I cinquant`anni alla Radio di Renzo Arbore Renzo Arbore ha

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I cinquant`anni alla Radio di Renzo Arbore Renzo Arbore ha
I cinquant’anni alla Radio di Renzo Arbore
Renzo Arbore ha conservato l’accento foggiano sia quando parla
italiano che quando parla napoletano: nondimeno, napoletano di stud^i
(la gloriosa Giurisprudenza della Federico II), è fra coloro che per
Napoli hanno fatto di più. Come cantante e uomo di spettacolo; come
intrattenitore; e come ideologo. Giacché tutta la sua attività rampolla
da un’ideologia: una battuta di spirito vale più di una carica, e per una
battuta una carica si sacrifica; il nonsense beckettiano e pinteriano,
trasformato in un cazzeggio da eterni fuoricorso (fuoricorso della vita)
diviene cosa naturaliter napoletana. Mi vien fatto di pensare – e forse
sono il primo – che qualcosa di simile fa un mio amico del cuore,
Ruggero Cappuccio. Questi è un intellettuale (direbbero i catalogatori),
regista che da Thomas Bernhard passa a Donizetti e Verdi, romanziere,
lettore di Virgilio: eppure l’ultimo suo spettacolo, scritto, diretto e
interpretato da lui, in pretto napoletano, Spaccanapoli times, manifesta
proprio la stessa Weltanschauung.
Arbore mi riderebbe in faccia se a suo proposito adoperassi questo
termine in uso presso i pensosi filosofi: ma siccome significa “visione del
mondo” (Giorgio Locchi m’insegnò a preferirgli Weltgef”uhl,
“sentimento del mondo”) ecco che il suo cazzeggio da fuoricorso della
vita è una Weltanschauung.
Le sue benemerenze verso Napoli ovviamente rampollano anche da
tutto quello ch’egli ha fatto per un patrimonio di civiltà quale la
canzone napoletana. Oggi io che sono napoletano di lontane origini
piemontesi desidero fargli gli augur^i perché, nel giorno della vergine
siracusana a Napoli veneratissima, egli compie cinquant’anni di radio.
Li rivendica con orgoglio e io sono con lui perché considero non solo la
radio superiore alla televisione (i veri intenditori di calcio le partite le
seguono per radio, non le guardano sul teleschermo) ma anche il mezzo
del futuro. Or io non posseggo la preparazione per fare di Arbore un
ritratto completo; naturalmente ascoltavo Bandiera gialla con
devozione: la folgorazione l’ebbi tuttavia proprio da una trasmissione
televisiva, Quelli della notte, con la bellissima canzone Ma la notte no, e
dalla successiva Indietro tutta.
Arbore riusciva a padroneggiare una cosa improvvisata che,
parafrasando quel che Stendhal dice del Finale primo dell’Italiana in
Algeri di Rossini, chiamerò une folie organisée et complète. Da Frassica a
Pazzaglia la passerella era un Teatro dell’Assurdo che avrebbe deliziato
Totò e mi auguro abbia deliziato Fellini – penso in ispecie a
Roma.Un’idiozia metafisica si susseguiva a idiozia metafisica. Poi c’era
il Cacao meravigliao. Capii di trovarmi di fronte alla manifestazione del
Genio allo stato puro.
Che un foggiano sia così intriso di spirito napoletano non deve
meravigliare: nel Regno straordinaria era la simbiosi fra le provincie e la
capitale. Il più grande concittadino di Arbore, Umberto Giordano, che
al Conservatorio napoletano si era formato, parlava napoletano persino
con Verdi, che di tutti i giovani compositori voleva bene solo a lui. La
sua città, nata fra le mani di Roberto il Guiscardo, ha per protettrice la
Madonna dei Sette Veli: che io prego affinché Renzo ci dia almeno altri
cinquant’anni di radio, teatro e persino televisione. Nel 2016 si celebra il
secondo centenario della morte di uno dei sommi compositori italiani, il
tarentino pur esso di scuola napoletana Giovanni Paisiello, sovrano
parimenti nel tragico, nel patetico, nel comico, nella musica sacra, in
quella pianistica. Voglio ricordare una sua Cantata scenica il titolo della
quale sembra fatto per onorare i cinquant’anni di Arbore: La Daunia
felice.