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quarant'anni Veronica ritorna nella sua vita con un bagaglio di silenzi e il rifiuto di dargli ciò che è suo? Ciò di cui Tony dovrà rendersi conto è che spesso la verità si nasconde proprio in quello che non ricordiamo e che non sappiamo: la storia della nostra vita, così come la raccontiamo a noi stessi e agli altri, non è altro che una delle infinite narrazioni possibili, e l’immagine di noi stessi che costruiamo nel tempo ha spesso più a che fare con l’invenzione che con il ricordo. «All’improvviso mi sembra che una delle differenze tra la gioventù e la vecchiaia, - dice Tony, - potrebbe essere questa: da giovani, ci inventiamo un futuro diverso per noi stessi; da vecchi, un passato diverso per gli altri». Affidando la narrazione alla voce inattendibile di Tony, Barnes ci costringe a ripercorrere con lui la sua versione dei fatti, e a subire con lui lo shock dell’intrusione violenta della realtà, fino a all’atroce rivelazione finale – totalmente imprevedibile ma credibilissima – che ci lascia disarmati davanti al cuore esposto della sua (e della nostra) storia personale, ormai libera da mitologie e sofisticazioni. A far brillare quest’opera nel panorama della narrativa contemporanea, britannica e non solo, è la scrittura di Julian Barnes. Precisa ed elegantissima, è una prosa che non lascia nulla al caso: Barnes lavora ogni frase come fosse un pezzo di finissimo artigianato, ogni parola è scelta con maestria e il risultato finale è quello, rarissimo, di una tecnica talmente eccellente da risultare invisibile. Un’abilità, questa, che Barnes aveva già ampiamente dimostrato nei suoi precedenti lavori, così come la capacità di superare i cliché dei generi letterari. In Arthur e George (il romanzo che precede iI senso di una fine e che fu appunto finalista al Man Booker Prize), ad esempio, ci propone una vicenda gialla tratta dalla cronaca – l’incriminazione dell’innocente George Edalji e il suo rapporto con Arthur Conan Doyle – e attraverso una scrittura colta e brillante e una sapiente combinazione di ricostruzione storica e invenzione, la trasforma in una meditazione sull’etica e la giustizia. Julian Barnes nasce a Leicester (Inghilterra) il 19 gennaio 1946. Studia alla City of London School e ad Oxford nel Magdalen College, dove si laurea in Lingue Moderne nel 1968. Lavora per quattro anni come lessicografo per l'Oxford English Dictionary, poi si trasferisce a Londra per studiare Legge. A Londra intraprende la carriera di giornalista, che lo attrae più degli studi in giurisprudenza. Inizia così per Barnes un lungo periodo di collaborazioni per giornali e riviste: con la New Review, in qualità di direttore aggiunto negli anni 1977 e 1978, con il New Statesman e il Sunday Times come redattore dal 1977 al 1982, come critico televisivo fino al 1986 per il New Statesman e The Observer. Si dedica all'attività di romanziere a partire dal 1986, senza però abbandonare il mondo del giornalismo. Per i suoi lavori riceve durante gli anni '80 numerosi premi: Maugham award (1981), Booker Prize nomination (1984), Geoffrey Faber Memorial Prize (1985), Medicis Essai prix and the Prix Femnina (1986), E. M. Forster Award (1986), Gutemberg Prize (1987). Nel 1990 accetta di lavorare come corrispondente per il New Yorker. Talento eclettico e geniale, è considerato uno dei maggiori scrittori inglesi e le sue opere colpiscono per la statura stilistica e la capacità di fondere con grande naturalezza i generi più diversi. I suoi romanzi e racconti sono visti come esempi di postmodernismo [*] in letteratura. [*] il concetto che è stato assunto come definizione generale della nostra età. In esso è implicita l’idea che è finita un’epoca, quella della modernità appunto: una fase storica caratterizzata dalla dinamicità, dal progresso, dalla trasformazione incessante. La realtà postmoderna delle società postindustriale è caratterizzata, invece, dalla frantumazione, dalla complessità incoerente, non dominabile intellettualmente e non ordinabile (un caos però non vissuto tragicamente dal soggetto, con sofferenza e smarrimento, bensì pudicamente, con un’accettazione divertita e soddisfatta). Il senso di una fine di Julian Barnes è un romanzo breve, che per densità e per gravità del tema impone al suo lettore un confronto con gli assi portanti dell'esistenza: il problema del tempo e del senso - il senso, appunto, della fine. La vecchiaia, la morte, soprattutto la fallibilità della nostra memoria sono i temi che percorrono questo breve quanto intenso romanzo. La voce narrante è quella di Tony Webster, un uomo di mezza età che ha avuto una carriera brillante e un matrimonio soddisfacente - finito con un divorzio amichevole. L’unico evento che ha davvero turbato la tranquillità impeccabile della sua vita è stato il suicidio dell’ex amico Adrian, che non troppo tempo prima gli aveva portato via la misteriosa Veronica, il suo primo vero amore. Un evento che si ripropone improvviso quando la lettera di un avvocato comunica a Tony che la madre di Veronica è morta lasciandogli una piccola eredità, e rivelando insieme l’esistenza di un diario di Adrian. Da quel momento comincia per Tony un viaggio nella memoria, nel tentativo di recuperare i ricordi della giovinezza condivisa con Adrian e Veronica, e di mettere a fuoco le ragioni che hanno posto fine alla loro amicizia. Il percorso a ritroso nelle zone d'ombra della vita, con i suoi dolori inesplorati e i suoi segreti, diventa così riflessione sulla fallacia della storia, «quella certezza che prende consistenza là dove le imperfezioni della memoria incontrano le inadeguatezze della documentazione», secondo il geniale amico dei tempi del liceo, Adrian Finn. Ed è dunque a quel punto di congiunzione, ai ricordi imperfetti come ai documenti inadeguati, che il vecchio Tony deve ora guardare per comprendere le vicissitudini del Tony giovane. Come ha potuto la ragazza di allora, Veronica Ford, preferirgli l'amico raffinato e brillante, Adrian? Ci sono solo Camus e Wittgenstein dietro l'estrema decisione di Adrian? Da che cosa ha voluto metterlo in guardia tanti anni prima la madre della ragazza? Perché a distanza di