Il cinema russo contemporaneo Plachov PDF

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IL FALLIMENTO DEL COMUNISMO E LA SCOMPARSA DELLA SUA CULTURA CINEMATOGRAFICA
A livello internazionale il cinema russo non è rappresentato solo
da foreste e steppe sconfinate proposte a schermo pieno, ma anche
dalle immagini dinamiche della scalinata di Odessa in Bronenosec
Potemkin/Battleship Potemkin (La corazzata Potemkin, 1925, Sergej
Ejzenštejn) o dalla metafisica di “un’altra vita” nei film di Andrej
Tarkovskij. Il codice cinematografico sovietico non solo è il risultato
di commistioni complesse, ma anche di una lotta accesa tra l’arte classica e l’avanguardia, il conservatorismo e il radicalismo, la “Hollywood sovietica” e l’estetismo sofisticato.
Quando si pensa alla cultura russa il rimando è subito ai nomi
autorevoli della letteratura del XIX secolo, come Puškin, Tolstoj,
Dostoevskij, Cˇ echov. L’arte cinematografica, che è sorta dopo, ha cercato di affermarsi in modo autonomo, senza copiare ciecamente i cliché letterari. Fino alla rivoluzione del 1917 è stato lo stile “modern”,
la versione russa dell’art nouveau, a influenzare maggiormente il
cinema nazionale: in questa chiave gira i propri “melodrammi da
salotto” il regista Evgenij Bauer, in questo modo costruisce la propria
immagine personale la stella cinematografica Vera Cholodnaja. Molti
anni più tardi l’esteta Rustam Chamdamov e l’amante delle stilizzazioni Nikita Michalkov avrebbero cercato di far risuscitare la belle
epoque russa rispettivamente nei film Nečajannye radosti (t.l.: Gioie
fortuite, 1972) e Raba ljubvi/A Slave of love (Schiava d’amore, 1975).
In questo stesso periodo, prima della rivoluzione, si forma anche
nel cinema l’estetica avanguardistica: Vsevold Mejerchold e Alek84
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sandr Ekster partecipano alla creazione dei film Portret Doriana Greja
(t.l.: Il ritratto di Dorian Gray, 1915, Vsevold Mejerchold) e Aelita
(1924, Jakov Protazanov). L’immagine cinematografica della Russia
sovietica viene da subito plasmata dai mattatori dell’avanguardia rivoluzionaria. L’ardito montaggio di Ejzenštejn, la poesia cinematografica di Aleksandr Dovženko, la resa espressiva della vita di un paese
mezzo povero, l’energia e lo slancio dei progetti d’arte avanguardistici avevano catturato il mondo intero. Tuttavia, con il consolidamento del sistema totalitario l’arte cinematografica inizia a perdere in
fretta l’antica sincerità e la radicale audacia. I bolscevichi furono fra
i primi a considerare la possibilità del cinema come mezzo di propaganda, Lenin lo proclamò ufficialmente “la più importante fra le arti”
e il cinema in Russia ben presto si trasformò da arte in strumento ideologico e propagandistico.
La tragedia dell’avanguardia cinematografica russa stava nel fatto
che il suo legame con l’ideologia e la politica risultò essere un matrimonio indissolubile. E presto la grigia routine coniugale entrò a
regime, ovvero ebbe inizio l’agonia.
Il genio intellettuale di Ejzenštejn era riuscito alcune volte a ingannare quella macchina infernale che controllava automaticamente
tutto. S’è trattato di una gara fra due perfezioni: un ingranaggio perfetto e un cervello perfetto. Il duello s’era concluso con un pareggio
nel geniale Ivan Groznyj/ Ivan the Terrible (Ivan il Terribile, 1945 e
1946). La prima parte infatti venne realizzata su ordine di Stalin, mentre la seconda si trasformò nel requiem dello stesso Capo e perfino di
Ejzenštejn1.
Le opere di Dziga Vertov e Lev Kulešov, e anche di altri non altrettanto famosi pionieri del cinema sovietico, sono strettamente legate
all’avanguardia rivoluzionaria. Ma già verso la fine degli anni venti
cominciarono a comparire dei film che nel testimoniare un’inversione
di rotta nell’arte cinematografica si rivolgevano dalle masse proletarie a quelle ormai completamente borghesizzate. Negli anni trenta il
cinema si liberò dei rudimenti dell’intellettualismo a favore di una
spettacolarità elementare che a sua volta non poté festeggiare tale primato molto a lungo. Nei primi anni del cinema sonoro, contrassegnati
dalle commedie musicali di Grigorij Aleksandrov e Ivan Pyr’ev, e dalle
hit di fama popolare come Cˇ apaev (1934, Sergej e Georgij Vasil’ev),
il tentativo di creare una Hollywood sovietica non sembrò così
assurdo, infatti il cinema russo a quell’epoca conservava ancora un
legame intrinseco con il processo cinematografico mondiale. Legame
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che si interruppe quasi del tutto dopo la Seconda guerra mondiale,
mentre quel tentativo venne definitivamente schiacciato da Stalin che
stroncò il film di Julij Rajzman Poezd idet na Vostok (t.l.: Il treno va
verso Est, 1947), colpevole di superficialità e mancanza di ideali. Al
pubblico invece piaceva questa commedia lirica incentrata sull’amore
tra un ufficiale leningradese e una giovane moscovita, e non faceva
troppa attenzione ai brindisi per il Capo e ai discorsi sul senso della
vita, elementi che invece ovviamente non potevano mancare.
Il cinema di genere made in Russia non resse la concorrenza di
Hollywood e per tutti rimase piuttosto un curioso caso storico. Come
in precedenza, l’immagine del cinema sovietico all’estero è legata agli
anni venti. I classici cinematografici sovietici sarebbero stati apprezzati ancora a lungo per il loro alone di romanticismo: anche dopo la
guerra il film più amato dagli stranieri resta Letjat žuravli/The Cranes
Are Flying (Quando volano le cicogne, 1957, Michajl Kalatozov), l’unica produzione di tutta la storia del cinema russo ad avere vinto la
Palma d’oro al festival di Cannes. Il principale pregio dal punto di
vista cinematografico di quest’opera è stata la sua espressività figurativa, mentre l’inquadratura che più di ogni altra resta impressa nella
mente degli spettatori è quella del “ballo” delle betulle in un vortice
emotivo.
Gradualmente però, alla vigilia del successivo decennio e negli
anni a seguire, il cinema russo si fa più calmo, più epico, quasi elegiaco, come ad esempio in Vojna i mir/War and Peace (Natascia – L’incendio di Mosca, 1965, Sergej Bondarčuk), Dvorjanskoe gnezdo/A
Nest of Gentry (t.l.: Nido di nobili, 1969, Andrej Končalovskij), Djadja
Vanja/Uncle Vanya (Zio Vanja, 1970, Andrej Končalovskij), Neskol’ko
dnej iz žizni I. I. Oblomov/ A Few Days in the Life of I. I. Oblomov
(Alcuni giorni della vita di Oblomov, 1979, Nikita Michalkov). Il tardo
cinema sovietico era tutto rivolto al passato, alla ricerca del tempo
perduto, della vita inesistente – e per ciò ancor più attraente – delle
tenute signorili e dei nidi nobiliari di una Russia mitologica. D’altra
parte però, anche in questo mondo armonico e idealizzato a volte
c’era posto per le crudeli passioni “alla Dostoevskij”.
A cavallo tra queste due rappresentazioni della Russia come di un
impero sonnolento fatto di paesaggi pianeggianti secolari e come
invece di un vortice nevrotico di emozioni, gravido di rivoluzioni e di
simili cataclismi, si va affermando uno stereotipo particolarmente evidente nel Doctor Zhivago (Il Dottor Zivago, 1965) di David Lean. Questa Russia esportata – non importa se raffigurata in film di produzione
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nazionale o in imitazioni occidentali – aveva offuscato tutte le immagini più naturali dello “stile russo” e più intimamente legate alla vita
del popolo. Non è un caso che un regista come Vasilij Šukšin era perfettamente sconosciuto in occidente, mentre Gleb Panfilov era noto,
ma di certo non sufficientemente.
Le sproporzioni erano forti anche all’interno dell’URSS. Solo oggi
possiamo contare su alcuni dati statistici riguardanti la distribuzione
sovietica, liberi da qualsiasi influenza ideologica. Ed è risultato che le
cifre degli incassi non dipendevano dalla qualità artistica dei film, e
se sì, piuttosto in proporzione inversa. Sappiamo che tra i campioni
d’incasso non c’era né La corazzata Potemkin né Ballada o soldate/Ballad of a Soldier (La ballata di un soldato, 1959, Grigorij Cˇ uchraj), né Stalker (Id, 1979, Andrej Tarkovskij); che da Kaliningrad
fino all’isola di Sachalin, da ovest ad est, si era creato il gusto del pubblico di massa per il cosiddetto “cinema popolare”. Lavori girati
secondo questo gusto, di genere assolutamente provinciale, diventano film di culto per alcune generazioni di sovietici.
Con gli anni sessanta comincia ad avanzare una cultura alternativa, addirittura dissidente. I film di Aleksej German, Gleb Panfilov,
Elem Klimov, Larisa Šepit’ko, Kira Muratova non esprimevano un’aperta protesta contro un sistema burocratico imputridito, ma vi alludevano in modo trasparente con tutto un sistema di immagini,
metafore e allusioni – così come Rabočij poselok (t.l.: Borgo operaio,
1965, Vladimir Vengerov), opera fra i capolavori meno noti del
cinema del Disgelo, Tugoj uzel/The Tight Knot (t.l.: Nodo stretto,
1957, Michajl Švejcer), e il ben più famoso Zastava Il’iča/ Mne dvadcat’ let (Ho vent’anni, 1964, Marlen Chuciev)2.
Tutti questi film sono stati resi possibili solo nella nuova situazione
storica, quando si è iniziata a smantellare la cortina di ferro, si è aperto
un dialogo culturale con l’Europa e si sono leggermente ampliati i
ristretti confini del realismo socialista. Ijul’skij dožd’/July Rain (t.l.:
Pioggia di luglio, 1966, Marlen Chuciev) diviene l’analogo russo dei
film modernisti di Antonioni: drammaturgia libera, flusso naturale
della vita, fredda indifferenza e incomunicabilità che penetra anche
nel sacello del socialismo. La critica ufficiale tuttavia se n’è immediatamente resa conto, sottoponendo il film a un vero e proprio massacro e innescando una nuova spirale di “caccia alle streghe” alla metà
degli anni sessanta. Qualsiasi film che osava uscire dai confini dell’ideologia, anche in questo nuovo periodo si scontrava con la repressione: veniva depositato sul cosiddetto “scaffale” della censura, sot87
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toposto ad attacchi volgari (per esempio, l’intervento di Chruščev
riguardo a Ho vent’anni), oppure, nel migliore dei casi, usciva con
una distribuzione limitata. Ma vale la pena notare che questi “outsider” della distribuzione, proiettati in cinema estremamente periferici,
nei programmi del mattino, e con una uscita di, al massimo, 20/30
copie, come Žil pevčij drozd/Once There Lived a Singing Blackbird
(C’era una volta un merlo canterino, 1970, Otar Ioseliani), potevano
contare su 5 milioni di spettatori, cifre che oggi a stento raggiungono
i blockbuster.
La cinematografia sovietica ha vissuto una crisi altrettanto
profonda di quella attraversata da tutto il sistema. I migliori registi
restarono inattivi per anni, altri finirono all’estero e in patria vennero
scomunicati. Le cifre riguardanti il numero degli spettatori che andavano a vedere i film “ideologicamente importanti” venivano gonfiate.
Tra l’altro, la gente in URSS amava veramente il cinema (i film-record
sovietici contavano sui 50-100 milioni di spettatori), ma tutto ciò avveniva in condizioni di un blocco di informazioni, di una scelta estremamente limitata e anche del divieto, penalmente perseguibile, dei
video illegali. Tuttavia non era più possibile lasciare a lungo il popolo
in questo stato di chiusura informativa e culturale. La prima azione
del nuovo disgelo cinematografico (nota come “perestrojka”) fu la
creazione di una commissione di arbitraggio che rispolverò più di 250
film da uno stato di semi-oblio e molti dal nulla più totale. Nel 1986
Elem Klimov, eletto a capo del “Sojuz kinematografistov” (Unione
dei cineasti) durante il decisivo Quinto congresso, diviene il promotore della perestrojka cinematografica che aveva un pathos nettamente romantico. I rivoluzionari si misero a combattere non solo contro “i generali intoccabili” (Sergej Bondarčuk, Stanislav Rostockij,
Evgenij Matveev) che godevano dell’appoggio dei vertici del Partito,
ma anche contro i film commerciali distribuiti in patria: il russo Piraty
xx veka (t.l.: I pirati del XX secolo, 1979) di Boris Durovym, il melodramma messicano Yesenia, 1971, di Alfredo B. Crevenna, il francese
Angélique, marquise des anges (Angelica, 1964) di Bernard Borderie.
Gli esponenti della perestrojka cinematografica iniziarono a voler
conciliare l’inconciliabile: proclamarono una riforma di mercato negli
studi di cinema e al contempo cercarono di far rinascere il sogno dell’avanguardia rivoluzionaria di un’arte e di uno spettatore ideali. Fu
dunque per loro una sorpresa quando il pubblicò cominciò a reclamare spettacoli volgari e i cineasti a soddisfare questi desideri. Indossando i panni dei partigiani contro il dominio della partitocrazia, alza88
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rono una barriera contro il cinema ufficiale e ultracommerciale, presumendo in tutta onestà che a prendere il posto di questi film nella
coscienza di milioni di spettatori sarebbero stati quelli di Bergman e
Tarkovskij. Il che, ovviamente, non si verificò. Tuttavia, la rivoluzione
aprì le chiuse: le correnti impetuose spazzarono via la censura e aprirono l’accesso al mainstream hollywoodiano sugli schermi sovietici.
La Rivoluzione avvenuta durante il Quinto congresso dell’Unione
dei cineasti ha liberato il cinema dai dogmi e dai divieti. E ha garantito almeno un decennio di libertà praticamente illimitata. I grandi
artisti, abituati a lavorare in condizioni di censura e opposizione al
regime, si trovarono improvvisamente spiazzati e cominciarono ad
avvertire dei mali immaginari. I ricordi del passato erano ancora
troppo vivi e da questo, non solo dunque dalle difficoltà economiche,
dipendeva il primo problema del cinema post-perestrojka. Esso soffriva per la libertà acquisita e interpretata come un vuoto che si stava
aprendo.
Quasi tutti i registi della vecchia generazione, e a ruota quelli della
generazione di mezzo, si erano impantanati in una duratura crisi creativa. Le eccezioni non fanno che confermare la regola, innanzitutto
Aleksandr Sokurov. Già attivo prima della perestrojka in modo semiclandestino (Odinokij golos čeloveka/The Lonely Voice of Man, [La
voce solitaria dell’uomo, prodotto nel 1978 ma uscito nel solo 1987]),
egli continua a essere l’artista intellettuale più originale del cinema
russo, e tutto ciò perché è uno dei pochi a non rompere con le tradizioni degli anni venti e a compiere instancabilmente i primi esperimenti nelle nuove condizioni della rivoluzione digitale - l’ultima testimonianza ne è Russkij kovček/Russian Ark (Arca russa, 2002). Una
grande regista che ha attraversato senza traumi artistici sia la stagnazione che la perestrojka è stata Kira Muratova. A partire da Asteničeskij sindrom/Asthenic Syndrome (Sindrome astenica, 1989) fino all’ultimo dei suoi film, Melodija dlja šarmanki/Melody for a Street Organy
(t.l.: Melodia per organetto, 2009), ha sviluppato con virtuosismo lo
stile della “soc-art”, vale a dire una parodia sui generis del realismo
socialista. È invece drammatico il destino artistico di Elem Klimov,
che dopo la perestrojka non ha più girato nemmeno un film, come se
avesse deciso di “chiudere bottega” con il cinema sovietico, immolandosi ai suoi dei quale ultima vittima.
Nel 1991 crolla l’URSS, l’oasi dell’ideologia comunista volgarmente
intesa. L’arte cinematografica che aveva fortemente contribuito al fallimento dell’impero divenne essa stessa vittima dei processi di distru89
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zione. Il sentimentalismo e la sincerità del cinema sovietico finirono
presto nel dimenticatoio. Il cinema della Russia post-perestrojka
assume una veste del tutto nuova, macabra: i “nuovi russi” che ostentano di continuo il lusso, la mafia col suo gozzovigliare, i covi di criminali, il buio pesto degli angusti cortili interni sono fra i suoi ingredienti essenziali.
Questa immagine, tuttavia, non venne apprezzata dagli spettatori
e i russi non ce la fecero a far del noir un vera e propria mitologia.
Ben presto anche nel resto del mondo voltarono le spalle alle immagini estreme della černucha russa, ovvero di quel modo di tratteggiare
la realtà con toni tanto cupi, anche se negli anni novanta hanno
riscosso un successo vero e proprio le varianti di questo filone comunque più umanizzate. Ne sono un esempio Oblako-raj (t.l.: Nuvolaparadiso, 1991, Nikolaj Dostal’), Taxi Blues (Id, 1990) e Svad’ba/The
Wedding (Le nozze, 1999), entrambi di Pavel Lungin, Oj vy,
gusi…(t.l.: Ehi voi, oche…, 1991, Lidija Bobrova) dove la malavita,
l’alcolismo e lo squallore della vita quotidiana vengono sfruttati come
elementi esotici, mentre la peculiarità del carattere nazionale russo
risulta essere sempre la stessa famigerata cordialità.
In Occidente, come al solito, volevano vedere qualcosa dal volto
umano, del tipo “dalla Russia con amore”. Non per niente Hollywood, se doveva esprimere un giudizio sui film russi, lodava con
segni di riconoscimento (gli Oscar, o quantomeno con delle nomination) soprattutto i melodrammi: quelli riguardanti la quotidianità
(Moskva slezam ne verit/Moscow Does Not Believe in Tears [Mosca
non crede alle lacrime, 1979] di Vladimir Men’šov; Vor/The Thief [Il
ladro, 1997] di Pavel Cˇ uchraj), quelli di guerra (A zori zdes’ tichie/The
Dawns Here Are Quiet, [t.l.: Le albe qui sono quiete, 1972] di Stanislav Rostockij; Kavkazkij plennik/Prisoner of the Mountains [Il prigioniero del Caucaso, 1996] di Sergej Bodrov) o “ecologici” (Belyj Bim
Cˇ ernoe ucho, [t.l.: Bianco Bim Orecchio Nero, 1977] di Stanislav
Rostockij). E anche i film di Nikita Michalkov: Oči černye/Dark Eyes
(Oci ciornie, 1987) e Utomlennye solncem/Burnt by the Sun (Il sole
ingannatore, 1994), cocktail postmoderni abilmente preparati con
motivi čechoviani, dostoevskjani e compagnia bella. Tutti questi film,
anche se girati in epoca post-sovietica, appartengono ugualmente alla
tradizione del cinema sovietico.
Al contempo, l’eroe culturale russo più rappresentativo continuava a essere, secondo il parere degli ambienti cinematografici mondiali, Andrej Tarkovskij. Sono proprio i suoi film a rispondere più di
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tutto alle aspettative dei russofili. La religiosità diffusa e il velato misticismo, la bellezza dei volti e dei paesaggi, le idee messianiche e perfino le strutture complesse degli intrecci, tutto ciò resta un segno
fidato di “vera arte”. Nel 2003 ad accattivarsi un gran successo a
livello mondiale è stato il film del debuttante Andrej Zvjagincev Vozvraščenie/The Return (Il ritorno). S’è trattato veramente di un ritorno
simbolico alle tradizioni tarkovskjane, fatto sottolineato dal Leone
d’oro assegnatogli a Venezia (il primo russo a ottenere questo premio
è stato lo stesso Tarkovskij).
La morte del grande regista nel dicembre 1986 ha significato simbolicamente la fine di un’epoca del cinema sovietico, che si era sviluppato nell’arco di alcuni decenni sotto il pesante torchio dell’ideologia. La conclusione definitiva di questo periodo coincide con la
morte di Sergej Paradžanov, l’altro regista di culto dell’epoca sovietica (luglio 1990). In questi anni si susseguono numerosi cambiamenti
nella struttura dell’arte cinematografica, nella gerarchia delle priorità
culturali. Viene distrutto il monopolio statale sulla distribuzione dei
film nazionali e di quelli stranieri acquistati dall’estero. Un flusso di
prodotti di ogni tipo, ivi inclusi quelli mainstream di Hollywood, inizia a circolare sugli schermi. Il primo film della perestrojka, che coincide anche con l’inizio della rivoluzione sessuale è Malen’kaja
Vera/Little Vera (La piccola Vera, 1988, Vasilij Pičul). Al contempo, si
tratta dell’ultima grande pellicola dell’epoca sovietica con un pubblico di 50 milioni di spettatori.
E così sono già vent’anni che la barca della cinematografia postsovietica, staccatasi dalla riva del sistema di distribuzione statale, in
realtà non è ancora approdata all’altra, dove tutto è dettato dai rapporti di mercato. E questa barca si muove seguendo la corrente.
Quando è stato chiaro che era ormai distrutta la rete distributiva del
Paese e che la produzione a queste condizioni non poteva essere redditizia, si è cominciato a dire “ma noi siamo l’Europa, e non l’America” e dobbiamo riporre le nostre speranze nell’appoggio dello Stato.
Il Ministero della Cultura, sostituitosi in questo ruolo al Goskino, ha
cominciato a finanziare l’industria cinematografica russa con crescente generosità.
Lo status e la qualità del cinema possono cambiare in forme differenti. Mezzo secolo fa, nel 1951, secondo un ordine impartito da
Stalin, in un paese dalle enormi dimensioni, vennero girati in tutto
nove film, senza però badare a spese. Non c’era bisogno di un numero
maggiore, la cosa importante era che questi nove fossero ideologica91
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mente corretti. Chi l’avrebbe mai detto che il cinema russo del primo
decennio del XXI secolo si sarebbe imbattuto in una situazione analoga a quella del 1951, definita malokartin’e e mi chiedo se questo termine bizzarro, che indica l’esiguo numero di film girati allora, sia o
meno entrato a far parte della storia del cinema.
In URSS prima del crollo venivano girati sui 140-150 film all’anno.
All’inizio degli anni novanta, in seguito al boom del piccolo business
privato e alla fioritura di un cinema a basso costo, di bassa qualità e
cooperativistico, si arriva a una cifra superiore ai 400 film. Ma questo boom non è stato duraturo e la qualità dei film è calata fortemente.
Sempre più professionisti abbandonarono la settima arte, i grandi
film realizzati in modo complesso sparirono quasi tutti – uno degli
ultimi fu Mat’/Mother (La madre, 1990) di Gleb Panfilov. Poche
furono le opere dell’onda post-perestrojka a resistere: il già citato Taxi
Blues, S.E.R, Svoboda eto raj (La libertà è il paradiso, 1989, Sergej
Bodrov) e Zamri-umri-voskresni (Sta’ fermo, muori e resuscita, 1989,
Vitalij Kanevskij), nei quali si combinano cupi colori scioccanti a un
forte principio lirico d’autore.
Nel corso degli anni novanta si è infranta la catena della distribuzione, e gli spettatori hanno perso l’abitudine tipicamente sovietica
di recarsi spesso al cinema. Non erano d’altra parte facilitati né dal
repertorio, né dalla situazione di criminalità nelle grandi città, né dall’aumento del costo dei biglietti, né dalla diffusione della tv e dei
video. Le sale di fatto si erano deteriorate, finite in uno stato d’abbandono. La stessa cosa si verifica per gli studi cinematografici: gli
uni e gli altri restano in parte di competenza dello Stato, ovvero, di
“nessuno”.
Ma anche in questi anni di decadenza, il cinema continuava ad
avere un ruolo considerevole nella vita della società. Nella seconda
metà degli anni novanta si diffuse non solo il conservatorismo politico, ma anche estetico, e il modello del “cinema popolare” tornò nuovamente in campo, anche se in una forma leggermente diversa. Oltre
al trionfo dell’ideologia di destra dei cosiddetti “nuovi russi”, cominciò a imporsi l’alternativa della “sinistra” russa. Il film più discusso
della seconda metà degli anni novanta è Brat/Brother (Brother, 1997,
Aleksej Balabanov), girato non senza l’influenza dei modelli americani. Il “Rambo russo”, l’eroe-ragazzo della guerra cecena, mette a
ferro e fuoco l’ordine di San Pietroburgo e nel finale parte alla volta
di Mosca. Non si tratta semplicemente di un cool blood killer (in
inglese nel testo, ndt), bensì di un killer “con un’idea e con una
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morale”. Per di più questa “morale” sa abbastanza chiaramente di
nazionalismo e antisemitismo. A interpretare la parte del giovane
della “nuova sinistra” è Sergej Bodrov jr. (1971-2002) che aveva
debuttato nel film del padre Il prigioniero del Caucaso, diventando
subito in patria la prima stella del cinema e della televisione, il “James
Dean russo” (la sua tragica e prematura morte ne ha poi favorito la
canonizzazione).
In Brat-2/The Brother 2 (Il fratello grande – Brother 2, 2000, Aleksej Balabanov) sono sviluppati i principi di rivalsa sociale del film precedente, portati su una ribalta internazionale: qui il personaggio di
Danila Bagrov, sempre interpretato da Bodrov jr., si reca in America
per ripristinare l’ordine, a un ritmo veloce che ricorda quello del
cinema d’azione. Tra gli intellettuali ha suscitato ulteriori contestazioni e sospetti di xenofobia; viceversa il film, traboccante di pezzi
pop e con la partecipazione di odiosi rappresentanti di questo tipo di
musica, ha riscosso un enorme successo commerciale. La popolarità
dell’eroe protagonista era tanto grande tra la gente che uno degli slogan pre-elettorali in Russia recitava: “La Pliseckaja [nota ballerina,
ndt] è il nostro orgoglio, Danila il nostro fratello, Putin il nostro presidente”.
Piano piano, a Mosca nascono le prime sale di nuovo tipo, a metà
degli anni novanta le major americane conquistano il mercato russo
e sugli schermi compaiono (senza alcun ritardo) i più famosi blockbuster hollywoodiani. Le previsioni dei pessimisti, i quali temevano
che l’influenza di Hollywood avrebbe decretato la fine dell’industria cinematografica russa, non hanno trovato conferma. Al contrario, è cresciuto l’interesse per il cinema nazionale tra larghe fette
di pubblico, grazie anche al contributo della televisione. Venivano
continuamente trasmessi i film russi degli anni precedenti, molti dei
quali erano diventati opere di culto. La televisione mandava in onda
tutta una serie di trasmissioni nostalgico-parodistiche e spot pubblicitari di natura sociale, interpretati da star del cinema. Passò qualche tempo e in qualunque cinema, prima del film, al comparire dell’immagine dello studio Mosfilm, ovvero della nota figura roteante
del “lavoratore e della kolchoziana”, capitava di sentire degli
“applausi patriottici”.
A rappresentare il cinema mainstream russo di questi anni è più di
altri lo studio NTV-PROFIT finanziato dalla compagnia televisiva privata NTV. Tra i film prodotti, quello che ha suscitato più clamore è
stato Il ladro nominato all’Oscar come migliore film straniero.
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Ambientato all’inizio degli anni cinquanta e girato in chiave profondamente melodrammatica non senza ricorso all’ironia, mostra l’evoluzione dei rapporti con Stalin fra la Russia e i suoi figli. Il film
risponde alla tradizione del cinema sovietico, ricorda, in particolare,
le opere del padre di Pavel, Grigorij Cˇ uchraj, autore dei celebri La
ballata di un soldato e Cˇ istoe nebo/Clear Skies (t.l.: Cielo limpido,
1961).
Nella seconda metà degli anni novanta hanno iniziato ad affermarsi anche altre società cinematografiche serie, si sente nuovamente
parlare della Hollywood russa ma la crisi e le conseguenze del crollo
finanziario del 1998 falciano via questi progetti. Nel 2000 vengono
girati solo circa 30 film, senza considerare i serial televisivi. Tuttavia,
proprio a partire da questo periodo si registra una nuova ripresa dell’industria cinematografica che porta sia a interessanti risultati artistici che a film nazionali competitivi, ma soprattutto alla formazione
di una “nuova onda” di registi, libera dall’influenza della mitologia
comunista. Sorgono nelle grandi città cinema modernamente attrezzati, si crea un nuovo pubblico, prevalentemente di giovani, pronto
a pagare secondo gli standard europei. Vengono così poste le basi per
un meccanismo economico virtuoso di rientro, infatti torna l’abitudine ad andare al cinema, e il pubblico aumenta tanto da far invidia
a qualsiasi altro paese. Il primo decennio del XXI secolo ha dimostrato
una cosa: se nemmeno Stalin è riuscito a distruggere il cinema in Russia, si può stare tranquilli che la settima arte ce la farà a sopravvivere.
Un ruolo chiave nella formazione dell’immagine del cinema
russo del primo decennio del nuovo millennio lo ha avuto di nuovo
la televisione. Arricchitasi con i soldi del petrolio e degli spot pubblicitari, si è messa a investire nell’industria cinematografica. Il
momento cruciale di questo cambiamento coincide con l’uscita del
blockbuster di fantasy Nočnoj dozor/Night Watch (I guardiani della
notte, 2004, Timur Bekmambetov) che ha battuto in Russia The
Lord of the Rings (Il signore degli anelli) di Peter Jackson: in questo
modo si è creato un precedente che ha dimostrato le potenzialità
del cinema commerciale autoctono. A ruota sono usciti il sequel
Dnevnoj dozor/Day Watch (I guardiani del giorno, 2005, Timur Bekmambetov) e 9 rota/The 9th Company (t.l.: La nona compagnia,
2005, Fedor Bondarčuk), film che hanno fatto grandi incassi. E benché il mercato occidentale non si sia rivolto verso il cinema russo di
genere (preferendo come sempre la sua ipostasi d’autore), Bekmambetov è stato invitato a lavorare a Hollywood dove ha avuto
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risultati più che soddisfacenti. Se in precedenza un regista di talento
come Andrej Končalovskij aveva dovuto lottare con tutte le sue
forze per un posto al sole sul mercato occidentale, ora un regista
russo viene comprato come un “Gastarbeiter” dell’industria.
D’altro canto, però, i successi commerciali nazionali non vanno
esaltati più di tanto. Per ora si sta parlando solo di un tentativo di
cambiare immagine, in realtà sono ancora pochi i film che riescono a
incassare per davvero, e questo indipendentemente dagli spot pubblicitari superinvitanti dei canali televisivi. Nel complesso il cinema
continua a non essere redditizio e nel 2006 in un sistema di produzione e distribuzione che almeno sembrava ben avviato, gli scettici
hanno pronosticato il crollo del mercato dei blockbuster nazionali.
In compenso però, a riscuotere il successo del pubblico (e anche di
distribuzione) è venuto un film come Ostrov/The Island (L’isola,
2006, Pavel Lungin), che propaganda valori spirituali cristiani in
barba allo stile borghese mercantile della vita post-sovietica.
All’inizio degli anni novanta la cinematografia mondiale era in
attesa della “nouvelle vague” russa. Al suo posto è nato, privo di qualsivoglia originalità, uno stile de “l’ultramoderno moscovita” di cui
spesso si afferma che esalti una ristretta èlite, residente nel centro della
capitale. La maggior parte di questi film sono stati girati nella periferia di Mosca, Pietroburgo o nei posti di villeggiatura sul Mar Nero.
Perfino un tema tanto drammatico come la guerra in Cecenia,è stato
affrontato nel cinema russo indirettamente. Ma responsabile di tutto
ciò non è tanto la censura, quanto l’autocensura che ha contaminato
un’intera generazione di registi tra i due millenni. Evitano temi pungenti e conflittuali, temendo, non a caso, che sarebbe difficile ottenere dei finanziamenti per progetti simili e perfino una volta girato il
film, è possibile scontrarsi con spiacevoli sorprese. Cosa che si è verificata con Il’ja Chržanovskij il cui film 4 (2004)3 è stato accusato di
“dare un’immagine negativa della Russia”. Oppure con Pavel Bardin,
il cui Rossija-88/Russia-88 (2009), dove si solleva il problema della
xenefobia e del neofascismo russo, si è scontrato con l’opposizione
del potere e varie difficoltà distributive. In entrambi i casi sono stati
d’aiuto solo il sostegno della stampa e i festival internazionali.
Comunque, a metà del nuovo decennio è nata una chiara alternativa ai blockbuster commerciali. Il film-locomotiva della tanto attesa
“nouvelle vague” è stato Koktebel’/Roads to Koktebel (2003, Aleksej
Popogrebskij, Boris Chlebnikov). A seguire sono usciti Svobodnoe
plavanie/Free Floating (t.l.: Vivere alla giornata, 2006, Boris Chleb95
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nikov) e Prostye vešči/Simple Things (t.l.: Le cose semplici, 2007,
Aleksej Popogrebskij), Šul’tes/ Shultes (2008, Bakur Bakuradze),
Skazka pro temnotu/Tale in the darkness (t.l.: La favola del buio, 2009,
Nikolaj Chomeriki), Kremen’/ Hard-Hearted (t.l.: Roccia, 2007, Aleksej Mizgirev) e Buben, baraban/Tambourine, Drum (t.l.: Tamburello,
tamburo, 2009, Aleksej Mizgirev): quasi tutti sono ambientati in provincia, fino a Vladivostok, e ciò che maggiormente li accomuna è un
nuovo modo di accostarsi alla realtà, a livello figurativo, linguistico e
contenutistico.
Una nuova generazione di cineasti che non sono mai stati sovietici
si sta dimostrando alquanto attiva. È probabile che riusciranno a far
rinascere le tanto meritevoli tradizioni del cinema russo, liberandole
dai diktat ideologici. Forse ci troviamo alle origini di una nuova mitologia cinematografica nazionale. Ci sono molti presupposti per credere che i cineasti russi faranno ancora parlare di sé.
E un’altra cosa inaspettata: si sono buttati nel cinema giovani registi con un retaggio culturale di stampo teatrale. Ejforija/Euphoria (t.l.:
Euforia, 2006, Ivan Vyrypaev) è un film dalle emozioni selvagge, primitive, al di là dei limiti sociali e morali, del bene e del male. Izobražaja
žertvu/ Playing the Victim (Playing the Victim, 2006, Kirill Serebrennikov) è una sarcastica versione contemporanea di Amleto. Il nuovo
cinema russo con ambizioni artistiche cerca di includere la realtà
attuale ed eroi contemporanei nello spazio dei mitologemi eterni.
Alcuni film dei giovani, come in Free Floating, ripristinano il
legame con le tradizioni dell’epoca sovietica. Tutto quello che rappresentano c’è già stato: la provincia russa, dove si è creata la fusione
tra città e campagna, le “persone strane”, che abitano queste zone, la
gioventù scriteriata, gli eroi ricercatori di giustizia, l’assurdo comico
che non contraddice affatto la verità della vita. C’era nei film di Vasilij Šukšin e di Kira Muratova, in Asino sčast’e/The Story of Asya Klyachina (Storia di Asja Kljačina che amò senza sposarsi, 1967, Andrej
Končalovskij) e Načalo (t.l.: Inizio, 1970, Gleb Panfilov). Chlebnikov,
senza riabilitare del tutto il socialismo, riprende alcune idee umanistiche oramai perdute, smentendo certi miti e rianimandone altri.
Il 2009 per la Russia è stato l’anno della crisi economica e della
stagnazione politica che ancora continua. Ma è proprio nell’arco di
questo anno che si è affermata una “nouvelle vague” di registi russi.
Il bello e il cattivo tempo al Festival Kinotavr di Soči (Sochi) lo hanno
fatto i film dei giovani: oltre ai già citati ricordiamo Volčok/Wolfy (t.l.:
La trottola, 2009, Vasilij Sigarev), Kislorod/Oxygen (t.l.: Ossigeno,
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2009, Ivan Vyrypaev), Sumašedšaja pomoš’/Help Gone Mad (t.l.: Soccorso matto, 2009, Boris Chlebnikov), ma anche i film ad episodi
come Korotkoe zamykanie/ Crush: 5 Love Stories (t.l.: Cotti d’amore,
2009, Petr Buslov, Ivan Vyrypaev, Aleksej German jr., Kirill Serebrennikov, Boris Chelbnikov), manifesto artistico di una nuova leva
di registi. La “nouvelle vague” ha fatto il suo ingresso anche ai festival internazionali: Kak ja provel etim letom/How I Ended This Summer (t.l.: Come ho trascorso l’estate, 2010, Aleksej Popogrebskij),
girato nella regione della Cˇ ukotka, record di lontananza da Mosca,
ha ottenuto due Orsi d’argento alla Berlinale, due anni prima
Bumažnyj soldat/Paper soldier (t.l.: Il soldato di carta, 2008, Aleksej
German jr.) era stato premiato con il Leone d’argento a Venezia. In
entrambi i festival sono stati segnalati anche i risultati raggiunti dai
direttori della fotografia di questa nuova generazione. Ma ecco che,
in questa fase storica, in patria minacciano di chiudere i rubinetti proprio al giovane cinema russo che sta nascendo.
La Russia è l’unico paese al mondo che ha trovato per davvero una
ricetta rivoluzionaria contro gli sconvolgimenti economici: è stato stabilito che lo Stato (nella figura del Ministero della Cultura) nel 2009
avrebbe bloccato i finanziamenti. Ma che nel 2010 sarebbero ripresi
e così avremo tutti quanti tirato un sospiro di sollievo. E così è stato.
Ma ci sono cose per le quali tirare un sospiro di sollievo è proprio
impossibile. Morto un papa se ne fa un altro! E così durante la pausa
è nato un nuovo sistema di finanziamenti. Se ne occuperà un fondo
speciale, che verrà ideologicamente mantenuto e garantito dal “Consiglio per le questioni cinematografiche” presieduto da Vladimir
Putin, il Primo ministro del Paese. La priorità verrà data alle grandi
compagnie oligarchiche e ai progetti significativi dal punto di vista
nazionale, orientati in senso patriottico. Non sarà facile per i giovani
inserirsi in questa congiuntura.
Dettaglio caratteristico delle riforme russe: rimandano all’America, a Hollywood, con il suo sistema di grandi studi, e cercano al contempo di ristabilire il sistema sovietico delle sovvenzioni statali ideologizzate. Un’ennesima deformazione di idee e concetti è tipica per
la Russia, dove a oggi ancora non si è formata una società di massa
con una propria mitologia organica e con una cultura di massa vera
e propria. Ciò che viene immaginato in chiave nostalgica come fioritura dell’industria cinematografica sponsorizzata dallo Stato non rappresenta che un modello invecchiato di un sistema totalitario, possibile ai nostri giorni forse solo in Iran. Mentre l’America qui non c’en97
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tra niente: né il suo patriottismo, né la sua censura arrivano dall’alto,
bensì sono nati da una coscienza di massa che si è nutrita di quei valori
americani innestati dalla stessa Hollywood. Però fuori del mainstream
hollywoodiano, nel cinema indipendente e alternativo, c’è una moltitudine di possibilità che permettono di contestare e addirittura sbeffeggiare questi valori.
Solo il futuro potrà mostrare cosa significherà l’ennesima riforma
per il destino della “nouvelle vague” russa. Solo il futuro potrà
mostrare se questa “onda” è una reazione tardiva alla “rivoluzione
capitalistica” degli anni novanta o il presagio di sconvolgimenti socioculturali a venire.
(Traduzione dal russo di Giulia Marcucci)
1
La seconda parte del film venne vietata da Stalin per le evidenti associazioni tra
le azioni della polizia segreta di Ivan il Terribile e quelle del regime repressivo staliniano. Così venne distribuito solo nel 1958. La prima parte ricevette invece il premio Stalin. Con questo film si concluse la carriera del grande regista (ndt).
2
Girato nel 1962 e influenzato dal “nuovo cinema” internazionale dell’epoca, il
film ha subito, prima di poter uscire, una serie di “addomesticamenti” dovuti, tra
l’altro, al diretto intervento del premier Chruščev che, ad esempio, impose il cambio
del titolo originario Zastava Il’iča (Bastione Ilic) (ndr).
3
L’opera prima di Il’ja Chržanovskij (o Ilya Khrzhanovsky, nato a Mosca nel
1975) è passata alle Giornate degli Autori a Venezia del 2004 e poi ha vinto il festival di Rotterdam del 2005 (ndr).
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