estremi sfuma o azzera tutte le vocali d’una parola, facendo scivolare gli accenti, secondo il tipo di XXXVII, 60, 5: «Le par che quando essa a morir si metta»; cfr. XLV, 30, 5: «e quando a questo e quando a quel s’apprende». Interessanti i casi di iterazione con leggera variatio, quali XL, 26, 3-4: «e quei c’ha intorno
affrappa e fora e taglia, | come s’affrappa e taglia e fora il panno».
Sul piano del riferimento diacronico ad altrettanti modelli letterari, i due momenti della dialettica corrispondono in linea di principio da una parte allo schema
della «melodia chiusa», organizzata «a compartimenti», «strumento di descrizione
o di contemplazione [...] più che di narrazione», peculiare delle Stanze di Poliziano, che Giuseppe De Robertis in un celebre studio del 1939 individuò nell’«ottava
in forma di concertato» («piccoli strumenti, ciascuno col loro timbro nettissimo,
anzi un poco agro, un sottile sapore di terra e d’ingegno»)229; e dall’altra alla “linea
narrativa”, all’incirca identificabile – pur nella oro incommensurabilità linguistica e
culturale – con il Pucci, il Pulci e il Boiardo, e accanto ad essi alla prosa boccacciana, «che è uno dei due termini di riferimento del platonismo stilistico rinascimentale»230, di cui l’Ariosto coglie la forza e la complessità dell’articolazione logico-sintattica, facendone il «correlatìvo sintattico» del proprio policentrico, macchinoso
universo poetico, mentale e figurale. Un processo di «stilizzazione ritmica» dà ordine e coerenza alla fusione delle due istanze di base, la ritmico-melodica e la sintattico-narrativa, imbrigliandole nel solco della grande lezione del Petrarca, della
sua aequitas mediata dal Bembo, vero fulcro del «petrarchismo ariostesco»231.
Alla base di questa complessiva impostazione critica, concretizzatasi nella più
recente stagione filologica in una serie di sottili ed ampie analisi condotte su singole strutture o figure formali (moduli ritmici e metrici, bipartizione simmetrica
dell’ottava, schemi sintattici, enumerazione, dittologia, enjambement, iterazione
aggettivale, stile indiretto libero, tecnica della ripresa per contiguità e a distanza,
entrelacement, forme della citazione, «regia della narrazione»)232, sta ovviamente
229
G. DE ROBERTIS, Le «Stanze» o dell’ottava concertante (1939), in ID., Studi, Firenze 19532, pp. 62-68 (a p. 66).
L. BLASUCCI, Osservazioni sulla struttura metrica del «Furioso» cit., p. 77 (che cita la celebre sentenza di F. DE
SANCTIS, Storia della letteratura italiana, a cura di N. Gallo, in ID., Opere, a cura di C. Muscetta, Torino 1958, IX,
p. 519: «Ciò che nel Decamerone ti dà il periodo, qui te lo dà l’ottava [. . .]»).
231 Ibid., p. 78.
232
Cfr. E. TUROLLA, Dittologia e «enjambement» cit. ; M. FUBINI, Poscritto: gli «enjambements» nel «Furioso»
(1971), in ID., Studi sulla letteratura del Rinascimento, Firenze 19712, pp. 241-47; M. C. CABANI, Costanti ariostesche
230
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il famoso, magistrale saggio del giovane Contini. In quelle poche pagine, metodologicamente fondative, prendendo spunto dall’edizione debenedettiana dei frammenti autografi del Furioso, Contini avanzava per la prima volta nella foresta del
sistema correttorio ariostesco, con intento profondamente restitutivo (già il titolo,
Come lavorava l’Ariosto233, prometteva, con significativa didascalicità, la filigrana
e il palinsesto della scrittura del Furioso), rivendicando allo strumento filologico
la forza esegetica e la garanzia epistemologica di una critica non-intuizionistica,
non-deduttiva, ma autorizzata dal rigore e dall’evidenza matematica dell’«esercizio di lettura».
Al centro del saggio continiano stanno, appunto, le due categorie della liricità
e della narratività, che una lunga tradizione aveva partitamente praticato ed assorbito in rapporto alle due linee di cui s’è detto, culminanti in Poliziano e nel
Boiardo. Ed è lo studio del sistema correttorio dell’Ariosto, fondato sui materiali
resi disponibili dal libro di Debenedetti e sulle due edizioni 1516/1521 comparate con la 1532, a fornire a Contini le prove di un progresso del momento lirico entro gli schemi di quello narrativo, ovvero della conservazione diegetica entro un
rinnovato spazio di effusività (e in questa direzione esercitano sicuramente un influsso più diretto ed intenso sulla scrittura ariostesca le Stanze del Bembo, del
cit., pp. 25 sgg. (Per l’enjambement, ed anche per iterazione, anafora ed altre «figure di tipo retorico-musicale»); A. M.
CARINI, L’iterazione aggettivale cit. ; M. BASTIAENSEN, La ripetizione contrastata nel «Furioso», in «La rassegna
della letteratura italiana», serie VII, LXXIV (1970), pp. 112-33. Sulla funzione eminentemente ritmica, e legata al progetto (neoplatonizzante?) di «trasfigurazione della natura in “numero”», svolta dall’enumeratio, cfr. le notevoli pagine
di L. BLASUCCI, Nota sull’enumerazione nel «Furioso» (1962), in ID., Studi su Dante e Ariosto cit., pp. 113-20. Per
la «ripresa a distanza» cfr. in particolare: W. BINNI, Metodo e poesia in Ludovico Ariosto, Messina Firenze 1947, pp.
128 sgg.; G. DE ROBERTIS, Lettura sintomatica cit., p. 14; e ancora l’importante studio di M. C. CABANI, Costanti
ariostesche cit., in particolare pp. 115-259. La regia della narrazione, come ho già ricordato, è il titolo del cap. 1V del
libro della stessa Cabani su Le forme del cantare epico-cavalleresco cit. Belle annotazioni su quella forma estrema di
inarcatura frastica ultrastrofica che è la frequente connessione di ottave successive («fenomeno strettamente apparentato con l’enjambement») ha lasciato A. LIMENTANI, Struttura e storia dell’ottava rima, in «Lettere italiane», XIII
(1961), pp. 20-77, in particolare pp 75 sgg. (e cfr. ID., Il racconto epico: funzione della lassa e dell’ottava, in ID., L’«Entrée d’Espagne» e i signori d’Italia cit., pp. 257 sgg.); le riprende e sviluppa L. BLASUCCI, Sulla struttura metrica del
«Furioso» cit., pp. 107 sgg. Per l’entrelacement, oltre a D. DELCORNO BRANCA, L’Orlando furioso e il romanzo cavalleresco medievale cit., si vedano almeno C. P. BRAND, L’entrelacement nell’ «Orlando Furioso», in «Giomale storico della letteratura italiana», CLIV (1977), pp. 509-32, e G. DALLA PALMA, Le strutture narrative dell’«Orlando Furioso», Firenze 1984 (non sempre condivisibile la sua lettura in rigorosa chiave di funzionalismo proppiano-greimasiano della fabula ariostesca). Su un particolare aspetto della sintassi studiata, alla luce della variantistica diacronica,
quale elemento stilisticamente pertinente: M. MEDICI, Presenza e vicende della coordinazione di indicativo con congiuntivo in proposizioni dipendenti nel «Furioso», in «Bollettino Storico Reggiano», VII (1974), 27 (Numero speciale
dedicato al Convegno Ariostesco cit. ), pp. 151-57; e da ultimo ID., Usi alternativi di indicativo e congiuntivo nell’Orlando Furioso, Lecce 1987.
233 G. CONTINI, Come lavorava l’Ariosto cit. Il saggio apparve originariamente sul «Meridiano di Roma» del 18
luglio 1937. Per una messa a fuoco del dialettico rapporto, epistemologico e metodologico, di questo scritto continuano con l’estetica crociana (Croce reagirà proprio a questo scritto sul Furioso con il rifiuto della «critica degli scartafacci»), mi permetto di rinviare a C. BOLOGNA, Croce e la filologia cit.
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«Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto - Corrado Bologna
1507, con le propaggini di imitatori del genere, che non le sue Rime, apparse a
stampa, oltretutto, solo nel 1530)234: «[...] la maggior parte delle correzioni ariostesche rappresenta un assorbimento “a spirale”, centrale, lirico, dell’enunciato
prima continuo, “orizzontale”. [...] La naturalità dell’ottava nell’Ariosto consente
legittimamente di ripensare ai materiali ritmici di cui questo schema si nutriva. Da
una parte, l’ottava pulciana e anche boiardesca, non affrancata dalla tradizione
popolaresca dei cantari, narrativa, temporale, casuale soprattutto nella ripartizione del senso rispetto ai versi e ai distici; dall’altra, l’ottava polizianesca, che è quell’ottava narrativa e casuale corretta in senso descrittivo, immobilizzata nel senso
della durata, ridotta a compartimento stagno, allineante termini sensoriali. [...] In
fondo, si tratta per Ariosto di vincere questa scommessa: mantenere la conquista
lirica del Poliziano e non rinunciare al carattere narrativo»235.
Ho già ribadito come un’“arte del levare” di natura michelangiolesca connoti la storia compositiva, rielaborativa e correttoria del Furioso. Anche l’altissima
qualità ritmico-diegetica dell’ottava ariostesca fa riecheggiare quest’ars mediatrice
ed armonizzatrice.
Nella filigrana dell’Innamorato si legge un pluriforme ed eclettico percorso di
accumulazione delle fonti e dei modelli, che genera un ibridismo linguistico stilistico e di contenuto non sempre reso organico al nuovo disegno; ed anche a voler
estendere il confronto all’altro polo della dialettica suggerita da Contini, il Poliziano, si scopre che la lingua delle Stanze pone in evidenza «letterarietà, riconoscibilità, rarità, diversità»236, senza mai ottenere un amalgama inedito o una fusione davvero originale, basata su una scomposizione-ricomposizione di materiali selettivamente ottenuti. E questa constatazione fa pendant con l’altra, di Antonio
Baldini, circa la struttura poco articolata, frammentaria e perfino incondita, dell’ottava polizianesca, nella quale i distici sono come «fiorellini» accostati l’uno all’altro in successione, ma che non giungono mai a comporre un vero, organico, armonicamente odoroso «mazzo di fiori»237.
234 Sulla questione avanzò osservazioni e proposte innovative E. BIGI, Petrarchismo ariostesco cit., pp. 69-70; le riprende e sviluppa con ricerca originale F. CALITTI, Della ragion poetica dell’ottava cit., cap. in. I testi, pp. 75-139 del
dattiloscritto (e per le Stanze bembiane pp. 106 sgg.), facendo anche il punto sulla bibliografia.
235 G. CONTINI, Come lavorava l’Ariosto cit., p. 237.
236 S. JOSSA, Traforma e norma: Poliziano nella «riscrittura» ariostesca, in «Schifanoia», XI (1991), pp. 81-100 (a p.
82).
237 «Il Poliziano ha versi e distici divini, ma da sciogliere spesso fuori, uno per uno o due per due, dal mazzolino dell’ottava»: A. BALDINI, Stazioni dell’ottava rima (1940), in ID., Cattedra d’occasione, Firenze 1941, pp 396-404 (a p
400). E si veda, a p. 399, in un coacervo garbato e saporoso di definizioni allusive e metaforiche, di grande finezza ed
anche ricche d’intuizioni critiche, filologicamente inverabili, la bella serie relativa alle ottave ariostesche ed alla loro intrinseca spazialità, in cui forma ritmico-espressiva e contenuto descritto si riverberano: «Ottave che sono come una piccola piazza dove cape chiesa, fontana, monumento e podesteria. Un palazzo con tutte le sue loggie, archi, colonne, saloni, arazzi e il padron di casa in cima alle scale entra comodamente in un’ottava, per modo che quell’ottava poi ti torna sempre in mente come essa stessa tutta porticato e rimbombante: e così c’è l’ottava-golfo, l’ottava-giardino, l’ottava-
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«Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto - Corrado Bologna
Tramite l’esame dei frammenti autografi e del passaggio dalla prima alla terza
edizione del Furioso s’intuisce invece che l’Ariosto tende a scegliere e reimpastare, integrando ogni nuovo pianeta, pianetino o satellite fra le innumerevoli orbite
intrecciantesi del Cosmo che è il suo poema, e insomma omologando la differenza nella propria chiave normalizzatrice: «non più forma senza norma, non ancora
norma della forma, ma forma nella norma»238. Senza mai rinunciare alle sue qualità precipue, di cui ho già parlato ispirandomi alle Lezioni calviniane – la leggerezza, la molteplicità, la varietà, la rapidità –, egli «rifiuta l’identità autonoma ed
indipendente dell’“altro”, lo normalizza e lo regolarizza nella sua contestualizzazione e rifunzionalizzazione»239.
E ciò è apprezzabile anche nell’adeguamento stilistico, lungo il filo diacronico delle correzioni. Si pensi almeno ad una delle procedure adattative più interessanti nell’ottica qui proposta, qual è la progressiva eliminazione fra 1516 e ’32, e –
ove persista – l’uso più cauto dell’enjambement, quasi a porre in luce la volontà di
non impacciare con legami di genere prosastico-narrativo la soluzione metricoritmica del narrare, eliminando l’«ampia voluta in trasfigurazione musicale con
linguaggio appassionato e grandioso»240 implicito nello svolgimento sintattico oltre i limiti della frase fonico-ritmico-musicale rappresentata dal verso, e risolvendo invece con strumenti puramente prosodici la dialettica tra effusione ed espressione. Oppure si consideri quanto conti l’elevazione di figure e moduli dalla struttura peculiarmente retorico-musicale, prima ancora che sintattica, diegetica e semantica, quali l’anafora, l’anadiplosi, l’iterazione di lemmi, di sintagmi e perfino
di emistichi, o anche il cosiddetto “lascia-e-prendi”, nell’elaborazione ariostesca
delle «tecniche formali di legame e sutura» fra le ottave, sulle quali Cirese attirò
l’attenzione (cfr. p. 268): tecniche in parte risalenti alla tradizione canterina, ma in
parte riconducibili al sistema, di matrice tipicamente lirica, delle coblas capfinidas,
ideato dai trovatori occitanici e autorizzato nella cultura italiana da una tenace
prassi compositiva siciliana e poi stilnovistica, dantesca e petrarchesca.
Questa riduzione dell’estraneo e dell’incongruo entro la misura dell’ottava aumenta l’ampiezza spaziale-prospettica e la forza mnemonico-evocativa del nesso
metro-strofe-frase. In tal senso bisogna cogliere e ripensare anche le parallele riflessioni continiane,in risposta all’ipotesi di un primo getto prosastico, inammissibile
per l’Ariosto come per Virgilio, Alfieri o Leopardi241, sulla «contemporaneità, e non
cavallo, l’ottava-duello, l’ottava scena di caccia o di pesca. Ottave da esser messe in cornice e appese al muro. Ottave
dove lo sviluppo d’una figura prende spazio con quella agiatezza con la quale Venere sdraiata dal Tiziano agli Uffizi
prende esattamente posto dentro la cornice della punta del gomito ripegato alla punta del piede allungato».
238 S. JOSSA, Tra forma e norma cit., p. 99.
239 Ibid., p. 82.
240
E. TUROLLA, Dittologia e «enjambement» cit., p. 10.
241 Su questo punto mi permetto di rinviare a considerazioni svolte altrove: cfr. C. BOLOGNA, Tradizione testuale
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anteriorità, dell’ispirazione rispetto al metro» e sull’«evoluzione dalle forme utilitarie dell’espressione verso le forme armoniose, autosufficienti». L’ottava aurea armonizza e fa coincidere senso e suono, ritmo e narrazione. Non dissimile è l’individuazione sul piano linguistico-stilistico della «forma» armonizzatrice di liricità e narratività nella categoria di «processo antialessandrino», quale si può riconoscere lungo
l’evoluzione testuale 1516 >1532: con la specificazione che esso consiste nel «passaggio dal determinato all’indeterminato» e nello «smorzamento d’un fantasma autonomo, antropomorfico, che è sottomesso all’unità fondamentale dell’ottava»242.
Si plasma così, riassorbendo ogni emergenza formale-espressiva troppo vistosa e costituendo un reticolo di formule e cadenze armonico-ritmiche memorabili,
il piano e discorsivo, fluido e sinuoso ma elevato, liricamente sostenuto, tono medio del Furioso243 Per esso non parlerei di armonia come “fatto” originariamente
acquisito: ma invece di armonizzazione, come lento “farsi”, come conquista di Ordine dedotto dal Disordine, di ritmo melodico e prosodico, “lirico” in quanto
“gratuito”, strappato alla prosaicità “utilitaria”, colloquiale-comunicativa, e pur
non prevaricante su di essa.
L’equilibrio d’armonizzazione generale si ottiene – lo intuì già benissimo
Croce – con la «perdita della [...] autonomia» degli elementi singoli e la loro «discesa da tutto a parte»244, insomma con la fusione dialettica delle sottounità liricamente “chiuse” in unità più ampie, “aperte” in dimensione narrativa grazie all’intreccio di moduli, di indicatori testuali, di stilemi segnaletico-evocativi dislocati dall’autore con straordinaria finezza e inventiva lungo l’intero poema. Le ricerche inaugurali di De Robertis, di Cappellani, di Bigi, di Blasucci, ed oggi soprattutto quelle intelligenti e documentate della Cabani, hanno posto in luce le
tecniche ed i mezzi stilistico-espressivi grazie ai quali Ariosto conquista questa
simmetria perfetta di ogni ottava, la circolarità del ritmo e del senso entro ciascuna stanza e nell’interconnessione fra ottave contigue e perfino distanziate in
e fortuna dei classici italiani cit., pp. 795 sgg. e 802 sgg. (e nel volume autonomo cit., pp. 570 sgg. e 581 sgg.). La citazione seguente è da G. CONTINI, Come lavorava l’Ariosto cit., p. 235.
242 Ibid., p. 240.
243 La defìnizione è di M. MARTI, Il tono medio dell’«Orlando Furioso» (1956), in ID., Dal certo al vero, Roma
1962, pp. 189-212. Su un peculiare (ma non meglio connotato) «tono» ariostesco aveva già insistito B. CROCE, Ariosto cit., p. 87. Nel ragionamento che segue il ricorso all’aggettivo “utilitario” intende rinviare all’intuizione di G.
CONTINI, Come lavorava l’Ariosto cit., p. 235: «Da un lato, dunque, contemporaneità, e non anteriorità, dell’ispirazione rispetto al metro; dall’altro, nell’àmbito di questo a priori del lavoro, evoluzione delle forme utilitarie dell’espressione verso le forme armoniose, autosufficienti».
244 B. CROCE, Ariosto cit., p. 69 (a p. 90 Croce parla di una «generale e perpetua catarsi armonica» del Furioso).
Si noti che questa formula è citata nella conclusione del suo saggio da G. CONTINI, Come lavorava l’Ariosto cit., pp.
240-41, non tanto quale atto d’omaggio al grande filosofo, ma quasi a voler saldare dialetticamente il proprio progetto d’inquisizione variantistica all’assorbimento (in fondo teleologicamente strumentale!), operato dal Croce, di Ariosto nel quadro della propria estetica.
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uno stesso canto, o in canti diversi: mai l’ampiezza struttiva della «sintassi narrativa» ariostesca245 altera l’autonomia conchiusa delle singole unità compositìve.
Le ottave, cellule-base della scrittura ariostesca, sono strutturate internamente, e
sono legate esternamente secondo procedimenti di ricorsività, di raccordo, di ripresa, di eco, di liaison, che coinvolgono, spesso associandoli in un sistema coerente di reciprocità, di abbinamento e di autoimplicazione (cioè, sul piano della
«memoria interna», di prevedibilità e di attesa: dunque di proiezione diegetica),
gli schemi ritmici, le cadenze-iterazioni rimiche, i materiali lessicali, i nuclei semantici, gli impersonamenti attanziali dei nomi-figure, le loro funzioni operative
sul piano narratologico.
Assai piú che nella tradizione canterina e nell’Innamorato, ove pur il fenomeno è rilevabile, nel Furioso «è proprio la forma d’ottava a condizionare e in sostanza a predeterminare alcune delle modalità di rappresentazione»246. Sintetizzando mediante la proposta della Cabani, in cui viene riassunta in ternimi adeguati un’ampia fenomenologia documentaria, si potrà affermare che nel Furioso
«la novità non è quasi mai nella scelta dal materiale lessicale in se stesso (di regola palesemente tradizionale), ma nel gioco dei ritorni e degli accostamenti, cioè
[...] in un’operazione contestuale che rifunzionalizza e marca in modo originale
gli stessi significanti»247.
2.5.3. La struttura fonico-semantica del linguaggio ariostesco. Dopo l’esperimento della terzina Ariosto concepì «un ideale sintetico dell’ottava» che, nella
concezione originaria, fu attuato «dapprima sotto tensione, poi con distesa armonia»: nel 1516 «attraverso il contrasto fra lo schema sintattico e quello metrico,
con una spirale di enjambements di tendenza prosastica»248, e via via durante il lavoro di correzione, fino alla stampa 1532, con una progressiva insistenza sulle forme esaltanti il parallelismo ritmico-sintattico (ad esempio, come s’è detto, la tecnica delle coblas capfinidas, la ripresa lessicale, l’anafora, l’iterazione, ecc. ) e con
l’abbandono delle forme intese, invece, ad infrangere gli scarti metrici per l’esigenza di fluidità discorsiva (enjambements, appunto, ed anche iperbati, schemi
prolettici, ecc. ) Si alleviano o si annullano, cosi, le arcaiche disarmonicità fra i
momenti musicali (fondamentalmente quelli fonetico-prosodici) e l’organizzazione logico-diegetica nelle sue tangibili manifestazioni linguistiche. il dato piú rilevante dedotto dall’indagine sulle tecniche ariostesche di costruzione stilistica e
245
Cfr. N. CAPPELLANI, La sintassi narrativa dell’Ariosto. Con una lettera di Antonio Baldini, Firenze 1952.
M. PRALORAN, Per una fenomenologia delle strutture formali dell’«Innamorato» cit., p. 129.
247
M. C. CABANI, Costanti ariostesche cit., p. 163.
248 C. SEGRE, Esperienze ariostesche cit., p. 38.
246
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narrativa è quindi, in sintesi, «un passaggio dal contrasto all’alleanza di sintassi e
di metrica»249.
Le componenti fonetiche, ritmiche, rimiche nel Furioso 1532 esercitano nei
confronti dei piani lessicale, semantico, sintattico e diegetico una funzione che direi elativa: di dinamizzazione fra interno ed esterno delle strutture minimali (emistichio, verso, distico e nesso pluriversale, ottava, sistema d’ottave, canto) e di rilievo – e in qualche occorrenza perfino d’esaltazione – dei valori timbrici della lingua, insomma proprio della sua pasta vocalico-consonantica-sillabica.
Nel Furioso la «concettualizzazione logica» è decisamente sopravanzata dal
«metodo dell’analogia»250: il poema è ispirato da una mentalità organizzativa e da
uno stile d’espressione dì tipo associativo, incentrato sull’affinità, sulla somiglianza e sulla combinatoria anziché sull’implicazione/deduzione; sulla riemergenzaconcatenamento anche a distanza (lo stesso autore, si ricordi, parla di una «gran
tela» intrecciata con «varie fila») piuttosto che sullo svolgimento temporale e rettilineo di una «trama» coerente, articolata su una dimensione di sviluppo longitudinale251.
La «metafora dei possibili», con cui Ariosto allude ad un’incontrollabile, impulsiva ed anche caotica combinatoria dei «temi» («Nascono casi, e non saprei
dir quanti»: XIII, 39, 1), viene replicata dall’autore in un ipnotico effetto di specchi e di echi, scandendo per allegoria l’eterno ritorno dell’identico. E questo «ritmo dei possibili», rispecchiandosi nel gioco infinito del significante, anch’esso
polimorfo, policentrico e polisemico, intende mostrare, con l’inesausto intreccio
di “forme” e “contenuti”, che al Caos ed al Caso occorre (per dirla con parole di
Giulio Camillo, che Ariosto forse poté conoscere, in questa o in diversa forma, insieme ai molti testi neoplatonizzanti in circolazione fra 1500 e 1530 anche a Ferrara) «trovar ordine» entro ponderate misure di pensabilità/dicibilità (la serie di
ottave lirico-narrative), e che bisogna infine «dar [...] ordine all’ordine», condensando e figurando in un Libro-Cosmo «la coscienza della volubilità della vita e dei
suoi possibili esiti»252.
Anche in questo senso torna a proporsi il parallelismo con il Theatro della Sa249
Ibid., p. 39.
A. GAREFFI, Figure dell’immaginario nell’«Orlando Furioso», Roma 1984, p. 27.
251 Su questo punto fondamentale si leggano le osservazioni di G. BARLUSCONI, L’«Orlando furioso» poema dello spazio cit., specialmente pp. 41 sgg.
252
G. DE BLASI, L’«Orlando» e le passioni (studio sul motivo fondamentale dell’«Orlando furioso»), in «Giornale
storico della letteratura italiana», CXXIX (1952), pp. 318-62 (a p. 340), e CXXX (1953), pp. 178-203. Le frasi di Giulio Camillo che precedono immediatamente si leggono nell’Idea del theatro cit., p. 14 (ed. Bolzoni cit., p. 58). Caute
ma consistenti e seduttive ipotesi circa «un Ariosto maggiore “neoplatonizzante”», che si potrebbe prospettare muovendo da «poche e quasi inosservabili spie di certe curiosità ermetiche (innegabili) del giovane Ariosto» ha avanzato
G. SAVARESE, Il «Furioso» e la cultura del Rinascimento, Roma 1984, p. 13, in un libro di smilzo formato ma di notevole originalità propositiva.
250
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pientia di Giulio Camillo, «galleria ideale di tutte le invenzioni possibili, egualmente disponibili e utilizzabili per il poeta, l’oratore, e l’“inventore” di quadri,
statue, imprese, emblemi, apparati, scenografie teatrali»253: in altre parole, macchina testuale-memoriale fondata sulla possibilità di coordinare in sequenze combinatorie d’ordine selettivo e associativo per affinità-contiguità dati, vocaboli,
idee, immagini, producendo all’occorrenza, mediante una metamorfosi mnemonico-magico-alchimistica, altre parole, altre frasi, altre idee, altre immagini. Né è un
caso che in tale prospettiva il Furioso sia stato recepito, letto e anatomizzato da
una parte cospicua della cultura letteraria e iconologica del secondo Cinquecento
(penso in particolare alle Bellezze del Furioso di Orazio Toscanella, il quale al
Theatro del Camillo si richiama esplicitamente per commentare l’Ariosto)254, in
parallelo alle riflessioni dell’estetica/poetica manieristica che accompagnano la
gestazione della Gerusalemme liberata (cfr. poi pp. 339 sgg.).
Il poema dello spazio e del movimento nello/dello spazio ha natura «policentrica e sincronica», e si struttura con l’«irraggiamento delle azioni da nuclei energetici polisemi», secondo una sottile, proteiforme arte delle transizioni255. Anche
253 L. BOLZONI, Dall’Ariosto al Camillo al Doni. Tracce di una versione sconosciuta del «teatro», in ID., Il teatro
della memoria cit., pp. 59-76 (a p. 65).
254 Cfr. ibid., in particolare pp. 60 sgg. Io stesso (cfr. C. BOLOGNA, Il «Theatro» segreto di Giulio Camillo cit., pp.
227 sgg.) ho illustrato il manoscritto del Theatro della Sapientia di Giulio Camillo, da me scoperto, accennando al suo
probabile rapporto con quello, dallo stesso titolo, che il Toscanella cita nel suo «commento» ariostesco. Non sfugga,
qui e in seguito, che, proprio al modo in cui Camillo concepiva il suo Theatro, in quanto Libro, Teatro ligneo e soprattutto Mens fenestrata ed Animus fabrefactus (si vedano, nel mio saggio cit., le pp. 223 sgg.), anche del Furioso si
parlò, fin dalla generazione successiva alla sua pubblicazione, come di un Libro e di un Palazzo. A partire dal Possevino vennero accomunati «neoplatonismo ermetizzante, letteratura cavalleresca ed eresia religiosa nella responsabilità
del costituirsi di un immaginario e di una sensibilità “profani”» (G. SAVARESE, Il «Furioso» e la cultura del Rinascimento cit., 13). Ma credo che si possa osare (per ora essenzialmente in maniera ipotetica) un’anticipazione di questi
nessi culturali alla stessa fase di gestazione del poema. Altri ha insistito sul Furioso come Libro della Memoria universale, articolata nei loci della mnemotenica di stampo camilliano (per esempio G. BARLUSCONI, L’ «Orlando furioso»
poema dello spazio cit., p. 102: «Lo spazio dell’Ariosto [...] è veramente una memoria che si è calata nelle cose, che si
è connaturata con i luoghi, facendosi dimensione percorribile»). Ma anche sul piano documentario varie spie autorizzano, mi sembra, a parlare di un Furioso come Libro cosmico - Teatro mnemonico - Mente artificiata, oltre che la rilevante attività di Giulio Camillo e di altri studiosi ermetici nella cultura ferrarese dei tempi dell’Ariosto, e la sua stessa
presenza nel Furioso, in ben tre versi del canto XLVI (12, 5-7), anche le tracce di interessi «spirituali» rinvenuti nella
cultura di Galasso e Ludovico Ariosto, e nello stesso Furioso, da Gigliola Fragnito (cfr. p. 273, nota 56), e gli elementi ermetico-neoplatonizzanti registrati dallo stesso Savarese (cfr. poi qui, p. 299). Ma allegherei altresì la conoscenza,
pur superficiale, del pensiero astrologico e di quello alchemico: si pensi solo alla sublime ironia sull’«ampolla» («vaso» a XXXIX, 57, 1) contenente il «Senno d’Orlando» come «un liquor suttile e molle, | atto a esalar, se non si tien
ben chiuso» (XXXIV, 83, 1-2): che Ariosto qui usi «spiritosamente un’immagine alchemica» è opinione già di C. SEGRE, Fuori del mondo cit., p. 110. Non si dovrà infine dimenticare che l’Erbolato (edito a Ferrara solo nel 1581, ma
attribuibile fino a prova contraria all’Ariosto) è un colto ed elegante gioco su temi medico-naturalistici, consoni a molti luoghi del Furioso e delle Satire; l’incipit del libretto ha una sua cosmologica, arcana allure non lontana dall’attacco
del Theatro della Sapientia camilliano, che mi pare a sua volta consuoni con quanto ho proposto intorno al Furioso come poema dei quattro elementi fondamentali dell’Universo («Egli è credibile che a principio che il sommo Iddio fece
gli animali che in queste ultime sfere, in aria, in acqua ed in terra versano, il nuovo uomo rivolgendosi intorno [...] si
attristasse [. . .]»: cfr. L. ARIOSTO, Erbolato, a cura di G. Ronchi, in ID., Tutte le opere, III cit., p. 93).
255 G. BARLUSCONI, L’«Orlando furioso» poema dello spazio cit., p 55.
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questa «transizione», nel quadro globale del libro, assume i connotati di una paziente, amplissima armonizzazione ed orchestrazione dei piani narrativi e di quelli espressivi. Non si potranno separare sonorità dell’espressione e contenuti della
narrazione, dal momento che ogni “tema” narrativo è l’insieme dei suoni che lo
connotano e lo “portano” organizzandolo, distinguendolo dal resto e con tutto il
resto dialetticamente fondendolo. Come in un’orchestra, nel Furioso ogni “tema”
si disloca lungo “luoghi” sonori – cioè fonetici, tonali, timbrici, coloristici – sempre diversi, provando tutte le voci strumentali di quell’unica Voce polifonica.
Nell’“orchestra” del Furioso, ogni “tema” è una “storia” che va e viene attraversando le molte “voci” da cui viene cantata, monodicamente e polifonicamente; e
così insegue un suo ideale di mobile consistenza, di esatta leggerezza.
L’analisi tematica non può essere, quindi, schematizzazione di astratti “contenuti” interconnessi sul piano della “storia”. È lo studio del significante, relativamente “autonomo”, a confermare che Ariosto scrive il Furioso rifiutando la logica
delle articolazioni dialettiche, procedurali, consequenziali, successive, ossia la logica dello sviluppo orizzontale-longitudinale (la tecnica della “ripresa” risulta ovviamente, in quest’orizzonte, fra gli strumenti di connessione più efficaci), e abbandonandosi invece al lascia-e-prendi, al va-e-vieni fra i molti tempi mentali, linguistici e diegetici (del mito, del passato, dell’attualità, del futuro, del semplicemente
possibile), dunque al «fascino della narrazione a labirinto»256, ove i sentieri percorsi dal Testo-Cavallo s’intersecano, s’interrompono e si riprendono di continuo.
È in questa prospettiva che mi richiamo nuovamente al codice onirico. E non
solo perché Ariosto avrebbe «sognato» il suo poema, come ammiccando pretende
qualcuno257. Ma anche perché la legge universale che la poetica del Furioso sottende è la stessa su cui si organizza il linguaggio del sogno: per traslazioni, dislocazioni, spostamenti, metafore, associazioni fonico-simboliche, giochi di parole e di
suoni, prospettive plurime e tutte coincidenti, riprese “a distanza” (ma il sogno, al
pari dell’inconscio, non ha tempo, né spazio) motivate da una combinatoria per as-
256
D. DELCORNO BRANCA, L’Orlando Furioso e il romanzo cavalleresco medievale cit., p. 16.
G. CARDUCCI, La gioventú di Ludovico Ariosto e la poesia latina in Ferrara (1874-75), in ID., Opere, edizione
nazionale, XIII. La coltura estense e la gioventú dell’Ariosto, Bologna 1954, p. 268, fissa un’immagine presto canonizzata di Ariosto che, «anche giovane, [...] è il sublime smemorato, con l’alta fronte e con l’occhio tardo pieno dello stupore de’suoi grandisogni», da cui probabilmente derivano due versi (3 -4) di Dietro un ritratto dell’Ariosto, in Rime
Nuove (14 aprile 1874): «Ne l’ampia fronte e nel fiso occhio e tardo | lo stupor de’ gran sogni anche ritiene» (non sfugga l’inespressa equazione Memoria : Senno=Oblio : Sogno/Follia, sottesa ai due passi). Traggo i richiami da G. SAVARESE, Il «Furioso» e la cultura del Rinascimento cit., p 17, che opportunamente collega i luoghi carducciani all’Equitatio di Celio Calcagnini, nota al Carducci, il quale la cita altrove (Su l’Orlando Furioso. Saggio, in Opere, edizione nazionale, XIV. L’Ariosto e il Tasso, Bologna 1936, p. 84). Il tema si topicizza, con resistenza secolare: «Il cardinale d’Este chiese a messer Ludovico dove fosse andato a trovare “tutte quelle fanfaluche”. Messer Ludovico l’aveva pescate
nei suoi sogni: nei sogni che almanaccava su certi libri che dovevano piacergli molto, i cantàri di gesta» (E. SICILIANO, Un tuffo nel sogno, in Orlando furioso di Ludovico Ariosto cit., p. 147).
257
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sociazione di affinità-contiguità. «Tra le relazioni logiche, una sola si avvantaggia
straordinariamente del meccanismo di formazione del sogno. È la relazione della
somiglianza, della concordanza, della connessione, il come se [...] . La tendenza del
lavoro onirico alla condensazione agevola la rappresentazione di tale relazione di
somiglianza»258. Anzi, proprio tempo e spazio si traducono mutuamente per l’affinità che hanno nell’universo onirico del Furioso: si “perde la via”, quindi si “perde
la strada del racconto”, e si “perde tempo” narrandone un’altra; poi si recupera il
tempo perduto riprendendo daccapo il sentiero interrotto, cioè di fatto “tornando” con il discorso nel “luogo” abbandonato. E questa ricerca/presa del tempo
perduto si traduce talora proprio in una violenta discrasia dei tempi narrativi: dislocati l’uno nell’attualità dell’io extra-diegetico, l’altro nell’attualità della diegesi
(cfr. il tipo «Prima che pigli il conte altri senteri, | all’arbor tolse, e a sé ripose il
brando»: XXIII, 99, 5-6). «In genere il lavoro onirico traspone, dove è possibile, i
rapporti temporali in rapporti spaziali e li presenta come tali»259.
Lo stesso sistema dei significanti del Furioso, complesso, mirabilmente intrecciato, recuperando l’arcaico sperimentalismo dell’Obizzeide, lo raffina nel passaggio dal 1516 (A) al 1521 (B) all’esito finale del 1532 (C), trasformandolo in una sofisticatissima, armonica forma del contenuto, emblema vocale d’una variabilità,
molteplicità, rapidità, complessità che sono tutt’insieme esistenziali e testuali.
Non esiste, a mia conoscenza, una ricerca d’insieme specificamente deputata
all’esame di quest’aspetto della scrittura ariostesca. Ho quindi proceduto io stesso ad una schedatura per fenomeni che ad una lettura radente sono apparsi quantitativamente e qualitativamente basilari: e di essi offro una sintesi, trascegliendo
dalla più ampia silloge gli esempi che credo persuasivi.
Apro con elementi minuscoli, e in apparenza trascurabili, di quella che Roman Jakobson definì la carpente pbonique du langage: il vocalismo, l’ iterazione
vocalica/sillabica, l’apofonia e la variazione nella gamma vocalica.
In un saggio per certe intuizioni precursore, su questa linea, nel 1952 Nino
Cappellani rilevava come l’attività correttoria, già fra la prima e la seconda edizione,
imponga di ricondurre la scelta di una soluzione altrimenti inspiegabile solo ad «esigenze di carattere musicale»260: così, ad esempio, la sostituzione dell’arcaizzante ni-
258
S. FREUD, Die Traumdeutung cit., trad. it. p. 294.
ID., Neue Folge der Vorlesungen zur Einführung in die Psychoanalyse, 1932 (trad. it. Introduzione alla psicoanalisi (nuova serie di lezioni), Lezione 29. Revisione della teoria del sogno, in ID., Opere, XI. 1930-1938. L’uomo Mosé e la
religione monoteistica e altri scritti, Torino 1979, pp. 123-44, a p. 140).
260
N. CAPPELLANI, La sintassi narrativa dell’Ariosto cit., p. 22 (cfr. anche pp. 20-21, sul verbo che «è il centro
della lingua ariostesca» (spaziato nell’originale) e sulla «lingua confìdenziale» del Furioso).
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mico a nemico, a I, 39, a V, 6 ed altrove, mirerebbe ad evitare un addensamento delle i lungo uno stesso verso, ampliando il ventaglio vocalico. In realtà l’apparato critico dell’edizione Debenedetti-Segre, ai luoghi indicati da Cappellani, non presenta
tracce della metamorfosi indicata, che sarà riconducibile forse allo stadio degli autografi perduti261. Tuttavia oscillazioni affini, certamente ispirate da ragioni linguistiche ma con tutta probabilità incentivate dallo spiccato senso della sonorità pura
di Ariosto, sono riscontrabili in qualche luogo (cfr. il tipo domanda per dimanda: I,
45, 1, già in AB, e addirittura nelle lezioni peculiari degli esemplari di Tipo 2o di C):
ad esempio disiri per desiri a II, 1, 2, e liga, ridotta a lega in XVII, 84, 6. A quest’ordine problematico fonetico-musicale, oltre – è ovvio – che all’adeguamento alla normativa imposta dalle Prose del Bembo nel ’25, potrebbe essere in parte ricondotto il
dittongamento262 (ad esempio rivera in ABC, ad I, 24, 1, trasformata in riviera nel
Tipo 2o di C; prigionera in AB, XIV, 52, 7, divenuta prigioniera in C).
D’altra parte l’intera gamma vocalica (non necessariamente sillabica) con appoggio della liquida vibrante, o costrittiva alveolare sonora (er/ar/or/ur/ir, con le
inversioni ri/re/ro/ri/ra) si espande appieno, prevalentemente in sedi toniche,
grazie a molteplici iterazioni e intersezioni e ad una perfetta distribuzione sintagmatica del principio paradigmatico dell’apofonia, fin dalla prima, celeberrima ottava del Furioso 1532. Infatti nei rimanti in rima inclusiva ricca, amori : Mori, nel
terzo vocabolo che con quelli rima (riprendendo furo del v. 3), furori, e nell’accoppiata Troiano : romano (giocata sul valore allusivo del nome proprio, con rinvio al mito dell’“origine troiana” dell’impero e delle «arme») si condensano con
meravigliosa allusività e sonorità i termini-chiave del poema, titolo compreso:
Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori,
le cortesie, l’audaci imprese io canto,
che furo al tempo che passaro i Mori
d’Africa il mare, e in Francia nocquer tanto,
seguendo l’ire e i giovenil furori
d’Agramante lor re, che si diè vanto
di vendicar la morte di Troiano
sopra re Carlo imperator romano.
Che la sequenza vocalica/sillabica e gli stessi frequenti, insistiti rovesciamenti
siano intenzionali in senso poetico-estetico, e non si tratta, quindi, di stocastiche
261 Cfr. L. ARIOSTO, Orlando furioso, ed. Debenedetti-Segre cit., apparato delle pp. 14 e 108; e cfr. S. DEBENEDETTI, Introduzione a I frammenti autografi cit., pp. V11-V111.
262
Cfr. A. STELLA, Note sull’evoluzione linguistica dell’Ariosto cit., pp. 50-55 (che applico, per esemplificare, ai
dati raccolti da S. DEBENEDETTI, Nota alla sua edizione dell’ Orlando furioso cit., III, pp. 407 sgg.).
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quanto inevitabili emergenze delle cellule-base della fonetica italiana, lo dimostrano alcune constatazioni non equivocabili.
Anzitutto la tecnica della ripresa interstrofica rigorosamente applicata nell’ottava 2, che potremmo definire (al di là del legame lessicale più tecnicamente cifrato e riconosciuto: «per amor», v. 3, che richiama «gli amori» di 1, 1) “capfinida per
connessione sillabica” («Dirò d’Orlando in un medesmo tratto | cosa non detta in
prosa mai né in rima: | che per amor venne in furore e matto, | d’uom che sì saggio
era stimato prima»). Quindi il frequentissimo riemergere a distanza della stessa
connessione della serie vocalica completa con la liquida vibrante r, iterato spesso
in anticipazione, e si vorrebbe dire al fine di annunciare l’evento lessicale-semantico-diegetico del nome Orlando, o di altri, quali la coppia inseparabile (e azzarderei
perfino: foneticamente avvinta) degli amici Cloridano e Medoro nel canto XIX.
Qui Medoro, ivi citato nell’ottava 2, annuncia Cloridano attraverso la sequenza di
rimanti doppiamente inclusivi , dell’ottava 6, intorno : torno : orno. È quasi un gioco di scatole cinesi nelle quali ciascuna, inglobando la successiva, in certo senso ne
riduce, o addirittura ne azzera, la novità semantica, facendo risultare soprattutto
l’identità grafico-fonetica. Perché, non è inutile sottolinearlo, nel Furioso a dominare non è solo l’aspetto “sonoro”, ma nel contempo anche quello “visivo”, di visualizzazione delle forme linguistiche, che prendono spazio distribuendosi lungo le
scansioni versali, specialmente – però non unicamente – nelle clausole rimiche.
Se è lecito un parallelismo, mi spingerei a dire che Ariosto utilizza i versi dell’ottava come fossero altrettante righe del pentagramma (qui un octogramma): su
ciascuna di esse imprime una nota, rendendo possibile uno sviluppo sintagmaticodiacronico lungo la successione lineare dei versi, ma altresì una realizzazione dell’accordo - tema narrativo mediante una lettura-esecuzione idealmente sincronica
del ventaglio espresso con le note-vocali. E si potrà forse intendere meglio il senso
in cui uso qui metaforicamente il termine armonia grafico-fonetica pensando a certe
intenzionali visualizzazioni di musìca iconica quali si scovano nella madrigalistica
cinquecentesca, ad esempio di Luca Marenzio (ma forse se ne scrissero, recitarono
e cantarono anche nella prima metà del secolo): come quello in cui le «cinque perle» dall’«oriental colore» descritte nel testo verbale (O bella man che mi distringi il
core) sono rappresentate (ovvero interpretate, eseguite) grazie a cinque note “bianche” dislocate su altrettante righe nel testo musicale, affidato al basso; o l’altro in
cui il termine color, nel verso «color cangiare spesso», in un testo di Giaches (Jacques) de Wert, attivo dopo il 1550 a Mantova, è sottolineato da note nere, mentre
repentinamente, per indicare il mutamento, il tempo muta da binario in ternario263.
263
Cfr. A. EINSTEIN, The Italian Madrigal, 3 voll., Princeton N. J. 1949, e (specie per il ruolo della musica e dei
musicisti nelle corti di Ferrara e di Mantova) I. FENLON e J. HAAR, The Italian Madrigal in the Early Sixteenth Cen-
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Così non mi pare abusiva una lettura in chiave musicale d’un libro che, oltretutto, contiene al suo interno veri e propri musicalissimi pezzi “cantabili”: per tutti
cito solo lo splendido «lamento di Bradamante» (XLV, 28-40), tutto intriso di memorie liriche (Virgilio, Petrarca, Pontano, Castiglione) e poggiato sul meccanismo
tematico-armonico dell’iterazione («Ruggier» iterato due volte nell’ottava 31, 2 e 5,
due nella 35, 4 e 7, tre nella 36, 5 -7; «Oh come [...] , torna» ripetuto 3 volte nell’ottava 28; «Deh torna a me [...] , torna», nei distici delle ottave 35, 36, 37 e nell’incipit
della 39, ove s’intreccia a «mio sol», già gridato a 38, 6: «o mio bel sol»); testo che
mi sembra potenzialmente leggibile sulla linea che condurrà ai più celebri lamenti
lirici del melodramma, come quello monteverdiano d’Arianna. E allora l’attante
«donzella che canta fra le lacrime» accende la cadenza sillabica, tonica o atona,
ma/me, direi proprio grazie alle sillabe toniche dei nomi dei due attori Bradamante/Filomena, che attraverso il paragone sono fatte coincidere («Qual Progne si lamenta o Filomena», 39, 5, verso virgiliano-petrarchesco!): cfr. per esempio, nell’ottava 37, me («come», «fiammella», v. 1, che riemerge con un nesso anche semantico
in «lume», v. 7, in rima con «consume», v. 8, e «me», v. 7), ma («riman», v. 2, «ma»,
v. 5), mi («mio» e «mi», v. 3, ancora «mi», v. 4), mo («timor» tre volte, ai vv. 4, 6 e 8).
D’altro canto m’autorizza ad insistere sull’aspetto “musicale”, di riduzione
del germe ispirativo-tematico proprio al nucleo della Donazione primaria, infantile e balbettante, della nenia, del sussurro erotico, della formula magica e del linguaggio onirico, una straordinaria testimonianza, già evocata quale terminus cronologico (cfr. pp. 229-30), e su cui molto opportunamente Gennaro Savarese ha
richiamato l’attenzione, rilevandovi la traccia per nulla incredibile di «un Ariosto
intinto di neoplatonismo», convinto che «delle cose più profonde è meglio parlare con ironia»264. È la pagina del dialogo intitolato alla Chiacchiera-Passeggiata a
cavallo (Equitatio), in cui si accenna ad un lavoro in corso che parrebbe essere un
primo abbozzo del Furioso: in essa Celio Calcagnini (autore fra l’altro di una mistica Descriptio silentii) mette in bocca all’amico Ariosto – probabilmente sulla
base di discussioni a cui egli stesso partecipò davvero nell’ambiente ferrarese – alcune frasi che dicono tutta la passione di lui per la musicalità e la vis magico-evocativa, vocale perché anche presemantica, del linguaggio:
tury. Sources and Interpretation, 1988 (trad. it. L’invenzione del madrigale italiano, con una nota di L. Bianconi, Torino
1992, in particolare pp. 12 sgg., con bibliografia). Devo gli esempi nel testo ad Ilaria Zamuner, che li ha raccolti in vista di un seminario tenuto nell’ambito del mio corso di Filologia romanza (Petrarca, poeta del Cinquecento europeo) all’Università «G. d’Annunzio» di Chieti, Facoltà di Lettere e Filosofia, durante l’anno accademico 1992-93.
264 Cfr. G. SAVARESE, II «Furioso» e la cultura del Rinascimento cit., p. 25. La seconda frase virgolettata rinvia a
E. WIND, Pagan Mysteries in Renaissance, 1958 (trad. it. Misteri pagani nel Rinascimento, Milano 1971, pp. 289 sgg.),
ove si commenta la massima socratica fatta propria da Cusano, Ficino, Pico, Bocchi e Calcagnini: Serio ludere.
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Adde bis verba ex media barbarie eruta et nulli omnino explicabilia: qualia illa sunt ad
luxum excantandum, quom diffisam arundinem duo homines ad coxendices addunt,
eamque dum pariter coeat excantant, Motas danata daries dardaries astararies. His ferro
iniecto quom coiverint dextra prehendit, et sinistra praecidit, et ad luxum vel fracturam
alligat, quotidieque cantat: haut haut haut ista pista sista damiabo damaustra, [a]ut haut
haut haut istagis tursis ardannabon damaustra. Quae quam ridicula sint vos ipsi vestro
risu ostenditis. Et certe haec mihi avia mea puero olim ad deterrendum a vagitu insusurrabat: quae deinde ludicri causa edidici265.
Così forse, miscens utile dulci e serio ludens, egli pensò il Furioso: parlando
come parla il mythos, cioè sognando le sillabe magiche delle nenie notturne e lasciando che lo scheletro fonetico si costruisse sulla sillabazione primordiale, la
stessa con cui il bimbo gioca a variare le vocali intorno ad una stessa consonante,
e sul fremito leggermente ipnotico della ninna-nanna e della tiritera.
Altrettanto interessante il caso delle sei ottave in stretta successione (XV, 7883), ove il nome di Orrilo (78, 4) genera una cascata di or (78, 6 due volte; 82, I-2
tre volte), ribattuto in vari lemmi assonanti in or o ro (ognor, 78, 8; libro, 79, 1;
tronca, 79, 5; vittoria, 80, 1; negromante, 80, 4; però e promettea, 80, 5; tor, 80, 6;
morir, 80, 7, subito dopo un Orril; aurora, 81, 3; corazza, 82, 3; troncando, 82, 4;
portò correndo, 83, 7). Il nome Orril[o] riemerge, dopo la prima “chiamata”, a 79,
3; 80, 7; 81 4; 82, 6; 83, 4 e 6, e riecheggerà ancora nelle ottave 85 e 89-90. È legittimo asserire che l’intera microsequenza è fonicamente generata e sostenuta, insomma “portata” (anche nell’accezione di trasportata) sui piani lessicale, semantico, sintattico e diegetico, proprio dal nome del personaggio.
Di assoluto rilievo, e quindi da segnalare con forza, mi pare infine il sottoinsieme XI, 35-44 (anch’esso completamente originale in C, quindi scaturito nel
momento di suprema maturazione di espressione e contenuto del poema)266, ove
ben dieci ottave consecutive, a partire da Orlando di 35, 7 (portato in primissimo
piano dal forte ictus che spezza l’emistichio, in sinalefe sulla cesura di . 5a sillaba,
oltretutto allitterante, in variazione vocalica e in ripresa frastica: «[…] onde. Or-
265 C. CALCAGNINI, Equitatio, in ID., Opera aliquot, Basel 1544, pp. 558-90, alle pp. 562-63 («Si aggiungano a
queste [scil. le «minacce violente» fatte agli dèi dai sacerdoti] le parole cavate dal seno stesso di una lingua barbara e del
tutto inesplicabile per chiunque: quelle, ad esempio, adoperate per guarire con formule magiche una lussazione, come
quando due persone accostano una canna spaccata alla tibia e fino a che essa non combaci perfettamente pronunciano
la formula Motas danata daries dardaries astararies. Quando son combaciate, accostatavi una lama, uno le prende con la
destra e con la sinistra le taglia, legandole alla lussazione o alla frattura, mentre senza interruzione recita haut haut haut
ista pista sista damiabo damaustra, oppure haut haut haut istagis tursis ardannabon damaustra. Quanto ciò sia ridicolo, il
vostro stesso riso sta a dimostrarlo. Son cose che la nonna mi sussurrava quando ero bambino, per farmi smettere di vagire: ed io poi le imparai, così, per divertimento»: trad. di G. SAVARESE, Il «Furioso» e la cultura del Rinascimento cit.,
p. 24). Delle due frasi latine che seguono, dopo il brano, la prima è quella con cui, nel dialogo del Calcagnini, Lilio Gregorio Giraldi risponde a questo discorso attribuito all’Ariosto: «Solus […] Ariostus est qui misceat utile dulci».
266 Cfr. l’apparato dell’ed. Debenedetti-Segre cit., p. 305 (e p. 301 per l’indicazione della parte aggiunta in C).
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lando […]») sono sottolineate dalla cadenza ritmata delle sillabe or/ro, con spicco particolare di lemmi quali orca (36, 5; 37, I; 39, 7; 41, 5; 42, 6; 44, 3), àncora
(36, 7; 37, 6-7, ma con eco nell’anco di 7; 38, 7; 40, 7-8; 41, 3); mostro (orribil mostro a 36, 8; 39, 2; 41, 4; ma anche, per la consueta prevalenza fonetica, mostra, voce verbale, a 40, 2). Altri vocaboli di efficacia semantico-diegetica con tonica sulla sillaba or : rumor (43, 7; 44, 2); forza (41, 6-7, due volte); intorno (43, 7); e cfr.
42, 4, colca per ‘corca’. In ro : prode (43, 8); grotta (44, 1; doppia ro atona in antro
oscuro, 39, 3).
Orlando domina la vicenda, ed il “suono” (nonché la “scrittura”) della sua narrazione: da 35, 7 ritorna a 37, 2 e 5; 38, 8; 44, 3: qui, in pieno ambiente spaziale-sonoro plasmato nell’eco di or/ro e ar/ra, ed in stretto contatto con il suo “doppio”
ontologico Proteo:
Fuor de la grotta il vecchio Proteo, quando
ode tanto rumor, sopra il mare esce;
e visto entrare e uscir de l’orca Orlando,
e al lito trar sì smisurato pesce,
fugge per l’alto oceano, oblïando
lo sparso gregge [...]
(XI, 44, 1-6).
Discorso affine potrebbe venir condotto su XVIII, 149, tramato dall’alternanza or/ro (ma cfr. già l’ottava 144) perché indirizzato ad ampliare l’area semantica di
«Orlando» e dell’«onore»: ma si tratta di un altro esempio fra numerosissimi casi.
La fenomenologia in cui il meccanismo struttivo si verbalizza è, ovviamente,
sterminata. e ricchissima (troppo, per questa sede) la documentazione di evidenza dimostrativa. Risulta, sul piano del metodo, la maggiore novità formale di
Ariosto, forse, rispetto ai poeti quattrocenteschi, epici e lirici: quella che Bigi definì acutamente «la sottile cura dell’Ariosto nel contemperare sillabe brevi e dense»267, la finalizzazione del gioco «di euritmia e di regolarità nella pur ricca e vigorosa varietà» (come già Debenedetti e Migliorini avevano segnalato, con rapida, efficace esemplificazione) ad un progetto personale di «regolata e contemperata “variazione” dei suoni», armonizzato con le indicazioni grammaticali e poetologiche di Bembo.
Alle squisite trouvailles petrarchesche e petrarchistiche di genere ritmico, rimico, fonetico, morfosintattico, miranti alla conquista dell’aequitas nello stile,
Ariosto aggiunge questa sua prodigiosa memoria fonico-grafica: che non è intesa,
però, alla fissazione mnemonica del testo di genere epico-canterino, né all’ottenimento di un’armonia puramente formale: bensì alla conquista che Croce intuì
267
E. BIGI, Petrarchismo ariostesco cit., p. 67.
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(pur non dimostrandola) come «l’attuazione dell’Armonia», cioè realizzazione di
un organismo estetico-ideologico vivente, fatto di forma-contenuto in espansione.
Credo di ritrovare un’idea affine nell’ulteriore indicazione di Calvino, non-crociano sensibilissimo alla vitalità organica delle forme, geniale «ariostesco» del Novecento, laddove insiste sul «legame tra le scelte formali della composizione letteraria e il bisogno di un modello cosmologico (ossia d’un quadro mitologico generale)»268, vivo ben prima del romanzo barocco o di Mallarmé. Vivo appunto – sebbene Calvino non lo citi quasi mai nelle Lezioni americane269 – in Ludovico Ariosto.
2.5.4. Armonia musicale e «destino» dei personaggi nel Furioso. Qualche altro
esempio di quest’Armonia conquistata, concretantesi («come in un sogno»!) nel
gioco relativamente autonomo del significante.
Nella parte del canto XXXII tutta nuova in C (le ottave 50-110 furono composte per l’edizione del 1532)270, mentre s’annuncia la pioggia che infine scroscerà (annunciata in rima a 64, 8, e con l’aggettivo piovosa entro il verso a 69, 4)
dall’ottava 71 in avanti, accompagnando in uno splendido notturno, fra i più intensi del poema, una favolosa «giostra al lume de la luna» (73, 6), Bradamante,
annunciata quale attante dalla rima -ella tipica, nel poema, di alcuni attori «donzelle» (rima che è qui lemma puro, pronome personale, in forte connessione di
enjambement), va dietro al cavallo di uno scudiero ed a quello dei propri pensieri, i quali divengono uno solo in grazia delle due rime inclusive («Dietro non gli
galoppa né gli corre | ella; c’adagio il suo camin dispensa271, | e molte cose tuttavia
268
I. CALVINO, Lezioni americane cit., p. 68 (Esattezza).
Per quanto il suo spirito aleggi per l’intero libro, e in tutte le categorie-«lezioni», trovo rammentato a chiare lettere l’Ariosto solo nella seconda (Rapidità), pp. 34-35: «Nell’Orlando furioso assistiamo a un’interminabile serie di
scambi di spade, scudi, carni, cavalli, ognuno dotato di proprietà caratteristiche, cosicché l’intreccio potrebbe essere
descritto attraverso i cambiamenti di proprietà di un certo numero d’oggetti dotati di certi poteri, che determinano le
relazioni tra un certo numero di personaggi».
270 Cfr. l’apparato dell’ed. Debenedetti-Segre cit., p. 1035. Per una sinossi delle aggiunte nell’edizione ’32 (in particolare l’episodio di Olimpia che si spezza fra i canti IX, X ed XI, dando luogo al nuovo avvio del canto XII; i canti
XXXII-XXXIII, con Bradamante alla rocca di Tristano e la descrizione delle pitture di Merlino raffiguranti le guerre
«a venire» del secolo XV1; il canto XXXVII, tutto nuovo con la tragedia di Drusilla e Marganorre; nei canti XLIV-XLVI – interamente nuovo il XLV – il racconto del rinvio delle nozze di Ruggiero e Bradamante, con l’innesto d’un nuovo personaggio, Leone) si veda S. DEBENEDETTI, Nota cit., pp. 402 sgg., e ID., Introduzione a I frammenti autografi cit., in particolare p. V11 (quasi tutte le integrazioni ci sono attestate dai frammenti autografi). Per le «varianti di
ampliamento» di carattere storico cfr. A. CASADEI, La strategia delle varianti cit., pp. 39-72.
271
Si noterà che la sinalefe corre ella (non potendosi ammettere per ragioni etimologiche, a norma di trattatistica,
dieresi in dietro: cfr. W. TH. ELWERT, Italienische Metrik, 1968; trad. it. Versificazione italiana dalle origini ai nostri
giorni, Firenze 1981, p. 12), rilevata al massimo grado dal forte enjambement, di fatto azzera l’altra c’adagio il, rendendo ambigua la scansione di questi due versi, per i quali è consentita la lettura d’un decasillabo celato nel bozzolo
d’un falso endecasillabo in episinalefe («quella sillaba in più è sempre riassorbita nel verso successivo, o contandola
come prima sillaba di quest’ultimo, se esso comincia per consonante, o con la sinalefe tra fine verso e inizio del verso
successivo [‘episinalefe’], se questo comincia per vocale»: P. G. BELTRAMI, La metrica italiana cit., p. 131): lettura
269
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discorre, | che son per accadere: e in somma pensa […]»: 60, 1-4). La sua immoderata cogitatio272 la perde, il suo «cuore» non trattiene e indirizza più la «briglia»
(62, 8), e solo il cavallo guida il cammino, al pari di quello di Lancillotto che «[…]
lui meïsmes en oblie, | ne set s’il est, ou s’il n’est mie, | […] | ne set ou va, ne set
don vient»273. Ma a questo punto, nell’ottava 62, con salto immenso, per via metaforica (una similitudo irrorata d’evocazioni dantesche) Ariosto trapassa dalla
Terra all’Acqua, e fa di Bradamante una nave senza nocchiero in gran tempesta
interiore. (Così altrove, per citare solo un altro esempio parallelo, nel canto XXI,
53, 7-8 e 1-2, Filandro sta «tra molte contese | de’ duo pensieri» esattamente «come ne l’alto mar legno talora | che da duo venti sia percosso e vinto»: e anche là
una rima inclusiva incatena i vv. 1, 3 e 5 talora : ora : prora).
Ma il passaggio su Bradamante rivela soprattutto, nell’arte della transizione,
la densissima tessitura fonosimbolica, il cui filo portante, davvero non riducibile ad un semplice uso di maniera dell’assonanza/allitterazione, è l’alternanza
della gamma vocalica completa intorno alle consonanti v ed f (quelle «inaugurate» anche semanticamente dall’avverbio di luogo ove a 61, 7-8, e dal fiume che
trascina in volta la mente della protagonista a 62,4), variamente annesse in sillabe reiterate e variate attraverso cui si legano in sequenza, di fatto, almeno tre ottave contigue (ma si noti anche il nodo delle rime assonanti -eve, 63, 7-8 e -ede,
64, 1, 3, 5):
Ogni suo senso in questo è sí sepolto,
che non mira la strada, né divisa
ove arrivar, né se troverà inanzi
commodo albergo ove la notte stanzi.
Come nave, che vento da la riva
o qualch’altro accidente abbia disciolta,
va di nochiero e di governo priva
ove la porti o meni il fiume in volta;
cosí l’amante giovane veniva,
tutta a pensare al suo Ruggier rivolta,
ove vuol Rabican; che molte miglia
lontano è il cor che de’ girar la briglia.
Leva al fin gli occhi, e vede il sol che ’l tergo
avea mostrato alle città di Bocco,
e poi s’era attuffato, come il mergo,
in grembo alla nutrice oltr’a Marocco:
e se disegna che la frasca albergo
peraltro valida solo in sede di computo sillabico, salva restando sul piano rimico l’esattezza dell’inclusiva corre, 1: discorre, 2.
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le dia ne’ campi, fa pensier di sciocco;
che soffia un vento freddo, e l’aria grieve
pioggia la notte le minaccia o nieve.
Con maggior fretta fa movere il piede
al suo cavallo; e non fece via molta,
che lasciar le campagne a un pastor vede,
che s’avea la sua gregge inanzi tolta.
(XXXII, 61, 5 - 64, 4).
Fra l’ironia leggera che accosta lo sconquasso del fiume di pensieri e il tramonto in cui il sole come un uccello malizioso mostra «’l tergo» all’Africa occidentale per poi «attuffarsi» nell’acqua dell’Oceano, il lento ritmo del Testo-cavallo viene scandito dalle serie sillabiche affini, dirette o rovesciate. E la struttura sonora
del linguaggio si visualizza, allargando il confine dello spazio descrittivo-narrativo
impersonato dal movimento acquatico-terrestre delle metafore, dei pensieri, del
cavallo, della bella donzella Bradamante. Infine i tre rimanti-chiave, legati alla rima
-ella che caratterizza il personaggio (donzella : bella : quella) possono risuonare,
poco dopo la chiusa dell’episodio (68, 1, 3 e 5), quando ormai Bradamante ha ritrovato se stessa e la sua strada, e può proiettare la propria cifra fonetico-semantica dall’“interno” di sé verso l’“esterno”, en quête di altre donzelle a cui applicarla.
Nel canto XXI le ottave 7 e seguenti, dedicate allo scontro fra Zerbino, principe di Scozia ed Ermonide d’Olanda, rimbombano numerosi echi semantici, in
prevalenza usati quali connettori interstrofici. Per esempio: «cavalleria», 8, 3 >
«cavallier», 8, 7 > «cavallieri», 9, 8 > «cavallier», 10, 4 > «cavallieri», 11, 8. Tre
versi sono legati da riprese in chiasmo sull’orlo di due ottave, 18, 7-8 e 19, 1. Esso, rimante-base d’una rima inclusiva, spesso : appresso : esso, 17, 2,4 e 6, rovesciato nell’ordine vocalico in osse, “genera” un’eco che dura tre versi (6-8), fino alla
rima “contenuta” del distico: «[...] fosse o non fosse Argeo con esso; | e dentro a
quel per riposar fermosse | tanto che del suo mal libero fosse». Tuttavia proprio
nell’ottava 7 è la chiave grafico-fonico-semantica da cui dipende un ben altrimenti notevole sistema di riprese a distanza:
Come più presso il cavallier si specchia
in quella faccia che sí in odio gli era
– O di combatter meco t’apparecchia
(gridò con voce minacciosa e fiera),
o lascia la difesa de la vecchia,
che di mia man secondo il merto pèra.
Se combatti per lei, rimarrai morto;
che cosí avviene a chi s’appiglia al torto.
Graficamente-foneticamente “generato” da merto attraverso la catena ad
anello me («come»/«meco») / mi («minacciosa, mia») / ma («man») / me («merLetteratura italiana Einaudi
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to»), alternata a quella in c («come», «cavallier», «specchia»...), infine sboccia il
lemma-chiave verso cui la serie s’è protesa, nella spirale vocalica: e nel distico rintocca morto, segnando il fato di Zerbino. Morto, difatti (dopo un altro brivido
nell’eco di morte in rima nell’ottava successiva, 8, 4), Zerbino resterà, adempiendo al proprio destino fonetico-diegetico, nel canto XXIX (ottave 26 e seguenti),
insieme con la sua amata Isabella, a sua volta annunciata dal triplice squillo della
serie di rimanti bella : quella : novella (ibid., 27, 1, 3 e 5). Anche Isabella, travolta
dalla morte, non lascia di sé che l’eco timbrico-musicale-fonetica (cfr. ad esempio
ibid., 31, 2, 4 e 6; 43, 1, 3 e 5), nuovamente disponibile per altre donzelle. E svanendo come personaggio, lascia intravedere dietro i panni dell’attore l’attante e il
referente (nomen est omen anche nel Furioso, e quasi sempre res sunt consequentiae nominum): che non può essere – com’è ovvio – se non Isabella d’Este, la «liberale e magnanima Isabella» di XIII, 59, 5, già salutata colà mediante la cadenza
quella : bella (59, 1 e 3: ma cfr. 56, 2,4 e 6, e 68, 7-8), «colei che fu sopra le belle
bella» (XX, 132, 3, in rima con fella : quella, a sua volta con premessa poco prima,
ibid., 129, 7-8, donzella : sella):
Per l’avvenir vo’ che ciascuna ch’aggia
il nome tuo, sia di sublime ingegno,
e sia bella, gentil, cortese e saggia,
e di vera onestade arrivi al segno:
onde materia agli scrittori caggia
di celebrare il nome inclito e degno
tal che Parnasso, Pindo et Elicone
sempre Issabella, Issabella risuone.
(XXIX, 29).
Che la morte colga proprio Issabella, avatar di Isabella d’Este (ma il suo nome a XXXVII, 9-11 riecheggia ancora in Isabella Colonna), col suo Zerbino, non
è né casuale, né irriverente, ma adempie al destino, alla «pasta» mortale dei due
personaggi. Come ha ben visto Calvino, «una fondamentale diseguaglianza divide
gli eroi d’Ariosto. Ci sono quelli costruiti di pasta fatata, che più gli fioccano addosso i colpi di lancia e di spada più si temprano, come se tanto ferro giovasse alla loro salute; e ci son quelli, non meno nobili e non meno valorosi, che essendo
costruiti di pasta umana, ricevono ferite che sono ferite vere, e ne possono morire. [...] Zerbino è uno di loro»274.
272 La formula, com’è noto, è di ANDREA CAPPELLANO, De amore, I, 1, a cura di E. Trojel, Copenhagen
1892, p. 3.
273 CHRÉTIEN DE TROYES, Le chevalier de la charrette, vv. 715-16 e 719, a cura di M. Roques, Paris 1974, pp.
22-23.
274 Italo Calvino racconta l’Orlando furioso cit., p. 100.
Letteratura italiana Einaudi
99
«Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto - Corrado Bologna
Ecco come l’ossessione della distanza, dell’assenza e dell’alterità minacciosa e
inaccettabile, dell’Altro (i Proci) che ha preso il proprio posto (dei Greci) durante la prolungata lontananza (la guerra di Troia) sa tradursi in iterazione allucinatoria di nessi vocalico-consonantici (alt-, tr-, tor-, tro-, tra-, ecc., oltre alla serie vocalica fatta ruotare intorno a t), e specialmente in parole-chiave: altri, 10, 3, che
apre una serie diffratta di altrui, 11, 2, altrove + altre, 11, 6 – e che è “contenuto”
foneticamente, e aggiungerei anche sematicamente, in adulteri, 11, 5 – fino alla
raffica dell’ottava 12, che ha anche un anagramma quasi pieno celato nell’emistichio del verso 6 fortemente allitterante: «altri la terra trita» (anagrammi, specie
fra rimanti, nel Furioso non sono infrequenti: cfr. per esempio XXVII, 77, 2 e 4,
isdegno : disegno); e nella stessa 12 cfr. madri/arme/arti/corte chiaramente legate
per allegoriam all’incipit del canto: «Le donne antique hanno mirabil cose | fatto
ne l’arme e ne le sacre muse», ove si glorifica la translatio della storia greca in
quella medievale. Queste parole slittano volta per volta da un piano semantico ad
uno differente; inoltre paiono naturalmente galleggiare nell’ottava: e sono invece
ricercate, indotte con sapienza nell’armonizzazione del senso e del suono (si notino altresì, quanto al supporto fonetico-lessicale della semantica, l’aequivocatio su
venti, 10, 1 e 3, e la rima inclusiva ricca eletti : letti, 10, 7-8):
Al tempo che tornâr dopo anni venti
da Troia i Greci (che durò l’assedio
dieci, e dieci altri da contrari venti
furo agitati in mar con troppo tedio),
trovâr che le lor donne agli tormenti
di tanta absenzia avean preso rimedio:
tutte s’avean gioveni amanti eletti,
per non si raffreddar sole nei letti.
Le case lor trovaro i Greci piene
de l’altrui figli; e per parer commune
perdonano alle mogli, che san bene
che tanto non potean viver digiune:
ma ai figli degli adulteri conviene
altrove procacciarsi altre fortune;
che tolerar non vogliono i mariti
che più alle spese lor sieno notriti.
Sono altri esposti, altri tenuti occulti
da le lor madri e sostenuti in vita.
In varie squadre quei ch’erano adulti
feron, chi qua chi là, tutti partita.
Per altri l’arme son, per altri culti
gli studi e l’arti; altri la terra trita;
Letteratura italiana Einaudi 100
«Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto - Corrado Bologna
serve altri in corte; altri è guardian di gregge,
come piace a colei che qua giù regge.
Partì fra gli altri un giovinetto, figlio
di Clitemnestra, la crudel regina.
XX, 10, 1 - 13, 2).
Solo qualche altro esempio (prescelto intenzionalmente in uno stesso canto, o
in canti vicini) illustrativo del collegamento grafico-fonetico fra vocaboli di un’ottava (e talvolta di altre contigue), inteso il più delle volte a sottolineare con l’esaltazione del significante-nome la centralità di un elemento-chiave, o di un personaggio e del suo “destino”, cioè della sua urgenza a manifestarsi in parole nel contempo mobili ed esatte. Individuato il meccanismo e riconosciutane la pertinenza
anche semantico-diegetica, il lettore non faticherà a percepire la spirale fonosimbolica avvitata su una o in più ottave, e coglierne il senso allusivo nei confronti di
uno o più vocaboli-chiave, solitamente un nome proprio, un lemma forte dal punto di vista semantico. Una vera e propria spirale lessicale-diegetica attraversa qua
e là le “stanze”, spostando il senso con il suono (cfr. per esempio XL, 38, 1 morendo, 3 se vivi, 5 se muori, 7 s[e] [...] viver, 8 vivi).
È anche questo un modo per intendere il significato dell’elemento “lirico”
che si cela nel cuore delle strutture “narrative”, l’emergere dall’Armonia espressiva dall’originario Disordine del “rumore” verbale. Non è improprio dire che, a
questo livello di raffinatezza, il Senso è nel Suono: è il Suono.
Serie in c: XXXIV, 30 (Alceste, rammentato più volte nelle ottave 20 e seguenti, sembra generare nell’intera ottava la serie grafica, foneticamente in velare,
che culmina in 5-6: «Ma cadde a’ piedi, e supplicommi assai, | che col coltel che si
levò da canto [...] »); XXXV, 23, 5-6 (il nome di Cesare, a 22, 6, risveglia la sequenza, aperta al verso 1 da: «Son, come i cigni, anco i poeti rari»); ma si veda anche l’innesto d’un proverbio popolare in XLV, 29, 5-6, dopo una serie di parallelismi aperti da «come» e dopo l’introduzione del rimante «core» al verso 2: «come si dice che si suol d’un legno | talor chiodo con chiodo cacciar fuore».
Serie in d: XXXIV, 77-81, un lunghissimo scroscio di assonanze/allitterazioni, in-terpolate con la variatio delle vocali traduce la passeggiata di Astolfo, sulla
Luna, fra i «doni | che si fan con speranza di mercede | ai re, agli avari principi, ai
patroni» (77, 2-4), il verbo «vede» (77, 1, in rima, e 5), la serie «ami d’oro e d’argento» (77, 1) > «Di nodi d’oro e di gemmati ceppi | vede […]» (78, 1-2) > «Ruine di cittadi e di castella» (79, 1) > «Di versate minestre una gran massa vede, e
domanda al suo dottor ch’importe» (80, 1-2) > «Vide gran copia di panie con visco | ch’erano, o donne, le bellezze vostre» (81, 1-2), scandisce i passaggi di ottava in ottava, insistendo anaforicamente sulla visualizzazione di quello spettacolo,
che rivela sullo sfondo (cfr. il «dottor» di Astolfo!) l’archetipo dell’ascensione
Letteratura italiana Einaudi 101
«Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto - Corrado Bologna
dantesca (ma spiccano anche, nell’ironia anticortigiana, le adulazioni e le laude a
77, 6 e 8).
Serie in f:. XXXIV, 63 («Filistei», al verso 7, è circondato dalla serie: fe «offende», 62, 8; fu «fuor», 63, 3; ancora fe «ferro» e «ferire» in rima 4, «difesa» e
«fede» in rima 5, ancora «difesa», 8, «fedel(e)» a 64, 4 e 8 in rima, «sofferto», 64,
6 in rima; fi «benefici», 64, 2; fa «favore», 64, 3 in rima); XXXVI, 54 (Marfisa al
centro, in duello con Ruggero; si noti che i versi 5 -6, «Una furia infemal quando
si sferra | sembra Marfisa, se quel sembra Marte», trovano esatta corrispondenza
nei Cinque canti, IV, 6, I-2, ove si conserva – ma si veda anche fe «feci» e «difesa»,
5, 4 e «offesa», 5, 5;fi «Marfisa», già a 5, 8;fa «far» a 5, 6; fo «fo» a 5, 8; fa «faccia»
a 6, 6 – la stessa gamma vocalica: «Marfisa parve al stringer de la spada | una Furia che uscisse de lo Inferno»275; Marfisa genera poi, nello stesso canto XXXVI
del Furioso, ottave 64-65 e 69, una tragica serie in m, incentrata su «morrai», 64,4
in rima; «mi mori’» 64, 8; «Ma [...] morte», 65, 1; «Marfisa», 65, 2; «tomba», 65,
4; «morto», 69, 3; «mar» e «misera madre», 69, 6); XXXIX, 25 (Astolfo, che è già
nelle ottave precedenti, viene contornato nei versi I-3 dalla stessa serie: fi «infinito», fa «far», fe «difesa», fu «fu», con rovesciamenti del tipo af «Afriche»); XL,
18-19 (sequenza piena, che annuncia «Fortuna» di 19, 8).
Serie in l: XXXV, 9 (l’avvento di Orlando, v. 8, è preparato dalla scansione
della serie completa, compreso uno straordinario «narrar h | alti suoi merti», vv.
6-7, con l’articolo plurale usato quale rimante in fortissimo enjambement, ad accrescere l’effetto di amplificatio fonosimbolica che sostiene l’attesa indotta del nome dell’eroe).
Serie in s: XXXIV, 86 (Astolfo con as apre la serie che si rovescia subito in se
«tolse» e «concesse» a 1, quest’ultimo in rima con «messe», 3 e «confesse», 5 ma
anche gli altri rimanti, in assonanza -issel-esse: «Apocalisse», 2, «gisse», 4, «visse»,
6; su «suo», 1 e 4; so «naso sol», 3; sa «saggio», 6, legato anche nella semantica a
«savio», 87, 2, verso – «il senno che solea far savio il conte» – in cui sono pure se
«senno» e so «solea»; quindi, nella stessa ottava 87: si «sì», 3; se «essendo», 4,
«basse», 6; ancora sa «santo», 7); XXXVIII, 82 (il termine «salme», rimante di 6
in rima inclusiva con palme, 2 e alme, 4, è preceduto, contornato e seguito dall’intera serie vocafica in s, che si estende attraverso le ottave 83-84, fino all’incipit
dell’85; e si noti che nel distico dell’82, «tuo santo alvo», verso 7, genera rima inclusiva proprio insistendo su s, con «il fior virgineo salvo», 8).
Serie in v: XXXIV, 89 (tutta la serie è aperta da «V’è chi, finito un vello […]»,
iterante «velli» di 88, 1 in rima, lemma-base che risuona in posizione incipitaria
anche nelle ottave 89-91: e cfr. «vecchio» a 92, 1 (cfr. poi p. 316, nota 170).
275
L. ARIOSTO, Cinque canti, ed. Firpo cit., p. 136 (si veda anche l’ed. Caretti cit., p. 96).
Letteratura italiana Einaudi 102
«Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto - Corrado Bologna
Specillo nella massa dello schedario pochissimi altri casi di grande valore grafico-fonetico-iconico: VIII, 26, 1: «Spirando il vento prospero alla poppa»; XX,
23, 7 - 24, 2: «Altre dicean che lor saria più onesto | affogarsi nel mar, che mai far
questo; || e che manco mal era meretrici | andar pel mondo, andar mendiche o
schiave» (il verso 24, 8 contiene «Minosse»); XXXIII, I05: il rimante di 2, gemme
(: Ierusalemme : maremme) contiene la serie rovesciata em/me, che dà vita ad
un’ottava dal vivace cromatismo, intesa all’incantata descrizione del castello da
fiaba del Prete Gianni, il Soldano d’Etiopia.
Chiudo questo punto riproducendo una delle ottave più armoniose di tutto il
Furioso: cioè delle più ricche d’armoniche e di echi timbrici, oltre che delle più
belle per la delicata ironia giocata sul tono astrattamente elencatorio e sulla parodia del lessico petrarchistico (ripresa assai spesso, anche lievemente, in forma di
pura intertestualità: cfr. per esempio XLIII, 77, 3: «e con sospiri e lacrime camina»; ibid., 183, I-2: «E vedendo le lacrime indefesse, | et ostinati a uscir sempre i
sospiri [...] »). Nel «regno de la luna», opposto a «questo ultimo globo de la terra» (XXXIV, 70, 2 e 7), Astolfo trova (in un intreccio fittissimo, fra l’altro, delle
serie vocaliche in l e s e della sillaba, tonica ed atona, -an, germe fonetico di amanti, 1, e di vani, 4-5, che rovescia, oltretutto, le atone -na di «Luna» e «Fortuna»)
tutto ciò che si perde sulla terra, e che invece «là su» (sintagma iterato in 74, 5 e
7) «si raguna» (73, 8):
Le lacrime e i sospiri degli amanti,
l’inutil tempo che si perde a giuoco,
e l’ozio lungo d’uomini ignoranti,
vani disegni che non han mai loco,
i vani desidèri sono tanti,
che la più parte ingombran di quel loco:
ciò che in somma qua giú perdesti mai,
là su salendo ritrovar potrai.
(XXXIV, 75).
Merita ancora una riflessione il valore onomastico degli attori che impersonano alcuni attanti-base276. L’armonia ariostesca, spesso, si screzia per un timbro iro276 Relego in nota, ad integrare la documentazione (necessariamente scarna!) esibita nel testo, solo pochi altri casi
esemplari ove l’eco sillabica è d’impressionante evidenza anche semantica (qui solo in minima parte evidenziabile)
giacché scandisce con ictus musicale la progressione del discorso, dando altresì vita, letteralmente, ai nomi dei personaggi: IX, 58, 8 - 61, 4 (completamente assente in AB, ove mancano del tutto le ottave 8-94, essendo le stanze 8-22 del
canto IX di AB introdotte in C, fra la stanza 80 del canto XI e la 17 del canto XII, con conglobamento di nuovo materiale: cfr. l’ed. Debenedetti-Segre cit., p. 225, apparato); XII, 68-70 (fra l’altro con lo sbocciare dei nomi: Orlando,
68, 8; Manilardo, 69, 1; Alzirdo, 69, 8); XIX, 6-10 (Cloridano, 8, 1; Medoro, 10, 3, ivi preceduto da furor ed in rima inclusiva con loro : oro; si noti che lo stesso esito rimico è insistentemente preannunciato: nell’ottava 6 una duplice inclusiva connette intorno : torno : orno, nella 7 una rima contenuta lega cacciatore : core, e nella 8 risuona la rima -ora);
XIX, 37 (Medor, 4, Orlando, 7) e 38 (Orlando, 4, e due volte al verso 5); XXVII, 54 (Orlando, 4 e 8); XXXI, 105-6 (Rinaldo e Fiordiligi, Gradasso e Orlando, 105, 2-3 e 7-8; Gradasso, 106, 2; Rinaldo, 106, 6; Baiardo e Durindana, 106, 8).
Inoltre cfr. la rifrazione fonica, a creare “racconto”, della sillaba –or/ -ro, almeno in: VII, 31-32; XXXII, 18-20 (amor,
Letteratura italiana Einaudi 103
«Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto - Corrado Bologna
nico, utilizzando la tecnica grafico-fonetica appena descritta per realizzare un ulteriore gioco semantico intorno ai loro nomi (peraltro «ricevuti» attraverso la tradizione cavalleresca e canterina). Se è abbastanza normale, e in sostanza autorizzato
dalla traditio lirica (si pensi solo a Giacomo da Lentini, Angelica figura e comprobata)277, che Angelica abbia in grazia stessa del suo nome (cfr. poi p. 320) «angelico
sembiante» (I, 12, 7), è meno prevedibile che Isabella / Issabella sia intrinsecamente, anch’ella per virtù onomastica, Is(s)a-bella, e Brandimarte Brand(o)-(d)i-Marte.
Quanto a Rinaldo, il suo nome è anagramma pressoché compiuto di Orlando. Il
destino dei due cugini, eroi alleati ma antagonisti, fin dalla prima apparizione in scena (I, 8, 2), li plasma nominalisticamente, all’incirca come gli «amori» si collegano e
rispecchiano nei «Mori» fin dall’ottava iniziale del libro. Infatti entrambi impazziscono con «l’animo caldo» (1, 8,4), e per causa della stessa donna, facendosi Orlando, come vuole il titolo del poema (cfr. poi pp. 330 sgg.), «al tutto furïoso e folle»
(XXVII, 8, 2), e agendo Rinaldo, giacché a lui lo impone il «destino» contenuto nella rima, «con senno non troppo più saldo» (ibid., v. 5: la catena dei rimanti, come si
vede, è anche qui esattamente la stessa, Rinaldo : caldo : saldo, di I, 8; e si conserverà
per tutto il libro: cfr. per esempio XLII, 28, 7-8; ibid., 55, 1, 31 5; ibid., 61, 2, 4, 6).
Più curioso il fato di Malagigi, sapiente di scienze arcane e magiche, il cui nome «contiene» a partire dal piano grafico-fonetico (e col supporto del gioco anagrammatico) la «magia» e la «malia»; difatti: «Malagigi, che sa d’ogni malia | quel
che ne sappia alcun mago eccellente [...] » (XXVI, 128, 1-2). Con parole identiche della maga Melissa, prima ancora che se ne pronunci il nome (XLIII 24, 2), si
dirà: «Ella sapea d’incanti e di malie | quel che saper ne possa alcuna maga: | rendea la notte chiara, oscuro il die, | fermava il sol, facea la terra vaga» (ibid., 21, I4). Proprio al fine di sottolineare senza riserve l’intenzionalità del gioco ormai
tante volte provato, e in ispecie la sua armoniosa ironia, a distanza di quattro ottave Ariosto replica: «Ruggier, ch’aver tal fin vede la guerra, | rugge come un leon,
non che sospira» (XXVI, 132, 6-7: sospira è in rima inclusiva con ira, 2: mira, 4;
guerra con terra, 1: erra, 3). Ancora Malagigi, all’inizio del canto successivo, è accostato sul piano del significante, e quindi del significato, all’allegorica Malignità
(XXVII, 3-5: «ma fu questa avvertenza inavvertita | da Malagigi, per pensarvi poco:|é la Malignità dal ciel bandita [...] »); e due ottave dopo «figlio d’Agricane»
(6, 1) rima, per tecnica inclusiva che apre al grottesco, con cane (v. 5). Nel medesimo canto XXVII, ottava 45, il nome di Mandricardo rima per tre volte con se
18, 8, preceduto da immortal, annuncia morte, 19, 4, nonché la serie rimica di ig: adoro, 1: moro, 3: martoro, 5, e l’avvio di 20, fuor di rima: Amor, 1; correr, 2; tornami, 3); XXXII, 43-48 (morirti, morta, more, fuor di rima a 43, 5 e 7-8;
morir a 44, 1 e 45, 2 e 4-5; muora in rima a 45, 6; muori in rima a 46, 1, in opposizione a vivi, ultima parola di 45, e
connessa a morire, ultima della stessa ottava 46; dolor, 47, 8; or, 48, 2; valor, 48, 8).
277 Cfr. GIACOMO DA LENTINI, Poesie, edizione critica a cura di R. Antonelli, Roma 1979, pp. 363-67.
Letteratura italiana Einaudi 104
«Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto - Corrado Bologna
stesso, all’incirca come, nella terza cantica della Commedia, «Cristo» (Paradiso,
XII, 71-75; XIV, 104-8; XIX, 104-8; XXXII, 83-87); e cfr. nel Furioso, in aequivocatio, «Este» (XLI, 65, 1: Este, forma verbale latina; 3, nome della famiglia; cfr., al
v. 5, «Ateste», in rima inclusiva). A proposito di nomi, si veda come «Mandricardo» chiude (v. 8) la spirale onomastica-toponomastica assonante ed allitterante, e
basata sulla progressiva gradazione vocalica, che inzeppa l’intera ottava XLI, 91:
«Brandimarte» e «Agramante» (v. 1, il secondo in rima), «Frontin[o]» (vv. 3 -4),
«Monodante» (v. 5, in rima), «Mezzogiorno» (v. 6, in rima), «Brigliador[o] (v. 7),
«Ruggiero» (v. 7, in rima).
Esattamente secondo la stessa meccanica di distanziamento ironico dall’attore, attivato per coglierne uno dei valori attanziali, nella geniale «novella» di Giocondo tradito dalla moglie e caduto perciò in melancolia («novella» che, non a caso, ha corrispondenza in quella iniziale, di «cornice», delle Mille e una notte, nonché nella LXXXIV del Sercambi) il filo della storia conduce all’adempimento del
fato incluso nel nome. E ciò avviene, sul piano linguistico ed intertestuale, attraverso il rovesciamento parodico d’un verso dantesco (Inferno, XXVI, 136: «Noi
ci allegrammo, e tosto tornò in pianto») e dell’intera sequenza di rimanti viso : riso : paradiso autorizzata dalla tradizione lirica sulla linea Giacomo da Lentini Dante - Nicolò de’ Rossi - Petrarca278:
A sí strano spettacolo Iocondo
raserena la fronte e gli occhi e il viso;
e quale in nome, diventò giocondo
d’effetto ancora, e tornò il pianto in riso.
Allegro torna e grasso e rubicondo,
che sembra un cherubin del paradiso.
(XXVIII, 39-1-6)
E poco dopo, all’entrata dell’ottava 45, prende voce la suprema ironia su Petrarca (cfr. l’incipit della canzone CCLXVIII) del petrarchista Ariosto, autorizzata, mi sembra, proprio dal jeu de mots, glossato in chiaro, su Giocondo ‘giocondo’: «Che debbo far, che mi consigli, frate | (disse a Iocondo) [...] ?»279. È verso la
propria lingua, verso il lessico, la sintassi, le tecniche struttive della poesia petrarchistica, che si rivolge l’ironia del “giocondo” Ariosto, in persona di Giocondo.
Davvero, nel Furioso, ogni Nome contiene, ed anzi è, la sua Storia, il suo Tema, il
suo Destino. E «duro destino è l’avere un destino»280.
278
Cfr. R. ANTONELLI, «Rerum vulgarium fragmenta» di Francesco Petrarca, in Letteratura italiana. Le Opere, I
cit., pp. 379-471 (alle pp. 414 e 425); cfr. poi infra, p. 316.
279 Questa citazione, come registra M. C. CABANI, Fra omaggio e parodia cit., p. 121, è solo «il punto culminante
di un lungo percorso disseminato di richiami e segnali petrarcheschi». Al libro della Cabani si potrà ricorrere per un
completo regesto delle citazioni allusive e/o ironiche (e comunque parodiche, nel senso da me assunto: cfr. p. 228) del
Petrarca nel Furioso.
280 Italo Calvino racconta l’Orlando furioso cit., p. 23.
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«Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto - Corrado Bologna
2.5.5. Rime e rimanti. Qualche indicazione puntuale, ed altre generali, relative al rapporto fra l’organizzazione del discorso, le strutture metriche, l’impiego di
rime e rimanti dalla forte evocatività grafico-fonetica anche sul piano semantico, è
già emersa da quanto fin qui s’è detto. Mi limiterò dunque, ora, a porre in rilievo
i risvolti che assumono sul livello del senso gli aspetti più strettamente formali del
ricorso ariostesco alla gamma delle rime “tecniche”.
Preliminarmente registro quella che chiamerei genesi foneticamente indotta
della rima e del rimante (anche quest’aspetto è stato, pur brevemente, toccato).
Spesso nel Furioso il testo (il sottotesto) assorbe, o al contrario produce per quella che continianamente definirò memoria interna, echi grafico-fonetici che si agglutinano lentamente fino a coordinare l’emergenza mnestica di una rima e di uno
o più rimanti. Ho già evocato a più riprese l’esempio che mi pare canonico e di
evidenza indiscutibile: la connessione con personaggi femminili della rima in -ella, e specialmente di una catena di rimanti abbastanza stabile (bella, quella, sella,
donzella, favella, Isabella, ecc., spesso anche in rima inclusiva con ella), a cui si annettono microserie meno frequenti, e dalla semantica negativa (per esempio XLI,
13: procella : flagella : fella). Angelica è la “madrina” e la “portatrice” (se è lecita
la metafora) della sequenza, da lei battezzata nel canto I (ottava 10: donzella : sella : rubella : ma cfr. già «donzella», non in rima, a 8,7). L’iterazione è immediatamente elevatissima. Nel canto I la serie torna nelle ottave: 15 nel distico (ma
«donzella», non in rima, è al v. 2); 23; 47; 66 e 69 nel distico, legato da una sorta
di impropria rima inclusiva capfinida con il v. 1 di 70: «Ella è gagliarda, et è più ella molto»; 75; 76 nel distico. Nel canto II nelle ottave: 2; 11; 16 nel distico; 22; 31;
36; 51 nel distico; 63. È chiaro che una statistica sulle frequenze rimiche nel Furioso sarà possibile solo quando si avranno le concordanze elettroniche (cfr. pp.
274 sgg.): tuttavia, pur mediante una provvisoria schedatura artigianale, risalta
l’assiduità della serie, probabilmente la più attiva nell’intero poema, anche con la
sua “versione maschile” in -ello, a partire da ruscello : Mongibello nel distico di I,
40, e soprattutto da castello : bello nel distico di II, 41, ripreso con castello : augello in quello di II, 44, a sua volta riecheggiante a 46, castello : augello : fello, in una
specie di capfinida con scarto di una o due ottave: meccanismo connettivo, questo, che a sua volta risulta prassi frequente nel Furioso.
Come ho già detto, la serie in -ella spetta allattante eroina femminile, nelle
due versioni “inseguita” (Angelica) e “inseguitrice” (Bradamante), e in quella mista (Isabella): si tratta, quindi, di un vistoso indicatore testuale, figura grafico-fonetica addotta a segnalare e connotare luoghi cruciali o comparse in scena di attori o implicite, sotterranee evocazioni delle loro gesta o del loro attante. Il «valore segnaletico ed evocativo» affidato al ritorno, «quasi ossessivo», di quelle che
con formula opportuna Maria Cristina Cabani definisce «cadenze finali» (ad
Letteratura italiana Einaudi 106
«Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto - Corrado Bologna
esempio anche le serie in -ato e in -ello, usate per le apparizioni dell’lppogrifo)
«costituiscono quasi due motivi musicali ricorrenti»281.
Ad un filtro sottile, in sostanza, il Furioso rivela «una vera e propria costellazione lessicale (associazione quasi obbligata di parole e sintagmi)» intorno ad alcuni schemi rimici fondamentali, strutturati alla maniera di moduli armonici o figure
timbrico-mnemoniche. L’uso di rime «tecniche» particolari agevola questa «tendenza ad associare oggetti, esseri e personaggi del poema ad elementi espressivi ricorrenti (parole, figure, immagini, rime)»282: ogni riduzione del divario semantico
fra i rimanti accresce, infatti, l’insistenza sul momento grafico-fonetico del significante; pur non eliminando del tutto la dialettica sul piano del significato, contribuisce ad attestare la sua subalternità sostanziale nei confronti dell’identità o affinità a livello iconico-sonoro. Se in sede lirica l’impiego di simili strumenti formali è
giustificato dalla volontà di complicazione e di affinamento della sfida fra poeti,
nella Dialektik des Trobar283 nel romanzo cavalleresco l’esigenza mira soprattutto a
fluidificare i nessi ed i ritmi narrativi. E un sondaggio pur parziale nel resto della
tradizione mostra come anche in questo Ariosto svetti al di sopra dei suoi predecessori. Di tal genere sono, segnatamente, le rime ricche, frequentissime (quelle in
cui esiste almeno un fonema in comune fra due rimanti prima della vocale tonica),
quelle derivative, abbastanza numerose (quelle in cui c’è dipendenza etimologica
fra i rimanti) e le inclusive (in cui un rimante coincide con la rima, ed è perfettamente incluso in uno o più rimanti, senza avere con esso o con essi alcun rapporto
etimologico o semantico: cfr. il tipo ella : bella : donzella) e quelle che ho proposto
di definire contenute (in cui un rimante, pur non coincidendo appieno con la rima,
è contenuto, non linearmente, entro un altro rimante: cfr. il tipo speco : seco, XVII,
41, 4 e 6; fonte : fronte, XXXIX, 4, 1 e 3). La frequenza di queste forme nel distico
ne esalta la funzione di liaison privilegiata fra ottave, di carattere significante.
Ma si potranno individuare anche forme particolari di queste rime tecniche. Ad
esempio si dà un’inclusiva “ricca” (cfr. il tipo petto : sospetto, XXXI, 6, 1 e 3); e c’è
un’inclusiva “fonetica” (cfr. il tipo fanno : hanno, XXXVII, 104, 7-8, ove la h ha valore solo grafico); o al contrario un’inclusiva «grafica» (cfr. il tipo nato : segnato,
281 M. C. CABANI, Costanti ariostesche cit., p. 161 (che rinvia a R. NEGRI, Interpretazione dell’«Orlando furioso»,
Milano 1981, p. 24). I risultati della ricerca impostata dalla Cabani concordano in ampia misura con quelli da me autonomamente ottenuti. Ho potuto prendere visione del suo lavoro solo dopo avere concluso il mio: una simile convergenza mi sembra aumentare il credito dei due impianti esegetici.
282 Ibid., p. 181.
283 Il richiamo è al lavoro intelligente (per quanto discutibile nell’eccessiva rigidità con cui tratta le strutture testuali, senza tenere nel conto debito le oscillazioni poetologiche e ideologiche) del romanista tedesco J. GRUBER, Die
Dialektik des Trobar. Untersuchungen zur Struktur und Entwicklung des occitanischen und französischen Minnesangs
des 12. Jahrhunderts, Tübingen 1983, dedicato appunto al tema dell’agonismo poetico (uso il termine nel senso introdotto nella critica letteraria da Harold Bloom) nelle origini romanze.
Letteratura italiana Einaudi 107
«Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto - Corrado Bologna
XXXIV 92, 2 e 4, ove nel secondo lemma la n è foneticamente palatalizzata, ma graficamente intatta); c’è anche un’inclusiva “contraffatta” (cfr. il tipo Brigliadoro : d’oro : Medoro, XXIII, 116, 1, 3 e 5). Straordinariamente ricche e produttive in ordine
allo spazio semantico-diegetico elaborato sono le serie, assai numerose, di inclusive
incastrate, o associate ad altre rime tecniche entro una stessa ottava284, che fungono
da veri e propri canali conduttori di comunicazione subliminale, subito tematizzata
in chiaro. Per tutti cito il caso peculiarissimo delle ottave 61-62 del canto XXVII,
nelle quali la serie inclusiva arme : disarme : appellarme (61, 2, 4 e 6), incrociata con
l’altra assonante prevale : ale : tale (ibid., 1, 3 e 5), riduce la variazione vocalica in sede rimica, per sei versi consecutivi, alle sole a ed e; e nell’ottava seguente fanno eco
dapprima la stessa assonanza (parte : lasciarte : Marte, 1, 3 e 5), quindi, nel distico,
addirittura la rima inclusiva -arme, con ritorno di un rimante (vietarme : arme). Le
«arme», che erano tema nelle ottave precedenti, in questo microsettore divengono
rema, nel senso dei Praghisti. E non sfuggirà che il rimante «Marte», oggettivamente generato dalla catena con cui spartisce il campo semantico, è anche anagramma
quasi perfetto di «arme». Pullulano per tutto il Furioso, e anzi ne rappresentano
quasi la spina dorsale, simili connessioni di rimanti inclusivi “semantici”285.
284 Posso qui solo scegliere scarnamente fior da fiore in alcuni luoghi ravvicinati, nel cuore del poema (ma si avverta che,
al pari degli altri qui illustrati, il fenomeno, per quanto incentivato, parrebbe, nella seconda parte del poema, e comunque
nelle ottave introdotte in C, non è limitato a quest’area testuale: cfr. per esempio X, 49, nacque, 1 : acque, 3 : tacque, 5 + rode, 2 : prode, 4 : ode, 6). Ma lo schedario è assai più folto. Cfr. XXIII, 128, viso, 1 : diviso, 5 + sotterra, 2 : erra, 6 ; XXIV, 14,
discorre, 1 : corre, 3 + arriva, 2 : riva, 4 : scopriva, 6 + udire, 7 : dire, 8; XXVII, 48, fatta, 1 : atta, 3 : combatta, 5 + chiusa, 2 :
usa, 4 : scusa, 6; XXVII, 61, prevale, 1: ale, 3 : tate, 5 + arme, 2 : disarme, 4: appellarme, 6; nell’ottava 62, la successiva, il distico rima vietarme : arme (e cfr. al verso 5 il rimante con collegamento “semantico” Marte, “portatore” del “tema delle armi”); XXVII, 105, Doralice, 2 : lice, 4 : felice, 6 + solo, 7 : stuolo, 8, e nell’ottava successiva, la 106, guerra, 2 : erra, 4 : sotterra, 6 + patto, 3 : piatto, 5; XXXI, 22, mezzo, 1: intermezzo, 5 + onde, 2: sponde, 4: furibonde, 6; XXXIV, 4, rotta, 2 : grotta, 4: rotta, 6 + ritenne, 3 : tenne, 5; XXXIV, 11, io, 1 : Dio, 3 : mio, 5 + nata, 2 : condannata, 4 + piena, 7 : pena, 8; XXXIV,
44, infelice, 1 : lice, 5 + inanzi, 4: anzi, 6; e due ottave dopo, alla 46, tronca, 1: tronca, 3 + epe, 2: pepe, 4 : siepe, 6 + opra, 7 :
sopra, 8; XXXVII, 78, sabbia, 1 : abbia, 3 : rabbia, 5 + angue, 7 : esangue, 8. Interessante anche la fenomenologia delle inclusive “doppie”, cioè reciprocamente inclusive nel terzetto (non importa se con la successione contenuto > contenente, o
diversa, né se ad un’inclusiva si associa una derivativa): per esempio XVIII, 184, triforme, 2 : forme, 4: orme, 6 (che s’incrocia con le equivoche mostri, 3 : mostri, 5, anche semanticamente legate); XXIV, 105, alto, 2 : salto, 4: assalto, 6, serie frequente nel poema (ma cfr. anche la 103, arco, 1 : carco, 3 : scarso, 5, dove le due finali sono derivative: al pari, ad esempio,
di III, 74, scopra, 2 : opra, 4 : copra, 6); XXVI, 135, disparte, 1 : parte, 3 : arte, 5; XXXVI, 5, atti, 2 : tratti, 4 : ritratti, 6.
285 Per esempio XI, 7, matto, 2 : stupefatto, 4 : atto, 6 (e si veda, nella rima a, la progressione “diegetica” riguardava,
1 : ricordava, 3 : bestemiava, 5); XI, 10, cavalle, 1 : valle, 3 : stalle, 5 + soggiorno, 2 : giorno, 6; XIV, 101, affanni, 2 :
molt’anni, 4 : danni, 6 + busti, 3: robusti, 5 (e maturi, 7: muri, 8); XIV, 106, circonda, 1 : sponda, 3 : onda, 5 (ma si legga
per intero il verso 5: «onde entra ne la terra, onde esce l’onda»!). Registro poi un’interessante forma di “genesi semantica” fra rimanti di una stessa ottava non legati da rima; per esempio VII, 29, s’abbia, 2 : labbia, 4 : sabbia, 6 > bocca, 8
(e nell’ottava successiva, 30, labra chete, 3, che rima con un secrete, 1 ripetuto, fuor di rima, al verso 2); VII, 53, oro, 7 :
lavoro, 8 “genera” nell’ottava 54, 5-6, «Gli avea forato un fil d’oro sottile | ambe l’orecchie, in forma d’annelletto» (+
quindi, 7 : Indi, 8), e, con tecnica capfinida, «innanellate chiome» a 55, 1; XVIII 60, 7, «fosse», fuor di rima, per la stessa tecnica di collegamento “genera” fossa in rima a 61, 2, alternata alla triplice equivoca forte, 1 : forte, 3 : forte, 5 (a sua
volta riecheggiante nel nome «Grifon» al verso 7). A XXII, 9 il crescere d’un «ventolin» che si fa tempesta è connotato
dai rimanti in collegamento semantico: orza, 1: rinforza, 3 : forza, 5 + onda, 2 : soprabonda, 4 : sponda, 6. A XXXIV, 20
il tema delle «arme», apertosi all’ottava 16, 2, “genera” foneticamente, fuor di rima, «Armenia» (20, 7), che torna per
eco nell’ottava 21 con «pigliar l’arme e far guerra», 2, e con «Armenia», 5 (oltre che nella forma fonetico-anagrammati-
Letteratura italiana Einaudi 108
«Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto - Corrado Bologna
Anche nel caso della “contenuta” esiste una forma “contraffatta”: cfr. il tipo
fuso con un’inclusiva, anch’essa contraffatta, vïaggio : v’aggio : Selvaggio, XX, 7,
1, 3 e 5; si noti l’incrocio con la triplice equivoca Noto : noto : noto, ai versi 2, 4 e
6, che, come spesso avviene, aggrava l’effetto complessivo di fissità sulle cadenze
sonore, più che sui valori semantici dei rimanti. La rima “contenuta” può estendersi a tre rimanti (cfr. il tipo populazzo : palazzo : pazzo, XVII, 9, 1, 3 e 5: e si noti che il raro «populazzo» tornerà per memoria interna nell’ottava 91 dello stesso
canto, v. 2, fuor di rima; paesi : presi : pesi, XXXVII, 31, 2, 4 e 6) o raddoppiarsi
(cfr. il tipo peso : preso + collo : crollo, XV, 55, 1, 5 e 7-8; anche qui c’è aggiunta di
un’inclusiva vendetta : detta, 4 e 6), o associarsi ad un’inclusiva (cfr. il tipo calli :
cavalli : valli, XXXVIII, 34, 1, 3 e 5).
Si dànno, nel Furioso, frequenti rime equivoche, alcune estese su tutti e tre i rimanti disponibili di un’ottava (oltre al caso appena citato cfr. il tipo tempo : tempo
: tempo, XVI, 83, 1, 3 e 5; inanzi : inanzi : inanzi, XXXI, 39, 2, 4 e 6), altre variamente incrociate con differenti rime tecniche286. Interessanti alcuni giochi peculiari della tradizione lirica (e da qui assorbite), ad esempio le equivoche contraffatte
(cfr. il tipo sabbia : s’abbia, XVII, 38, 1 e 5; s’era : sera, XVII, 105, 2 e 4; un’equivoca contraffatta alternata ad una “contenuta” è saggia : spiaggia : s’aggia, XXXIX,
78, 2, 4 e 6, con l’aggiunta dell’inclusìva risponde : fronde : onde ai vv. 1, 3 e 5).
Ho ricordato in precedenza almeno un caso di ricorso ad elementi morfosintattici, semanticamente vuoti, in qualità di rimanti. Fondendosi con l’ultima sillaba del
vocabolo precedente va in rima un articolo, in reboante enjambement (per esempio:
XV, 18, 3: «se de le | parti» [:fedele, 1: a vele, 5]; XXXV, 91 6-7: «narrar li | alti suoi
merti» [: ornarli, 2 : parli, 4]; XLIV, 78, 5-6: «passa de le | contrade» fedele, 1 : rivele, 3]). Altri vocaboli-zero si trovano, anch’essi in clamoroso enjambement, quali la
ca imperfetta «membra», fuor di rima al verso 7); nell’ottava 22, 2, «guerra» diviene rimante. A XXXIV, 67 la serie terra, 2 : erra, 4 : serra, 6 introduce il tema del «cerchio de la luna» (verso 3: e cfr. «luna», 7) che si conserva nell’ottava 68
(«luna» fuor di rima al verso 4) e 70 («regno de la luna» in rima, 2), con un collegamento ulteriore fa 69 e 70 («il fuoco
eterno», 69, 6; «fuoco», 70, 1, in rima); nell’ottava 70, com’era prevedibile, chiude la serie di ottave a ondate la stessa inclusiva che aveva aperto, terra, 7 : serra, 8. Ma il caso più clamoroso di “tenuta” di un campo sematico è forse quello di
XV, 23-38, dove ben quindici ottave sono legate dall’iterazione di «veggio» (cinque volte nella sola ottava 23, quattro
nella 28), che diventa rimante a 25, 1, e si stempera nei passati «Veduto» a 37, 1 e «Vide» a 38, 5.
286 Cito solo i casi notevoli di XVI, 83, tempo, 1 : tempo, 3 : tempo, 5 ; XVI, 89, parte, 2 : parte, 4 : sparte, 6 + segni, 3 :
segni, 5; XXVI, 22, anche, 2 : anche, 4 : manche, 6; XXX, 95, inferma, 1 : inferma, 3 : ferma, 5; XXXIII 21, lustri, 2 : illustri, 3 : lustri, 5; , 4, rotta, 2 : grotta, 4 : rotta, 6 + ritenne, 3 : tenne, 5 (e cfr. i rimanti “semantici” eterno, 7 : ’nferno, 8);
XXXVI, 79, faccia, 1 : faccia, 3 : faccia, 5. Interessante XXXVII, 107, ove morte, 2 : morte, 4 (nel cuore della spirale vocalica mo «molti» e «mogli», 1, ma «madri», 2 e «man», 4) “genera” la coppia finale morire, 7 : martíre, 8. Mi sembra poi
assai rilevante il caso, non raro, esemplificabile con le ottave 108 e 109 del canto XXXI, collegate da una sorta di incastro
del tipo coblas capfinidas, fuor di rima: 108, 2 «stava di questa pugna in dubbio e in tema» > 109, 1 «Ma stiano gli altri in
dubbio, in tema, in doglia» (il legame strofico tra inizio ed inizio d’ottava è frequentissimo). – Solo correggendo le bozze
posso vedere L. VANOSSI, Valori iconici della rima nell’«Orlando Furioso», in «Lingua nostra», XLV (1984), pp. 35-47,
che, con altra prospettiva, offre un’interessante esemplificazione su alcuni casi da me trattati in queste pagine.
Letteratura italiana Einaudi 109
«Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto - Corrado Bologna
preposizione «di» (XLV, 1, 6: «il re di | Lidia» [: vedi, 1 : piedi, 3]) o l’avverbio locativo «ne» (XXXVII, 26, 1-2: «il suon ne | viene», associandosi uno pseudo-lemma –
di fatto esistente solo sul piano fonetico! – suon + ne, in rima con donne, 3 : gonne,
5). Piú frequente il caso di enclisi pronominale (cfr. il tipo, assai frequente narrolle :
molle : tolle, VII, 48, 1, 3, 5; attaccolle : molle, XI, 37, 7-8; confortollo : collo : chiamollo, XLI, 55, 2, 4, 6). Se non m’è sfuggito qualcosa, nel Furioso esistono solo due
casi di rima in tmesi: XLI, 32, 1-3, «Fece la donna di sua man le sopra | vesti a cui
l’arme converrian più fine, | de’quai l’osbergo il cavallier si cuopra» (: opra, 5, inclusiva); XLIII, 105, 3-4, «dico come vestir, come precisa | mente abbia a dir, come la
prieghi e tenti» (: guisa, 1: devisa, 5). Il nome Fiordiligi è spezzato dalla morte in
bocca a Brandimarte («né men ti raccomando la mia Fiordi… – | ma dir non poté
–... ligi – e qui finio») a XLII, 14, 3 -4 secondo una tecnica d’origine francese287.
Rara è l’alterazione dei vocaboli in rima: fra i diminutivi rammento aspretta
(:stretta : vetta) a VII, 8, 1 e piccolino (: Bardino : camino) a XXXIX, 41, 3; mi consta, per gli accrescitivi, solo giubbone (: padrone : persone) a XLI, 19, 3.
Ho parlato di una “genesi grafico-fonetica delle rime e dei rimanti”. Esempi
cospicui di questa, che è effettivamente la struttura fondante dell’Armonia musicale del poema, ottenuta attraverso il progressivo slittamento, o crescita a ondate
successive, di una catena semantica basata sull’iterazione fonetica o lessicale, sono
di facile reperibilità. Per tutti ricordo pochi casi: XII, 72, 1-4: «Or cominciando i
trepidi ruscelli | a sciorre il freddo giaccio in tiepide onde, | e i prati di nuove erbe, e gli arbuscelli | a rivestirsi di tenera fronde» («ruscelli» è contenuto in «arbuselli», e «onde» incluso in «fronde»; «trepidi» genera foneticamente «tiepide»; e
queste, anche semanticamente, «tenera»); XV, 47, 1-7: «Fuggendo, posso con disnor salvarmi; | ma tal salute ho più che morte a schivo. | S’io vi vo, al peggio che
potrà incontrarmi, | fra molti resterò di vita privo; | ma quando Dio così mi drizzi
l’armi, | che colui morto, et io rimanga vivo […]» («schivo» del v. 2 dà vita al finissimo gioco «s’io vi vo» di 3, che a sua volta si sdoppia in «vivo» di 6, già implicito in «morto», sinonimo di «di vita privo»); XXIV, 42, 1-2, «Tante donne, tanti
uomini traditi | avea la vecchia, e tanti offesi e tanti» (la plasmazione dei rimanti
per iterazione di elementi linguistici qui non lessicale ma fonetica – si ha anche in
entrambi i versi del distico della stessa ottava: «egli di tôrne la difesa a torto; | né
molto potrà andar che non sia morto»); XXXIII, 124, 3 «[…] come il corno suoni» riecheggia partitamente in «il bel corno afferra» di 124, 6 e in «Astolfo il corno subito ritrova» di 125, 4, ma altresì, foneticamente, nella rima -ova di 125 (nuo287
C. Segre, nella sua edizione commentata cit., p 1404, nota 13, rinvia al Partonopeus de Blois, romanzo d’oïl ben
noto nella cultura padana quattro-cinquecentesca.
Letteratura italiana Einaudi 110
«Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto - Corrado Bologna
va : ritrova : prova, vv. 2, 4 e 6), ed infine, saldando il livello del significante con
quello del significato, in 126, 5: «Astolfo il corno tuttavolta suona» (ma l’eco in (u) o (n) del corno che Astolfo suona si fa udire assai più in profondo nell’ottava
125). Altri timbri di un corno che, rimando con intorno, dà vita ad un’eco prolungata, sono quelli di XV, 14-15 (con tecnica di capfinida fondata sul chiasmo di incipit/explicit); XLIII, 158 (ottava che s’apre sul gioco speculare ella/alle : «[…]
ella alle chiome | caccia le mani; et alle belle gote […]»; l’ottava 159 è a sua volta
cadenzata sulle sinabe or/ro, che poi, nella chiusa, si svolgono in ar/ra). Infine ricordo gli echi tra rimanti e corpo dei versi: cfr. il tipo di XXXVIII, 60, 7-8, riverberato in 69, 1 («[…] ma c’è rimedio, far con Carlo pace: | ch’a lui deve piacer, se
a te pur piace. || Pur se ti par che non ci sia il tuo onore […]).
Piú delicato il riconoscimento di una (peraltro consueta) genesi, anche semantica, come dei rimanti, così delle rime, nella stessa ottava o in ottave successive. Spesso la “tenuta” del sistema si fonda sulla vocale tonica e sulla conservazione di almeno una consonante attigua. Nel canto XVIII, 188, 7, «Mori» in rima mi
pare aprire la strada, dapprima grafico-foneticamente, e quindi anche semanticamente, a tre rimanti (due anch’essi nel distico) quali «morto» (189, 8), «morte»
(190, 8) e «morire» (191, 2), che si riflettono, con liaison fra canto e canto, nel distico delle due ottave incipitarie del canto successivo («morte», XIX, 1, 8 e 2, 8).
Nel canto XX, all’ottava 84 la rima a è -orto. ; nel distico di 85 è -orse; la rima b
dell’ottava 86 è -orte, e quella del distico -orno; la rima b di 88 è -occa, e quella del
distico è -orta; la b di 89 è -oco. A rendere la struttura compatta (e soprattutto
percepibile, quindi riconoscibile, ed anche semanticamente interpretabile) cospira altresì la sostanziale ripresa di due rimanti di 86 (porte : morte, 4 e 6) nel distico di 88 (smorta : porta). Così in XXXIV, 16, 6-8 («[…] | di volere il suo amor tutto donarme, | stimando meritar per suo valore, | che caro aver di lui dovessi il core») «valore» appare “generato” da «volere», e «core» da «caro» (in 17, 3, «corte» è rima contenuta; ivi, al verso 5, torna «valore», non in rirna). A questi collanti grafico-fonetici si aggiungono altre teniche di collegamento di tipo evocativo
(per esempio la rima inclusiva arme : lodarme : donarme, 16, 2, 4 e 6)288.
288 Altrettanto interessante l’esempio di XXXIV, 88 e sgg., ove il rimante velli (88, 1) ritorna al primo verso delle
ottave 89, 90, 91, rallentando nella diffusione all’ottava 89, dove la semantica si distende (il «vello» produce una riflessione sulla lana che «le Parche […] con tali | stami filano vite […]», 7-8), si sublima e si complica foneticamente attraverso il consueto ventaglio cromatico-vocalico: ve («v’è», 1), vi («viene», 2), va («va», 3), ancora ve («vecchie», 7),
vi + vo («vite» e «voi», 8). Il nuovo lemma così generato, vita, si replica nell’ottava 90, 2, e a sua volta dà luogo a «Morte», 3. «Velli», riemerso appunto a 91, 1, torna a dislocarsi nella sillabazione cromatica vo («lavoro», 2), vi («brevi», 3),
ve («avean», 5), ancora vi («farvi», 6 e «via», 7) e ve («vedea», 7 e nuovamente «vecchio», 8). Galleggiando nella chiusa dell’ottava 91, «vecchio» per tecnica di coblas capfinidas passa al primo verso della 91, ultima del canto, ove a sua
volta si ribalta semanticamente in «nato» in rima al verso 2, per rendere l’idea della vitalità, della rapidità («che per
correr parea che fosse nato»). Ma gli influssi incrociati di tipo grafico-fonico di rime e rimanti possono essere molte-
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«Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto - Corrado Bologna
In piú casi esiste affinità fonetica interna fra le singole serie di rimanti di
un’ottava (cfr. il tipo, allitterante e assonante, Brandimarte + ardito + parte + lito
+ parte + quadripartito + altrove + prove, XL, 21); l’associazione fra i rimanti può
essere di tipo semantico (cfr. il tipo moresco : arabesco : francesco, IX, 5, 2, 4 e 6).
In altri luoghi si dà una sorta di “inclusione semantica” di rimanti, anche se non
legati dalla rima (cfr. il tipo gent/lgentilezza + bellezza/bella, VII, 10, 3-4 e 6-7;
morte : morte + morire : martire, XXXVII,107, 2 e 4, 7-8; gelosi + gelosia, XLIII,
73, 5-6), che può ridursi a mera affinità, anche plurima o sfalsata (cfr. i tipi vita/muoia : noia, XIII, 52, 6, 7-8; opra : sopra/otto : sotto , XLII, 79, 2, 6, 3 e 5; viso/pianto/riso : aviso, ibid., 99, 2, 3, 4 e 6).
Serie rimiche che direi «autorizzate» riconducono a pochi, eletti autori canonici, in primo luogo Dante e Petrarca (cfr. poi p. 338): così è dantesca e petrarchesca
la catena costume : lume : piume (ad esempio VII, 22, 2, 4 e 6) e l’appena ricordata,
riemergente a più riprese, viso : paradiso (ad esempio VI, 72, 7-8) o riso : paradiso
(ad esempio VII, 13, 7-8), con varie combinazioni: nel solo canto XLIII (che è il più
lungo del poema) conto ben 5 occorrenze della serie (ottava 67, viso : fiso : aviso;
135, avviso : viso : paradiso; 144, riso : viso : avviso; 157, viso : avviso : conquiso; 190,
paradiso :viso : avviso). L’incipit della Commedia, con i rimanti-chiave, si ode in XIII,
25, 7-8 («Al trar de’ ferri, io fui da la paura | volta a fuggir per l’alta selva oscura»),
ma era già anche incastonato, fuor di rima, in una famosissima ottava del I canto:
Oh gran bontà de’ cavallieri antiqui!
Eran rivali, eran di fé diversi,
e si sentian degli aspri colpi iniqui
per tutta la persona anco dolersi;
e pur per serve oscure e calli obliqui
insieme van senza sospetto aversi.
(I, 22, 1-6)
donde il sintagma-base riprende il suo cammino, per approdare anzitutto nella
già citata (cfr. p. 258) ottava 33 («Fugge tra selve spaventose e scure […]», con rima scure : paure, 1 e 5), quindi nel canto II, dove la serie rimica dantesca resta sull’attante femminile, ma cambia attore, applicandosi a Bradamante (paura : oscura
: dura, 68, 2, 4 e 6). Inequivocabile il verso 4, schiettamente parodico, e investito
della funzione specifica di indicatore intertestuale: la donna «[…] inavedutamete
uscí di via» (v. 3), «e ritrovassi in una selva oscura». Straordinaria, proprio per la
sua vistosità, la parodia petrarchesca (cfr. p. 310) di XXVIII, 45, 1 («Che debbo
plici. A XXVII, 107 e 108 rilevo che la coppia di rimanti canonici in -ella, «donzella» e «ella», fuor di rima ai versi 3 e
4 nell’ottava 107, producono l’eco in rima di quella : appella : ella alla 108, 1, 3 e 5, a sua volta riverberato nella coda
della 109, dove la rima -ella si scempia in -ela, e «quella», iterato, dà vita a «querela» («[…] non può chiamare | più
Mandricardo per quella querela; | e fe’ cadere a quel furor la vela», 6-8).
Letteratura italiana Einaudi 112
«Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto - Corrado Bologna
far, che mi consigli, frate | […]?»): a proposito della quale merita appena aggiungere qui che a sua volta essa ha un riverbero due ottave più tardi (47, 3 -4): «par
che sovente disacerbi e sfoghi | de l’amorose passioni a core», calco esplicito del
celeberrimo verso del Canzoniere, XXIII, 4 («perché cantando il duol si disacerba»). L’occorrenza autorizza a riconoscere la chiara voce dello stesso Urtext fondativo, leggermente velata d’ironia, anche nell’altro calco di X, 27, 7: «Che debbo
far? che poss’io far qui sola?», dietro cui si vede anche, è ovvio, la fonte-base di
Petrarca medesimo (Ovidio, Heroides, X, 59: «Quid faciam? Quo sola ferar?»),
riassorbita tuttavia entro la più recente tradizione volgare. Altri luoghi (XXX, 37,
6: «quel dolce pianto, e quei dolci martíri»; XXXI, 4, 2: «tutti i martír d’amor, tutte le pene») mostrano identica ascedenza: ma più varrà, a questo proposito, rifarsi agli studi precorritori di Bigi e di Ossola e a quelli più recenti di Maria Cristina
Cabani289 sul «petrarchismo» e sul «dantismo» del Furioso, dominato dalla legge
di attrazione per «vischiosità»290, e sulla «conservazione e la memorizzazione dello spirito dantesco», che avvengono attraendo i sintagmi «ai margini rimati del
verso, come un’eco che la rima prolunghi lungo l’ottava e una sicura trama su cui
far confluire la tessitura di ciascun verso»291.
La conclusione riconduce al punto di partenza, al nesso-distinzione rispetto
al Boiardo: Ariosto fu perfettamente consapevole che «al “narrare” del Furioso
non conveniva lo stile, per quanto eletto, di un genere, ma i materiali di un’intera
tradizione, di cui il modulo petrarchesco poteva costituire il luogo di decantazione e di più efficace livellamento»292. Al pari dei suoi contemporanei, Ariosto compone facendo uso di rimari293. E al rimario del Petrarca ricorre spesso per attenuare in termini lirici, colloquiali, di tono medio, l’eccessiva espressività di certi
modi e toni della Commedia: quella che Bembo (Prose, II, 9) definiva «gravità», in
opposizione appunto alla «piacevolezza» stilnovistica, segnatamente ciniana, e
quindi petrarchesca, capace di sussumere dialetticamente anche quella gravità
(per tutti valga l’esempio, efficacissimo, del sogno di Orlando nel canto VIII)294.
289 Cfr. E. BIGI, Petrarchismo ariostesco cit. ; C. OSSOLA, Dantismi metrici nel «Furioso» cit. ; M. C. CABANI, Fra
omaggio e parodia cit.
290 C. OSSOLA, Dantismi metrici nel «Furioso» cit., pp. 73 sgg,, applica la legge di «vischiosità» formulata da Segre anche ai casi in cui «l’assunzione di una serie di rime dantesche attrae per “vischiosità” uno dei versi ad esse corrispondenti, ma spezzato e dislocato subito ad orlare anche la parte d’ottava non rimata», e distingue rispetto alla citazione petrarchesca, «sempre ben localizzata, circoscritta, e non soggetta alle ricomposizioni e coagulazioni metriche
a cui è sottoposta la Commedia».
291 Ibid., p. 72.
292 Ibid., p. 92.
293 Ibid., pp. 90-91, nota 37.
294 Studiando l’episodio-campione del «sogno di Orlando», M. BEER, Romanzi di cavalleria cit., pp 43 sgg., verifica che «nella narrazione del sogno l’Ariosto concentra sinteticamente tutto il linguaggio e la narrazione retorica del
Canzoniere petrarchesco nel giro di quattro ottave»; ma rinviene anche prelievi ed innesti, in quel tessuto petrarche-
Letteratura italiana Einaudi 113
«Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto - Corrado Bologna
Il ricorso calcolato di Ariosto alla tradizione emerge, nel Furioso, in quanto
segno d’una frattura, di una resistenza: «come limite estremo posto alla labirintica “inchiesta” [...] dei personaggi, al rinvio all’infinito dell’agnizione: se questa ha
“luogo”, esso è nel “ritrovamento” dei segni letterari, il limite del “narrare” iscrivendosi appunto nella citazione. Ma essa testimonia insieme l’avvenuta uniformazione delle tradizioni e degli stili (dal sublime al plebeo, dal canterino al culto),
l’effacement dei “termini” invalicabili e distintivi di questo o quel “linguaggio
poetico”, il rovesciamento vittorioso della poetica dell’imitazione: il linguaggio di
Dante e di Petrarca non costituendo più la meta del “discorso poetico”, ma semplicemente il suo percorso. La citazione si colloca così nel Furioso al limitare tra
“ritorno” e “attraversamento” dei segni letterari, sottile e fascinoso limen ad narrandum, limen ad errandum»295.
3. «Contenuti» e «temi».
3.1. I «contenuti» del Furioso.
All’inizio c’è solo una fanciulla che fugge per un bosco in sella al suo palafreno. Sapere
chi sia importa sino a un certo punto: è la protagonista d’un poema rimasto incompiuto, che sta correndo per entrare in un poema appena incominciato296.
Con la sua geniale forza di condensazione, Italo Calvino ci offre uno spaccato perfetto del rapporto Innamorato/Furioso quanto alla “trama” della vicenda. Il
movimento iniziale è già slanciato, fin dall’apertura del sipario: il primo personaggio che entra in scena corre, proviene da un “altrove” che non c’è più, va verso un “altrove” che non esiste ancora. Sono il suo cavallo, la sua corsa, a dar vita
al tempo e allo spazio «interni» del nuovo libro, anch’essi mobilissimi, fulminei,
appunto perché stanno sviluppando un’energia, uno slancio, un’accelerazione
sco, di sistemi rimici danteschi, come la rarissima (due occorrenze nel Furioso: oltre che qui, a XLII, 5 2) serie fosco :
bosco : tòsco. C. OSSOLA, Dantismi metrici nel «Furioso» cit., pp. 85 sgg., studiando sulla base di alcuni spunti di
Giovanni Getto la «medietà linguistica» dell’Ariosto, sottolinea come il vaglio del Petrarca funga «quasi da termine di
mediazione tra il narrare spigoloso e profetico di Dante e l’adagiarsi lirico dei petrarchisti», concludendo (p. 87) che
«anche là dove la presenza di Dante è garantita, insieme all’impianto rimico, dalla citazione di un emistichio o di un
intero verso, è possibile constatare l’inserimento ‘normalizzatore’ di sintagmi o strutture petrarchesche». Interessante
il confronto con l’episodio boiardesco di Orlando che «d’amor parlava come insonniato» (Orlando Innamorato cit., I,
XXIX, 44-51: 47, 8), anch’esso tutto tramato di sottili riferimenti al lessico e alla semantica dello stilnovismo e del petrarchismo: cfr. S. LONGHI, Orlando insonniato cit., e F. SIMONI BALIS-CREMA, Orlando innamorato: un cavaliere medievale in una corte del Rinascimento, in «La Cultura», XVII (1980), pp. 121-38.
295 C. OSSOLA, Dantismi metrici nel «Furioso» cit., pp. 92-93.
296 Italo Calvino racconta l’Orlando furioso cit., p. 3. Ma già A. BALDINI, La difesa di Angelica, in «L’ottava d’oro»
cit., pp. 47-86, intuì la natura epifanica, lampeggiante e volatile di Angelica: «Entra nel poema fuggendo, esce dal poema sparendo […]. Quante mai volte la vediamo scomparire, nel “Furioso”!» (p. 54).
Letteratura italiana Einaudi 114
«Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto - Corrado Bologna
impressi in precedenza, in un altro luogo. Lo spazio del Furioso è fin dall’inizio in
movimento, giacché sta congiungendosi ad un altro spazio in cui tutto è già avvenuto e spinge quel già da sempre verso un non ancora. Accade tutto come nei sogni, che “continuano” il discorso diurno, però con un’“altra lingua”, in un “altro
spazio”: con la lingua e nello spazio dell’Altro.
Così si può sintetizzare, credo, e non solo per metafora, il significato della
categoria di “giunta all’Innamorato” che Ariosto in persona autorizzò. Lo spazio
dell’Innamorato continua e si trasforma in quanto è stato costruito, intenzionalmente, quale spazio di un’opera «“aperta” a continuarsi essa stessa dopo varie
interruzioni, con aggiustamenti di disegno, e aperta alle continuazioni altrui» 297;
e di un’opera aperta, anche, verso il passato (l’epica francese, dall’archetipo
Chanson de Roland in poi)298, da cui riceveva a sua volta personaggi, trame, immagini e idee.
Lo spalancarsi della scena su un palcoscenico già attraversato da Qualcuno
che sembra sbucare dal nulla, e la cui irruzione ci trascina nello stesso salto che
quel Qualcuno compie, è della natura ermetica delle “entrate” con cui ci appare
lo spirito che torna, capace di «varcare i confini del regno dell’altro», al pari di
ogni «signore di un passaggio misterioso», di ogni «contrabbandiere che supera
le frontiere proibite»299.
L’entrata di Angelica è l’avvento di un Angelo: un adventus pieno di mistero, poiché ha origine in un tempo-spazio tuttora sconosciuto e fa cenno a molte cose a venire (in senso etimologico: ad-ventura), “oscure” quanto la selva labirintica in cui si annunciano. Come succede spessissimo nel Furioso, per lei
come per molti altri personaggi il Nome interviene in seconda battuta, quando
ormai l’Attore è già sulla scena300. Come s’è visto (cfr. pp. 311 sgg.) Angelica è
297 A. LIMENTANI, Avvento d’Angelica. Appunti I canto dell’«Orlando innamorato», in AA. VV., Symposium in
honorem prof M. de Riquer, Barcelona 1984, pp. 137-60 (a p. 137).
298 Cfr. ibid., specialmente pp. 148 sgg. (e la bibliografia indicata a p. 157, nota 39, oltre ovviamente al classico studio di Rajna, per cui cfr. qui, p. 275, nota 62); ma per l’intersezione delle “materie” e l’effetto parodico che ne deriva
si vedano anche K. W. HEMPFER, Textkonstitution und Rezeption: zum dominant komisch-parodischen Charakter
vom Pulcis «Morgante», Boiardos «Innamorato» und Ariostos «Furioso», in «Romanistisches Jahrbuch», XXVII
(1976), pp. 77-99.
299 J. STAROBINSKI, Portrait de l’artiste en saltimbanque, 1970 (trad. it. Ritratto dell’artista da saltimbanco, a cura
di C. Bologna, Torino 1984, p. 149).
300 Assumo qui il termine ‘avvento’ in accezione più larga di quella deducibile dal titolo e dallo studio di A. LIMENTANI, Avvento d’Angelica cit., e più vicina, piuttosto, così all’etimologia che lo lega ad avventura, come alla
chiave acutissima in cui J. STAROBINSKI, Portrait cit., trad. it. p. 146, interpreta le fìgure-maschere il cui passaggio
«ci consente di passare a nostra volta nella salvezza». Angelica “torna”, nel Furioso, provenendo da “altrove” (dall’Innamorato e dalla tradizione cavalleresco-canterina): come per gli angeli o per i giocolieri-clowns ermetici esaltati
dall’arte moderna, non sarebbe assurdo dire che «la sua apparizione ha come fondale un abisso spalancato, dal quale
si slancia su di noi» (ibid., p. 149). Quest’«abisso» è la tradizione, la sua apokatástasis, il suo accumularsi ed estinguersi
nel Furioso. Dopo Ariosto ed il Tasso, che lo completa agonisticamente, ci sarà spazio, in quest’azzeramento della tra-
Letteratura italiana Einaudi 115
«Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto - Corrado Bologna
per il lettore, per noi che leggiamo-guardiamo il suo avvento, anzitutto un’anonima «donzella» (I, 8, 7), quindi una «donzella» che è «salita in sella», «presaga che quel giorno esser rubella | dovea Fortuna alla cristiana fede» (ibid., 10,
vv. 1, 3 e 5-6). Il suo nome, fino a quel momento, è stato pronunciato solo in
quanto tema, idea, immagine del microspazio mentale di Orlando, parte del
macrospazio mentale del Furioso dominato da Ariosto («Orlando, che gran
tempo inamorato | fu de la bella Angelica [...] »: ibid., 5, 1-2). E prende forma,
quale Nome dell’Attore, solo all’ottava 11 (v. 7: «come Angelica tosto il freno
torse […]»).
Quelli di noi che ne sanno di più possono spiegare che si tratta d’Angelica principessa
del Catai, venuta con tutti i suoi incantesimi in mezzo ai paladini di Carlo Magno re di
Francia, per farli innamorare e ingelosire e così distoglierli dalla guerra contro i Mori
d’Africa e di Spagna301.
L’impressione di incommensurabilità che si prova, a libro infine richiuso,
dinanzi al Furioso, è legata a questa concomitanza, non poco dialettica ed anzi
talora contraddittoria, fra semplicità elementare e cristallina, da fiaba perfetta,
ed infinita complessità, stupefacente per numero di avventure narrate, di intrecci annodati, di figure portate in scena, d’improvviso abbandonate, quindi
riprese e ricollocate in nuove sedi. La metafora degli Scacchi, dalle risonanze
metafisiche, è stata scelta opportunamente (ancora una volta è Ariosto in persona che sembra autorizzarla).
E qui riconosciamo con chiarezza il vero e proprio miracolo della scrittura
ariostesca. La fortissima autoreferenzialità di questo libro, che pare scritto per inglobare tutti i libri reali e tutti quelli possibili, l’insistenza sul gioco del significante, che sembra godere di assoluta autonomia, non ostacolano mai il piacere del testo, non impediscono mai che il Lettore si goda quasi inconsapevole – poiché tutto il lavorio di cifrazione dell’Ariosto è subliminale, affidato ad una serie di intermittenze della memoria involontaria – la cavalcata, il trotto, il passo lento della
storia, dell’insieme di tutte le storie, abbandonandosi al fluire liquido della “trama” senza più percepire l’acqua stessa su cui viaggia insieme con i personaggi, lo
stesso Cavallo o Ippogrifo che lo portano per terra o per aria.
Non potremmo in alcun modo, tuttavia, né avrebbe senso, sintetizzare una
“trama”, una sinossi del “contenuto” del Furioso. Il valore della narrazione, come
s’è visto, è affidato da Ariosto ad un verso esemplare («Nascono casi, e non saprei
dizione cavalleresca, solo per cavalieri-clowns, grotteschi e parodici: per Don Chisciotte, per il Barone di Münchhausen (che sostituirà insieme Rodomonte ed Astolfo), per il Voyage dans la lune di Cyrano de Bergerac.
301
Italo Calvino racconta l’Orlando furioso cit., p. 3.
302 M. CORTI, Percorsi dell’invenzione cit., pp. 22 e 25.
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«Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto - Corrado Bologna
dir quanti»: XIII, 39, 1), che costituisce l’ideale e la sfida del poema-romanzo:
“dar ordine” al caos degli infiniti possibili mediante l’intreccio narrativo, e quindi “dar ordine all’ordine” del libro stesso, attraverso momenti di pausa per il lettore (le rapidissime «chiuse» di ogni canto fanno cenno al topico «riposo»; e ogni
canto, per chi legge come già per chi scrive, è la tappa d’una corsa a cavallo), indicatori testuali, segni di richiamo e richiami espliciti alla ripresa di fila diegetiche, ecc. L’intero apparato grafico-fonetico-semantico illustrato nella sezione precedente non solo rappresenta lo scheletro di questo “ordine” di seconda potenza:
ma predetermina i passaggi della ricezione e dell’interpretazione, grazie alla tessitura iterativo-formulare ed alla sua riconoscibilità e, alla lunga, prevedibilità, che
genera un piacere di tipo gnoseologico.
Compito dell’autore è dunque selezionare e far giocare gli infiniti “casi” che
spontaneamente “nascono” nella “selva” dagli infiniti sentieri intersecantisi e subito interrotti, e dominarne l’insieme nella propria Mente-Poema. Già nel Mambriano del Cieco di Ferrara (I, 5, 6-7) si parlava (con ripresa d’un tópos che mi pare, in sostanza, quello incipitario della Vita Nuova dantesca) di un libro scritto in
interiore mente, quindi espresso per verba: «Spargerò fuor gli accenti e l’opre assonte | nell’interno mental d’arme e d’amore». Ariosto, in grazia del raffinato,
complesso meccanismo linguistico-formale ideato per sostenere e “portare” la
“trama”, fa si che l’intero libro coincida, mentre viene composto, con la sua stessa Mente, forse anche per trasformare – trasformando nel contempo il suo Libro
– la Mente del Lettore. E questo non con finalità esoteriche di genere anagogico:
bensì perché, semplicemente, una volta letto il Libro, nessuno possa più rimanere
ciò che era prima.
3. 2. I «temi» del Furioso.
Il vero “tema” del Furioso è la Conoscenza. Tutti, qui, dall’inizio alla fine, inseguono qualcosa o qualcuno, e ne sono inseguiti, perché non lo godono, non lo vedono, non lo sanno, e invece vogliono saperlo, vederlo, goderlo.
Il “tema” della Conoscenza non è un contenuto: ma il contenuto, e la sua forma. Ossia, la scienza/arte di dar forma a un contenuto. Come ogni “tema” musicale, anche questo è ritmo aereo, impalpabile scansione di voce e di silenzio, di
comunicazione esplicita e di comunicazione implicita. Riemerge e riaffonda, c’è e
già non c’è più. Attraversa scene, situazioni, incontri e scontri di personaggi, tempi, spazi, e noi lo seguiamo, e crediamo, ascoltandolo, d’averlo acciuffato, di “tenere” il suo tempo armonico e il suo spazio sonoro: ma ci è già sfuggito, lasciandoci solo la speranza e l’attesa di un ritorno; che costituiscono, nel Furioso, il piacere della lettura. Il “tema” non ha un tempo né un luogo, è sempre “fuori temLetteratura italiana Einaudi 117
«Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto - Corrado Bologna
po” e “fuori luogo”, perché un “tempo” è ad esso sotteso, e ad un “luogo”, invece, soltanto tende. Non ha un “contenuto”, non parla di “qualcosa”: un “tema”
parla sempre d’altro.
Per nessun nostro libro, credo, come per il Furioso (e per la Commedia, che
ne è l’immediato archetipo) vale l’esatta affermazione di Maria Corti: «L’invenzione artistica fonda un sapere, estende la nostra conoscenza del mondo. [...]
Ogni invenzione artistica offre una nuova mappa del mondo, ce la offre parlando
d’altro»302.
Per il Furioso è quanto mai vero, in particolare, ciò che si asserisce sia, fin dalle origini, peculiare del Romanzo: che esso sia inteso, cioè, come e più della fiaba,
a destrutturare e ristrutturare, attraverso la falsificazione della realtà, i meccanismi concettuali e cognitivi del lettore, per condurlo e negativo sulla soglia d’un
nuovo e diverso apprendimento.
Il Furioso, che propone come possibili gli impossibilia e per il quale par quasi
impossibile tutto ciò che la vita quotidiana fa scorrere sotto i nostri occhi, ci allena alla mutazione interiore per assuefarci a sopportare, accettare, far nostre le
mutazioni esteriori, incorporandole e trasformandole “dentro” di noi. Il suo schema epistemico è quello di un theatro sapienziale, di un percorso gnoseologico, ma
di genere pre-logico, vicino piuttosto alla pensée sauvage che alla dialettica aristotelica303: è lo schema «di un rito d’iniziazione, d’un addestramento delle nostre
emozioni e paure e dei nostri processi conoscitivi». Allora «anche se praticato ironicamente», anzi forse ancor più in forza di quest’ironia che contribuisce a far vacillare l’incontrovertibile, “logica” stabilità dell’universo304, questo rito iniziatico
che è la scrittura/lettura del Furioso «finirà per rimettere in gioco tutto quel che
abbiamo dentro e tutto quel che abbiamo fuori»305.
Si entra nel Furioso inconsapevoli, e uscendo, storditi dalla vastità e dalla labirinticità del viaggio testuale, dall’affollamento e dal ribollio della scena, si sa. Si
è scesi nel káos e si è riemersi nel kósmos; ci si è “perduti” nell’indistinto per “ri303 Cfr. C. BOLOGNA, Esercizi di memoria. Dal «Theatro della Sapientia» di Giulio Camillo agli «Esercizi Spirituali» di Ignazio di Loyola, in La cultura della memoria cit., pp. 169-221, in particolare p. 184 (e lo studio di C. Severi ivi
citato).
304 Cfr. C. SEGRE, Fuori del mondo cit. ; a p. 93 Segre parla del «carattere rituale della follia cavalleresca», che Don
Chisciotte imita guardando ad Amadís e all’Orlando del Furioso. Questa necessità rituale di sfidare l’altro per andar
oltre, superando l’identico che paralizza, è stata posta in risalto nella struttura ideologico-letteraria della cavalleria da
Mario Mancini in alcune pagine assai dense (I «cavallieri antiqui»: paradigmi dell’atistocratico nel «Furioso», in «Intersezioni», VIII (1988), pp. 423-454, specialmente p. 449).
305 Traggo questa citazione e la precedente, di Calvino, da M. LAVAGETTO, Introduzione all’edizione da lui curata di I. CALVINO, Sulla fiaba cit., p. XXVI. – Il “luogo” fisico è per emblema, nella mobile, dinamica spazialità del
Furioso, una condizione esistenziale, un «modo di essere insieme interiore ed esteriore» (G. BARLUSCONI, L’«Orlando furioso» poema dello spazio cit., p. 48).
Letteratura italiana Einaudi 118
«Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto - Corrado Bologna
trovarsi” in una nuova, inattesa forma d’individuazione. Si è percepito l’universo
che si sfaldava nelle sue componenti essenziali (Acqua Terra Fuoco Aria) per tradursi in sistema metaforico delle passioni umane, labili e fortissime, tutte uguali e
sempre diverse: come i cavalieri, come le donzelle il cui nome giunge a dar loro
un’identità solo dopo che il loro destino li ha condotti sulla scena. Si sono attraversate, come tappe di una medesima corsa scatenata eppure controllatissima, la
follia delle idee ossessive e il ritrovamento del senno attraverso la leggerezza dell’ironia; la guerra che dà via alla storia e la conquista d’una diversa pace interiore
e universale; l’inseguimento di fantasmi senza i quali si crede di non riuscire a vivere e la fuga dalle concretissime realtà con le quali si crede di non riuscire a sopravvivere. Là dentro s’è imparato non il lógos, ma il mythos, detto dalla voce che
insegna come scaturisce l’Ordine dal Disordine senza eliminare mai nessuno dei
due momenti, né l’apollineo né il dionisiaco, e invece imparando ad armonizzarli
in un gioco leggero, rapido, esatto, visibile, molteplice, solido/consistente.
Per questo siamo certi, uscendo dal Furioso, che con il suo poema-romanzo
l’Ariosto è divenuto un “classico”. Le ragioni, credo, sono quelle emerse nell’analisi fin qui sviluppata; ma le trovo perfettamente sintetizzate nel saggio con cui si
è aperto il volume I delle Opere della Letteratura italiana, dedicato a Il canone delle opere:
I grandi classici […] sono sempre degli scrittori “radicali”, nel senso più proprio del
termine, in quanto, appunto, “vanno alla radice delle cose”, esplorano, sommuovono le
profondità dell’essere, come un aratro che rovescia le zolle e ne mostra il lato a lungo
nascosto. Rappresentare l’essere significa necessariamente tornare verso le origini, rimontare all’indietro o scendere in profondità al di là della civilizzazione. In ogni grande classico l’elemento barbarico, primitivo, è almeno altrettanto forte di quello che
esprime la civiltà e la cultura. Dioniso sta dietro ad Apollo, ed è da lui che viene la forza primigenia del grande autore: prima di prender forma, prima di assumere l’involucro
armonico che più facilmente scorgiamo, c’è uno sconvolgimento tellurico che cambia la
forma del territorio e inonda di lava gli ordinati assetti dei letterati comuni, dei prosecutori, dei continuatori e degli esegeti. Chi vede solo Apollo, vede solo una metà del
classico, e non sempre quella più significativa [...] .
I grandi classici, dunque, sono esperti, più che della regolarità e della sistemazione, del
“caos” e del “disordine”. Sono degli specialisti di “situazioni originarie”. Siccome l’“essere in sé”, cioè l’“origine”, si presenta come un caos e un indistinto, i grandi classici
trovano le “parole”, cioè la “forma comunicabile”, per “dire” questo stato di caos e di
disordine. Non v’è dubbio che “forma” abbia qualcosa a che fare con “ordine”: da questo punto di vista, e alla fine, i grandi classici sono dei grandi costruttori di ordine.
Però, si dovrebbe convenire sul fatto che la forma di questo ordine riceva la sua significazione e si elevi a grandezza in conseguenza di questa rinnovata scoperta delle origini
e di questa percezione di un caos che non è ancora stato detto da altri con parole. [...]
Solo menti borghesi di esemplare educazione filistea hanno potuto leggere nell’Orlando
Letteratura italiana Einaudi 119
«Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto - Corrado Bologna
Furioso il poema dell’ordine elevato ad “armonia” universale, senza scorgere, dietro la
poderosa sistemazione poetica, il corredo immenso d’inquietanti bagliori sotterranei e
di dolorose percezioni della tragicità dell’esistenza umana, che quel poema ospita nel
suo seno306.
Il Furioso “trova le parole” per “dire” il caos, per visualizzarlo e renderlo tangibile, facendo traballare la consistenza del cosmo. Ma anche per insegnare, proprio nell’atto del dirle, la strada dell’armonizzazione, il sentiero lungo il quale la
Terra torna ad essere solida e compatta, l’Acqua scorre senza sommergere ed annegare, il Fuoco non dilania più il petto ardente degli uomini e delle donne, l’Aria spira come un «ventolin» primaverile: eppure, sotto, l’Aria è un Cielo spalancato sopra di noi, una Luna irraggiungibile in cui i nostri sogni si specchiano senza risposte; il Fuoco cova e lancia vampe e lingue mobilissime; l’Acqua è un impetuoso oceano dalle ondate lunghe come i versi del Furioso; la Terra una Selva
spaventosa e oscura, un friabile piano ondulato, gommoso e vacillante per i sommovimenti che dal basso sospingono.
La Memoria di tutte le parole, di tutti i flashbacks, di tutti i sentieri, non può,
né deve, conservarli immobili, intatti in un feticistico ordine di belle statuine.
Questa Memoria, che è il Furioso, è mobile, dinamica, proteiforme e trasformatrice. Conserva sempre attivi il caso nella necessità, il caos nel cosmo, il possibile
nell’avverato, e nell’impossibile.
Dunque, il Furioso è la Mente-Theatro di Ariosto: una macchina generatrice di
innumerevoli “trame” possibili, volta per volta attivate o negate a seconda del sentiero imboccato dai cavalli del Piacere e dal Desiderio. Ed è una macchina metamorfica, che trasforma chi vi entra, insegnandogli a smontare (e perciò a ricostruire) trame e intrecci e artifici e reazioni: insomma, quel che si chiama Romanzo.
Tanto è metamorfica, questa macchina, che infine trasforma se stessa, dal momento che ogni interruzione, ogni ripresa, ogni nuovo personaggio e sentiero, ogni abbinamento grafico-fonico-semantico, mutano alla radice non solo il suo “contenuto”, ma la stessa “forma” che lo plasma. È una macchina in movimento, e l’ultima
ottava dell’ultimo canto “chiude” il libro, ma insieme lo sospinge ai nuovi ad-ventura cavallereschi che saranno del Tasso e, parodisticamente, di Cervantes.
Apertosi sul «fuoco» della passione e della gelosia, il libro si chiude sul «giaccio» della morte che raggela i corpi, e alle «serve spaventose e scure» (I, 33, 1) si
sostituiscono le «squalide ripe d’Acheronte» (XLVI, 140, 5).
Giacché il “contenuto” del Furioso è questo spazio in movimento, concluderemo che si tratta di un Libro che ha se stesso come “contenuto” e come “tema”: e
306
A. ASOR ROSA, Il canone delle opere, in Letteratura italiana. Le Opere, I cit., pp. XXIII-LV (alle pp. XLVIIXLVIII).
Letteratura italiana Einaudi 120
«Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto - Corrado Bologna
può quindi trasformarsi nel modello ingannevole di ogni possibile libro “d’avventura”, dal momento che tratta essenzialmente l’ingannevole avventura della vita307.
3.3.
Sentieri interrotti.
Il vero “contenuto”, i reali “temi” del Furioso sono in realtà pienamente, limpidamente concentrati nell’esposizione dell’esordio, quasi una lettera nascosta di Poe,
esibita in bella vista. Se ne segua l’evoluzione lungo le tre edizioni, e l’improvviso
sbocciare della formula geniale, nell’ultima:
Di donne e cavallier li [B: gli] antiqui amori,
le cortesie, l’audaci imprese io canto […]
Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori,
le cortesie, l’audaci imprese io canto […]
(1516, 1521).
(1532).
Ciò che Ariosto cerca, e alla fine conquista, è quella che Benvenuto Terracini
definí una «sintetica tonalità espressiva»308. Ma, soprattutto, un’autonomia dialettica dalle proprie “fonti”, che gli permetta di conservarle in sé, pur abolendole.
L’elenco, apprestato dal Segre, dimostra la vivace commissione e la radicale cancellazione dell’origine (la “fonte”, che è la citazione), finalizzata a dare il via al
“narrare”:
1)
2)
3)
4)
5)
«Arma virumque cano» (Virgilio, Aen., I, 1);
«Però diversamente il mio verzero | de amore e de battaglie ho già piantato»
(Boiardo, Inn., I. III, v, 2,1-2);
«le donne e’ cavalier li affanni e li agi | che ne ’nvogliava amore e cortesia» (Dante,
Purg., XIV, 109-10);
«d’arme e d’amore» (Cieco da Ferrara, Mambriano, I, 5, 7);
«Armes, Amours, Dames, Chevaleries» (Eustache Deschamps, Balades de moralitez, CXXIII, 1)309.
Nel primo emistichio riecheggia, con ogni evidenza, Dante: «ma si tratta, più
che di derivazione, di sintonizzazione» a un’identità tematica profonda, quella
«della nostalgia per i bei tempi andati»310. Ma questo accostamento all’auctor fon307 Esprime magnificamente en poète quest’idea, ormai vulgata, Jorge Luis Borges, nel già evocato Ariosto y los árabes (vv. 41-44): «Ni el amor ignoró ni la ironía | y soñó así, de puderoso modo, | el singular castillo en el que todo | es
(come en esta vida) una falsía». Ma è un inganno già condensato nella molteplicità spaziale del poema domestico e cosmico, nella sua ubiquità/policentricità, nel moltiplicarsi in sincronia delle voci e delle narrazioni in apparenza incommensurabili, e invece “tenute insieme” dal Libro (vv. 45 -48): «Como a todo poeta, la fortuna | o el destino le dio
una suerte rara; | iba por los caminos de Ferrara | y al mismo tiempo andaba por la luna».
308 B. TERRACINI, Lingua libera e libertà linguistica. Introduzione alla linguistica storica, Torino 19702, p. 53 (a p.
52 l’analisi stilistica della «scena armonicamente disposta, quasi un’ardita proposizione nominale di cui il verbo non è
che un nascosto supporto», nell’incipit del Furioso).
309
Cfr. C. SEGRE, Testo letterario, interpretazione, storia cit., p. 84.
310 Ibid., p. 85.
Letteratura italiana Einaudi 121
«Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto - Corrado Bologna
dativo delle lettere italiane era già stato voluto da Boiardo, come ancora Segre ci
ricorda311:
Così nel tempo che virtú fioria
ne li antiqui segnori e cavallieri,
con noi stava allegrezza e cortesia,
e poi fuggirno per strani sentieri312.
Lungo quei medesimi «strani sentieri» Ariosto fa cavalcare, in cerca nostalgica d’avventura, d’amore e di cortesia, i suoi «cavallier», che tornano ad essere definiti «antiqui» (assorbendo l’attributo originariamente di «amori») solo nell’ottava 22; e lungo il poema saranno chiamati spesso «antiqui» e associati a cortesia
(cfr. per esempio XXXVI, 2, 1-2: «Di cortesia, di gentilezza esempii | fra gli antiqui guerrier si vider molti […]»; ibid., 10, 2-3: «[…] gli antiqui guerrier, di quai li
studi | tutti fur gentilezza e cortesia»).
«L’accostamento armi-amori, chiasticamente affine alla coppia donne-cavalieri, è suggerito dal Boiardo («de amore e de battaglie»), ma, per la forma, si avvicina di più al Deschamps e al Mambriano (il Deschamps ha la coppia donne-cavalleria). Si tratta di una coppia lessicale che richiama concetti chiave del mondo
cortese, ma che nel Boiardo assume una pregnanza particolare, assimilata dall’Ariosto: la confluenza di materia carolingia (epica) e arturiana (amorosa); si tratta,
in Boiardo e nell’Ariosto, di un’enunciazione programmatica, non per nulla nel
prologo (Ariosto) e in un inizio di canto con propositi definitori (Boiardo). Qui
l’intertestualità vuol anche suggerire il rapporto d’integrazione tra i due poemi,
adombrato dall’Ariosto»313. E va aggiunto che già Boccaccio aveva aperto il Teseida (modello narrativo conflittuale, anche per Boiardo: cfr. p. 277) con un’invocazione (I, 3, vv. 1 e 3) a «Marte rubicondo» e alla «madre d’Amor». D’altronde
di quanto abbiano in comune anche nel Furioso Amore e Morte, legati secondo
una figura paraetimologica ampiamente autorizzata e canonizzata dalla lirica medievale, s’è visto a proposito della charpente phonique del poema (cfr. pp. 297
sgg.): e al modo in cui le Armi (il loro significante, ma anche il loro significato) sono “contenute” negli Amori, la Morte alberga, celata, in Marte, come Ariosto ripete in numerose associazioni fonico-semantiche e anagrammatiche intorno, appunto, al “tema” arme/Marte/morte.
Che il libro sia soprattutto dedicato alle Donne, alle donne cortesi, e in primo luogo ad Isabella (d’Este), lo dice la posizione incipitaria del vocabolo, il
quale riemerge in molte e variate occorrenze, frequentemente associate ai «ca311 Ibid. Si vedano le belle pagine dedicate a questa nostalgia e alla sua sublimazione, nel Boiardo, da F. SIMONI
BALIS-CREMA, Orlando innamorato cit.
312
M. M. BOIARDO, Orlando Innamorato cit., II, 1, 2, 1-4.
313 C. SEGRE, Testo letterario, interpretazione, storia cit., pp. 84-85.
Letteratura italiana Einaudi 122
«Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto - Corrado Bologna
vallieri», e altrettanto spesso invocate in apertura di canto: XV, 76, 1-2 («Le donne a riposare i cavallieri | menaro»); XIX, 98, 1 («Le donne […]»; «cavallier» al
v. 3); XX, I, 1-2 («Le donne antique hanno mirabil cose | fatto ne l’arme e ne le
sacre muse»); XXII, 1, 1 («Cortesi donne e grate al vostro amante […]»); XXV,
56, 2 (in una sala sono «cavallieri e donne») e 58, 1 (si parla di «donne e donzelle» che s’alzano da letto); XXVI, 1, 1 («Cortesi donne ebbe l’antiqua etade
[…]»); XXVII, 1, 1 («Molti consigli de le donne […]»); XXVIII, 1, 1 («Donne,
e voi che le donne avete in pregio […]»); XXIX, 2, 1 («Donne gentil […]»);
XXX, 3, 1 («Ben spero, donne, in vostra cortesia […]»); XXXVII, 1, 5 («Le valorose donne […]») e ibid., 46, 1 («Le donne e i cavallier […]», replica esatta di
I, 1); XXXVIII, 1, 1 («Cortesi donne […]»); XLIII, 4, 1 («Che d’alcune dirò belle e gran donne […]»); XLVI, 3, 1-2 («Oh di che belle e saggie donne veggio, |
oh di che cavalieri il lito adorno!»).
È difficile dire in breve del resto del Furioso, “contenuto” e “temi”. Gioverà
rivolgersi, una volta di più, alla garbata, leggiadra parafrasi di Calvino:
Le trame principali, ricordiamo, sono due: la prima racconta come Orlando divenne,
da innamorato sfortunato d’Angelica, matto furioso, e come le armate cristiane, per
l’assenza del loro campione, rischiarono di perdere la Francia, e come la ragione smarrita dal folle fu ritrovata da Astolfo sulla Luna e ricacciata in corpo al legittimo proprietario permettendogli di riprendere il suo posto nei ranghi. Parallela a questa si snoda la seconda trama, quella dei predestinati ma sempre procrastinati amori di Ruggiero,
campione del campo saraceno, e della guerriera cristiana Bradamante, e di tutti gli ostacoli che si frappongono al loro destino nuziale, finché il guerriero non riesce a cambiare di campo, a ricevere il battesimo e a impalmare la robusta innamorata. La trama Ruggiero-Bradamante non è meno importante di quella Orlando-Angelica, perché da quella coppia Ariosto (come già Boiardo) vuol far discendere la genealogia degli Estensi,
cioè non solo giustificare il poema agli occhi dei suoi committenti, ma soprattutto legare il tempo mitico della cavalleria con le vicende contemporanee, col presente di Ferrara e d’Italia. Le due trame principali e le loro numerose ramificazioni procedono dunque intrecciate, ma s’annodano alla loro volta intomo al tronco più propriamente epico
del poema, cioè gli sviluppi della guerra tra l’imperatore Carlo Magno e il re d’Africa
Agramante. Questa epopea si concentra soprattutto in un blocco di canti che trattano
l’assedio di Parigi da parte dei Mori, la controffensiva cristiana, le discordia in campo
d’Agramante. L’assedio di Parigi è un po’ come il centro di gravità del poema, così come la città di Parigi si presenta come suo ombelico geografico314.
La vastissima materia ariostesca è sapientemente ridotta da Calvino a una
ventina di grumi narrativi, fissati lungo un’ideale spina dorsale della “trama” intorno ad uno o più nomi-personaggi o nomi-luoghi collegati nel testo, che smista-
314
I. CALVINO, La struttura dell’«Orlando» cit., p. 84.
Letteratura italiana Einaudi 123
«Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto - Corrado Bologna
no ed agglutinano i molteplici nuclei intercomunicanti, consentendo di razionalizzarli in schemi dotati di coerenza e visibilità. Non sapendo far di meglio, mi limito a riprodurre qui la serie dei titoli scelti da Calvino per i suoi capitoli, che varranno da minimo filo continuo della storia, a loro volta decostruibili in componenti minori, o invece incastrabili in soprainsiemi che ne inglobano più d’uno,
lanciando ulteriori reti attraverso la “trama” stessa:
Angelica inseguita
Bradamante e l’Ippogrifo
L’isola di Alcina
Orlando, Olimpia, l’archibugio
Olimpia abbandonata
Le incatenate dell’Isola del Pianto
Mandricardo rapisce Doralice
Rodomonte alla battaglia di Parigi
Astolfo contro Caligorante e Orrilo
Cloridano e Medoro
Il palazzo incantato
Il duello per la spada Durindana
La pazzia d’Orlando
La discordia nel campo d’Agramante
Morte di Zerbino e Isabella
Rodomonte, Orlando pazzo, Angelica
Astolfo sulla Luna
Bradamante e Marfisa
Il duello di Rinaldo e di Ruggiero
Il rinsavimento d’Orlando
Il triplice duello di Lampedusa
Fine di Rodomonte315.
Mai troppo caratterizzati, specie in rapporto agli eroi a tutto tondo dell’Innamorato, i personaggi del Furioso sono soprattutto, come s’è visto, mediatori fra
Aria Fuoco Acqua Terra, impalpabili costruzioni fonetiche intorno a nomi parlanti, movimento di spazi e di tempi e di piani prospettici, energie vitali sempre in
corsa, sempre all’inseguimento, en quête di avventure d’«arme» e d’«amori».
Alcuni di loro, come Issabella, Bradamante, Ruggiero (in sottile antagonismo,
quest’ultimo, con Orlando), denunciano il referente realistico (la famiglia d’Este)
alla cui fondazione mitica sono intesi, di per sé e nei rapporti reciproci: dal matrimonio di Ruggiero e Bradamante, com’è noto, scaturirà la dinastia a cui il poema
è dedicato, e che riceve glorificazione suprema in una climax ascendente, fino al
canto XLI (ottava 3: «L’inclita stirpe che per tanti lustri | mostrò di cortesia sem315
Italo Calvino racconta l’Orlando furioso cit., pp. 205-6 (è l’indice del volume).
Letteratura italiana Einaudi 124
«Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto - Corrado Bologna
pre gran lume [...] ») e ai successivi, ma soprattutto nella schiera di personaggi illustri del XLVI, vera “dedica” del libro. Altri, come Astolfo, sono rielaborati sul
modello di un altro libro (Astolfo sull’«Estout» dell’Entrée d’Espagne francoveneta filtrato dal Boiardo)316; lo stesso Orlando, è ovvio, discende per li rami dall’anglonormanno Roland, attraverso una lunga prosapia di figure intermedie presto
italianizzate317.
Ed è costante, dietro tutti i paladini, l’ombra lunga degli eroi antichi cantati da
Omero e da Virgilio, le cui armi miracolose giunsero in eredità ai cavalieri moderni, saldando mito a mito, passato fondante a passato fondante, ricucendo le loro
battaglie a quelle memorabili degli eroi-archetipi greci e troiani intorno a Troia, in
un solo, inesauribile Conflitto cosmico che attraversa senza interruzione, nel va-evieni della Memoria poetica, tutta la Storia occidentale. Così il “tema delle armi”318
e della loro translatio da Troia ad Atene a Parigi a Ferrara – insieme al mito di fondazione con i capostipiti Ruggiero (+ Marfisa) e Bradamante, della dinastia estense, che risulta di enorme peso anche sul piano dell’incatenamento dei significanti –
finisce per costituire il basso continuo, proprio in senso musicale, del Furioso.
Il Furioso è quasi «un atlante della natura umana»; o per meglio dire, «il culmine della scoperta dell’uomo (nella sua libertà e nelle sue determinazioni causali), portata a conclusione dal pensiero filosofico del Rinascimento»319. Un complesso equilibrio di forze sostiene da una parte il realismo di certe descrizioni naturali (la sonorità e la visività corrusche delle tempeste, la variabilissima distesa
marina), di certi ritratti contemporanei, di certi richiami all’attualità delle guerre
e dei conflitti di potere, e dall’altra l’apertura di spazi favolosi e fiabeschi per i due
palazzi incantati del mago Atlante, che si disfano in nulla nei canti IV e XII, per le
isole di sogno, per gli anelli magici dai misteriosi poteri, per i viaggi interstellari su
cavalli alati, per l’apparizione di mostri e di giganti.
È il rapporto fra Realtà e Sogno ad illuminarsi, lungo il Furioso, libro scritto
come un sogno, con uno straordinario senso della realtà e del suo gioco illusorio.
Come il Palazzo degli incanti, «che è un vortice di nulla», anche il Furioso riesce a
dare «forma al regno dell’illusione»: la vita cambia ininterrottamente, mentre le
illusioni sono monotone, testarde, ossessive; «il desiderio è una corsa verso il nulla, l’incantesimo di Atlante concentra tutte le brame inappagate nel chiuso d’un
316 Cfr. G. G. FERRERO, Astolfo (storia di un personaggio), in «Convivium», XXIX (1961), pp. 513-530; M. SANTORO, L’Astolfo ariostesco: «homo fortunatus» (1963), in ID., Letture ariostesche, Napoli 1973, pp. 137-214.
317 Cfr. i dati e le immagini raccolti in AA. VV., Sulle orme di Orlando. Leggende e luoghi carolingi in Italia. I Paladini di Francia nelle tradizioni italiane. Una proposta storico-antropologica, Padova 1987.
318 Cfr. D. DELCORNO BRANCA, L’Orlando furioso e il romanzo cavalleresco medievale cit., pp. 57-103, e, in diverse prospettive, L. PAMPALONI, La guerra nel «Furioso», in «Belfagor», XXVI (1971), pp. 627-52 e M. MANCINI, I «cavallieri antiqui» cit.
319 C. SEGRE, Introduzione cit., p. XXI.
Letteratura italiana Einaudi 125
«Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto - Corrado Bologna
labirinto, ma non muta le regole che governano i movimenti degli uomini nello
spazio aperto del poema e del mondo». Soltanto, come su uno specchio, su un telo bianco o una camera oscura, luce e ombra, giorno e notte, giocando si rispecchiano e s’illuminano a vicenda: e nel palazzo incantato «si rifrangono tutte le immagini del poema»320.
Il Furioso è un Libro delle Meraviglie - Palazzo degli Incanti - Teatro della
Memoria, che svela ogni inganno, ogni “trucco”, anche quello che gli dà esistenza, sdoppiandosi per sofisticata mise en abîme nel libro magico donato da Logistilla ad Astolfo (cfr. XV, 13-14), che contiene i segreti di ogni Labirinto, anche
quello dei pensieri, e grazie al quale l’eroe sfugge al gioco di specchi del mago,
riuscendo a sciogliere «il palazzo in fumo e in nebbia» (XXII, 23, 8) e liberando
così tutti i paladini imprigionati da Atlante.
Atlante li aveva sequestrati nel suo labirinto, e ora ridà loro libero corso per
le vie del poema. Atlante o Ariosto? La parte dell’incantatore che vuol ritardare il
compiersi del destino e la parte del poeta che ora aggiunge personaggi alla storia,
ora ne sottrae, ora li aggruppa, ora li disperde, si sovrappongono fino a identificarsi. La giostra delle illusioni è il palazzo, è il poema, è tutto il mondo321.
La prima e più importante illusione, nel gioco fra realtà e immaginazione, è
quella d’amore, cui si lega la follia, tema esibito fin dal titolo. La scelta è motivata
dalla necessità di un puntuale parallelismo rispetto all’Orlando Innamorato, ma
cela intenzioni e strategie testuali più complesse. Anzitutto, posto lo schema esordiale a doppio chiasmo, l’equazione donne : amori = cavalieri : armi (con l’iterazione dei campi semantici, nello stesso ordine, in cortesie : audaci imprese) prevederebbe un titolo legato al tema delle Armi, alla guerra, alla cavalleria, che alla lettura si rivelano di fatto uno dei due motori centrali della macchinaFurioso. Invece
la scelta di Ariosto non cade sulle Armi, e neppure sull’Amore (temi esplicitamente contrapposti, nel libro: cfr. per tutti XXXIX, 61, in particolare i vv. 7-8); e
se Donne e Cavalieri rimangono i veri protagonisti nel tempo mitico del Libro, e
i destinatari nell’attualità concreta della Corte cinquecentesca, è l’assenza di Amore a causare la follia di Orlando.
Ho già detto (cfr. pp. 223 sgg.) dell’influenza che può aver esercitato sull’Ariosto l’attenzione umanistica per le maschere metafisiche e allegoriche della Follia. I materiali tenuti presenti nella redazione del viaggio lunare di Astolfo sono
indubbiamente «in maggior parte di origine filosofica»322. Cesare Segre ha opportunamente sottolineato anche la centralità del tema opposto, il Senno, «iden320
Le frasi virgolettate sono da I. CALVINO, La struttura dell’«Orlando» cit., rispettivamente pp. 85 e 86.
Italo Calvino racconta l’Orlando furioso cit., p. 80.
322 C. SEGRE, Fuori del mondo cit., p. 106.
321
Letteratura italiana Einaudi 126
«Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto - Corrado Bologna
tificato con la capacità di regolare e condurre a buon fine le cose umane», che deriva ad Ariosto dal Somnium di Leon Battista Alberti, contenuto nelle Intercenales: un rapporto molto stretto collega questa posizione con una visione etica «antropocentrica e, per così dire, sociocentrica»; è evidente che Ariosto opera in parallelo «la scelta del senno come principio di moralità e la scelta della corte come
paradigma della società»323.
L’elemento contemporaneo introduce nel Furioso un preciso richiamo impregnato di nostalgia alla realtà, quella cortese, «tanto meno libera e felice del mondo evocato dal poeta», ma che «in esso è pur adombrata, e ad esso può, nei momenti e negli uomini più gloriosi, adeguarsi»324. Ma allo stesso tempo dietro all’intera macchina-Furioso traluce sempre il gioco degli inganni e delle apparenze,
la sfasatura ironica: «l’ironia è insomma il segno della saggezza, ma d’una saggezza che sa anche il valore dell’illusione e dell’immaginazione»325.
Orlando non è “adirato”, né “folle”, né “furibondo”: ma “furioso”. Mi domando (e se non m’è sfuggito qualcosa, il quesito non è stato risolto in sede critico-fìlologica) se possa entrare nell’orizzonte mentale e culturale ariostesco, oltre a
libri più recenti quali il De laboribus Herculis di Coluccio Salutati, l’Hercules furens senechiano, tragedia a cui Nicholas Trivet aveva dedicato un’ampia Expositio
attenta anche agli aspetti astrologici e astronomici. Certo, Ariosto non ricorre, nel
titolo, al francesismo «forsennato» (che pur avrebbe in sé contenuto e negativo un
richiamo al «senno»), vocabolo discusso nelle Prose bembiane e tante volte evidenzato dallo stesso Bembo (ma, indipendentemente, anche da Angelo Colocci)
sui bordi dei canzonieri di lirica volgare antica326. Sceglie un termine che riconduca alla cultura e alla mitologia classica, ad Hercules reso furens, cioè furiosus, da
una donna, alle Furie infernali già così presenti in Dante.
L’annuncio dell’uscita di mente è già a XII, 86, 3 -4, dove Orlando (lo si è ricordato: cfr. pp. 270 sgg.) «sì come era uscito di se stesso, | uscí di strada». L’erranza spaziale si sovrappone sempre più frequentemente a quella mentale, che richiederà difatti, per venir risarcita, un’estremistica quête di senno perduto
nell’«altro spazio» celeste. E la pazzia significa derealizzazione, perdita – o confusione – del nesso fra realtà ed apparenza: «Non son, non sono io quel che paio in
323
Ibid., p. 110.
ID., Introduzione cit., p. xx.
325
Ibid., p. XX111.
326 Intendo raccogliere in un apposito studio l’elenco delle testimonianze da me raccolte durante lunghi spogli negli zibaldoni colocciani e sui bordi dei canzonieri di lirica antica posseduti e postillati dai due umanisti. Registro en
passant un interessante appunto di P. TROVATO, Con ogni diligenza corretto cit., p. 313, relativo alla variante furioso,
attestata dalla famiglia y del Capitolo dell’ingratitudine di Machiavelli, in alternativa a furiando del ms. M: «la lezione
di y si spiega bene con la posteriore apparizione e fortuna del poema dell’Ariosto, che darà smalto all’epiteto furioso».
Sul titolo del poema cfr. E. SACCONE, Il «soggetto» del «Furioso» cit., pp. 216 sgg.
324
Letteratura italiana Einaudi 127
«Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto - Corrado Bologna
viso: | quel ch’era Orlando è morto et è sotterra; |[...] | Io son lo spirto suo da lui
diviso, | ch’in questo inferno tormentandosi erra» (XXIII, 128, 1-2 e 5-6). Giusto
alla metà del libro (l’equilibratura è resa perfetta nell’edizione finale), nelle ultime
quattro ottave del canto XXIII «[…] cominci[a] la gran follia, sí orrenda, | che de
la più non sarà mai ch’intenda» (ibid., 133, 7-8); e tutte le figurine minori del presepe pastorale e boschereccio pullulante nel Furioso “escono di strada” e «[…]
vengono a veder che cosa è questa» (ibid., 136, 4).
Nella «gran selva» della «pazzia» (XXIV, 2, 1 e 3) immediatamente s’aggira,
smarrito, il «forsennato e furïoso Orlando» | (ibid., 4, 2), che è d’ora in poi «il
pazzo» (ibid., 5, 1 e 5; 6, 7; 8, 8); pochi canti dopo torna ad essere definito «furïoso e folle» (XXVII, 8, 2); è più tardi «il furïoso conte» (XXIX, 40, 1), «Orlando
stolto» (ibid., 61, 1), «Orlando […] | senza vergogna e senza senno» (XXXI, 45,
1-2); infine, con divertita, sapiente mise en abîme del titolo, «Orlando furïoso»
(ibid., 63, 5). E se il libro è «Orlando furioso», lo stesso Autore, a cui ingegno «se
ne va errando» (XXXV, 2, 7) nella contemplazione delle bellezze dell’amata, come s’è visto (cfr. p. 265) può diventare lui medesimo avatar d’Orlando, perdendosi nel labirinto dell’incertezza, al pari di Ruggiero che, acciuffato dalla «volubil
ruota» (XL, 65, 7) della Fortuna (la quale infatti «dei pazzi ha cura»: XXX, 15, 1),
«tra sé volve […] e fa discorso» (XL, 66, 1). Pazzia è disorganicità, disarmonia,
discordia: la allegorizza, nel libro, «la Discordia pazza» (ossia la virgiliana «Discordia demens» di Aeneis, VI, 280): quella Discordia con cui l’arcangelo Michele in XXVII, 37-38 ingaggia una tragicomica tenzone da osteria, a «pugna e calci
[…] senza fine» (38, 8).
Prima ancora che Astolfo voli sulla Luna, è la Memoria che, restituendo ordine nelle sinapsi cerebrali e linguistiche, sana la follia, ridandole un senso e riuscendo così a portare nuovo cosmo nel caos. E può farlo perché è stata la stessa
memoria a causare la follia, all’origine.
Come spiega Ariosto questo delicatissimo, straordinario meccanismo che collega le due coppie-base di personaggi allegorici del poema, Senno/Follia a Memoria/Oblio? Al suo solito modo, non “tematizzando” quei personaggi (che pur
si ritrovano nel «cerchio della luna»), ma operando trasversalmente attraverso lo
strumento fonetico-musicale-semantico, su cui poggia, quasi fosse un traliccio linguistico-mnemonico, la tecnica della ripresa a distanza dei suoni, dei vocaboli e
dei rimanti. Ed è questa, mi sembra, l’ennesima e più luminosa riprova di come le
fondamenta del libro poggino sulla memoria interna dell’Autore (in persona del
Personaggio) e, per indotto esercizio spirituale, del Lettore, che può “comprendere” solo nel momento in cui la Memoria, come avviene nel sogni e nelle analisi di
essi, lo “fa tornare” sul luogo in cui furono pronunciate, e in apparenza obliate, le
“prime parole”.
Letteratura italiana Einaudi 128
«Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto - Corrado Bologna
Nel canto XIX l’ottava 36 descrive la passione di Angelica e Medoro nel suo
trascriversi «in mille luoghi» (v. 5), mediante incisioni su pietre e scorze d’albero,
che potrebbero ricordare la «codre» (il nocciolo) su cui Tristano, nel Lai du Chevrefoil di Maria di Francia, «de sun cutel escrit sun nun», inviando a Isotta il messaggio327; ovunque i due amanti campeggiano nello spazio, in nome e in memoria:
Fra piacer tanti, ovunque un arbor dritto
vedesse ombrare o fonte o rivo puro,
v’avea spillo o coltel subito fitto;
cosí, se v’era alcun sasso men duro:
et era fuori in mille luoghi scritto,
e cosí in casa in altritanti il muro,
Angelica e Medoro, in varii modi
legati insieme di diversi nodi.
(XIX, 36).
Quattro canti più tardi, allorché Orlando per pura (s)fortuna s’inoltra negli
stessi luoghi, ciò che trova non sono solo quegli alberi, quei sassi, quelle incisioni:
ma proprio le parole che l’Autore ha già scritto, che il Lettore ha già letto e udito
suonare (nel movimento narrativo del distico ripreso alla lettera in apertura d’ottava, in alcuni vocaboli chiave, nella rima –itto/-itti, nei rimanti dritto : fitto : scritto / scritti : fitti : descritti, e, all’ottava seguente, modi : nodi):
Volgendosi ivi intorno, vide scritti
molti arbuscelli in su l’ombrosa riva.
Tosto che fermi v’ebbe gli occhi e fitti,
fu certo esser di man de la sua diva.
Questo era un di quei lochi già descritti,
ove sovente con Medor veniva
da casa del pastore indi vicina
la bella donna del Catai regina.
Angelica e Medor con cento nodi
legati insieme, e in cento lochi vede.
Quante lettere son, tanti son chiodi
coi quali Amore il cor gli punge e fiede.
Va col pensier cercando in mille modi
non creder quel ch’al suo dispetto crede:
ch’altra Angelica sia, creder si sforza,
ch’abbia scritto il suo nome in quella scorza.
(XXIII, 102 e 103)
Così, per la memoria di quei modi e di quei nodi, per l’incisione di quegli spilli e coltelli che per lui divengono chiodi, esplode la furia di Orlando. E tanto s’im327
MARIA DI FRANCIA, Lais, a cura di G. Angeli, Milano 1983 (nuova ed. Parma 1992), p . 314 (sono i vv. 51 e
54 del lai).
Letteratura italiana Einaudi 129
«Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto - Corrado Bologna
prime, l’intreccio dei rimanti, nella memoria del lettore, ad esercitare forza evocativa ed associativa nello sviluppo diegetico, che Ariosto torna ad usarlo anche in
seguito: e non più in connessione con Orlando ormai furioso, bensì nella bellissima fabula di Fiordispina narrata a Ruggiero da Ricciardetto, “gemello” dell’androgina Bradamante328:
Di questa speme Amore ordisce i nodi,
che d’altre fila ordir non li potea,
onde mi piglia: e mostra insieme i modi
che da la donna avrei quel ch’io chiedea.
(XXV, 50, 1-4)
I modi e i nodi d’Amore allacciano e perdono Bradamante come in un labirinto (e cfr. odo : modo : nodo, a proposito di Dedalo, nello stesso canto, ottava
37); anch’essa in certa misura è furiosa e folle, giacché anch’essa, esattamente come Orlando, «Fortuna [...] tirò fuor del camino | in mezzo a un bosco d’intricati
rami» (XXV, 60, I-2). Bradamante, nell’acqua di un lago, un Fauno che le ha profetizzato un totale ribaltarsi dell’universo nelle sue componenti-base:
Dal ciel la luna al mio cantar discende,
s’agghiaccia il fuoco, e l’aria si fa dura;
et ho talor con semplici parole
mossa la terra, et ho fermato il sole.
(XXV, 62, 5-8)
La metamorfosi del cosmo coinvolge Bradamante fino al più profondo della
propria natura: e la sua “follia” la conduce definitivamente “fuori di sé”, alla metamorfosi piú radicale:
[...] io (non so come) son tutta mutata.
Io ’l veggo, io ’l sento, e a pena vero parmi:
sento in maschio, di femina, mutarmi.
(ibid., 64, 6-8)
Proteo, il movimento, la «Mutazione», è ancora una volta, e come sempre, in
agguato negli interstizi fra i temi e i rimanti del Furioso.
4. Fonti e modelli.
4.1. Le «fonti» dell’Orlando Furioso.
Dopo quanto s’è detto, risulterà subito chiaro perché al problema delle “fonti”
del Furioso non si possa dedicare se non uno spazio limitato.
328
Cfr. G. FERRONI, Da Bradamante a Ricciardetto cit., pp. 152 sgg. e l’acuto J. E. RUIZ-DOMÉNEC, Bradamante, la imagen de la ambegüedad femenina, in «Lingua e stile», XXVI (1991), 2, pp. 205-22.
Letteratura italiana Einaudi 130
«Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto - Corrado Bologna
È precisamente sul tema delle “fonti” dell’Orlando Furioso che si mosse la filologia ariostesca un secolo fa, con microscopica acribia da scienza positiva. Esiti
già sofisticati si ebbero, nel fervore straordinario della riflessione romanistica sulle origini dell’epica francese (l’Essai sur l’origine de l’épopée française del d’Héricault è del 1859, l’Histoire poétique de Charlemagne di Gaston Paris è del ’65, le
Recherches sur l’Épopée française di Paul Meyer del ’67, degli anni ’65-68 le
Épopées françaises di Léon Gautier), fin dalle prime ricerche sui cantari intraprese dal ventenne Pio Rajna. Ed è con quegli studi che Rajna immetteva l’Italia nell’orizzonte della migliore medievistica europea: lavorando anzitutto (fra 1867 e
’69) sull’Orlando laurenziano, poi sulla Rotta di Roncisvalle (1871) e sui Reali di
Francia (1872), e raggiungendo infine la piena maturazione (1876) proprio con il
libro sul Furioso (nell’84 usciranno Le origini dell’epopea francese, con altri spunti ariosteschi)329.
Rajna, oltretutto, si riallacciava in modo esplicito agli appassionati e agli eruditi che subito dopo la morte di Ariosto avevano intrapreso la glorificazione sua e
dell’Orlando, a partire da Fausto da Longiano Citatione de’luochi, onde tolsero le
Materie il Conte Matteo Maria, e M. Ludovico, 1540), poi con i libri del Pigna, del
Dolce, del Ruscelli (cfr. pp. 241 sgg. e 278 sgg.)330: si manifestava l’intento, in primo luogo, di saldare l’epica quattro-cinquecentesca alle sue radici storiche medievali; e in secondo luogo di illustrare come la continuità accrescitiva ed evolutiva consentisse di riconoscere nel Furioso il prodotto conclusivo di una lunghissima linea genetica, il punto d’arrivo in funzione del quale si dimostrava necessario
ed utile lo scavo nel sottobosco dell’epica maggiore – nelle lingue d’oïl e di sí – e
di quella canterina, interpretati appunto, teleologicamente, quali “fonti” e “predecessori”. Ed è noto che per proprio conto Rajna amava definirsi un «ricercatore d’origini»331: il che equivaleva a denunciare la volontà di collocarsi nel cuore di
quegli studi che, attraverso la neonata disciplina accademica “Filologia romanza”, andavano svolgendosi intorno al tema, anche epistemologicamente assai rilevante, appunto delle “origini” della cultura moderna, della sua “nascita”, del suo
“punto di partenza”, delle sue “sorgenti”, o “fonti”, del suo “sviluppo” unitario e
continuativo.
Il monumento del Rajna, pur fondato sullo «studio analitico» dei «crogiuoli»,
rifiutava di presentarsi nelle vesti di «un sommario, e meno che mai [di] un indice»332. E nel 1900, l’anno stesso in cui usciva l’Estetica crociana, le conclusioni al-
329
Cfr. P. RAJNA, Le fonti dell’Orlando Furioso cit. ; ID., Le origini dell’epopea francese (1884), Firenze 19562.
Cfr. ID., Le fonti dell’Orlando furioso cit., pp. VII sgg.
331
Cfr. F. MAZZONI, Presentazione, ibid., pp. V-XVII (a p. XII).
332 P. RAJNA, Le fonti dell’Orlando furioso cit., p. 3.
330
Letteratura italiana Einaudi 131
«Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto - Corrado Bologna
legate alla seconda edizione riveduta e ampliata, dopo seicento pagine fitte di dati e di riscontri, s’incentravano sul problema “estetico” dell’originalità e dell’inventio: «nel Furioso non c’è tanta invenzione quanta generalmente si pensava; ma
sottratto tutto quello che si può sottrarre, il molto che s’è rilevato e ciò che ulteriori ricerche verranno ancora ad aggiungere, all’Ariosto resterà sempre anche in
questo campo una parte ben grande». Quindi il libro sulle “fonti” si riduceva naturalmente nella «modesta categoria dei lavori preparatori», come «studio minuzioso del meccanismo dell’invenzione»333.
In realtà è su queste estreme parole di Rajna che avrebbe potuto poggiare un
nuovo filone di ricerca: ma così non fu. Il libro rajniano rimase, di fatto, se non
“un sommario” o “un indice”, certo un epifenomeno della forma mentis tardo-ottocentesca, proba e dottissima, ma bisognosa, per avanzare nel ragionamento, di
categorie quali origine, fonte, derivazione, influsso, imitazione: sullo sfondo, l’idea romantica della continuità e ciclicità, della coerenza che presuppone unità e
identità linguistico-culturale d’una “nazione”, sintetizzata ed espressa dai grandi
artisti: secondo le parole di De Sanctis, «un poeta non è un’apparizione isolata in
mezzo alla società, ma ha de’ predecessori e de’ successori che gli si aggruppano
intorno. Ogni gran poeta ha avuto il suo ciclo: v’è il ciclo dantesco, il ciclo petrarchesco, il ciclo cavalleresco»334. Quel libro, allora, restò un repertorio, sostanzialmente archeologico e compilativo, di loci che la tradizione rese communes e fossilizzò, e di libri, idee, nomi, trame, immagini raccolti nell’“officina” ariostesca per
essere poi tutti fusi e riplasmati dal «fuoco bruciante di quella fantasia creatrice»335. Tolte alcune intuizioni formidabili (per esempio quella sull’«arte maliziosa» della «spezzatura dei racconti» e sul rapporto fra la costruzione per «fila perfettamente divise», che «solo si possono raggruppare tratto tratto»336 nei romanzi
francesi quali Lancelot, Tristan o Palamedès, e la tecnica – già in parte del Boiardo
– che dopo Ferdinand Lot verrà definita entrelacement, predominante nella seconda parte del Furioso), le Fonti di Rajna presentano una mole impressionante di
suggerimenti, di indicazioni puntuali, una sterminata sequenza di dettagli estrapolati dal flusso narrativo e fissati in una loro astratta consistenza filologica e (ante litteram!) narratologica. Per ciascuno di essi viene riconosciuto un nesso di filiazione, con tasso più o meno elevato di probabilità statistica a seconda del grado
di prossimità del dato ariostesco al suo “modello”. L’idea di base era che l’inventio possa studiarsi essenzialmente in quanto imitatio e variatio di componenti to333
Ibid., pp. 612-13 (sono le due ultime pagine del libro).
F. DE SANCTIS, La poesia cavalleresca, in ID., La poesia cavalleresca e scritti vari, a cura di M. Petrini, Bari
1954, pp. 3-175 (a p. 3).
335
F. MAZZONI, Presentazione cit., p. IX.
336 P. RAJNA, Le fonti dell’Orlando furioso cit., p. 144.
334
Letteratura italiana Einaudi 132
«Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto - Corrado Bologna
picizzate: ma piuttosto che di esaminare, appunto, la forma dell’originalità, muovendo dal processo di tradizione e di topicizzazione di forme letterarie, e insomma dallo studio dei modi della mutazione entro un’ampia morfologia letteraria, si
tratta, per la generazione dei Rajna, di dar corpo e spessore al rapporto di genesi
imitativa, alla riproduzione dell’identico. L’epistemologia del positivismo s’interessa molto alla persistenza dell’identità, meno al formularsi della differenza337.
Ma su quest’orizzonte mi sembra si possa accogliere senza riserve la sintesi
metodologica di Cesare Segre: «La tradizione comparatista, col suo massimo
campione nel Rajna, si concentra su genealogie tematiche. L’influsso diretto, che
non sta comunque al centro dell’interesse, è individuato, quando lo è, su basi
quantitative (serie ampie di particolari comuni) e culturali (conoscenza probabile
di un dato testo da parte dell’Ariosto). La tradizione letteraria è rappresentata
principalmente dai commentatori ed eruditi, specie del Cinque e Ottocento (sino
a Romizi), con i loro raffronti puntuali. Il fatto che le due tendenze abbiano rivelato fonti di diverso ambito (la tradizione cavalleresca francese, italiana e spagnola la prima; testi classici, e testi italiani della tradizione poetica illustre la seconda)
segnala forse anche differenze di utilizzazione da parte dell’Ariosto»338.
Nel 1900, dunque, il quarantatreenne Rajna offriva in dono al nuovo secolo
la sua summa erudita sul piú grande libro italiano di narrativa in versi. Da allora,
in sostanza, la ricerca di “fonti” ariostesche, pur ininterrotta, s’è isterilita. E non
solo per la difficoltà di integrare o più ancora di riscrivere, in tutto o in parte,
quel capolavoro: altresì per la crescente consapevolezza, in sede di filologia testuale e di storia della tradizione letteraria, che all’idea di fonte sia opportuno sostituire quella di modello (collegata all’altra, assai fortunata nel nostro secolo, di
struttura o pattern).
Il ritorno d’attualità del problema delle fonti, nella fioritura odierna di studi
sul Furioso, si manifesta sotto le specie, appunto, della questione più raffinata dei
procedimenti di riscrittura e di “parodia” messi in atto nel poema: ossia delle modalità di presenza/deformazione/camuffamento dell’intertesto nella macchinosa
prassi di ricontestualizzazione romanzesca.
4.2. I «modelli» dell’Orlando Furioso.
La rinuncia ad un’indagine sulle “fonti” lascia posto, quindi, ad un recupero, al-
337 Cfr. M. FOUCAULT, Les mots et les choses, 1966 (trad. it. Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, con un saggio critico di G. Canguilhem, Milano 1967, in particolare pp. 168 sgg., 245 sgg., 374 sgg.).
338 C. SEGRE, Intertestualità e interdiscorsività nel romanzo e nella poesia cit., p. 21.
Letteratura italiana Einaudi 133
«Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto - Corrado Bologna
trettanto puntualmente filologico, della miriade di materiali linguistici franti e
macinati nella scrittura ariostesca. E come s’è a più riprese indicato nelle pagine
che precedono, anche su questo punto l’avanzamento di consapevolezza metodologica ha permesso acquisizioni cospicue ed eleganti, a partire dal lavoro giovanile di Contini fino ai recenti studi di Segre, Bigi, Blasucci, Ossola, Bruscagli, Orvieto, Cabani, Beer, Casadei. Ormai, però, non si ha più di mira solo un catalogo
leporelliano di conquiste dell’Ariosto rispetto alle “fonti” rappresentate dai “classici”, insomma un regesto delle seduzioni subite o degli incorporamenti e degli
agonistici rifacimenti attuati nella messa a fuoco del proprio ruolo entro la traditio. Si punta piuttosto a distinguere una presenza di “vere” fonti nella forma di citazioni, allusioni ed altre spie di sicura relazione testuale, dai riferimenti più generali, ed anche generici, ai classici quali modelli memorabili e centri attivi di autorizzazione testuale, e direi quasi pre-condizioni linguistiche, paradigmi a volta a
volta rinnovabili nella concreta plasmazione poetica.
Di quest’ordine sono l’intuizione segriana d’una «vischiosità» lessicale dipendente dalla sensibilità e memoria linguistiche, vivissime entrambe nell’Ariosto, e del
suo potere di accensione e codificazione semantica e le belle pagine di Ossola sui
modi concreti in cui l’arte del levare si traduce, nel confronto agonico con i classici,
non in «norma di soffocazione», ma in «principio attivo di reintegrazione e dissimulazione di materiali linguistici [...] che la loro stessa eletta e impervia solitudine
aveva ormai reso impraticabili al discorso poetico»339. La fin qui sottolineata priorità, che impone spesso anche una prevalenza, del momento grafico-fonetico su
quelli semantico e diegetico, fa sì che anche nel ripensamento della tradizione siano
non tanto i fattori connotativi, insomma le “storie” che ogni classico legò alle proprie “parole”, quanto i fattori denotativi, direi perciò la “sonorità” e la fluidità “musicale” del lessico e dello stile, ad urgere nella memoria e nella scrittura di Ariosto.
Giova in questa luce ricordare il rilievo di Ossola che nel Furioso il congedo
dai personaggi, ossia il compimento della loro funzione attanziale, è suggellato a
più riprese da clausole-citazioni, «come segnale ultimo del ritornare del discorso
su se stesso, del perenne e intransitivo autoriferimento che la letteratura compone
su se stessa»340. Se la citazione costituisce il limite fra inventio ed invenzione, fra
vischiosità del collante linguistico tràdito e liberazione di nuove energie espressive nel suo attraversamento, il peculiare, il nuovo ariostesco risiederà appunto nella prospettiva, nel punto di vista garantito da quell’ininterrotta arte del ricordare e
del dimenticare, sempre facendo decantare e metabolizzando non una parte, un
“genere”, uno “stile”: ma l’intera tradizione linguistico-poetica italiana.
339
340
Cfr. C. OSSOLA, Dantismi metrici nel«Furioso» cit., p. 92. .
Ibid., nota 39.
Letteratura italiana Einaudi 134
«Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto - Corrado Bologna
Questa dimensione allontana nettamente il Furioso dal resto della produzione cavalleresca coeva e da quella antecedente e successiva, permettendo che se ne
parli, al di là delle discussioni sul “genere” letterario, ora come di un poema, ora
come di un romanzo, sempre come d’un meccanismo testuale-teatrale capace di
produrre spazi immaginativi ed espressivi originali, conservando/abolendo tutto
il passato sotto il segno della mutazione (Pio Rajna, dando all’Innamorato la palma di «culmine vero nella storia del romanzo cavalleresco italiano»341, proponeva
per il Furioso, «nato di padre italiano, ma di madre latina», il modello dei grandi
poemi classici greco-latini, dal respiro cosmologico e storiografico). Il Furioso è
diversissimo dall’Innamorato per la coraggiosa scelta linguistica, ma anche perché
non si limita a parodizzare il “genere” cui aderisce, accumulando richiami e strizzate d’occhio, innesti di tessuto narrativo e linguistico, né intende riformarlo,
quel “genere”, attraverso un paziente lavoro di modificazione funzionale degli
istituti formati e delle singole tecniche narrative. Non può compararsi con alcun
altro libro con cui pur spartisce personaggi, trame, avventure: anzi, così del Boiardo come degli altri romanzi di cavalleria elimina l’idea stessa di ventura, con tutte
le connotazioni etiche connesse, sempre subordinando al progetto unificante della quête, dell’inchiesta, la miriade di micro-storie avventurose342. È lontano anni
luce anche da quell’antipoema cavalleresco, “novella” più che “romanzo”343, parodizzazione eroicomica e carnevalesca e in fondo sfogo erudito ma giocoso di
«un contestatore-conservatore»344, che è l’Orlandino del Folengo, apparso giusto
a metà strada fra seconda e terza edizione del Furioso (1526). Identico discorso
vale altresì per i modelli “minori”, o tangenziali, quali il Boccaccio del Decameron
(ed ancora del Teseida), il Poliziano e gli altri di cui ho già detto.
I due grandi modelli di Ariosto, che in quest’opera di mutazione dello schema cavalleresco divengono antimodelli, rimangono indubbiamente Dante e Pe-
341
P. RAJNA, Le fonti dell’ Orlando furioso cit., p. 39.
Cfr. R. BRUSCAGLI, «Ventura» e «inchiesta» fra Boiardo e Ariosto cit.
343 Cfr. M. CHIESA, Introduzione all’edizione da lui curata di T. FOLENGO, Orlandino, Padova 1991, pp. VIIXCVII (in particolare pp. XII-XIV).
344 Ibid., p. XLII. E si veda alineno G. FOLENA, Il linguaggio del «Caos» (1977), in ID., Il linguaggio del Caos. Studi sul plurilinguismo rinascimentale, Torino 1991, pp. 147-68 (specialmente p. 157). Non va dimenticato che il Folengo cita ironicamente il Furioso nel Baldus, III, 110-14: «Vidit ut Angelicam sapiens Orlandus amavit, | utque caminavit nudo cum corpore mattus, | utque retro mortam tirabat ubique cavallam, | utque asinum legnis caricatum calce ferivit, | illeque per coelum veluti cornacchia volavit»: cfr. l’edizione a cura di E. Faccioli, Torino 1989, p. 84; questa la
traduzione a fronte (p. 85): «Vide come il saggio Orlando s’innamorò di Angelica e diventato matto andò vagando tutto nudo, e come si trascinava dietro dappertutto una cavalla morta, e come colpì con un calcio un asino carico di legna e quello volò per il cielo che pareva una cornacchia». Si noterà come il tópos canonico della prodezza di Orlando
(già nella Chanson de Roland, v. 1093, «Rollant est proz e Oliver est sage») viene rovesciato, in amplificatio della posizione ariostesca; e come, in agonismo con Ariosto, Folengo insista proprio sui tratti iperbolici, rodomonteschi delle
gesta di Orlando folle, che fa perfino «volare» gli asini (cfr. qui, p. 262).
342
Letteratura italiana Einaudi 135
«Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto - Corrado Bologna
trarca. Ma se del primo egli recupera la grandiosità del viaggio cosmico e l’iconicità di certi episodi di forte presa immaginativa, oltre a strutture metriche, cadenze memorabili, e un lessico autorizzato la cui spesso eccessiva espressività corregge temperandola (cfr. pp. 316 sgg.) mediante l’accorto uso della tradizione petrarchesca e petrarchistica, del secondo non accetta, secondo Segre, né le tematiche, né, di fatto, la lingua e lo stile: «Ciò che l’Ariosto trae dal Petrarca è solo nelle prime rime il bruto materiale lessicale e sintagmatico; presto egli si sente signore della poesia, e il Petrarca gli diviene esemplare e non suggeritore. Al Petrarca,
cioè, egli chiede senz’altro il segreto della pura espressione e della melodia»345.
Citazioni rovesciate, parafrasi, ricontestualizzazioni di moduli alterati e adattati
a nuovo fine, contaminazioni paradigmatiche e sintagmatiche. Il campionario raccolto da Maria Cristina Cabani rivela una costante, irrisolta alternanza fra omaggio e
parodia, nell’assunzione di elementi linguistici e stilistici dalla tradizione di Petrarca:
«Petrarca viene trattato come un petrarchista e ciò sia perché la sua lingua tende oggettivamente a presentarsi alla memoria dei lettori come un sistema, come un tutto
omogeneo nel quale si sfaldano le fisionomie dei singoli eventi testuali, sia perché
Ariosto, da parte sua, tende ad evitare la citazione, la riconoscibilità dei debiti, gli
effetti allusivi»346. Sul piano dei contenuti, invece, dallo scavo della Cabani qualcosa di nuovo traluce: si registra, nei dettagli di numerosi episodi, la «vistosa presenza
di un petrarchismo tematico» (topico ma riconducibile al testo archetipico in grazia
dei dati linguistico-espressivi che l’accompagnano), a partire dall’Amore fino alla
stessa Follia di Orlando, pendant ed esasperazione del Sogno e del Viaggio lunare.
Ma anche quando cita e imita, o parodizza, o deforma, Ariosto procede inesorabihnente ad un livellamento e ad un conguaglio delle altrui energie entro la
propria macchina-teatro testuale: «la citazione si trasforma in autocitazione, l’“altro”, nel ripetersi, diventa proprietà ariostesca»347. È la luce, appunto, incui guarderanno al Furioso i teorici cinquecenteschi più tardi, leggendo il poema come
una meravigliosa galleria di bellezze universali offerte anche con intentio radicalmente, e non confessionalmente, etica, all’«ingegno memorioso» per condensare
tutta la vicenda della lingua e della poesia fra Dante e Ariosto medesimo sotto i
panni nuovi, inattesi, di
[...] uno specchio, nel quale si veggono le attioni de gli huomini di laude, o di biasimo
meritevoli; et per conseguente è un’opera che insegna a ben vivere; quando il vedere il
345
C. SEGRE, Esperienze ariostesche cit., p. 46.
M. C. CABANI, Fra omaggio e parodia cit., p. 277. C. OSSOLA, Dantismi metrici nel «Furioso» cit., p. 80, parla assai opportunamente di una parodia ariostesca dotata di «funzione decisamente rigenerativa».
347 Ibid., p. 281.
346
Letteratura italiana Einaudi 136
«Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto - Corrado Bologna
biasimo, et gl’infelici successi di molti; fa sì che s’impari a fuggire la loro imitatione: et
il vedere la laude, et i felici avvenimenti altrui; accende in desiderio d’imitargli348.
Questo può avvenire perché il modello del Furioso è ormai riconosciuto non
più in un libro, o in molti libri, o in tutta la letteratura; ma il Cosmo intero, che esso, libro-teatro universale, ripensa e riformula alla radice, appunto nelle sue componenti radicali, Fuoco, Terra, Aria, Acqua:
O meravigliosa forza del Poeta: egli le specie delle cose, chiamate elementi, cantando ci
fece palesi: ciò che faccia il calore; ciò che la terra, et l’aere generino; onde hebbero origine i principij del gran cielo, onde il flusso del mare; per che cagione l’arco celeste dia
tanti colori; che stringa le nubi a mandar fuori tuoni; quale sia la cagione delle saette,
delle comete, et altre impressioni dell’aere; quale de i terremoti; quali siano le semenze
dell’oro, et de gli animali, le forze dell’erbe, delle piante, delle pietre, et di tutte le cose.
Egli espresse con che celerità di moto siano le stelle rapite, gli eclissi della Luna, et del
Sole; i dodici segni celesti; le strade del cielo, et delle Stelle; la lunghezza et brevità delle notti et de i giorni; et insegnò a conoscere (benché alquanto occoltamente) quando
ha da essere tempo cattivo; quando è buon seminare; quando tagliare alberi; quando
solcare il mare; et quando fare gli al[t]lri ordinarij, et più importanti effetti. O divina
forza del Poeta [...] : perché se il poeta ne i suoi versi ride, canta, cammina, combatte,
assedia, ruina, distrugge, si lamenta, piange, parla di morte: dica, et faccia ciò che vole,
apporta per occulta via all’anima diletto incredibile349.
5. Ariosto e il “Moderno”.
Si deve [...] considerare l’Orlando Innamorato e ’l Furioso non come due libri distinti, ma come un poema solo, cominciato da l’uno e con le medesime fila, ben che meglio annodate e meglio colorite, da l’altro poeta condotto al fine; ed in questa maniera risguardandolo, sarà intiero poema, a cui nulla manchi per intelligenza delle sue favole350.
L’Ariosto ha murato sul ’l vecchio, avendo murato sovra quella parte così grande già co-
348 O. TOSCANELLA, Bellezze del Furioso di M. Ludovico Ariosto [. . .]. Con gli Argomenti, et Allegorie de i canti.
Con l’Allegorie de i nomi proprii principali dell’opera, et co i luochi communi dell’Autore, per ordine di alfabeto, del medesimo, Venezia 1574, f. 3v.
349 Ibid., ff. 2v-3v. – Allego a titolo di curiosità il dato seguente: a un’edizione del Furioso di Venezia 1730 sono aggiunte alcune pagine, Delle annotazioni de’più celebri autori che sopra esso hanno scritto; alle pp. [b4v] – [c3v]: Allegoria di Gioseffo Bonomone sopra il Furioso di M. Lodovico Ariosto, che interpreta allegoricamente, fra l’altro, il Palazzo di
Alcina; c’è altresì, a p. [d3r], l’Osservazione di Orazio Toscanella intorno la vera Storia della quale si servì l’Ariosto nela
composizione del suo poema (che ebbe insperato successo); a p. [e3r], Avvertimenti di Geronimo Ruscelli per intelligenza di questo Poema. Per tutto ciò cfr. A. SALZA, Imprese e divise d’arme e d’amore nell’«Orlando Furioso» con notizia di
alcuni trattati del ’500 sui colori, in «Giornale storico della letteratura italiana», XXXVIII (1901), pp. 310-63.
350
T. TASSO, Discorsi dell’arte poetica e in particolare sopra il poema eroico, in ID., Prose, a cura di E. Mazzali, Milano-Napoli 1959, pp. 349-410 (a p. 369).
Letteratura italiana Einaudi 137
«Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto - Corrado Bologna
minciata dal Boiardo; ma io, ch’ho preso parte della materia dall’istoria solamente, non
ho murato su ’1 vecchio, ma formato novo edificio; e la materia che n’ho presa s’invecchia meno che non fanno i marmi, e l’oro, e gli argenti, e gli altri metalli; e più del cedro
e de l’aloè si conserva dalla putrefattione351.
Nelle due dichiarazioni che Tasso affida ai Discorsi dell’arte poetica (editi a
Venezia nel 1587 ma composti quindici-vent’anni prima) ed all’Apologia in difesa
della sua «Gierusalemme Liberata» (1585), l’orgogliosa rivendicazione di originalità ed eccellenza nel genere epico-cavalleresco per un verso riprende l’antico understatement ariostesco per cui il Furioso si salderebbe all’Innamorato al modo di
una “giunta” entro una linea di continuità esibita dalla fabula, e per un altro sviluppa la metafora spaziale-architettonica, in gran voga all’epoca, nella forma della fabrica, dell’edificio testuale. Fabrica del mondo s’intitolava già (1548) il primo
vocabolario metodico della lingua italiana, basato da Francesco Alunno sullo spoglio dei classici antichi: la lingua è un “cantiere”, un “edificio”, un “palazzo” in
costruzione che gli auctores decostruiscono e ricostruiscono. Quest’idea, che attraversa molta trattatistica topico-retorica fra 1550 e ’60, e fa da cardine quindi alle Bellezze del Furioso del Toscanella (1574), studioso legato all’ambiente veneziano dell’Accademia della Fama di Federico Badoer, è ben espressa da Camillo Pellegrino nel 1584, proprio nel dialogo (Il Carrafa, o vero della poesia epica) in cui,
difendendo la Liberata, attacca invece l’Ariosto in quanto artefice consapevolmente colpevole di un poema tessuto di «varie fila» e di «varie tela»:
[...] Fate conto che l’Orlando Furioso sia a similitudine di quel palagio […], falso di modello, ma fornito da vantaggio di superbissime sale, di camere, di logge, e di finestre fregiate, et adorne in aparenza di marmi Affricani e Greci, e ricco per tutto d’oro e di azzurro; et all’incontro imaginatevi che la Gierusalemme liberata sia una fabrica di non
tanta grandezza, ma bene intesa, con le sue misure e proporzioni di architettura, e adorna secondo il convenevole di veri fregi e colori: non ha dubbio che il palagio più numeroso di stanze, e più vago, e più ricco in vista diletterà a pieno i semplici et non intendenti; là dove i maestri e professori di quell’arte, scorgendo in esso i falli et i non veri ornamenti e ricchezze, meno soddisfatti ne resteranno, e darà lor maggior diletto l’architettura della minor fabrica come corpo bene inteso in tutte le sue parti352.
Il confronto-scontro fra i due modelli testuali, metaforicamente rappresentati da altrettanti schemi spaziali-edilizi, diviene presto canonico nella querelle che
oppone l’“antico” Ariosto e il “moderno” Tasso353, e sancisce riflettendola sul ca351
ID., Apologia in difesa della sua Gierusalemme Liberata, a gli Accademici della Crusca. Con le accuse, et difese,
dell’Orlando Furioso dell’Ariosto. Et alcune lettere, pareri et discorsi de diversi auttori […], Ferrara 1586, p. 163.
352 C. PELLEGRINO, Il Carrafa, o vero della poesia epica, Firenze 1584, pp. 139-40. Per un’analisi del tópos architettonico fra Cinque e Seicento cfr. C. OSSOLA, L’autunno del Rinascimento. «Idea del tempio» dell’arte nell’ultimo
Cinquecento, Firenze 1971 (per Tasso pp. 86 sgg., 205 sgg.; per Pellegrino pp. 89 sgg.).
353
Si noti che l’Ariosto più lacerato e “incompiuto”, quello dei Cinque canti, verrà accolto da parte dei lettori cinquecenteschi come un prodromo della linea manieristica che si adempie con il Tasso; e cfr., fra i critici moderni, al-
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«Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto - Corrado Bologna
none dei classici la mutazione della sensibilità estetica e poetica fra il primo ed il
secondo Cinquecento, sospinta o accompagnata dalle decisive metamorfosi religiose, politiche e culturali in Italia e in Europa. Né è casuale che a Pellegrino, autore d’una lettura in chiave “manieristica” della poesia tassiana, nella quale si rispecchia altresì l’esperienza della coeva lirica meridionale354, si richiami doviziosamente a Giulio Camillo e al suo Theatro per sostenere la propria posizione,
esattamente come aveva fatto il Toscanella dieci anni prima (e sia pure in direzione opposta alla sua)355. Ed anche il Petrarca tassiano è ormai visto attraverso la
lente dell’elocuzione topica di Giulio Camillo.
L’idea che le «stanze» (cioè, nel gioco di ambiguità su cui tutti i commentatori insistono, le «ottave» del Testo e le «camere» del Palazzo) condensino per allegoriam le forme dello spazio peculiari di Ariosto e di Tasso si annette allo sviluppo della topica dell’ut pictura poësis ed appartiene, proprio per la progressiva insistenza sui dati iconici, visualizzati, sapienziali (si pensi alla moda crescente degli
emblemi e delle imprese), che indirizza l’interpretazione dei testi, a questa svolta
“manieristica” in cui è coinvolta anche l’esegesi del Furioso. Una dimensione ermetico-mnemotecnica, unendosi al principio del “disegno interno” della tradizione neoplatonica rinascimentale e alla dispositio logica topica d’origine camilliana
non è estranea a questa lettura del poema, e darà luogo al “concetto” manieristico356. Ad essa si lega la capacità di “ricordare” e di costruire figure, poetiche e pittoriche, così forti da far percorrere al lettore un cammino analogo a quello compiuto con l’inventio dall’autore e affidato alla cifrazione del testo.
L’opposizione Tasso/Ariosto, nelle Considerazioni al Tasso di Galileo Galilei,
è ferocemente squilibrata contro la Gerusalemme, libro «gretto, povero e miserabile», a favore di un «Ariosto magnifico, ricco e mirabile». E mentre la descrizione dello spazio interiore del testo tassiano è, di fatto, già l’attraversamento d’una
Wunderkammer, nel Furioso si apre
una guardaroba, una tribuna, una galleria regia, ornata di cento statue antiche de’più
celebri scultori, con infinite storie intere, e le migliori, di pittori illustri, con un numero
grande di vasi, di cristalli, d’agate, di lapislazzari e d’altre gioie, e finalmente ripiena di
cose rare, preziose, maravigliose, e di tutta eccellenza357.
meno L. FIRPO, Introduzione alla sua edizione di L. ARIOSTO, Cinque canti cit., pp. 13-14: «L’Ariosto dei Cinque
canti è incredibilmente “tassesco”: gli abbattimenti dei cavalieri sono divenuti guerre di popoli; non più contese d’onore scatenano le armi generose, ma la ragion di Stato torbida e la bramosia di potere;, la nota più sorprendente è, a
prima vista, un inusitato infittirsi di motivi religiosi e di motivi politici». È evidente che una simile posizione critica deve pur sempre fare i conti con gli accertamenti filologici in tema di cronologia.
354 Cfr. A. QUONDAM, La parola nel labirinto. Società e scrittura del manierismo a Napoli, Bari 1975, pp. 25-43.
355 Cfr. L. BOLZONI, Dall’Ariosto al Camillo al Doni cit.
356
Cfr. C. OSSOLA, Figurato e rimosso. Icone e interni del testo, Bologna 1988, p. 135.
357 G. GALILEI, Considerazioni al Tasso e Postille all’Ariosto, in ID., Scritti letterari, a cura di A. Chiari, Firenze
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«Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto - Corrado Bologna
Altrove Galilei sviluppa più puntualmente, in chiave allusiva, il tema toscanelliano-pellegriniano del Libro-Palazzo, rilevando come esso sia autorizzato da
Tasso medesimo (Gerusalemme Liberata, XV, 66, 7):
In questo tondo edificio, con nuova architettura fabbricato, sono alcune cose degne
di considerazione, e forse di reprensione. E prima, questo edifìcio non è una città o un
castello, ma un palazzo, ché così l’ha adomandato l’Autore [...] . Questo palazzo è tondo e nel più chiuso grembo, che è quasi centro, ha un giardino [...] 358.
Galilei è ossessionato da quella che Erwin Panofsky, con innesto d’un sintagma tratto da Alexandre Koyré, definisce la «hantise de la circularité»: «la stessa
hantise che lo rende incapace di visualizzare il sistema solare come una combinazione di ellissi», che gli fa spregiare le anamorfosi pittoriche, così simili, nella loro
prospettiva ingannevole, alla struttura ellittica della Gerusalemme, contro la circolarità perfetta e classica del Furioso, il cui movimento esatto e ritmico, la cui armonia di proporzioni, interiorizzano la forma spaziale359.
Il Furioso, dunque, viene letto fin dalle generazioni immediatamente successive come un Edificio circolare, un Teatro, un Palazzo: la metafora testuale
replicata nei numerosi Palazzi incantati del poema fruttifica, si stabilizza nell’immaginario collettivo. E il mercato dev’essersi saturato di «Palazzi», se nel
1613, quando Tommaso Garzoni vorrà stampare il suo Palazzo de gli stupori del
mondo, l’editore, Ambrogio Dei, nella prefazione «a’ lettori» dichiarerà d’aver
trasformato l’intestazione in Serraglio, «havendo veduto lo infelice successo di
un Libro stampato sotto titolo di palaggio de gl’Incanti» (che sarà, ipotizzo, il
Palaggio degli incanti et delle gran maraviglie de gli spiriti e di tutta la natura di
Strozzi Cigogna, 1604)360.
Nel Palazzo-Furioso si narra il mito della «mutazione vicissitudinale dell’universo»361 (che riplasma l’acuto senso umanistico della temporalità), così tangibile
nella lettura del Toscanella e in sostanza legittimata anche dalle indicazioni cifrate nel testo da Ariosto. L’inquietudine serpeggiante nel secondo Cinquecento, e
che l’Ariosto già “tassesco” di molte pagine, non solo dei Cinque canti, aveva già
intuito, riuscendo ancora ad armonizzarla in leggerezza, esattezza, rapidità e molteplicità di senso-e-suono, viene esaltata da Giordano Bruno non solo nel De infi-
1943, pp. 81-351 (a p. 97).
358 Ibid., p. 211 (i corsivi sono nel testo).
359 E. PANOFSKY, Galileo as a Critic of the Arts, 1954 (trad. it. Galileo critico delle arti, a cura di M. C. Mazzi, Venezia 1985, p. 73).
360
Su cui cfr. F. SECRET, Les Kabbalistes Chrétiens de la Renaissance (1964), nuova edizione rivista e aumentata,
Milano 1984, p. 83.
Letteratura italiana Einaudi 140
«Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto - Corrado Bologna
nito universo et mondi, e nel Prologo del Candelaio (1582). L’autore vi dedica il
suo pensiero e il suo libro, con amorosa finzione, «alla dotta, saggia, bella e generosa mia signora Morgana», dietro alla quale non si fatica a riconoscere, al di là di
ogni referente storico, l’antica fata di Merlino, ora divenuta semplicemente «la
Mutazione» (ma già Boiardo, Orlando Innamorato, II, IX, I-2, aveva identificato
Morgana con la Fortuna), e il cui insegnamento così recita, innestando Ovidio
sulla kabbalah cristiana: «Il tempo tutto toglie e tutto dà; ogni cosa si muta, nulla
s’annichila; è un solo che non può mutarsi, un solo è eterno, e può perseverare
eternamente uno, simile e medesimo»362.
La fabrica eternamente attiva e mobile, eternamente mutevole, del Furioso,
non è solo un Palazzo: è il Palazzo del cosmo, è un microcosmo vivente; condensa, “narrando”, una tradizione intera e la spinge verso l’enciclopedia universale.
All’impresa di questa edificazione collaboreranno subito i commentatori, a partire dalla precocissima Spositione sopra l’Orlando Furioso di M. Lodovico Ariosto di
Simone Fórnari, o Fúrnari363, apparsa a Firenze nel 1549, l’anno successivo rispetto alla Fabrica di Alunno, presso Torrentino, editore vivace e curioso, oltre
che di letteratura, anche di ermetismo (nel ’50 stamperà l’Idea del theatro di Giulio Camillo). Non stupirà, scorrendo i cataloghi di romanzi cavallereschi in rima o
in prosa che fioriscono alla metà e nel secondo Cinquecento, di vedere, alla lettera, istoriati i frontespizi da brevi riassunti, quasi indici analitici o summae della
«materia», e le prime pagine occupate da introduzioni che tendono ad invogliare
il lettore fornendogli nel contempo la mappa diegetica da percorrere, per attraversare il libro e per ricollegarlo ai molti altri che esso presuppone, in una trama
testuale che è la tradizione. Nessuno può dominare le «onde lunghe» del Furioso,
che il Didimo Chierico foscoliano vede e sente distendersi nel libro. Esse rivolgono e “portano” tutta la tradizione verso il Moderno, pur infrangendosi prima della soglia dell’«antico», come a più riprese asserisce Leopardi nello Zibaldone.
Quella poesia, Leopardi non l’apprezzava come troppo «familiare», troppo
vicina ad «una bellissima ed elegantissima prosa»364. Pochi decenni più tardi,
Francesco De Sanctis replicherà alla «rozzezza con cui Cantú liquida la poca se-
361
E. GARIN, Medioevo e Rinascimento. Studi e ricerche, Bari 1954, p. 195.
G. BRUNO, Candelaio. Commedia del Bruno Nolano, Accademico di nulla Accademia, detto il Fastidito, Paris
1582; cfr. l’edizione a cura di V. Spampanato, Bari 19233, riprodotta dal Guzzo in Opere di Giordano Bruno e Tommaso Campanella, a cura di A. Guzzo e R. Amerio, Milano-Napoli 1956, pp. 39-41. Si noterà che prima della riduzione
teatrale e messa in scena del Furioso (1969), anche il Candelaio era stato rappresentato da Luca Ronconi.
363 Cfr. G. BARBUTO, Il primo commento all’Ortando Furioso e l’edificazione del modello ariostesco, in «Annali
della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Napoli», nuova serie, XIV (1983-84), pp. 195-227.
364
G. LEOPARDI, Zibaldone, p. 3415 dell’originale (11. IX. 1823): cfr. l’ed. Pacella cit., II, p. 1786, e l’ed. Flora
cit., II, p. 437.
362
Letteratura italiana Einaudi 141
«Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto - Corrado Bologna
rietà dei contenuti in Ariosto, pur apprezzandone lo stile», e comparando il suo
mondo a quello «omerico o [...] dantesco», dichiarerà l’Ariosto «il principe degli
artisti italiani, artisti e non poeti»365.
La scissione dei due elementi armonizzati nel Furioso, «prosa» boccacciana e
«lirica» petrarchesco-polizianea, rappresenta il punto di crisi ed insieme il nuovo
spazio d’influenza, la nuova linea di riconnotazione dell’Ariosto «narratore» moderno. Non a caso un Carlo Emilio Gadda, nella cui opera numerosissimi sono i
richiami all’Ariosto, poteva chiudere nel 1939 uno scritto poco noto sul Mulino
del Po di Riccardo Bacchelli, moderno épos prosastico dalle lunghe acquee ondate diegetico-storiografiche, con la rievocazione dell’eterna mutevolezza di Fortuna e del Caso, e del movimento spaziale-testuale in cui il laicissimo Furioso la fissò al volo:
E dopo Dio, o agli ordini di Dio, o nonostante Dio, il senso d’un vorticare pauroso delle anime e degli eventi verso la vanità delle stagioni superate, e la traslazione entro testo
di quei quattro versi, dallo “stupendo poema”, che dicono l’operare di Fortuna,
di quella che di noi fa come il vento
d’arida polve, che l’aggira in volta,
la leva fino al cielo, e in un momento,
a terra la ricaccia onde l’ha tolta366.
Non stupirà l’associazione, ancora una volta, di Ariosto e del nostro massimo
romanziere novecentesco. Proprio richiamandosi alla forza originale ed espressivistica della saldatura lirico-narrativa i nostri maggiori scrittori-saggisti hanno in
fin dei conti ripreso, purificato ed approfondito l’indìcazione, già di Leopardi e di
De Sanctis, circa la sostanziale prosaicità (a parere dei romantici negativa!) del
Furioso. E non è attribuibile, in parte (e mutatis mutandis) anche al Furioso ciò
che Italo Calvino ha scritto a proposito di Gadda, testimonianza suprema, a suo
parere, del fatto che si possa analizzare «il romanzo contemporaneo come enciclopedia, come metodo di conoscenza, e soprattutto come rete di connessione tra
i fatti, tra le persone, tra le cose del mondo»367?
In Gadda, “come” in Ariosto (così presente in Calvino, anche quando il suo
nome è taciuto),
da qualsiasi punto di partenza il discorso s’allarga a comprendere orizzonti sempre più
vasti, e se potesse continuare a svilupparsi in ogni direzione arriverebbe ad abbracciare
l’intero universo. [...] Quella che prende forma nei grandi romanzi del XX secolo è l’i365
Il passo è citato in M. S. SAPEGNO, «Italia», «Italiani» cit., p. 220, nota28.
C. E. GADDA, «Il Mulino del po» di Riccardo Bacchelli (1939), in ID., Opere, a cura di D. Isella, III. Saggi, Giornali, Favole e altri scritti, I, a cura di L. Orlando, C. Martignoni e D. Isella, Milano 1991, pp. 831-38 (alle pp. 837-38);
la citazione è dal Furioso, XXXII, 50, 1-4.
367 I. CALVINO, Lezioni americane cit., p. 103.
366
Letteratura italiana Einaudi 142
«Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto - Corrado Bologna
dea d’una enciclopedia aperta, aggettivo che certamente contraddice il sostantivo enciclopedia, nato etimologicamente dalla pretesa di esaurire la conoscenza del mondo rinchiudendola in un circolo. Oggi non è più pensabile una totalità che non sia potenziale,
congetturale, plurima. [...] Chi siamo noi, chi è ciascuno di noi se non una combinatoria d’esperienze, d’informazioni, di letture, d’immaginazioni? Ogni vita è un’enciclopedia, una biblioteca, un inventario d’oggetti, un campionario di stili, dove tutto può essere continuamente rimescolato e riordinato in tutti i modi possibili368.
Il Furioso mi sembra oggi, più di Ovidio, più di Lucrezio (cui Calvino si richiama), l’archetipo di quell’«opera concepita al di fuori del self», che ci permetterebbe «d’uscire dalla prospettiva limitata di un io individuale, non solo per entrare in altri io simili al nostro, ma per far parlare ciò che non ha parola, l’uccello
che si posa sulla grondaia, l’albero in primavera e l’albero in autunno e la pietra,
il cemento, la plastica [...] »369.
L’affinità (probabilmente inconsapevole) fra l’elenco delle “voci testuali” del
Romanzo ideale, redatto da Calvino, e quello che Toscanella quattro secoli fa
estrasse dall’Ariosto (tolti gli aggiornamenti all’attualità), è impressionante ed anche, credo, di alto significato, in ordine al senso che un libro come il Furioso continua ad avere per il lettore d’oggi, quando è uscito ormai dallo spazio metaforico
del Palazzo incantato per entrare in quello delle lunghe Onde oceaniche: come
classico, come poema - enciclopedia aperta, come testo-chiavistello che apre universi diversissimi. Lo spazio teatrale, ad esempio, nel quale il Furioso irrompe e si
travasa, attraverso la selezione di ottave compiuta da Sanguineti, le mirabili macchine per sognare di Luca Ronconi, e la «partecipazione collettiva dello spettatore
libero, per la prima volta nel teatro italiano, di accogliere e montare alla sua maniera le tessere del puzzle che più gli garbano»370.
Sarà senza ragioni l’apertura di Palomar di Calvino, romanzo ariostescamente telescopico e microscopico, onnivoro, enciclopedico, bramoso di circoscrivere
il campo dell’esperienza che sempre di nuovo si moltiplica al suo interno, «come
se in ogni punto fosse contenuto l’infinito»371? Palomar si apre con la Lettura di
un’onda: un’incredibilmente lunga, ossessiva, fantasticante ed insieme minutissima e meticolosa contemplazione dell’onda che, spuntando in lontananza, si vede
«crescere, avvicinarsi, cambiare di forma, avvolgersi su se stessa, rompersi, svanire, rifluire»372. E qual è l’esito di questa narrazione impossibile – per cui non esi-
368
Ibid., pp. 105 e 113.
Ibid., p. 120.
370 G. BARTOLUCCI, Un Esercizio di nuova scrittura, in Orlando furioso di Ludovico Ariosto cit., pp. 107-21 (a p.
120).
371
I. CALVINO, Palomar, Torino 1983 (risvolto di copertina, probabilmente dello stesso Calvino, colonna I).
372 Ibid., p. 5 (è una delle prime frasi del libro).
369
Letteratura italiana Einaudi 143
«Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto - Corrado Bologna
stono “parole” abbastanza veloci ed esatte – del Macrocosmo specchiato nel Microcosmo, nella sua Mutazione interminabile e fallace, che sembra sempre rinviare la propria fine attraverso l’eterno ritorno dell’Identico? Come può il Tutto contenersi nell’Uno, mutandosi, conservandosi, abolendosi?
Infine non sono le «onde» che lui intende guardare, ma un’onda singola e basta: volendo evitare le sensazioni vaghe, egli si prefigge per ogni suo atto un oggetto limitato e
preciso. [...] Decide che si metterà a descrivere ogni istante della sua vita, e finché non
li avrà descritti tutti non penserà più d’essere morto. In quel momento muore373.
6. Nota bibliografica.
Rinvio alle indicazioni puntuali offerte nelle note (che qui solo in parte si ri-prendono) per singoli problemi; in questa sede invece mi limito a citare, sintetizzando
dalla vastissima bibliografia disponibile sul Furioso, alcuni contributi decisivi o di
notevole rilievo, sia per novità e ricchezza di regesto, sia per irnpostazione metodologica di specifici problemi.
Per un più generale orientamento bibliografico sono sempre utili alcuni repertori di base: G. J. FERRAZZI, Bibliografia ariostesca, Bassano 1881; G. FATINI, Bibliografia della critica ariostea (1510-1956), Firenze 1958; R. FRATTAROLO, Ariosto 1974, in «Accademie e Biblioteche d’Italia», XLII (1974), pp. 42666; D. MEDICI, La bibliografia della critica ariostesca dal «Fatini» ad oggi (19571974), in «Bollettino Storico Reggiano», VII (1954), 27 (Numero speciale dedicato
al Convegno Ariostesco Reggio Emilia a Lodovico Ariosto nel quinto centenario
della nascita 1474-1974), pp. 63-150; G. BALDASSARRI, Tendenze e prospettive
della critica ariostesca nell’ultimo trentennio (1946-73), in «La rassegna della letteratura italiana», LXXIX (1975), pp. 183-201; R. J. RODINI e S. DI MARIA, Ludovico Ariosto: An Annotated Bibliography of Criticism 1956-1980, Columbia
Miss. 1984.
Per un elenco delle edizioni del poema si possono vedere anche: G. AGNELLI e G. RAVEGNANI, Annali delle edizioni ariostee, 2 voll., Bologna 1933; Celebrazioni Ariostesche. Catalogo della Mostra Bibliografica, a cura di B. Fava e D.
Prandi, Reggio Emilia 1951; Mostra di edizioni ariostesche (Reggio Emilia - Biblioteca Antonio Panizzi, ottobre 1974 - marzo 1975), a cura di G. Cagnolati, Reggio
Emilia 1974. Sopravvive ormai sostanzialinente come testimonianza storiografica
(ma ancora di qualche utilità, specie per i poemi coevi e successivi al Furioso) il
373
Ibid., pp. 5 e 128 (lego una fra le prime con l’ultima frase del libro).
Letteratura italiana Einaudi 144
«Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto - Corrado Bologna
volume, inserito nella vallardiana Storia dei generi letterari italiani, di F. FOFFANO, Il poema cavalleresco dal XV al XV111 secolo, Milano 1904. Un agile profilo
scritto con garbo erudito, dimensionato ai «Profili» della Bietti, è dovuto a G.
BERTONI, Lodovico Ariosto, Milano 1939.
L’edizione critica dell’Orlando Furioso alla quale è necessario far ricorso per
la sinossi delle varianti diacroniche relative alle tre edizioni (A 1516, B 1521, C
1532) è quella stampata nella «Collezione di Opere inedite e rare pubblicate dalla Commissione per i testi di lingua», vol. CXXII: L. ARIOSTO, Orlando furioso
secondo l’edizione del 1532 con le varianti delle edizioni del 1516 e del 1521, a cura di S. Debenedetti e C. Segre, Bologna 1960 (la fondamentale Nota al testo alle
pp. 1649-97 è a firma di C. Segre); essa supera, correggendone le mende, l’edizione apparsa mezzo secolo prima presso la «Società Filologica Romana»: Orlando
furioso di L. Ariosto secondo le stampe del 1516 e del 1521, a cura di F. Ermini, 2
voll., Roma 1909-11, integrando anche tutti i dati già acquisiti nella prima edizione criticamente sorvegliata del poema, a cura di S. Debenedetti, 3 voll., Bari 1928
(ivi la Nota nel III volume, pp. 397-447, costituisce la messa a punto inaugurale
per quanto concerne le relazioni fra A, B e C e fra i due Tipi di C) . Quest’ultimo
aspetto del problema ecdotico è stato ripreso e perfezionato con una collazione
completa dei ventiquattro esemplari residui di C da C. FAHY, L’«Orlando furioso» del 153. 2. Profilo di una edizione, Milano 1989 (le parti aggiunte in C sono
studiate da un’angolatura storico-politico-ideologica da A. CASADEI, La strategia delle varianti. Le correzioni storiche del terzo «Furioso», Lucca 1988). Fondamentale, per la stratigrafia delle parti aggiunte fra 1521 e’32: I frammenti autografi dell’Orlando Furioso, a cura di S. Debenedetti, Torino 1937. Utilissima l’edizione a cura di C. Segre, Milano 1976, nel cui ricco sistema di note si raccolgono anche le indicazioni sulle «fonti» (alle pp. XLIX-LI un’utile Nota bibliografica; alle
pp. 1245-59 un’importante Nota al testo, con precisazioni ulteriori rispetto a
quella del 1960).
Per le successive correzioni e riscritture del Furioso, in ordine così all’assetto
testuale come al significato letterario della progressiva variazione: F. MARTINI, Il
I Canto dell’Orlando furioso nelle edizioni del 1516 e 1532. Per nozze Angeleri-Mariani, Pavia 1880; M. DIAZ, Le correzioni all’Orlando Furioso, Napoli 1900; F.
FRANCAVILLA, Alcune osservazioni sulle due edizioni dell’Orlando Furioso pubblicate dall’autore l’una il 1516 l’altra il 1532, Isernia 1902; S. DEBENEDETTI,
Quisquilie grammaticali ariostesche (1930), in ID., Studi filologici, nota di C. Segre, Milano 1986, pp. 211-16; ID., Per la data di un «baratto» ariostesco (1933),
ibid., pp. 217-21; M. MALKIEL-JIRMOUNSKY, Notes sur les trois rédactions du
«Roland Furieux» de l’Arioste, in «Humanisme et Renaissance», III (1936), pp.
429-46; G. CONTINI, Come lavorava l’Ariosto (1937), in ID., Esercizi di lettura
Letteratura italiana Einaudi 145
«Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto - Corrado Bologna
sopra autori contemporanei con un’appendice su testi non contemporanei, edizione
aumentata di Un anno di letteratura, Torino 1974, pp. 232-41 (studio epocale che,
sulla base dei Frammenti autografi editi dal Debenedetti, gettò le fondamenta per
una nuova esegesi del nesso ariostesco fra “liricità” e “narratività” e del processo
in direzione di un sostanziale “antialessandrinismo”); G. DE ROBERTIS, Lettura
sintomatica del primo dell’«Orlando», in «Paragone. Letteratura», n. 4 (1950), pp.
1-17; A. CASADEI, Brevi analisi sul finale del primo «Furioso», in «Studi e problemi di critica testuale», XLIV (1992), pp. 87-100.
L’edizione critica dei Cinque canti si legge in L. ARIOSTO, Opere minori, a
cura di C. Segre, Milano-Napoli 1954, pp. 583-754 (cfr. la Nota alle pp. 1182-84);
una nuova ne ha fornito Luigi Firpo quale «Strenna Utet 1964», riproducendo
l’edizione Segre con lievi, opportuni emendamenti, ed usando come titolo il frontespizio dell’originale del 1532, Cinque canti di un nuovo libro di m. Lodovico
Ariosto, i quali seguono la materia del Furioso di nuovo mandati in luce, Torino
1974 (Introduzione, pp. 7-19; bibliografia, pp. 195-99); importante l’edizione: L.
ARIOSTO, Cinque canti, a cura di L. Caretti, Venezia 1974, quindi Torino 1977
(l’introduzione, Storia dei «Cinque canti», pp. V-XX1, è apparsa anche in ID., Antichi e moderni. Studi di letteratura italiana, Torino 1976, pp. 121-31). Sul testo: A.
GASPARY, Zu Ariost’s «Cinque Canti», in «Zeitschrift für romanische Philologie», III (1879), pp. 232-33; L. BONOLLO, I «Cinque Canti» di L. Ariosto, Mantova 1901; G. CARDUCCI, Su l’Orlando Furioso. Saggio (1881), in ID., Opere,
edizione nazionale, XIV, L’Ariosto e il Tasso, Bologna 1936, pp. 59-116 (in particolare pp. 100 sgg.); L. ROSSI, Saggio sui «Cinque canti» di L. Ariosto, Reggio
Emilia 1923; H. HAUVETTE, L’Arioste et la poésie chevaleresque à Ferrare au début du XVIe siècle, Paris 1927 (specialmente pp. 157 sgg.); C. SEGRE, Appunti
sulle fonti dei «Cinque canti» (1954), in ID., Esperienze ariostesche, Pisa 1966, pp.
97-109; ID., Studi sui «Cinque canti» (1954), ibid., pp. 121-77; C. DIONISOTTI,
Per la data dei «Cinque canti», in «Giornale storico della letteratura italiana»,
CXXXVII (1960), pp. 1-40; ID., Appunti sui «Cinque canti» e sugli studi ariosteschi, in AA. VV., Studi e problemi di critica testuale, Bologna 1961, pp. 369-82; L.
ROSSI, Studi sui «Cinque Canti» di Ludovico Ariosto, in «Bollettino Storico Reggiano», VII (1974), pp. 91-150 (rielabora il precedente studio del 1923); P. FONTANA, La balena dei «Cinque Canti» e un problema di fonti e di cronologia, in
«Aevum», XXXV (1961), pp. 511-18; ID., I «Cinque Canti» e la storia della poetica di Ariosto, Milano 1962, su cui si veda la recensione di R. Ceserani sul «Giornale storico della letteratura italiana, CXL (1963), pp. 617-24; ID., Ancora sui
«Cinque Canti» dell’Ariosto, in «ltalianistica», III (1974), pp. 593-605; E. SACCONE, Appunti per una definizione dei «Cinque canti» (1964), in ID., Il soggetto
del Furioso e altri saggi fra quattro e cinquecento, Napoli 1974, pp. 119-56; L. CALetteratura italiana Einaudi 146
«Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto - Corrado Bologna
PRA, Per la datazione dei «Cinque Canti» dell’Ariosto, in «Giornale storico della
letteratura italiana», CLI (1974), pp. 278-95; C. F. GOFFIS, I «Cinque canti di un
nuovo libro di m. Lodovico Ariosto», in «La rassegna della letteratura italiana»,
LXXIX (1975), pp. 146-68; P. L. CERISOLA, Il problema critico dei «Cinque canti», in Studi sull’Ariosto, a cura di E. N. Girardi, Milano 1977, pp. 147-186; A.
CASADEI, Alcune considerazioni sui «Cinque canti», in «Giornale storico della
letteratura itabana», CLXV (1988), pp. 161-79.
Sull’“ottava aurea” ariostesca: AA. VV., «L’ottava d’oro» – celebrazioni ariostesche, I. Ferrara 1928-VI, Milano 1930; un secondo volume apparve in occasione
del IV centenario: L’ottava d’oro. La vita e l’opera di Ludovico Ariosto. Letture tenute in Ferrara per il quarto centenario della morte del poeta, Milano 1933; G. Pozzi, La rosa in mano al professore, Friburgo 1974 (che riprende la figura inaugurata
dal De Sanctis nel suo saggio sull’ottava ariostesca – cfr. infra – e ricordata da G.
DEBENEDETTI, Commemorazione di De Sanctis, in ID., Saggi critici. Seconda serie, Milano 19713 pp. 27-44, specialmente pp. 41 sgg.); M. MARTELLI, Le forme
poetiche italiane dal Cinquecento ai nostri giorni, in Letteratura italiana, diretta da
A. Asor Rosa, III/1. Le forme del testo. Teoria e poesia, Torino 1984, pp. 519-620
(in particolare pp. 530-43). Raccoglie e discute altra bibliografia, con dati originali, specie sulle Stanze del Bembo (utili anche per il Furioso), F. CALITTI, Della ragion poetica dell’ottava. Per una storia dell’ottava rima, Tesi di dottorato in Italianistica (Quarto ciclo), Dipartimento di Italianistica, Università «La Sapienza»,
Roma 1992.
Su lingua e stile: B. MIGLIORINI, Sulla lingua dell’Ariosto (1946), in ID.,
Saggi linguistici, Firenze 1957, pp. 178-86; E. TUROLLA, Dittologia e «enjambement» nell’elaborazione dell’«Orlando Furioso», in «Lettere italiane», X (1958),
pp. 120; M. FUBINI, Poscritto: gli «enjambements» nel «Furioso» (1971), in ID.,
Studi sulla letteratura del Rinascimento, Firenze 19712, pp. 241-47; L. BLASUCCI, Nota sull’enumerazione nel «Furioso» (1962), in ID., Studi su Dante e Ariosto,
Milano-Napoli 1969, pp. 113-20; A. M. CARINI, L’iterazione aggettivale nell’Orlando Furioso, in «Convivium», XXXI (1963), pp. 19-34; M. BASTIAENSEN, La
ripetizione contrastata nel «Furioso», in «La rassegna della letteratura italiana», serie VII, LXXIV (1970), pp. 112-33; A. STELLA, Note sull’evoluzione linguistica
dell’Ariosto, in Ludovico Ariosto: lingua, stile e tradizione. Atti del Congresso organizzato dai comuni di Reggio Emilia e Ferrara, 12-16 ottobre 1974, a cura di C. Segre, pp. 49-64; G. PONTE, Un esercizio stilistico dell’Ariosto: la tempesta di mare
nel canto XLI del «Furioso», ibid., pp. 195-206; G. HERCZEG, Stile indiretto libero nella lingua del «Furioso», ibid., pp. 207-30; M. MEDICI, Usi alternativi di
indicativo e congiuntivo nell’Orlando Furioso, Lecce 1977; L. VANOSSI, Valori
iconici della rima nell’«Orlando Furioso», in «Lingua e stile», XLV (1984), 2-3,
Letteratura italiana Einaudi 147
«Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto - Corrado Bologna
pp. 35-47; F. SBERLATI, Retorica e sintassi nel XII del Furioso, in «Lingua e stile», XXVII (1992), 3, pp. 379-404; S. JOSSA, Modelli classici e mediazioni moderne. Dante e Petrarca nella riscrittura ariostesca, in corso di stampa in «Linguistica
e letteratura», e ID., Dittologia e aggettivazione: la «riscrittura» dei modelli classici
nell’«Orlando Furioso», in corso di stampa in «Italianistica».
In particolare sulla presenza nel Furioso del lessico e dello stile del Petrarca e
del petrarchismo: E. BIGI, Petrarchismo ariostesco (1953), in ID., Dal Petrarca al
Leopardi. Studi di stilistica storica, Milano-Napoli 1954, pp. 47-76; ID., Appunti
sulla lingua e sulla metrica del Furioso, in «Giornale storico della letteratura italiana», CXXXVIII (1961), pp. 239-53; V. CUCCARO, The Humanism ofludovico
Ariosto: From the “Satire” to the “Furioso”, Ravenna 1981, pp. 123-237; M. C. CABANI, Fra omaggio e parodia. Petrarca e petrarchismo nel «Furioso», Pisa 1990.
Per quanto concerne gli intrinseci meccanismi costruttivi della progressione
diegetica e della complessa procedura dell’entrelacement, anche in rapporto ai
cantari e al Boiardo: N. CAPPELLANI, La sintassi narrativa dell’Ariosto, Firenze
1952; D. DELCORNO BRANCA, L’Orlando Furioso e il romanzo cavalleresco
medievale, Firenze 1973; P. ORVIETO, Differenze «retoriche» fra il «Morgante» e
il «Furioso». (Per un’interpretazione narratologica del «Furioso»), in Ludovico
Ariosto: lingua, stile e tradizione cit., pp. 157-73; R. ALHAIQUE PETTINELLI,
L’immaginario cavalleresco nel Rinascimento ferrarese, Roma 1983 (specialmente
cap. III e Appendice); G. DALLA PALMA, Le strutture narrative dell’«Orlando
Furioso», Firenze 1984; O. VISANI, La tecnica dell’esordio nel poema cavalleresco
dai cantari all’Ariosto, in «Schifanoia», n. 3 (1987), pp. 45-84; M. C. CABANI, Le
forme del cantare epico-cavalleresco, Lucca 1988 (specie l’Introduzione e la prima
parte); ID., Costanti ariostesche. Tecniche di ripresa e memoria interna nell’«Orlando Furioso», Pisa 1990.
Circa il valore letterario del testo, la bibliografia è troppo vasta perché se ne
possa qui rendere conto adeguatamente. Si vedano almeno, per la loro utilità documentaria e per l’impostazione originale: U. FOSCOLO, Saggio sui poemi narrativi e romanzeschi italiani, in ID., Opere, edizione nazionale, XI. Saggi di letteratura italiana, parte II, a cura di C. Foligno, Firenze 1958, pp. 1-199; F. DE SANCTIS, L’Orlando Furioso, in ID., Teoria e storia della letteratura, a cura di B. Croce,
2 voll., Bari 1926, I, pp. 222-27; ID., La poesia cavalleresca, in ID., La poesia cavalleresca e scritti vari, a cura di M. Petrini, Bari 1954, pp. 3-175; ID., L’«Orlando
Furioso», cap. XIII della Storia della letteratura italiana, a cura di N. Gallo, in ID.,
Opere, a cura di C. Muscetta, Torino 1958, IX, pp. 493-538; G. CARDUCCI, Su
l’Orlando Furioso cit. ; A. MOMIGLIANO, Saggio sull’Orlando Furioso (1928),
Bari 19595; I. WYSS, Virtú und Fortuna bei Boiardo und Ariost, Leipzig-Berlin
1931; E. LEVI, L’«Orlando Furioso» come epopea nuziale, in «Archivum RomaniLetteratura italiana Einaudi 148
«Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto - Corrado Bologna
cum», XVII (1933), pp. 459-96; E. CARRARA, I due Orlandi, Torino 1935; ID.,
Marganorre, in «Annali della R. Scuola Normale Superiore di Pisa. Sezione di
Lettere, Storia e Filosofia», serie II, XVIII (1940), pp. 1-20; W. BINNI, Metodo e
poesia di Ludovico Ariosto (1947), Roma 1970; R. SPONGANO, La poesia delle
«stanze». L’ironia nell’«Orlando Furioso» (1940), in ID., La prosa di Galileo e altri
scritti, Messina-Firenze 1949, pp. 43-58; G. DE ROBERTIS, Idea dell’Orlando, in
«La Rassegna d’Italia», IV (1949), pp. 646-50; G. DE BLASI, L’Ariosto e le passioni. (Studio sul motivo poetico fondamentale dell’«Orlando furioso»), in «Giornale storico della letteratura italiana», CXXIX (1952), pp. 318-62 e CXXX
(1953), pp. 178-203; L. RUSSO, Ariosto minore e maggiore, in «Belfagor», XIII
(1958), pp. 629-46; M. MARTI, Il tono medio dell’«Orlando Furioso» (1956), in
ID., Dal certo al vero. Studi di filologia e di storia, Roma 1962, pp. 189-212; L. CARETTI, Ludovico Ariosto, in Storia della Letteratura Italiana, diretta da E. Cecchi
e N. Sapegno, III. Il Quattrocento e l’Ariosto, Milano 1965, pp. 785-895 (con bibliografia, pp. 894-95); M. TURCHI, Immagini di una storia interna dell’«Orlando Furioso», in «La rassegna della letteratura italiana», serie VII, LXXI (1967),
pp. 315 340; ID., Ariosto o della liberazione fantastica, Ravenna 1969; L. PAMPALONI, Per una analisi narrativa del «Furioso», in «Belfagor», XXVI (1971), pp.
133-50; ID., La guerra nel «Furioso», ibid., pp. 133-50; N. BORSELLINO, Lettura dell’«Orlando Furioso», Roma 1972; R. NEGRI, Interpretazione dell’«Orlando
furioso», Milano 19722; M. SANTORO, Letture ariostesche, Napoli 1973; Ariosto
1974 in America. Atti del Congresso ariostesco alla Columbia University (New
York, dicembre 1974), a cura di A. Scaglione, Ravenna 1976; E. SACCONE, Il
soggetto del Furioso e altri saggi tra quattro e cinquecento, Napoli 1974; G. PADOAN, L’«Orlando Furioso» e la crisi del Rinascimento, in «Lettere italiane»,
XXVII (1975), pp. 286-307; A. PIROMALLI, La cultura a Ferrara al tempo di Ludovico Ariosto, Roma 1975; G. DALLA PALMA, Una cifra per la pazzia d’Orlando, in «Strumenti critici», IX (1975), pp. 367-79; R. BRUSCAGLI, «Ventura» e
«inchiesta» fra Boiardo e Ariosto, in Ludovico Ariosto: lingua, stile e tradizione cit.,
pp. 107-36; W. MORETTI, L’ultimo Ariosto, Bologna 1977; G. SAVARESE, Il
«Furioso» e la cultura del Rinascimento, Roma 1984; A. GAREFFI, Figure dell’immaginario nell’Orlando furioso, Roma 1984; A. BOZZOLI, La chiave
dell’«Orlando Furioso», Milano 1985; M. BEER, Romanzi di cavalleria. Il «Furioso» e il romanzo italiano del primo Cinquecento, Roma 1987; M. MANCINI, I «cavallieri antiqui»: paradigmi dell’aristocratico nel «Furioso», in «Intersezioni», VIII
(1988), PP - 423 454; M. SANTORO, Ariosto e il Rinascimento, Napoli 1989; S.
LONGHI, Orlando Insonniato. Il sogno e la poesia cavalleresca, Milano 1990; S.
ZATTI, L’Orlando furioso fra epos e romanzo, Lucca 1990; AA. VV., Espaces réels et
espaces imaginaires dans le «Roland furieux», Paris 1991; J. E. RUIZ-DOMÉLetteratura italiana Einaudi 149
«Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto - Corrado Bologna
NEC, Bradamante, la imagen de la ambegüedad feminina, in «Lingua e stile», XXVI (1991), 2, pp. 205-22; A. CASADEI, Le ottave di Ariosto «Per la storia d’Italia», in «Studi di filologia italiana», L (1992), pp. 41-92.
Fu per lunghi anni (in sostanza fra De Sanctis e Contini, fatta eccezione per le
ricerche ecdotiche e linguistiche della grande filologia italiana negli anni Trenta
del Novecento) la lettura ariostesca per antonomasia il piccolo libro di B. CROCE, Ariosto (1917), in ID., Ariosto, Sbakespeare e Corneille, Bari 1920, ed ora ristampato a cura di G. Galasso, Milano 1991 (con una Nota del curatore, pp. 111123); cfr. E. N. GIRARDI, «Ariosto, Shakespeare, Corneille» e la definizione crociana del «Furioso», in Studi sull’Ariosto cit., pp. 13-38; ora cfr. anche (per le relazioni dialettiche, ed anche polemiche, di Croce con i filologi, nelle quali hanno un
qualche momento i Cinque canti): C. BOLOGNA, Croce e la filologia, in «Rassegna di studi crociani», IV (1993), 5, pp. 49-55.
Merita un richiamo a parte, per l’originalità dell’impianto interpretativo e la
finezza della lettura del poema, complessiva e di dettaglio, G. BARLUSCONI,
L’«Orlando furioso» poema dello spazio, in Studi sull’Ariosto cit., pp. 39-130.
Spiccano, per la vivacità umorale e la straordinaria sensibilità critica e letteraria sollecitata da un confronto attivo con l’Ariosto, le pagine di alcuni nostri scrittori (alle quali andranno allegate quelle di AA. VV., L’ottava d’oro cit. ): A. BALDINI, Ludovico della tranquillità, Bologna 1933; ID., Stazioni dell’ottava rima
(1940), in ID., Cattedra d’occasione, Firenze 1941, pp. 396-404; ID., Ariosto e dintorni, Caltanissetta-Roma 1958; R. BACCHELLI, La congiura di Don Giulio d’Este e altri scritti ariosteschi, Milano 1958. Ma svettano, sopra tutte le altre memorabili, per la “vulcanica” e “mercuriale” capacità di saldare acutezza ed esattezza
interpretativa con velocità d’associazione mentale e molteplicità di riferimento
culturale, le straordinarie pagine dedicate all’amatissimo Furioso da Calvino, probabilmente il più consentaneo e raffinato fra gli “ariosteschi” del nostro Orlando
furioso di Ludovico Ariosto raccontato da Italo Calvino, Torino 1970 (poi come Italo Calvino racconta l’Orlando furioso, a cura di C. Minoia, Torino 1990); ID., La
struttura dell’«Orlando» (1974), in ID., Perché leggere i classici, Milano 1991, pp.
78-88; ID., Piccola antologia di ottave (1975), ibid., pp. 89-95. E per quanto il Furioso vi sia citato una sola volta (pp. 34-35), sono intrise di spiriti ariosteschi altresì le sue geniali Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Milano
1988. In Il castello dei destini incrociati, Torino 1973, denunciano l’ascendenza
del Furioso almeno la Storia d’Orlando pazzo per amore e la Storia di Astolfo sulla
Luna, ma altresì Tutte le altre storie. All’ispirazione ariostesca di Calvino dedicano intelligenti considerazioni M. CORTI, Il gioco dei tarocchi come creazione di intrecci (1971), in ID., Il viaggio testuale. Le ideologie e le strutture semiotiche, Torino 1978, pp. 169-84, C. OSSOLA, Figurato e rimosso. Icone e interni del testo,
Letteratura italiana Einaudi 150
«Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto - Corrado Bologna
Bologna 1988, specialmente pp. 94 sgg., e G. BERTONE, Italo Calvino. Il castello della scrittura, in AA. VV., Indizi, Genova 1992, pp. 115-31 (che propone, a p.
131, un «platonismo o neoplatonismo di Calvino» non troppo dissimile, mutatis
mutandis, da quello suggerito da Savarese per l’Ariosto).
All’assolutamente rivoluzionaria “messa in scena” del Furioso nella chiesa di
San Nicola di Spoleto, durante le manifestazioni del «Festival dei Due Mondi»
del giugno 1969, che suscitò un vivacissimo dibattito nella critica teatrale del tempo, fece seguito la pubblicazione del libretto: Orlando furioso di Ludovico Ariosto,
riduzione di E. Sanguineti, regia di L. Ronconi, a cura di G. Bartolucci, Roma
1970, dove alla trascrizione di un’intervista di Bartolucci con i due autori-realizzatori – Un teatro dell’ironia (a colloquio con Luca Ronconi ed Edoardo Sanguinetì), pp. 13-23 – ed alla riproduzione delle ottave scelte da Sanguineti stesso –
L’azione-testo, pp. 27-99 – si accompagnava una serie di interventi – Il rapporto
critico, pp. 103-52 (testi di C. Augias, G. Bartolucci, E. Capriolo, C. Milanese, I.
Moscati, F. Quadri, E. Siciliano e G. Zincone) – che testimoniano il calore e, in
qualche caso, l’intelligenza con cui l’evento fu accolto. Lo stesso anno del libro,
stampato dall’editore Bulzoni, vide la luce la magnifica «lettura» calviniana, che
insieme alla rappresentazione spoletina costituisce il più cospicuo ed efficace momento della divulgazione non-specialistica del Furioso nei nostri anni.
Per la lettura di Orazio Toscanella in chiave topico-logica e visualizzante: L.
BOLZONI, Dall’Ariosto al Camillo al Doni. Tracce di una versione sconosciuta del
«teatro» (1982), in ID., Il teatro della memoria. Studi su Giulio Camillo, Padova
1984, pp. 59-76. Imprescindibili, intorno al problema delle “fonti” ariostesche,
oltre alla già ricordata annotazione di Cesare Segre, restano i classici studi di P.
RAJNA, Le fonti dell’Orlando Furioso, Firenze 1876 (2a edizione ampliata, Firenze, 1900), e di A. ROMIZI, Le fonti latine dell’Orlando Furioso, Torino 1896. Si
veda altresì: G. MARUFFI, La «Divina Commedia» considerata quale fonte
dell’«Orlando Furioso» e della «Gerusalemme Liberata», Napoli 1903; H. HAUVETTE, Reminiscences dantesques dans le «Roland Furieux», in AA. VV., Mélanges
[...] A. Jeanroy, Paris 1928, pp. 299-306; P. RAJNA, Ricciardetto e Fiordispina, in
AA. VV., Alfred Todd Memorial Volumes, New York 1931, pp. 91-106; I. G. FUCILLA, Studies and Notes, Napoli 1953. Imprimono una decisa svolta sul piano
metodologico: C. SEGRE, Appunti sulle fonti dei «Cinque canti» (1954), in ID.,
Esperienze ariostesche cit., pp. 97-I09; La biblioteca dell’Ariosto (1955), ibid., pp.
45-50; Leon Battista Alberti e Ludovico Ariosto (1965), ibid., pp. 85-95; Un repertorio linguistico e stilistico dell’Ariosto: la «Commedia» (1966), ibid., pp. 51-83;
ID., Da uno specchio all’altro: la luna e la terra nell’«Orlando Furioso» (1987), in
ID., Fuori del mondo. I modelli nella follia e nelle immagini dell’aldilà, Torino
1990, pp. 103-14; M. MARTELLI, Una delle Intercenali di Leon Battista Alberti
Letteratura italiana Einaudi 151
«Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto - Corrado Bologna
fonte sconosciuta del Furioso, in «La Bibliofilia», LXVI (1964), pp. 163-70; L.
BLASUCCI, La «Commedia» come fonte linguistica e stilistica del «Furioso»
(1968), in ID., Studi su Dante e Ariosto cit., pp. 121-62; ID., Riprese linguistico-stilistiche del «Morgante» nell’«Orlando Furioso» (1975), in Ludovico Ariosto: lingua, stile e tradizione cit., pp. 137-55 (il volume contiene numerosi altri contributi di grande qualità); C. OSSOLA, Dantismi metrici nel «Furioso», ibid., pp. 6594; ID., Métaphore et inventaire de la folie dans la littérature italienne du XV1e siècle, in AA. VV., Folie et déraison à la Renaissance, Bruxelles 1976, pp. 171-96; G.
FERRONI, L’Ariosto e la concezione umanistica della follia, in AA. VV., Atti dei
Convegni Lincei. Convegno internazionale su: Ludovico Ariosto, Roma 1974, pp.
73-92 (nel volume anche altri contributi di notevole interesse); S. JOSSA, Stratigrafie ariostesche. Modelli classici e lingua poetica nell’«Orlando Furioso», in «Rivista di letteratura italiana», LX (1991), pp. 59-106.
Per la fortuna del poema, oltre al lavoro citato di L. Bolzoni sul Toscanella e
sul Doni, si veda almeno: G. BARBUTO, Il primo commento all’Orlando Furioso
e l’edificazione del modello ariostesco, in «Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Napoli», nuova serie, XIV (1983-84), pp. 195-227; G. FUMAGALLI, La fortuna dell’«Orlando Furioso» in Italia nel secolo XV1, Ferrara
1912; M. BEER, Romanzi di cavalleria, il «Furioso» e il romanzo italiano del primo
Cinquecento, Roma 1987, in particolare il cap. 11. Nella biblioteca di Don Chisciotte, pp. 207-57. Mi permetto infine di rinviare a C. BOLOGNA, Tradizione testuale e fortuna dei classici italiani, in Letteratura italiana, diretta da A. Asor Rosa,
VI. Teatro, musica, tradizione dei classici, Torino 1986, pp. 445-928 (in particolare
pp. 680-702), ed ora, come volume autonomo, Tradizione e fortuna dei classici italiani, Torino 1993, pp. 386-427.
Letteratura italiana Einaudi 152