L`ambasciatore della cultura dal liceo Umberto a Madrid

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L`ambasciatore della cultura dal liceo Umberto a Madrid
MERCOLEDÌ 27 DICEMBRE 2006
GOFFREDO LOCATELLI
MADRID — Fino al 1936, anno
d’inizio della guerra civile spagnola, l’Ambasciata d’Italia a
Madrid era ubicata nella calle
Mayor. Sul finire del 1939, il governo italiano la trasferì nella
calle Lagasca, in un isolato del
centralissimo Barrio de Salamanca, una delle aree più prestigiose della città. Il palazzo, tre
piani circondati da un ampio
giardino, si deve a uno dei migliori architetti spagnoli degli
inizi del Novecento, Joaquín
Rojí, ed è ispirato nella sua concezione al barocco francese. Gli
uffici della cancelleria sono all’ultimo piano, mentre i piani inferiori sono adibiti a residenza
privata del capo missione e a saloni di rappresentanza. Questi ultimi adornati da numerose opere d’arte di proprietà
del ministero
degli Esteri o
concesse in deposito dalla
Galleria nazionale di Roma,
dal Museo di
Napoli, dalla
Galleria di Capodimonte e
dalla Galleria di
Firenze.
L’ambasciatore Pasquale
Terracciano è il
secondo napoletano eccellente che sbarca in Spagna,
dopo il campione del mondo
Fabio Cannavaro. È qui a
Madrid dal 31
luglio scorso.
Ha 50 anni, parla inglese, francese, spagnolo
e portoghese.
Come tipo si
considera un
anglo-napoletano: raramente si arrabbia ed è
molto razionale. Ha tre figli e una
moglie inglese che caratterialmente è più napoletana di lui.
Ecco dalla sua viva voce il racconto della sua carriera.
«Sono nato e cresciuto a Posillipo. La mia famiglia è tutta napoletana. Mio padre, ingegnere,
era direttore dell’Acquedotto di
Napoli, e ho una sola sorella che
si occupa di comunicazione. Ho
studiato al liceo Umberto I come
altri illustri napoletani: il presidente della Repubblica Giorgio
Napolitano, il regista Francesco
Rosi, il giornalista Antonio Ghirelli, e ancora oggi mi sento un
vero “umbertino”. Fin dai tempi
del liceo scartai l’idea di fare il lavoro paterno: non avevo la vocazione tecnica bensì un grande interesse per il diritto internazionale e la politica estera. Così mi
iscrissi a Giurisprudenza e a 22
anni mi laureai alla Federico II.
Volevo fare il magistrato, come
mio nonno, ma fui fortemente
scoraggiato e dovetti desistere.
Gli anni universitari li ricordo per
l’esperienza maturata alla grande scuola di Diritto internazionale partenopea, fondata dal
Quadri. Con grande affetto ancora oggi ricordo gli insegnamenti
di Francesco Capotorti, che è stato avvocato generale della Corte
di giustizia europea, e di Luigi Sico, entrambi assistenti e seguaci
della scuola quadriana».
«La decisione di intraprendere
la carriera diplomatica nacque
da un conflitto interiore: ero
combattuto tra il desiderio di
non lasciare Napoli e la spinta a
fare esperienze di vita oltre la
città natale. Il conflitto fu risolto
dalla rottura traumatica di un
mio rapporto sentimentale. E
siccome non c’era più la Legione
straniera, presi in considerazione un’altra possibilità: scappar
via diplomaticamente. Fu il professor Capotorti, che avevo conosciuto all’università, a consigliarmi il concorso diplomatico.
Così scoprii la Sioi. Ho un bellissimo ricordo di questa scuola,
che allora si trovava a Villa Pignatelli e aveva docenti di altissimo
livello. Io frequentai il primo corso, di durata solo trimestrale, e
proseguii la preparazione a Roma. Il concorso è obiettivamente
difficile perché richiede un elevato livello di approfondimento
LA REPUBBLICA VII
Pasquale Terracciano è
sbarcato in Spagna poco
dopo Fabio Cannavaro
“Qui la camorra riempie
intere pagine di giornale”
“Vedere che la situazione si
è deteriorata fa rabbia,
perché la nostra città era
considerata dagli spagnoli
il destino più desiderabile”
L’ambasciatore della cultura
dal liceo Umberto a Madrid
LA CARRIERA
PLAZA MAYOR
Pasquale Terracciano
ha studiato al liceo
Umberto e poi, dopo
l’università, alla Sioi di
Villa Pignatelli. Da 26
anni è diplomatico: “I
miei legami con Napoli
sono forti, e dolorosi”
Una veduta della plaza
Mayor di Madrid
L’ambasciata italiana è
invece nella calle
Lagasca: “È la più bella
di tutte”, dice
l’ambasciatore
Terracciano (a destra)
di materie assai diverse tra loro,
come diritto internazionale, politica economica e storia contemporanea».
«Avevo appena 25 anni quando iniziai la carriera. Varcai il
portone del ministero degli Esteri nel 1981 e quel primo giorno,
un sabato primo agosto, non l’ho
mai dimenticato. In molti uffici
della Farnesina aspettavano noi
per andare in ferie. Ebbi subito la
sensazione che mi attendeva un
duro apprendistato. Più tardi ho
capito che senza quel duro apprendistato non c’è possibilità di
diventare un bravo ambasciatore, e forse neppure uno cattivo».
«Ho svolto i primi incarichi alla Direzione generale del personale, poi sono stato console a Rio
de Janeiro e primo segretario alla Nato a Bruxelles, dove ero incaricato, tra l’altro, dei rapporti
con la stampa. Poi a Roma agli Affari economici e come consigliere del ministro. Dal 1996 al 2000
ero primo consigliere dell’Ambasciata a Londra, nonché direttore aggiunto per l’Italia nella
Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo. Dal 2004 al
2006 sono stato capo del Servizio
stampa e informazione e portavoce del ministro degli Esteri».
«Faccio il diplomatico da 26
anni e mi piace girare il mondo:
in media non si rimane più di
quattro anni nello stesso posto.
Finora ho visto alla Farnesina
ben dodici titolari degli Esteri. I
ministri passano, i diplomatici
restano. Non abbiamo affiliazioni politiche. Io sono stato collaboratore di Susanna Agnelli, Dini, Ruggiero, Frattini, Fini e D’Alema: con tutti ho lavorato senza
difficoltà. Come un grande avvocato che difende, di volta in volta, la vittima o l’accusato. Nella
mia carriera i ricordi belli sono
tanti: dalla conclusione positiva
di un negoziato alla Nato all’incontro con personaggi già passa-
ti alla storia. Tra quelli brutti, la
morte di cinque italiani nell’affondamento di un battello
una notte di capodanno a Rio de
Janeiro, pochi giorni prima della
mia partenza da quella città per
Bruxelles».
«I miei legami con Napoli sono
legami forti, ma anche dolorosi
perché li ho sempre vissuti con
occhi critici e obiettivi. Purtroppo l’immagine
di Napoli, che
pure continua a
esercitare un
grande fascino
ovunque, è offuscata dalla
diffusa illegalità. Il cosiddetto rinascimento napoletano –
che io credo sia
stato un fenomeno reale anche se debole – aveva molto migliorato l’immagine della città.
Poi le guerre di camorra, riprese
con risalto dai mass media, hanno riportato indietro gli orologi.
Al punto che oggi da Napoli arrivano e rimbalzano continua-
mente brutte notizie. Sì, la camorra qui in Spagna riempie intere pagine di giornale. Io cerco
di far presente che è un fenomeno minoritario, che la gran parte
dei napoletani fa una vita normale. Ma c’è una tendenza scandalistica della stampa, sia italiana che spagnola».
«Vedere che la situazione si è
deteriorata fa rabbia, perché la
simpatia degli
spagnoli per
Napoli ha radici storiche. Il
grande Miguel
Cervantes visse
12 anni in Italia
e una parte a
Napoli, di cui fa
bellissime descrizioni. E c’è
un detto dei
reggimenti
spagnoli
al
tempo di Filippo II che dice: “Castilla mi natura, Napoles mi ventura, Flandes mi sepultura”. Per
uno spagnolo, Napoli una volta
era considerata come il destino
più desiderabile. Oggi invece
questo destino è assai incerto.
“Che cosa fare?
Punterei su un solo
nuovo progetto di
altissima qualità, come
il Guggenheim che ha
trasformato Bilbao”
Per cambiare Napoli credo che
bisognerebbe investire soprattutto nell’educazione, ma anche
applicando con tenacia una politica di tolleranza zero verso l’illegalità diffusa. Poi, essendo Napoli una città visceralmente
emotiva, punterei su un solo
nuovo progetto di altissima qualità, che potrebbe essere realizzato per esempio a Bagnoli. Penso a qualcosa come il Museo
Guggenheim di Bilbao, che da
solo ha trasformato l’immagine
della città basca collocandola da
un giorno all’altro sulla mappa
del turismo internazionale, nonostante l’immagine di città in
pesante crisi economica e afflitta
dall’endemica violenza dell’Eta.
Oppure creerei un centro musicale, sì una città della musica affidandone il progetto a un grande architetto. Così rimetterei Napoli sulla giusta rotta del turismo. Perché turismo e servizi
possono garantire il suo futuro».
«So bene che per risolvere i
problemi di Napoli non basta solo la brava Iervolino. La guerra alla camorra non si vince in poco
tempo, forse ci vorranno anni
per uscirne. Si tratta però di allargare i consensi. Nelle elezioni si
registra una percentuale di cittadini indecisi che fanno la differenza. C’è una quota che rispetta
le regole, un’altra che non le rispetta e, in mezzo, una zona grigia. Bisognerebbe agganciare
questa fascia, scuoterla e motivarla. Purtroppo la borghesia a
Napoli discute troppo ma non
incide nella realtà. Si prenda invece il caso di Barcellona: questa
città ha cambiato volto perché
sono riusciti a realizzare una serie di progetti. Ma lì c’è una forte
borghesia catalana che ha orgoglio, spirito imprenditoriale e un
senso di appartenenza nazionale. Da noi questo non c’è. E mentre le banche catalane hanno finanziato lo sviluppo, da noi il
Banco di Napoli ha finito per
chiudere i battenti per via del sottobosco politico e del sottogoverno».
«Qui a Madrid ho un’intensa
vita di relazioni, tanto che il mio
fegato comincia a risentirne perché ho pranzi e cene in continuazione. Il fatto è che noi italiani
siamo molto amati e abbiamo
un’ambasciata bellissima, la più
bella di tutte. Io lavoro al terzo
piano. Ma mi divido per tutti i tre
piani e spesso vado anche nei
sotterranei per vedere le cucine e
informarmi, quando abbiamo
ospiti, sulle pietanze preparate
dai cuochi. La mia ambasciata ha
oggi un ruolo molto dinamico
perché Italia e Spagna hanno posizioni coincidenti in alcuni dei
principali scacchieri della politica internazionale (Europa,
Medio Oriente,
Mediterraneo,
America Latina). Anche la
compenetrazione sempre
più estesa dei
sistemi produttivi richiede
un’opera di intelligente promozione degli
interessi economici italiani.
Qui in Spagna
c’è dovunque
una domanda
di cultura italiana, che per
noi costituisce
uno stimolo a
organizzare un
numero sempre maggiore di
eventi. Infine
c’è una collettività di oltre 120
mila connazionali che richiede un notevole
sforzo per garantire i migliori servizi consolari possibili».
«La mia ultima venuta a
Napoli, dove ho ancora mia madre, è stata per l’inaugurazione
della stagione teatrale del San
Carlo. Ci ritornerò di nuovo verso febbraio. Sebbene dal 1981 io
ne sia lontano, tre cose mi ci tengono fortemente legato: la storia,
la cultura e il paesaggio. La storia
perché fa emergere Napoli come
una delle metropoli più significative del Mediterraneo e dell’Europa. La cultura perché Napoli è una delle città più ricche di
tesori artistici. Il paesaggio perché è così bello e unico che diventa un vero e proprio luogo
dell’anima. Questo amore per
Napoli è una costante nei vari incarichi che ho ricoperto.
Quand’ero console a Rio ho portato tutto il teatro di Eduardo
laggiù: un’esperienza stupenda.
Poi quando ho lavorato alla Nato sono stato il cicerone che ha
condotto alla scoperta della “vera Napoli” gli ambasciatori e gli
alti comandi dell’Alleanza che
partecipavano al Consiglio
atlantico. La stessa attività l’ho
svolta in occasione del G7 del
1994».
«Anche nel nuovo incarico di
ambasciatore a Madrid, che ricopro da cinque mesi, mi sono
subito adoperato per dare spazio alla cultura napoletana, portando 54 opere del Museo di Capodimonte nelle prestigiose sale del Palazzo Reale di Madrid,
fatto costruire da Carlo III. Nelle
stesse sale ho portato anche la
musica barocca che si suonava
alla corte di Carlo III, rinsaldando il forte legame tra la capitale
spagnola e Napoli».
«Confesso che, se non avessi
fatto il diplomatico, mi sarebbe
piaciuto forse fare l’imprenditore: è un mestiere molto creativo
e a Napoli c’è spazio per farlo. Il
lavoro del diplomatico richiede
una serie di requisiti indispensabili per svolgere adeguatamente il proprio incarico. Ma
sono convinto che alcune caratteristiche tipiche della napoletanità (la tolleranza, il buon
umore, la predisposizione a non
prendersi troppo sul serio) accompagnate però, come nella
migliore tradizione dell’Illuminismo napoletano, dal fare sul
serio ciò che si fa, mi abbiano
aiutato non poco nel corso di
questi 25 anni di diplomazia».
16. Continua
Repubblica Napoli