27 febbraio 2013. Appunti SdC con Carrón

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27 febbraio 2013. Appunti SdC con Carrón
Appunti dalla Scuola di comunità con Julián Carrón
Milano, 27 febbraio 2013
Testo di riferimento: «Qualcuno ci ha mai promesso qualcosa? E allora perché attendiamo?»,
Esercizi degli universitari di Comunione e Liberazione, suppl. Tracce-Litterae Communionis, n. 1,
gennaio 2013, pp. 33-63.
• Ballata dell’uomo vecchio
• Quando uno ha il cuore buono
Gloria
Ci eravamo dati come proposta di lavoro la seconda parte degli Esercizi del Clu, ma non è stato
soltanto questo ciò che ha determinato questo mese. Ci eravamo, infatti, dati anche qualche
suggerimento per vivere il periodo elettorale. E poi è successo un fatto imprevisto: la rinuncia del
Papa. Mi sembrano fatti che, ciascuno a suo modo, provocano la nostra persona e la nostra vita.
Vediamo, dopo tutto quanto è accaduto, che cammino ha fatto o sta facendo ciascuno, che cosa ha
scoperto, in che modo tutto quel che stiamo vivendo ci fa crescere, ci fa maturare.
La notizia della rinuncia del Papa mi ha raggiunto mentre ero in Venezuela e stavo per tornare a
casa. Quel che hai scritto su la Repubblica mi ha colpito tantissimo: tu dici che tutto il mondo è
rimasto senza fiato per un minuto, in silenzio. Dopo poco dovevo prendere l’aereo, e all’aeroporto
sono stato interrogato dalle guardie che hanno fatto pesare tutta la loro autorità, facendomi aprire
la valigia tre volte, chiedendomi cosa facevo lì, da quanto ero lì. A un certo punto, mi hanno
guardato e mi hanno detto: «Ma è vero che il Papa si è dimesso?». E poi: «Ma come si fa a
diventare Papa?», loro che del Papa nemmeno sapevano il nome! Quindi è vero, è veramente
capitato a tutti. Ma dopo quella lettera che tu hai scritto, io mi sono reso conto di questo: che solo
uno si era accorto di essersi stupito, tutti ci siamo stupiti, tutti sappiamo cosa stavamo facendo
nell’istante quando l’abbiamo saputo, tutti, ma l’essersi accorto di essersi stupito, questa è stata la
novità. Quando tu hai scritto questo, facendoci accorgere di esserci stupiti, ci hai dato il criterio
per poter stare davanti a tutto il mondo che cercava di dare una spiegazione, noi compresi; cioè
l’esperienza riconosciuta mi ha messo in grado di giudicare. Se io invece non mi accorgo di questo,
dell’esperienza che faccio, del contraccolpo umano che ho avuto, allora non ho il criterio, e parto
anch’io dall’opinione mia: io voglio bene al Papa e allora la spiegazione sarà… eccetera eccetera.
Ma è già saltato il primo passo, il criterio è un’opinione, non è un’esperienza irriducibile, tanto è
vero che se certe prese di posizione non spiegano l’esperienza che ho fatto, io non le accetto come
spiegazione. Difatti, andando avanti nella tua descrizione di tutti i passi che hai fatto, hai
introdotto l’ipotesi che solo il rapporto del Papa con Gesù può rendere quell’uomo libero così e
hai detto: «Sono allora stato costretto a spostare lo sguardo su ciò che lo rendeva possibile: chi sei
Tu, che affascini un uomo fino a renderlo così libero?». Ecco, questo «costretto» mi ha colpito,
perché è proprio la descrizione della ragione che accetta il cammino fino ad arrivare, dal segno,
da quello che è capitato a me come esperienza, all’unica spiegazione, al significato, cioè a dare del
Tu a Cristo. Chi sei Tu che rendi possibile questo?
Cioè tu vuoi dire che se uno non si rende conto del primo contraccolpo…
Diventa ideologico subito dopo, nel senso che non ha in mano il criterio su cui sfidare il mondo e
quindi non ha una spiegazione da dare, perché lui è parte di quel mondo che esprime solo
un’opinione.
Ritorneremo dopo su questo, ma secondo me cogli un punto fondamentale di un cammino umano,
perché tutti si stupiscono della bellezza delle montagne, ma non tutti fanno il percorso fino al «io
sono Tu che mi fai» del capitolo decimo de Il senso religioso (per fare un esempio che ci è
familiare). E quindi se noi non ci accorgiamo di quel che c’è dentro il contraccolpo, perdiamo il
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meglio di quello che accade, perché poi tante delle reazioni o dello smarrimento o della confusione
o dello scoraggiamento in cui uno finisce – ciascuno può pensare al sentimento che ha provato – è
conseguenza del non aver colto nel reale ciò che c’è; e allora siamo in balia, come tutti, delle
opinioni, perché non ci sono più i fatti, ma soltanto interpretazioni. E tanto dello smarrimento che
abbiamo visto in modo eclatante anche durante le elezioni ha la stessa origine; non è che reagiamo
in un modo rispetto alle elezioni e in un altro modo rispetto al Papa: è lo stesso contraccolpo, e tante
volte la stessa difficoltà; come riduciamo il gesto del Papa, così riduciamo anche ciò che ci rende
possibile chiarirci di fronte alle elezioni. Spero che ciascuno abbia fatto il percorso e l’abbia potuto
riconoscere. Per questo è interessante come la difficoltà di capire la questione dell’attesa (negli
Esercizi del Clu) ci rende tante volte incapaci di leggere il reale nel modo vero, perché tante volte
non siamo in grado di lasciarci colpire da quel che c’è. Leggo qualcuna delle lettere che mi avete
mandato. «Leggo che “la comunità è il luogo della continuità dell’avvenimento di Cristo e se ti
strappi da quell’apparente casualità di rapporti perdi non i rapporti, ma ciò che ti ha colpito in quei
rapporti”. È vero, di tutto potrei fare a meno nella mia vita, tranne che Cristo è con me, tranne che
sapere di essere voluta adesso da Lui. Nel tempo ho sperimentato che è impossibile accontentarsi di
un bello stare insieme alla gente, per poi alzarmi al mattino delusa perché la compagnia che mi fa
Gesù è l’unica che può arrivare nel fondo a quella mia mancanza. Spesso mi guardo attorno, invece,
e fatico a riconoscere in qualcuno una sintonia con quella nostalgia che ho. Tempo fa la manipolavo
facendo delle cose, ma adesso non ci riesco più, e nemmeno lo voglio, perché ho sperimentato e
sperimento che è la mia salvezza il Suo grande amore per me. A volte però mi sembra che diverse
persone che ho attorno mi trasmettano scetticismo rispetto a questo. Cioè: va bene il desiderio, ma
in fondo siam sicuri di essere bravi, entusiasti militanti di CL in possesso di tutte le risposte, fino a
volte a giudicare negativamente chi magari fa un cammino più lungo e tortuoso. Ho questa netta
sensazione, quasi sono indotta a pensare che forse io con quella mancanza che mi fa implorare non
ho capito qualcosa [pensiamo che siamo noi a sbagliare quando sentiamo questo]. È come se
rischiassi un atteggiamento individualista. Eppure, sinceramente, mai mi son sentita così in rapporto
affettuoso con la realtà come adesso, e quando leggo o ascolto quello che dici, descrivendo il mio
animo in ogni dettaglio, riconosco di nuovo che io sono quel grido e non voglio qualcosa che
semplicemente chiuda la ferita». Se, come dicevamo anche parlando delle elezioni, noi non
partiamo da questo bisogno, da questa attesa, da questa domanda aperta, nemmeno possiamo
cogliere la portata della risposta, e non ci interessa implicarci nel reale per trovarla. Cosa succede?
Che l’appartenenza alla Chiesa e al movimento diventa un fatto parallelo, come dice un’altra
persona: «L’inquietudine, il desiderio, sono in tante occasioni un’esperienza dolorosa; il desiderio
di un significato è un sottofondo sordo della vita di tutti i giorni, che io cerco di far tacere perché
per me è qualcosa di disperato. Per questo non so come tu faccia a dire: il fatto che attendo grida
che c’è un Altro che mi sta chiamando, che mi sta promettendo qualcosa nella struttura stessa del
mio io [è questa la difficoltà: di cogliere nei fatti tutta la portata che hanno, di cogliere che per
spiegare il gesto del Papa occorre riconoscere la contemporaneità di Cristo, di cogliere che per
riconoscere l’attesa occorre riconoscere Colui che me la desta costantemente]. L’appartenenza al
movimento resta un fatto parallelo rispetto a questa domanda, che mi dà anche la prospettiva di tutta
la mia solitudine. Scusa la grande franchezza, ma la tua posizione è talmente leale di fronte alla
realtà che non posso fare diversamente. Tante volte penso che per questa mia situazione che ti ho
descritto sarei più leale se me ne andassi via dal movimento [per questo tante persone vanno via
dalla Chiesa]. Vorrei anche chiarire che io non ho veri motivi per disperarmi, anzi, ne ho molti per
essere felice: ho un marito, dei figli a cui voglio bene, un lavoro e la stima di molti colleghi. Eppure
ho dentro un dolore sordo, un desiderio irrealizzabile per sua stessa natura, e non capisco perché
debba rodermi dentro, non capisco soprattutto perché un atto di fede non possa metterlo a tacere. A
che cosa dunque serve avere fede in Dio se il desiderio di qualcosa di infinito continua a
tormentarci? Come dicevi all’ultimo collegamento: “Senza renderci conto di questo noi svuotiamo
l’attesa del Mistero, e poi cerchiamo di vedere come risolviamo noi la questione”, cioè
l’appartenenza al movimento può essere una scelta per risolvere noi la questione, mettendo a tacere
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la domanda. Questo è un atteggiamento violento che stritola la mia vera umanità. Ti sarei grata se tu
rispondessi a questo». Se uno tace questa attesa e non si rende conto che essa, come abbiamo
spiegato lungo tutti gli Esercizi del Clu, è il segno più patente di Lui, “stritola” la sua umanità.
Perché noi facciamo fatica a riconoscere nella nostalgia, nell’attesa, in questa inquietudine la
presenza dell’Altro, la presenza del Mistero? Perché? Perché non ci rendiamo conto che cosa
sarebbe una vita con l’encefalogramma piatto, cioè una vita in cui io non desideri, in cui io sia
piatto nel rapporto con il reale. Capisco che uno voglia fuggire da questo, e per questo è difficile
comprendere, poi, quando diciamo che Cristo non è venuto ad appiattire il desiderio dell’uomo,
bensì a risvegliarlo. Ma il fatto che lo risvegli, quindi che ci renda sempre più desiderosi di Lui, è
una disgrazia o un bene? Per rispondere ciascuno deve guardarsi in faccia e vedere che cosa succede
nella propria vita, perché altrimenti noi pensiamo che questo lo risolvano le nostre energie o i nostri
progetti o i nostri tentativi. Invece, come abbiamo visto in questi giorni testimoniato “alla grande”
dal Papa, ci sono fatti che smentiscono, con la loro stessa presenza, qualsiasi tentativo di vedere la
fede come qualcosa, in ultima istanza, di inoperante nel risolvere i problemi della vita. Invece che
cosa succede quando vediamo uno come Benedetto XVI che ci testimonia, come avete visto in tanti
oggi a Roma, la risposta? Abbiamo davanti a noi una presenza in cui possiamo toccare con mano
che cosa è Cristo, che cosa rende possibile la fede. Ci ha fatto questo regalo inaspettato, misterioso
per noi, compiendo questo gesto pieno di testimonianza a Cristo, per rendere possibile anche a noi il
gesto della fede, cioè il riconoscimento di Cristo presente. Soltanto davanti a una presenza così uno
può essere in grado di guardare tutto il suo disagio, la sua difficoltà di abbracciare veramente se
stesso; perché senza la presenza presente di Cristo uno non può amare veramente sé. Per questo
occorre questa contemporaneità; allo stesso tempo, senza il grido dell’attesa potremmo ridurre
Cristo a un fatto parallelo, senza incidenza sulla nostra vita.
È successo un fatto, di recente, che sostanzialmente ha preso il sopravvento nella mia vita rispetto
a tutte le cose che succedono in questo periodo; diciamo che è stato un po’ – se mi permetti il
termine – un colpo di fortuna, perché ha completamente calamitato tutta la mia attenzione. Mi
trovo a lavorare in un altro posto rispetto a dove lavoravo prima, e lì non c’è una comunità del
movimento. Circa un mese fa, chiacchierando con una persona – la solita chiacchierata che puoi
fare con chiunque –, rispetto a una sua certa invadente inquietudine, ho risposto dandole il libretto
degli Esercizi del Clu: «Guarda che tu sei inquieto per il motivo che trovi qui dentro». L’indomani
ci rivediamo e mi dice: «Ho divorato quello che c’era scritto». E aggiunge una cosa che mi ha
molto commosso: «Mai avevo udito un linguaggio del genere». Da quel momento, con questa
persona è nata una profonda amicizia, si è intessuta e vivificata una trama di rapporti; sta
nascendo una comunità in un posto in cui fino a un mese fa ero da solo. Mi ha sorpreso perché
sono stato completamente preso da questo fatto che io chiamo “incontro”, è come se tutto il resto
destasse una preoccupazione minore. Quindi, cosa mi sono detto io? La prima cosa è: quanto è
potente la mia piccola libertà, perché quella sera sembrava l’ennesima chiacchierata a cui tu
rispondi con una specie di pregiudizio (vabbè, figurati cosa potrà succedere); e invece scopro che
quella luce che io ho visto la prima volta, ho visto la seconda volta, ho visto l’ennesima volta, la
rivedo ancora. Questo fatto che ha preso il sopravvento mi fa percepire come esperienza che Cristo
è veramente una presenza, che le cose nel mondo le aggiusta Lui, che è Lui il protagonista, e che il
mio cristianesimo (se così si può dire) è un Suo dono, è un dono Suo a me. Per me è stato un
verificare non con un pensiero, ma con una concretezza fatta di questa mia e loro piccola libertà, in
che modo dentro questo sfacelo del mondo risorge una civiltà. Occorre solo il fatto che io dica
«sì», ma questo sì non è un sì mentale, è un banalissimo sì davanti a un’inquietudine. Gli ho detto:
«Guarda che la tua inquietudine è la mia». Sono commosso per questa cosa che mi porta a dire che
qualunque cosa succeda la sistemerà Lui.
E secondo te perché ha avuto questa presa su di lui tanto che ha divorato quel testo?
Perché evidentemente le cose stanno come sono scritte lì.
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Per quello che dicevi tu, cioè per un’attesa che ha trovato una risposta. Mi colpisce questo, anche
pensando alla lettera di poco fa, perché davanti allo stesso fatto uno trova qualcosa di assolutamente
nuovo fino al punto di rigenerare tutta la vita, di divorarlo e di cominciare qualcosa di nuovo,
perfino generare una comunità in un posto dove non avresti immaginato; e tu non hai altra
spiegazione da offrire su questo – perché non è che pensi che lo generi tu – che la presenza potente
di Cristo. E questo, in mezzo allo sfacelo, è l’origine di una civiltà, è proprio così. Dopo quel che
abbiamo visto con le elezioni, per poter capire qual è il nostro contributo dobbiamo ricominciare da
lì, riconoscendo che il primo punto della Nota di CL non è poi così campato per aria, ma è il punto
di speranza: che la comunità cristiana esista e ricominci, secondo un disegno che non è il nostro, a
partire dal piccolo «sì» di ciascuno, dalla piccola mossa della libertà di ciascuno, a rigenerare una
civiltà. Che la gente voti “con la pancia”, dice fino a che punto la civiltà è a pezzi. Si capisce?
Sì.
Ti ringrazio perché non dobbiamo staccare le cose: da una parte questo, dall’altra parte le elezioni,
dall’altra parte il Papa. Che cosa unisce tutto questo? Mi scrive uno: «Il cambiamento che il lavoro
sulla Nota di CL ha portato, non tanto sulle elezioni in quanto tali, ma sul resto, l’ho capito meglio
nell’ultimo viaggio solitario in Iran, dove vado spesso per lavoro. La frase del documento, che “il
primo livello di incidenza politica di una comunità cristiana viva è la sua stessa esistenza”, io l’ho
sempre in qualche modo vissuta come il fatto che dovevo difendere in qualche modo l’esistenza di
qualche cosa o promuovere l’esistenza di qualcosa. Quando mi trovo (per l’ennesima volta) per una
settimana a Teheran, non è che c’è molto da pensare di difendere o promuovere, sei solo, non è che
puoi esprimere o difendere qualcosa, e nemmeno c’è una compagnia nella quale tentativamente
rifugiarsi. Io questo l’ho sempre vissuto come una mezza sconfitta, aspettando magari di dire la mia
idea cattolica in qualche discussione (ché nei mondi anglofoni non disdegnano argomenti religiosi),
ma un po’, in fondo, come per piantare la bandierina tra le cento altre bandierine. Infatti, qualche
volta riesci a dire la tua; il più delle volte aspetti di tornare a casa per riprendere la vita. La cosa di
cui mi sono sorpreso questa volta è la percezione iniziale, ma evidente, che la comunità cristiana
viva sono io, cosciente di questo, da solo in mezzo all’Iran [cioè il protagonista è un io che ha
questa coscienza]. Su questo non c’è alternativa, perché la vita e il desiderio di tutto non si possono
sospendere in viaggio. Questo non è che lasci tranquilli, perché il fatto evidente è che Gesù è
arrivato a Teheran con me (così nullo e mancante) sceso dall’aereo. Poi, magari, io avrei detto
qualcosa o no, ma il dato oggettivo era che l’incidenza ero io cosciente di essere la comunità
cristiana. L’inizio è stato freddo e formale, come sempre. L’Iran è un Paese dove il laicismo scettico
la fa da padrone, poi il fatto della rinuncia del Papa e la curiosità che la cosa ha suscitato nei miei
interlocutori è stato un evento di grazia nel quale mi è stato possibile raccontare della mia stima
verso quell’uomo e del perché un ingegnere occidentale, abile nel suo lavoro e nel pieno uso della
ragione e della capacità di analisi, sia seriamente e ragionevolmente cattolico. Questo è stato un “di
più”, perché avrebbe potuto anche non succedere, ma essendo successo io ci sono stato. In sintesi,
ho iniziato a capire che tutta la questione, anche politica e sociale, si gioca nella coscienza del mio
io. Se non ci sono io, non c’è altro, neanche le migliori e più giuste battaglie sui valori e sulla
Chiesa per preservare il sesto di mondo dove è normale mangiare tre volte al giorno e dove essere
cristiano non è a rischio di vita. Se non ci sono io, anche la battaglia più giusta e impegnata non
porta e non costruisce alcunché». Se poi il Mistero da questo io fa nascere la comunità, ancora
meglio! Ma questo non dipende da noi, dipenderà da come Lui usa questo nostro piccolo gesto di
libertà che si chiama “fede” per generare qualcosa d’altro. È decisivo che noi capiamo questo alla
fine di questo periodo elettorale.
Alcuni brani di don Giussani ci aiutano a capire la situazione in cui ci troviamo e che il risultato
elettorale evidenzia ancora di più. Durante questo periodo ci siamo dati un lavoro da fare che era,
molto semplicemente, prendere sul serio il bisogno che avevamo di chiarirci, incominciando dal
dato più rilevante che abbiamo e che è la comunità cristiana, di cercare la pertinenza della nostra
fede alle esigenze del vivere, perché se questo non lo percepiamo finiamo per domandarci a che
cosa serve la fede. E questo in che cosa lo possiamo vedere? Nel modo con cui ciascuno ha vissuto
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questo periodo; siamo alla fine di esso, ciascuno può vedere che cammino ha fatto. Stasera è emerso
chiaramente, almeno come spunto, che tutto si gioca nel primo contraccolpo rispetto al reale,
rispetto alle elezioni, rispetto al Papa, rispetto alla persona che hai davanti, rispetto al lavoro,
rispetto all’attesa, cioè rispetto alla vita. Se ciascuno di noi non prende sul serio il dato del reale e se
questo non diventa il punto di partenza, noi siamo già “moderni”, siamo già in fondo ideologici.
Spiegando l’origine della situazione che viviamo adesso, don Giussani dice che il nostro
atteggiamento di uomini moderni di fronte alla realtà manca di problematicità vera. E lo descrive
così in Perché la Chiesa: «La vita è una trama di avvenimenti e di incontri che provocano la
coscienza producendovi in varia misura problemi [suscitano problemi: le elezioni, la vita, il Papa,
quello che succede]. Il problema è l’espressione dinamica di una reazione di fronte agli incontri
provocanti [a quello che accade]. E il significato della vita – o delle cose pertinenti e importanti
della vita [che poi dirà essere: la cultura, l’amore, la politica e il lavoro] – è un traguardo possibile
solo per chi sia impegnato con la problematica totale della vita stessa [non è che ciascuno lo può
risolvere a parole, si svela solo a chi si impegna con la vita stessa!]. L’insorgere del problema [la
prima tappa, il primo inizio di questo] implica [che nel rapporto con la realtà io sorprenda] la
nascita di un interesse, destando una curiosità intellettuale» che mette in moto il dinamismo del mio
io per cercare un significato (chi votare, come affrontare la vita, come rispondere all’attesa). Senza
questo, l’oggetto che vogliamo conoscere resta estraneo e noi diventiamo confusi. Allora che cosa
succede? Che se in noi non sorge questo interesse, fino al punto di muovere la totalità dell’io,
cominciamo a perdere pezzi per la strada, inizia – dice Giussani – tutto il processo della
disarticolazione, dell’io e della società: «L’origine di quell’affievolimento di una mentalità organica
[…] pesca [mi piacerebbe fermarmi qui e sfidare tutti a dire dove pesca…] in una possibilità
permanente dell’animo umano, in una possibilità triste di mancanza di impegno autentico, di
interesse e di curiosità al reale totale». Se nel porsi del problema non si suscita un interesse che
metta in moto tutto il mio io, il significato del vivere per me è irraggiungibile, e andiamo in pezzi,
come tante volte ci capita. Allora, che cosa favorisce che questo cominci? Che cosa favorisce
questo? Qual è il ruolo della comunità cristiana in questo? Come ci aiuta? Potrebbe fare come fanno
molti con i figli, sostituendosi a loro; ma guardate che cosa dice don Giussani: «Se la Chiesa
conclamasse come suo scopo quello di battere in breccia lo sforzo umano di promozione, di
espressione, di ricerca [cioè se togliesse questo cammino che ci siamo dati da fare], farebbe […]
come quei genitori che si illudono di risolvere i problemi dei figli sostituendosi a loro». Quando noi
chiediamo al movimento che davanti alle sfide del vivere ce le risolva (dandoci, per esempio,
l’indicazione di voto), ci illudiamo pensando di risolvere la vicenda facendoci sostituire da
qualcuno. Ma la Chiesa non ha come scopo questo: «La Chiesa, dunque, non ha come compito
diretto il fornire all’uomo la soluzione dei problemi che egli incontra lungo il suo cammino [se
cercate soluzioni pronte, andate da un’altra parte!]. La funzione che essa dichiara sua nella storia è
[paradossalmente, sembra niente] l’educazione al senso religioso dell’umanità [cioè a ridestare
l’attesa, a ridestare la consapevolezza del bisogno che abbiamo, punto di partenza di quei cinque
punti che avevamo detto la volta scorsa perché questo implica] il richiamo a un giusto
atteggiamento dell’uomo di fronte al reale. [Richiamare a questo, educare a questo è il contributo
più grande che la Chiesa può dare perché mette la persona, ciascuno di noi, nella] condizione
ottimale per trovare più adeguate risposte a quegli interrogativi [che la vita ci pone. Perché] la
gamma dei problemi umani non potrebbe essere sottratta alla libertà e alla creatività dell’uomo,
quasi che la Chiesa dovesse dar loro una soluzione già confezionata [tale e quale!], perché in questo
modo essa verrebbe meno al suo primigenio atteggiamento educativo e toglierebbe valore [al]
tempo». E Giussani fa un esempio che tutti ricordiamo, perché questa nostra tentazione era anche la
tentazione del tempo di Gesù, come dimostra l’episodio dei due fratelli che chiedono a Gesù che
risolva il problema del litigio sull’eredità. «“Maestro, di’ a mio fratello che divida con me
l’eredità”. Ma Egli rispose: “O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?” [Gesù
non accetta il ruolo che gli vogliono assegnare]. E disse loro: “Guardatevi e tenetevi lontano da ogni
cupidigia, perché anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende dai suoi beni”». E
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Giussani commenta: «Non doveva essere inusuale che qualcuno si riferisse a Gesù, come spesso si
faceva con coloro che si riconoscevano maestri, per risolvere liti e controversie. Tanto è istintivo [lo
sappiamo, eccome] nell’uomo pensare di aver trovato la sorgente della soluzione dei problemi
[quanto è attuale!]! Gesù sgombera subito il campo da quest’equivoco e, proprio Lui che si era
manifestato più volte giudice autorevole […] tiene a dichiarare decisamente che non tocca a Lui
arbitrare quella questione. Certo il suo interlocutore deve essere rimasto sconcertato [come tanti tra
noi per l’assenza dell’indicazione di voto], e Gesù subito non tralascia di adempiere ciò che a Lui
invece tocca fare». E cosa tocca fare a Gesù? Pensate che se avesse dato loro la risposta, avrebbero
finito di litigare? Avrebbero ricominciato! Basta leggere la letteratura rabbinica: non è che Dio non
avesse parlato, ma i rabbini cominciarono a discutere tra di loro sull’interpretazione, fino a rendere
la parola stessa di Dio una delle opinioni in campo nel conflitto delle interpretazioni. Cosa dice
Gesù? «Cristo, come la Chiesa – sua continuazione –, non è venuto a risolvere i problemi della
giustizia [in questo caso], ma a porre nel cuore dell’uomo quella condizione senza la quale la
giustizia di questo mondo potrebbe avere la stessa radice dell’ingiustizia». Infatti tante volte se non
riceviamo una soluzione concreta preconfezionata, a noi sembra troppo poco. E Giussani sembra
che ci legga nel pensiero, e la riga successiva dice: «Non è comunque uguale a zero la funzione di
Cristo e della Chiesa nei riguardi dei problemi degli uomini. […] Non è la formula magica per
evitare meccanicamente tali delitti, ma è [l’unico] il fondamento perché la soluzione sia più
facilmente umana». Cioè: soltanto se la Chiesa ci testimonia e ci richiama e ci ridesta, in continuità
con Cristo, il senso religioso, ci mette nella condizione ottimale per affrontare la questione della
vita, i problemi del vivere. Noi tante volte pensiamo che Cristo non sia venuto a suscitare questo
senso religioso, questo senso del Mistero, questo senso del nostro bisogno, bensì a ridurlo con una
soluzione preconfezionata. Ma questo non sarebbe Cristo e nel tempo non ci interesserebbe più.
Perciò ciascuno adesso può verificare, alla fine del percorso, che cammino ha fatto, se dal primo
contraccolpo davanti alle elezioni si è impegnato con tutto se stesso; può vedere che cosa è successo
in coloro che si sono impegnati, e che cosa è successo in coloro che non si sono impegnati; e può
giudicare in che misura il cammino fatto ha suscitato le nostre persone e le nostre comunità, perché
la testimonianza che abbiamo appena sentito è un segno di come una piccola libertà che si muove
può generare. Penso che se noi per primi non cominciamo a percorrere questa strada, cioè se la
comunità cristiana non è in grado di far sorgere soggetti così, possiamo finire come il terzo
dell’elettorato italiano. Non saremo molto diversi, se pensiamo di risparmiarci questo lavoro. Per
questo se ci siamo detti fin dall’inizio di usare queste settimane per verificare la pertinenza della
fede alle esigenze del vivere, alla fine di questo percorso possiamo dire a noi stessi (come lavoro
personale o delle diverse comunità) che cosa è successo. Soltanto se noi accettiamo di passare dal
contraccolpo iniziale all’impegno che questo implica – con l’aiuto della Chiesa che costantemente
ci mette nella condizione ottimale per stare davanti alla realtà –, possiamo generare un soggetto in
grado di essere all’altezza delle circostanze e delle sfide che ci troviamo ad affrontare.
La prossima Scuola di comunità si terrà mercoledì 20 marzo alle ore 21.30.
Dopo aver finito il lavoro sugli Esercizi del Clu, riprenderemo il testo All’origine della pretesa
cristiana, settimo capitolo: «La dichiarazione esplicita».
Ricordo che è attivo un indirizzo mail a cui potete inviare domande e brevi interventi sulla parte
della Scuola di comunità a tema. Vi raccomando di usarlo solo ed esclusivamente per la Scuola di
comunità. L’indirizzo mail è: [email protected]
È in uscita il volantone di Pasqua: l’immagine è il bassorilievo di un chiostro romanico, con Cristo
e i pellegrini di Emmaus; i due testi sono del Papa e di don Giussani. Poiché questo è l’Anno della
Fede, abbiamo voluto mettere davanti ai nostri occhi che cosa è la fede.
Benedetto XVI dice: «La vicenda di Gesù di Nazaret non può restare confinata in un lontano
passato, ma è decisiva per la nostra fede oggi. Cosa significa affermare che Gesù di Nazaret, vissuto
tra la Galilea e la Giudea duemila anni fa, è “contemporaneo” di ciascun uomo e donna che vive
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oggi e in ogni tempo? Gesù è entrato per sempre nella storia umana e vi continua a vivere, con la
sua bellezza e potenza, in quel corpo fragile e sempre bisognoso di purificazione, ma anche
infinitamente ricolmo dell’amore divino, che è la Chiesa, in cui Egli è presente con la sua passione,
morte e risurrezione. È questo il motivo che rende la Chiesa contemporanea di ogni uomo, capace di
abbracciare tutti gli uomini e tutte le epoche». Il Papa non soltanto ci comunica il contenuto della
fede, ma ce lo ha testimoniato “alla grande” nelle ultime settimane, da ultimo oggi, come tanti avete
visto, perché il gesto compiuto e tutto quello che vediamo nella sua persona non è altro che la
documentazione che queste non sono parole, e che soltanto la contemporaneità di Cristo rende
possibile un uomo così; qualunque sia la difficoltà che uno possa attraversare in certi momenti,
nessuno può togliere dalla storia quello che abbiamo visto in questi giorni. Questo vuol dire che
Benedetto XVI può andare a ritirarsi perché ci ha dato il meglio che poteva darci: rendere Cristo
presente non soltanto nell’ultimo respiro della vita, ma quando ha ancora tutta la lucidità, tutta la
consapevolezza di che cosa vuol dire Cristo, non come un fatto del passato ma come
contemporaneo; e questo non perché lui aggiunga parole, ma perché senza che ci fosse
contemporaneo non avremmo potuto vedere quello che abbiamo visto e che stiamo vedendo in lui.
Il testo di Giussani è questo: «Il fatto dell’Incarnazione, l’inconcepibile pretesa cristiana, è rimasto
nella storia sostanzialmente nella sua interezza: un uomo che è Dio − che, dunque, conosce l’uomo
e che l’uomo deve seguire per avere la vera conoscenza di se stesso e delle cose −. L’esperienza
iniziale di coloro che hanno vissuto con Gesù e lo hanno seguito, trasmessa dai Vangeli, ha un
significato inequivocabile: il destino non ha lasciato solo l’uomo. Il cristianesimo è un avvenimento
che è stato annunciato nei secoli e ci raggiunge ancor oggi. Il vero problema è che l’uomo lo
riconosca con amore».
Gli Esercizi della Fraternità (e quelli degli adulti e giovani lavoratori che si terranno 15 giorni dopo)
sono un momento privilegiato per riprendere coscienza, prendere sul serio se stessi, esseri seri con
le esigenze del cuore, così come ci è stato ridestato nell’incontro con il carisma di don Giussani. Da
soli non possiamo avere chiarezza del destino e tantomeno raggiungerlo, non possiamo prendere
consapevolezza della strada al destino senza Qualcuno con noi. Perciò andiamo agli Esercizi con il
desiderio di conoscere e vivere l’incontro che ci ha introdotto la prospettiva del Destino, cioè che ce
Lo svela. Non è una cosa scontata potervi partecipare, ma è una grazia.
Le iscrizioni chiuderanno il 18 marzo 2013.
Il libro del mese per marzo-aprile è I passi della fede. Conversazioni domenicali, di A. Śmeman,
Edizioni La casa di Matriona. Si tratta di una raccolta di omelie radiofoniche del teologo e prete
ortodosso russo Aleksandr Śmeman (grande amico di Solženicyn). Lo proponiamo come “incontro”
con un grande testimone della fede.
Facciamo nostro in questo tempo l’invito che ancora oggi ci ha dato il Papa di continuare a pregare,
come ha detto, «per me, per la Chiesa e per il futuro Papa», per i cardinali che devono eleggerlo,
perché abbiano veramente a cuore solo il bene della Chiesa e della fede. Incominciamo da subito a
farlo, a pregare affinché il Signore ci dia un pastore che ci sostenga nella fede.
Veni Sancte Spiritus