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Introduzione
Alvise Mattozzi
Occuparsi del senso degli oggetti tecnici (OT) vuol dire
innanzitutto presupporre che gli OT, in qualche modo, producano o
articolino senso, o vi contribuiscano, o vi partecipino, o siano
passibili d’attribuzioni o siano sorgente di senso; in secondo luogo,
e conseguentemente, vuol dire cercare di rendere conto dei processi
menzionati. La presupposizione riguardo l’esistenza di una
relazione tra OT e senso, seppur non scontata, sembra ormai essere
sufficientemente accettata, se non altro perché sottesa all’idea che
gli OT e, più in generale la tecnica, contribuiscano alla, o
partecipino della, cultura (Maldonado 2005; Nacci 2000; Riccini
2003; 2005). Il passaggio successivo, quello relativo alla possibilità
di rendere conto della relazione che si pone tra OT e senso, è, se lo
si intende come elaborazione e applicazione di categorie descrittive
adeguate, e non come un generico atteggiamento ermeneutico,
compito della semiotica.
L’impegno della semiotica è, in effetti, come sottolinea Paolo
Fabbri, quello di “dire qualcosa di sensato sul senso”. Confrontarsi
con il “senso degli oggetti tecnici” comporta allora individuare un
oggetto di ricerca, con una sua “positività”, di cui è necessario
rendere conto, evitando di affrontare la questione in termini
metaforici o impressionistici. Proprio per questo, volendo essere più
rigorosi, ma forse meno accattivanti, si sarebbe dovuto intitolare
questo volume La significazione degli oggetti tecnici. Dato che,
però, con “significazione” s’intende l’articolazione del senso, la
sostanza non cambia: con questa raccolta s’intende impostare un
discorso sugli OT e sui processi d’articolazione del senso di cui essi
partecipano, al fine di dare un contributo alla riflessione semiotica –
ma non solo – sugli oggetti.
Ciò nonostante, questa raccolta non contiene ricerche
prettamente semiotiche, ma ricerche che sono state sviluppate in
ambito socio-antropologico. Questo perché il contributo che si
vuole fornire si pone in una posizione intermedia tra le due indicate
inizialmente: data per scontata la relazione tra OT e senso, prima di
elaborare le categorie e i modelli descrittivi adeguati a renderne
conto è necessario individuare i modi attraverso cui gli OT
4
partecipano dell’articolazione del senso. L’attuale esiguità di
ricerche semiotiche sugli OT1, nonché la non amplissima mole di
ricerche sugli oggetti2, ha imposto di rivolgersi ad un ambito
specifico di ricerche socio-antropologiche, quelle che si richiamano,
più o meno direttamente, ai social studies of science and technology
o science and technology studies (STS). A queste ricerche si
riconosce il fatto di aver sviluppato una duratura e approfondita
riflessione sugli OT, che spesso si è interrogata sulla loro
significazione, in alcuni casi convocando esplicitamente la
semiotica. La rilevanza degli OT e della tecnica è tale, che la
riflessione degli STS e di ambiti a loro affini, come i workplace
studies, non solo fornisce indicazioni su come impostare una
semiotica degli OT, ma permette un sostanziale arricchimento della
più generale riflessione semiotica. Come si vedrà, non si tratta,
dunque, di vampirizzare ricerche d’altri, ma di dissodare insieme un
campo di ricerca che si delinea già condiviso.
Questa raccolta si pone, dunque, sotto il segno del dialogo tra
semiotica e altre scienze sociali. Essa, forte della presenza nella
collana in cui appare di testi quali Duranti (a.c. 2001), Goodwin
(2003), Latour (1994)3, attraverso cui si è cercato di rinnovare tale
dialogo, vuole promuoverlo (il volume nel suo complesso),
documentarlo (la prima parte e l’appendice) e rilanciarlo (la
seconda parte).
La raccolta
Questa raccolta non è un’antologia: pur essendo presenti alcuni
articoli che possono essere considerati dei classici degli STS, non
contiene i testi necessariamente più rappresentativi di questo ambito
1
La riflessione sugli OT è emersa in ambito semiotico recentemente come sviluppo delle
ricerche sugli oggetti e sui “nuovi media”. A questo proposito è da segnalare il seminario
Semiotica delle macchine tenuto ad Urbino nell’estate del 2004 sotto la direzione di J-F.
Bordron e A. Zinna. Cfr. anche Zinna (2004b).
2
Tra gli altri cfr. i recenti Deni (2002; a.c. 2002), Floch (1995b; 1995c), Fontanille
(1995; 2004a), Landowski e Marrone (a.c. 2002), Mattozzi (2004a; 2004b), Magli (2002),
Montanari (1999), Pozzato (2001), Semprini (1995; a.c. 1999).
3
Questi ultimi due testi, per tipo di approccio e oggetto di ricerca, non solo precedono
questo volume, ma lo hanno anche reso pensabile e possibile.
5
di ricerca o di altri ad esso affini. I saggi qui presentati, al di là del
loro singolo valore e interesse, sono stati scelti poiché attraverso
essi è possibile impostare uno specifico discorso sulla
significazione degli OT in quanto articolazione del senso ed
affermarne, così, la loro radicale semioticità.
La prima parte – Attanti e reti – è composta da ricerche svolte
nell’ambito dell’actor-network theory (ANT), specifico approccio
agli STS. In queste ricerche si fa direttamente riferimento alla
semiotica al fine di de-scrivere gli OT. L’Appendice è strettamente
connesso a questa prima parte, dato che presenta riflessioni di
carattere più teorico-metodologico sul dialogo tra ANT e semiotica.
La seconda parte – Pratiche e attività –, teoricamente meno
compatta, integra la prima presentando una serie di ricerche che si
focalizzano sulle pratiche d’uso in cui gli OT sono coinvolti. Questi
saggi colmano una lacuna degli STS, e dell’ANT in particolare, che
consiste nel non prendere in considerazione come un dato OT è
effettivamente usato quotidianamente, dato che gli STS
s’interessano prevalentemente alle pratiche d’innovazione che
portano alla costituzione di un OT.
Attanti e reti
Gli STS sono ricerche di carattere socio-antropologico che
cercano di rendere conto non dell’influenza sociale su scienze e
tecniche, ma del loro stesso contenuto, in quanto intrinsecamente
sociale. Studiano cioé le scienze e le tecniche nel loro farsi, grazie
all’osservazione dei processi di produzione scientifica e
tecnologica, anche con l’ausilio di metodi etnografici4. All’origine
di tali ricerche vi è il “programma forte in sociologia della scienza”
(Bloor 1976) che sostiene il “principio di simmetria”. Secondo tale
principio gli stessi tipi di cause devono essere utilizzati per spiegare
teorie o credenze che si affermano in quanto vere o che sono
rigettate in quanto false: se si spiega l’emergere di una teoria che si
rivela falsa tramite fattori sociali, questi dovranno spiegare anche
l’affermazione e la stabilizzazione della teoria contraria, reputata
vera.
4
Per un’introduzione agli STS, cfr. Latour (1987).
6
L’ANT è uno specifico approccio agli STS, che si caratterizza per
una radicalizzazione del “principio di simmetria” (Callon, Latour
1992). Nata tra la Francia e l’Inghilterra nella prima metà degli anni
’80, grazie alla riflessione di sociologi quali Michel Callon, Bruno
Latour e John Law, l’ANT afferma che né la società, né la natura
possono essere posti all’origine o a garanzia della stabilizzazione di
scienze e tecniche, ma che, invece, natura e società emergono in
conseguenza dello stabilizzarsi dei processi scientifici o tecnici, in
virtù di una purificazione successiva. Tale purificazione permette di
distinguere, nel confuso groviglio di relazioni che è alla base
dell’emergenza di un oggetto teorico, tecnico o naturale, ciò che è
attribuibile alla natura e ciò che è attribuibile alla società. La
radicalizzazione del principio di simmetria impone, dunque, di
considerare alla stessa stregua attori o, meglio, attanti del processo
tecnico o scientifico indipendentemente dal fatto che essi siano
umani (sociali) o non-umani (naturali o tecnici) (cfr. Latour
1992b*5).
L’ANT cerca, dunque, non di dare una spiegazione sociale dei
fatti scientifici o tecnici, ma di rendere conto della emergenza,
costituzione e stabilizzazione di oggetti teorici, naturali o tecnici, in
quanto attori reticolari – attori-rete, per l’appunto – formati dalle
relazioni tra elementi eterogenei che li costituiscono6. Per rendere
conto di ciò, l’ANT segue la circolazione degli attanti, elementi che
agiscono partecipando delle relazioni, rilevando come, attraverso
tale circolazione, che avviene spesso attraverso delle trasformazioni
5
Per evitare di ripetere troppo spesso “in questo volume” in riferimento agli articoli di
cui si parla in questa introduzione e che sono presenti nella raccolta, si è preferito sottolineare
il fatto che essi sono presenti nel volume tramite un asterisco posto successivamente alla data
di pubblicazione.
6
Rispetto a ciò che si è detto, l’ANT è soggetta a due tipi di malintesi: a) viene ritenuta
una teoria che si inscrive nel campo del costruttivismo sociale (Nacci 2000, pp. 202-203;
Maldonado 2005, p. 219), in quanto comunque parte degli STS; b) i termini actor-network
vengono ritenuti dicotomici (Maldonado 2005, p. 223) e, in quanto tali, sostituibili con altri
quali individuo/sistema, agency/struttura. Questi fraintendimenti non permettono di cogliere
la carica innovativa, la produttività e la solidità teorico-epistemologica dell’ANT, riducendone
l’interesse, come troppo spesso avviene, ad una serie di salutari provocazioni. L’ANT non può
essere ascritta al costruttivismo sociale, dato che essa non ritiene la società come qualcosa
che si dà a priori. Si tratta di un costruttivismo, ma non sociale – come si vedrà, sarebbe
meglio utilizzare la brutta parola “articolazionismo”. Actor-network è un termine composto
che rende conto del fatto che un attore è sempre il risultato di una rete di relazioni che lo
costituisce (Latour 1999a).
7
– delle traduzioni di questi attanti in altri attanti –, si articoli, grazie
ad un processo di “ingegneria eterogenea” (heterogeneous
engineering) (Law 1987), una rete che permette l’emergere di un
dato attore. Così, ad esempio, Law (ib.) spiega come la rete
commerciale portoghese creatasi nel 1500 sia l’effetto
dell’allineamento di una serie d’elementi che concernono
principalmente un nuovo tipo di vela, l’uso della bussola e nuove
pratiche nautiche che hanno permesso di soggiogare o di
riconfigurare l’allineamento contrario degli elementi naturali (venti,
correnti, ecc.).
L’ANT si è costituita grazie anche ad un intenso dialogo con la
semiotica, portato avanti soprattutto da Latour che, fin dalle sue
prime ricerche, ha direttamente collaborato con semiologi (Bastide,
Latour 1983; 1986; Fabbri, Latour 1977). La relazione tra ANT e
semiotica è così rilevante che si è giunti a definire l’ANT una
“semiotica spietata” (ruthless semiotics) (Law 1999). Latour ha
trasferito la sua esperienza semiotica7 nella riflessione del Centre de
Sociologie de l’Innovation (1992) dell’Ecole des Mines di Parigi e,
con il contributo dell’antropologa Madeleine Akrich, ha sviluppato
una “semiotica delle macchine” (Akrich, Latour 1992*) che
permette di de-scrivere gli OT e non solo il loro processo
d’emergenza. Tale semiotica è documentata dai saggi che
compongono la prima parte.
Con de-scrizione Akrich e Latour intendono il reperimento dello
script di un dato OT. Cioè, l’estrazione di ciò che delinea i possibili
ruoli, azioni e regole d’interazione tra l’OT e ciò che lo circonda. Il
rilevamento dello script permette di rendere conto della
significazione degli OT dato che con essa si intende la
riorganizzazione della “rete di relazioni – relazioni di tutti i tipi
possibili – all’interno della quale noi siamo posti e che ci definisce”
(Akrich 1990*) che un dato OT opera.
Gli articoli qui presentati hanno tutti una forte valenza
metodologica e, nel caso di Latour (1992b*), anche epistemo7
Sorprende che T. Maldonado (2005) non colga la rilevanza che la semiotica ha avuto
per Latour. Maldonado (p. 220) cita Bloor e M. Serres come fonti teoriche e lessicali, senza
menzionare A. J. Greimas. Forse proprio questo misconoscimento è all’origine
dell’idiosincrasia di Maldonado verso lo stile e il linguaggio di Latour e dei malintesi di cui si
è accennato nella nota precedente. Per un’introduzione al pensiero di Latour che tiene conto
dell’influenza della semiotica cfr. Pacciolla (2005).
8
ontologica – questo articolo è stato definito, infatti, un “manifesto
ontologico” (Callon, Latour 1992). Con essi, grazie all’analisi di
specifici OT quali sistemi di produzione e di distribuzione di energia
elettrica in paesi in via di sviluppo (Akrich 1992c*), chiudi-porta a
pistone, cinture di sicurezza, sistemi di regolazione del traffico
(Latour 1992b*), un box di connessione per reti via cavo (Akrich
1990*), si vuol mettere alla prova la semiotica da loro elaborata e,
al contempo, mostrarne le potenzialità, nonché la produttività
teorica. Nell’ultimo articolo di questa prima parte, molto più
recente, Marianne de Laet e Annemarie Mol (2000*), attraverso
l’analisi di una pompa usata nella savana dello Zimbabwe, cercano
di ripensare alcune categorie dell’ANT, come quella fondamentale
d’attore-rete e quella di “ingegnere eterogeneo” (Law 1987; 2002b).
Viene così introdotto il concetto di “oggetto fluido”, modellato
sulla topologia degli spazi fluidi che, differentemente dalle reti e
dalle regioni che le prime delineano (Law 2000; Mol, Law 1994),
non presenta confini stabili e definiti ed è suscettibile di
trasformazioni graduali e locali.
Pratiche e attività
La seconda parte sembra opporsi alla prima da molti punti di
vista: gli articoli non presentano la compattezza teorica della prima
parte, anche se quasi tutti sono riferibili, più o meno direttamente,
agli STS; molti tra essi tendono ad essere critici nei confronti
dell’ANT; nessuno fa esplicito ricorso alla semiotica; assumono tutti
uno specifico punto di vista: quello degli operatori che partecipano
delle pratiche quotidiane di gestione e di manutenzione degli OT e
non quello degli innovatori, privilegiato dall’ANT. Tutti questi
articoli, però, si confrontano, in modo più o meno esplicito, con la
questione della significazione degli OT. Tale questione è affrontata
proprio a partire dal punto di vista privilegiato da questi articoli:
quello degli operatori. In questo modo essi integrano le ricerche
dell’ANT e la prima parte.
I recenti sviluppi della semiotica degli oggetti hanno teso a
mettere in luce che la significazione di un OT si realizza, così come
per gli utensili (Leroi-Gourhan 1964a, p. 278), “solo (all’interno del
loro) ciclo operazionale” e hanno sempre più orientato la ricerca
verso lo studio delle pratiche in cui si dispiega il “ciclo
9
operazionale” per meglio rendere conto della significazione degli
OT: si sono così cominciati ad elaborare modelli di analisi che
considerano la gestualità presupposta (Deni 2002), la prasseologia
(Zinna 2004a; 2004b), fino a proporre di considerare per, l’appunto,
l’attività effettiva (Mattozzi 2004a; 2004c), senza giungere ancora,
però, a definire un modello d’analisi adeguato a descrivere una serie
di fenomeni che rilevano di una semiotica delle pratiche, questione
su cui la riflessione semiotica è stata ripresa in modo sistematico
solo di recente8. Questa seconda parte si presenta, dunque, anche
come un contributo specifico a questa riflessione.
In apertura di questa seconda parte si è scelto di porre in
apertura l’articolo di Steve Woolgar (1997*) che funge da cerniera
tra le due parti: più simile agli articoli della prima parte, scritto
originariamente all’inizio degli anni ’90 (Woolgar 1991b), esso si
pone all’interno della tradizione degli STS, adotta una metodologia
esplicitamente testualista, molto vicina alla semiotica, e assume
ancora il punto di vista degli innovatori, anche se direttamente
rivolto agli utenti. La prospettiva è simile a quella dell’analisi del
box di connessione di Akrich (1990*), ma l’analisi di Woolgar si
focalizza sulle pratiche attraverso cui un dato utente è inscritto –
configurato – in un OT e non tanto su come tale inscrizione risulta
dalla documentazione del progetto e dal box realizzato, come fa
invece Akrich. Pur condividendo con l’ANT un’impostazione
antiessenzialista, il punto di vista di Woolgar, riflessivo e
fondamentalmente scettico – “macchina in quanto testo” è, non a
caso, considerata solo una metafora –, lo porta a criticare l’ANT, che
reintrodurrebbe delle forme di determinismo (Grint, Woolgar
1997).
Christian Heath e Jon Hindmarsh, sono tra i principali
rappresentanti dei workplace studies (Heath, Button, a.c. 2002;
Heath, Luff 2000; Heath, Luff e Hindmarsh, a.c. 2000)9.
Quest’ambito di ricerche, costituitosi nel corso degli anni ’90
(Borziex, Conein, a.c. 1994; Engestrom, Middleton, a.c. 1996), si
8
Cfr. l’introduzione in Basso (2002), Fabbri (2005), Fontanille (2004b), Mangano
(2005). Quest’ultimo è il resoconto del recente convegno dal titolo Semiotica delle pratiche
tenutosi nella primavera del 2005 presso il Centro Internazionale di Studi Semiotici e
Cognitivi dell’Università di San Marino sotto la direzione di Zinna.
9
Per un’introduzione in italiano cfr. Parolin, Rotta (2003), per un’introduzione
focalizzata sulle ricerche di carattere etnometodologico cfr. Fele (2002).
10
interessa di rendere conto delle pratiche lavorative in quanto
mediate da OT. Tali ricerche cercano così di colmare le lacune degli
STS riguardo gli operatori, nonché quelle della sociologia del lavoro
che si interessa prevalentemente di relazioni tra umani, senza
rivolgersi allo studio delle attività di lavoro effettive di cui
partecipano anche gli OT (Heath, Button 2002, p. 161). I workplace
studies sono il risultato della convergenza tra le ricerche degli STS,
e dell’ANT in particolare, e quegli approcci che, rifacendosi al
“paradigma dell’azione situata” (Suchman 1987, cfr. infra),
criticano l’ergonomia cognitiva. Vari approcci hanno contribuito
allo sviluppo di queste ricerche: activity theory (Engeström 2000),
etnometodologia,
interazionismo
simbolico,
“ergonomia
dell’attività” (cfr. infra), in particolare l’approccio cours d’action
(Theureau 2003; Theaureau, Filippi 2000)10. L’articolo di Heath e
Hindmarsh (2000*) attraverso un’analisi etnometodologica che si
focalizza sugli scambi verbali e sui dettagli dell’interazione con
schermi e pannelli in un sala di controllo, con dei computer e con
sistemi per la collaborazione a distanza, cerca di mettere in luce
come un OT features in nell’interazione, cioè come esso emerga
dall’interazione stessa per poi caratterizzarla, assumendo così
visibilità e rilevanza.
La riflessione di Nicolas Dodier (1995b*) sull’attività tecnica si
pone all’interno di una più ampia ricerca (Dodier 1995a) sui limiti
della solidarietà che si realizza all’interno di una rete tecnica, sulla
sua moralità e sulla violenza messa in atto da tale rete nei confronti
degli operatori. Pur assumendo una prospettiva ANT, Dodier critica
questa teoria: l’ANT considera solo il punto di vista degli innovatori
e non degli operatori, si preoccupa quindi solo di tracciare il
dispiegamento della rete senza preoccuparsi delle conseguenze di
esso, non distinguendo tra forza del dispiegamento e delle sue
associazioni e violenza11. Grazie ad un’etnografia del lavoro ad una
catena di montaggio, Dodier mostra quali siano i vari aspetti che
caratterizzano l’attività tecnica, attraverso cui gli operatori devono
10
Per rassegna critica di queste ricerche da un punto di vista ANT, cfr. Berg (1998).
Questa critica oggi non è più così pertinente come quando fu formulata. Infatti, l’ANT e
in particolare Latour hanno iniziato ad occuparsi in modo sistematico della “moralità delle
articolazioni” (Latour 2000; Berg 1998) e della necessità di considerare la “normatività”
(Latour 2004), integrando così l’impostazione di Latour (1992b*).
11
11
regolare i rapporti tra vari elementi della rete e garantirne così la
stabilità, messa continuamente in crisi dalle caratteristiche
intrinseche degli OT.
L’articolo di Naoki Ueno (2000*), come quello di Heath e
Hindmarsh s’inscrive all’interno dei workplace studies e presenta
un’impostazione etnometodologica, integrata però dal contributo di
Latour (1990) sulle inscrizioni e da quello di Charles Goodwin
(2003) sulla visibilità. Quest’ultima, in relazione alla produzione al
tornio di microcomponenti è, in effetti, il tema dell’articolo. Ueno
mostra come la visibilità di prodotti e produzione emerga grazie
alle relazioni tra operatori, OT e documenti contenenti una serie
d’inscrizioni che mediano l’interazione tra diversi settori
dell’azienda.
L’articolo di Christophe Dejours (1993*) è l’unico che non ha
alcuna relazione con gli STS. Dejours, psicanalista e psichiatra,
nonché “ergonomo dell’attività” (cfr. infra) ha sviluppato la
“psicodinamica del lavoro”, approccio che, attraverso sedute
collettive di racconto dell’esperienza lavorativa, si propone di
comprenderne il vissuto, mettendo in luce sia gli aspetti relativi alla
sofferenza che alla gioia. Di chiara ispirazione fenomenologica,
quest’approccio ha posto particolare attenzione al corpo e alle
mediazioni da esso operate nel corso dell’interazione con OT.
Nell’articolo qui presentato, attraverso l’analisi di racconti
d’esperienze di lavoro nell’industria di processo, si mette proprio in
luce il contributo del corpo allo sviluppo dell’intelligenza pratica.
Criteri di selezione
Come si è accennato, gli articoli sono stati scelti non solo per
mostrare ma, soprattutto, per impostare, con e attraverso essi, un
discorso sugli OT e la loro significazione. Se, dunque, alcuni criteri
grazie ai quali si è operata questa scelta sono probabilmente già
evidenti, altri emergeranno solo nel corso dell’introduzione.
La scelta dei saggi della prima parte è stata quasi obbligata dato
che quelli qui presentati sono gli articoli più rilevanti per quanto
riguarda il dialogo tra ANT e semiotica al fine di de-scrivere gli OT e
di rendere così conto della loro significazione. Solo l’ultimo
articolo, quello di De Laet e Mol è stato selezionato considerando
anche altri criteri. Si voleva, infatti mostrare, attraverso un articolo
12
più recente, come si era evoluta la riflessione dell’ANT e come,
all’interno di essa, si era modificata la presenza della semiotica.
La seconda parte ha richiesto un processo di selezione più
articolato. Al di là della scelta di fondo, già menzionata, relativa al
voler integrare la riflessione dell’ANT con analisi di pratiche
quotidiane di gestione degli OT, si è ritenuto utile inserire articoli
che, rispetto alla prima parte, presentassero una più ampia gamma
di punti di vista, sia di carattere metodologico che rispetto agli OT
presi in considerazione. Questa scelta è stata guidata dall’idea di
mostrare l’ampia diffusione dell’interesse, più o meno diretto, più o
meno esplicito, verso le questioni relative alla significazione.
Proprio per far conoscere un ventaglio più ampio di prospettive si
sono esclusi articoli già tradotti in italiano (Goodwin 2003).
L’interesse verso le pratiche ha portato a privilegiare quegli articoli
che si focalizzavano effettivamente su di esse, così da escludere
tutti quei contributi che danno prevalentemente rilevanza a
interazioni verbali o a racconti a posteriori delle pratiche, come ad
esempio Orr (1996) o Theureau (2000; 2003), in cui pure si fa
esplicitamente uso della semiotica. Unica eccezione a questo
criterio è rappresentata dall’articolo di Dejours, che però, molto più
di altri, e in qualche modo astraendosi dai racconti verbali, riesce a
mettere in luce il ruolo del corpo e della dimensione sensibile
nell’interazione con OT. Per ragioni che si comprenderanno nel
corso dell’introduzione si è poi scelto di privilegiare le rare analisi
di OT tradizionali, non informatici o informatizzati.
Questa è la raccolta. Nel resto dell’introduzione delineo quello
che è il discorso sulla significazione degli OT che questa raccolta
tenta di impostare.
Dato che uno dei suoi obiettivi è quello di promuovere il dialogo
tra semiotica e altre scienze sociali, ciò che segue si rivolge sia a
semiologi che ad antropologi e sociologi. Spero, dunque, che mi
vengano perdonate delle specificazioni che possono apparire
pedanti. Mi auguro, inoltre, di non alienarmi l’interesse di alcuno
ma, al contrario, di mostrare che le aporie, i problemi, le empasse di
ciascun ambito possono essere, se non risolte, per lo meno meglio
articolate pensandole attraverso l’altro.
13
Oggetti tecnici e significazione
Nel corso del ‘900, la tecnica è stata spesso messa in relazione al
“pensiero” (Nacci 2000), sia per evidenziare il circolo virtuoso che
in questa relazione si crea, sia per metterne in luce il circolo
vizioso. Nel primo caso il “pensiero” è inteso come “cognizione” e
ci si trova, dunque, in presenza di un potenziamento delle facoltà
cognitive – le tecniche come “artefatti cognitivi”. Nel secondo caso
il “pensiero” è inteso come “senso” e ci si trova, dunque, in
presenza di un “perdita di senso”, come emerge dalla riflessione
sulla tecnica svoltasi durante la prima metà del ‘900 (ib.). Più
raramente, invece, si è associato in modo altrettanto sistematico
tecnica, e più nello specifico, OT e significazione. Se escludiamo la
rilevante eccezione di Simondon (1958, pp. 136-147) e la
riflessione sulla significazione degli oggetti sviluppatasi in ambito
semiotico – che, però, non ha quasi mai preso in considerazione
effettivi OT –, tale questione è divenuta d’interesse delle scienze
sociali e umane solo di recente12.
In sintesi, si possono individuare tre orientamenti alla
significazione degli OT13. Essa può essere considerata:
inerente agli OT – già “nelle cose”; il significato può essere
colto senza la necessità di un’interpretazione, né di alcuna
mediazione;
trascendente14 gli OT e le pratiche di cui essi partecipano; in
questo caso il significato è attribuito, reso, assegnato,
conferito a OT e pratiche tramite un’interpretazione che
12
A metà degli anni ’90 doveva essere pubblicato un volume collettaneo dal titolo
Material Discorse: Essays on the Meaning of Human Artifacts, a cura di R. Frost e B.
Pfaffenberger, con un fine simile a quello della presente raccolta; tale volume non ha mai
visto la luce. Recentemente, in ambito ergonomico cognitivo, tendenzialmente restio a
considerare questioni relative alla significazione (cfr. infra), si è iniziato ad interrogarsi su
questo tema (cfr. Mattozzi 2005): il primo capitolo di Norman (2005) è indicativamente
intitolato Il significato delle cose.
13
Questi tre orientamenti sono rinvenibili nella più generale riflessione sulla
significazione, anche se qui ce ne interesseremo prevalentemente in relazione agli OT.
14
Onde evitare malintesi filosofici specifico che uso qui “trascendente” nel senso di “che
va oltre, al di sopra di qualcosa in quanto assunto come termine di riferimento”
(www.demauroparavia.it). OT e pratiche sono assunti come termini di riferimento.
14
prevede una mediazione, operata da un soggetto e/o altre
istanze (mente, cultura, comunità di pratiche, ecc.);
immanente agli OT alle pratiche di cui essi partecipano; in
questo caso il significato emerge dal processo di
articolazione delle relazioni, che si dispiega attraverso
successive mediazioni, tra OT e le entità che lo circondano;
l’interpretazione non è che una di queste mediazioni; il
senso, dunque, si15 articola.
Questi tre orientamenti sono ovviamente il frutto di
un’astrazione, dato che nelle riflessioni e nelle analisi riguardo gli
OT essi si trovano spesso sovrapposti e combinati. Distinguerli
permette di compararli e di poterne sondare più accuratamente
l’adeguatezza.
Indipendentemente dalle loro origini e dall’ambito d’adozione e
d’applicazione, ciascuno di questi orientamenti, nonché la generale
riflessione sulla significazione, risultano essere più o meno
direttamente in contrasto con l’ergonomia classica, definita anche
come “ergonomia del compito” (cfr. infra). L’ergonomia è, in
effetti, l’ambito di ricerca che si è occupato in modo più sistematico
di OT e delle pratiche di cui essi partecipano. È dunque
comprensibile che delle ricerche che si focalizzano sullo stesso, o
su simile, oggetto di studio si pongano più o meno esplicitamente in
contrasto con l’ergonomia, soprattutto nel caso in cui mettono in
luce aspetti, quali la significazione, da essa non affrontati.
Questa è, d’altra parte, la critica che, dall’interno della stessa
ergonomia, muove John J. Flach (2000), rappresentante del primo
orientamento. Così come altri autori che ad esso fanno
riferimento16, Flach muove la sua critica a partire dalla psicologia
ecologica di James J. Gibson, per affermare, contro una versione
verbocentrica della significazione in cui è necessaria
l’interpretazione, che il significato è il materiale grezzo disponibile
ad essere colto da un sistema di processamento delle informazioni.
Questo primo orientamento, qui definito “inerente”, si distingue
dagli altri due per il fatto di non dare rilevanza alla mediazione in
15
E’ necessario assumere questo “si” in modo radicale, come “mormorio anonimo”
(Deleuze 1986, p. 78).
16
Conein (1997), Conein, Jacopin (1994), Kirsh (1999), T. Ingold (proprio su questo
punto cfr. Grasseni, Ronzon 2004, p. 84).
15
quanto istanza necessaria alla significazione. Sia che si consideri il
ruolo dell’interpretante nel costituire il segno e del segno nel
costituire la significazione, sia che si consideri una relazione tra
forme, quella dell’espressione e quella del contenuto, a base della
semiosi, sia che si consideri il ruolo dell’enunciazione
nell’attualizzare la significazione, è noto che la semiotica è la
disciplina che studia tutto ciò che può essere usato per mediare.
Dunque, al fine di impostare un discorso sulla significazione degli
OT da un punto di vista semiotico, ritengo più opportuno e
produttivo prendere in considerazione solo i secondi due
orientamenti17, quello trascendente e quello immanente, che
considerano la mediazione.
Per meglio comprendere la rilevanza e la specificità
dell’orientamento trascendente e di quello immanente, che si
basano proprio sulla presa in considerazione della mediazione, è
utile operare un confronto con l’ergonomia, che invece elude tale
questione.
Il discorso dell’ergonomia
L’ergonomia, scienza interdisciplinare che mira “ad adattare le
condizioni di lavoro alla natura fisio-psicologica dell’uomo”
(Grandjean 1969, p. 17) articola il suo discorso, per lo meno nella
sua versione classica, intorno ad alcune dicotomie18.
La prima, che ne individua l’ambito di ricerca, è quella
“uomo/macchina”, declinazione in termini ergonomici delle
dicotomie “soggetto/oggetto” o “soggetto/mondo”. Essa è alla base
della seconda: user- o human-centered/machine centered. Tale
dicotomia individua l’obiettivo che l’ergonomia si pone: progettare
macchine che si adattino all’uomo. La terza dicotomia è quella
“mente/corpo”, che emerge fin dalla definizione citata più sopra, in
cui si fa riferimento alla natura “fisio/psicologica” dell’uomo. Pur
non essendo una dicotomia specifica del discorso dell’ergonomia,
costituendo, per lo meno da Cartesio, uno dei fondamenti del
17
Li ritengo semioticamente più adeguati. Si consideri anche che delle questioni
sollevate dal primo orientamento se ne può rendere conto nei termini di rilevanza e salienza,
che pertengono ai processi di significazione, ma che non li esauriscono.
18
Grazie ad un processo d’ontologizzazione, tali dicotomie sono spesso considerate degli
stati del mondo e non delle semplici categorie analitiche. In quanto tali sono assunte in modo
rigido, venendo a costituire dei veri e propri dualismi.
16
pensiero occidentale, essa viene declinata in modo specifico in
questo ambito. Ciò emerge se si prendono in considerazione le
origini che gli stessi ergonomi individuano per la disciplina19: da un
lato i primi studi di medicina del lavoro di Bernardo Ramazzini,
dall’altro l’”organizzazione scientifica del lavoro” propugnata da
Frederick Taylor. Ramazzini anticipa di quasi un secolo (Carnevale,
Moriani 1986) lo sguardo clinico (Foucault 1963) che tende ad
oggettivare il corpo, mentre Taylor imposta tutto il suo discorso
sulla dicotomia “concezione/esecuzione”. Per Taylor l’attività
d’interazione con OT rileva della sola esecuzione o, meglio,
l’“organizzazione scientifica del lavoro” vuole ridurre tale attività a
pura esecuzione, dispensando gli operatori dalla necessità di usare il
loro sapere, preso in carico e gestito dagli ingegneri che si
occupano della concezione. La dicotomia “concezione/esecuzione”
è stata poi trasposta in quella più ergonomica di “compito/attività”:
“compito”, ciò che, concepito dagli ingeneri, è prescritto
all’operatore; “attività”, ciò che l’operatore effettivamente fa,
l’esecuzione del compito. A partire da queste origini, l’ergonomia si
è costituita come scienza del corpo (fisiologico) al lavoro, da cui la
metafora dell’”uomo motore”. Solo negli ultimi 30-40 anni, in
relazione al diffondersi di “tecnologie cognitive” si è sviluppata
un’“ergonomia della mente”, cognitiva. Questa estensione
dell’ambito di ricerca dell’ergonomia non ha intaccato la dicotomia
mente/corpo, ma la ha sancita (Cypher 1986: 243): alla metafora
dell’“uomo-motore” si è affiancata quella dell’“uomo-elaboratore”
(Theureau 2003).
Un’ergonomia così dualisticamente impostata, nel momento in
cui si pone il problema di mettere in contatto un umano e una
macchina, considerati assoluti e scissi, si trova nella paradossale (e
un po’ metafisica) posizione di far comunicare due monadi. Il
compito dell’ergonomia non può allora che realizzarsi nella forma
d’adeguazione immediata, dal momento che non è possibile
convocare alcuna istanza di mediazione, non prevista dalla teoria.
Come spiega Donald Norman (1988), tale adeguazione è
assicurata da mapping e affordance, cioè da configurazioni presenti
negli oggetti che rispecchiano e riproducono configurazioni
19
Origini in parte mitiche visto che ufficialmente l’ergonomia è nata nel 1949.
17
cognitive. Il mapping riguarda analogie “tra i comandi, il loro
azionamento e i risultati che ne derivano nel mondo esterno” così
da consentire “una comprensione immediata” (p. 32, corsivo mio);
le affordance, categoria derivante dalla psicologia gibsoniana, che
indica quelli che sono gli “inviti all’uso” forniti dagli oggetti,
presuppongono anch’esse l’immediatezza.
Quest’impostazione fondata sull’immediatezza20 la si ritrova
anche nella concezione che l’ergonomia ha dell’attività. Nel
momento in cui un compito è ben progettato – cosa garantita dalla
task analysis (analisi dei compiti) – l’attività vi si adegua
immediatamente: il compito si realizza non problematicamente
nell’attività. Soggiacente a questa concezione dell’attività vi è la
“teoria dell’azione programmata” desunta dalle scienze cognitive ed
assunta all’interno dell’ergonomia. Secondo questa teoria l’azione è
innanzitutto pianificata mentalmente e la sua realizzazione non è
che la messa in atto di ciò che è stato pianificato: l’utente, dunque,
dopo aver capito il funzionamento della macchina o gli ordini
impartiti, si forma delle intenzioni ed è capace di trasporre queste
“intenzioni in una sequenza d’azioni” (Bagnara, Broadbent 1993).
Questo disconoscimento della mediazione rende inutile
qualunque problematizzazione della significazione: nel momento in
cui si realizza un’adeguazione immediata non si pongono problemi
d’articolazione e/o interpretazione.
Crisi del discorso dell’ergonomia – Mediazioni e significazione
Nel corso degli ultimi vent’anni, questo tipo d’impostazione
dell’ergonomia è stato messo fortemente in crisi da una serie di
approcci e proposte, interni ed esterni all’ergonomia, che hanno
cercato di dare rilevanza alle istanze di mediazione che
intervengono tra umano e macchina, tra compito e attività e tra
pianificazione e esecuzione dell’azione. O meglio, alle istanze di
mediazione che emergono nel corso dell’azione e che ne rendono
possibile il dispiegamento. In ambito francofono si è sviluppata
l’”ergonomia dell’attività” – contrapposta a quella classica, definita
20
Per una critica più approfondita, cfr. Mattozzi (2003; 2004c). Nei saggi presenti in
Norman, Draper (a.c. 1986) quest’impostazione è molto più sfumata, ma si perde nei testi di
Norman successivi, di carattere più divulgativo. Indirettamente, tale questione è affrontata da
un punto di vista filosofico in De Carolis (2004).
18
“del compito” (Montmollin 1996; Dejours 1995). Essa s’interessa
più delle strategie messe effettivamente in atto dagli attori, che
dell’adeguazione di prescrizioni (Dejours 1995; cfr. Dejours
1993*). Secondo quest’approccio l’attività è irriducibile al compito
e non può essere considerata la sua semplice esecuzione, dato che il
compito è riconcepito dall’attività e, dunque, è semmai quest’ultima
che si realizza nel compito (Clot 1996, p. 276; cfr. Dodier 1995b*).
In ambito anglosassone, invece, come diretta critica della teoria
dell’azione programmata si è sviluppato il “paradigma dell’azione
situata” (Mantovani 2000; Grasseni, Ronzon 2004, pp. 61, 151179), inaugurato dall’etnometodologa Lucy Suchman (1987). Per
Suchman – riferimento per molti degli articoli presenti in questa
raccolta – l’azione non è prima programmata, mentalmente e,
quindi, messa in atto, ma sempre situata e distribuita, cioè
organizzata contingentemente in relazione agli elementi che essa
trova e può concatenare nel corso del suo dispiegamento; la
pianificazione non è che uno di questi elementi, una risorsa tra le
altre, che può essere utilizzata per organizzare l’azione e per
valutarne gli effetti, ma che non può in alcun modo determinarla.
Entrambe queste critiche operano uno spostamento
dell’attenzione dai termini delle dicotomie alle relazioni che le
costituiscono, rendendo possibile una valorizzazione della
mediazione. Ciò ha portato ad un radicale ripensamento
dell’ergonomia e del suo discorso. L’antropologo cognitivo Ed
Hutchins (1995), in base ai dati raccolti durante la sue etnografia di
pratiche di navigazione, ha fatto notare che nel momento in cui si
considera la cognizione, così come l’azione, situata e distribuita, va
in crisi la rigida dicotomia soggetto/oggetto e, in particolare, una
rigida divisone tra mente e mondo esterno – dunque, anche quella
tra uomo e macchina – con la conseguenza che l’unità d’analisi
dell’ergonomia non può non comprendere l’ambiente sociomateriale, in cui sono già presenti elementi che possono assurgere a
istanze di mediazione21. A questo proposito, Theuraeu (2003)
21
La situazione presupposta dall’ergonomia del compito e realizzata nella sua pratica
sperimentale – umano vs macchina – è chiaramente irreale (cfr. Woolgar 1997*): le
interazioni con qualunque OT, per quanto nuovo, sono sempre mediate dalle relazioni che
costituiscono la situazione in cui l’OT è inserito, cfr. Latour (1996c), Bruni (2005). Ueno
(2000*), attraverso il concetto di “ecologia” vuole proprio mettere in luce questo aspetto.
19
ritiene che non si possa più parlare di user-centered design ma solo
di practice-centered design. Hubault (1999, p. 30) a partire dalle
riflessioni dell’“ergonomia dell’attività” rifiuta la dicotomia
concezione/esecuzione, ritenendo che l’attività tecnica comporti
sempre una parte di concezione e, dunque, dell’interpretazione,
giungendo alla conclusione che per “l’ergonomia il lavoro è …
innanzitutto una questione di senso”: tutte le attività richiedono la
mobilitazione dell’intelligenza a partire dal corpo, attraverso le cui
sensazioni e percezioni si ha accesso al senso (Dejours, 1993*).
Come si può rilevare, a seguito della valorizzazione della
mediazione emerge la questione della significazione (Mantovani
2000): come afferma il decano degli ergonomi francesi Maurice de
Montmollin (1996, p. 15, trad. mia) l’attività tecnica “acquista il
suo senso, in tutte le accezioni di questo termine” solo nel momento
in cui è considerata come processo, anche sociale.
L’ANT ha particolarmente approfondito, in modo autonomo ma
non estraneo al dibattito che ha coinvolto l’ergonomia, la questione
della mediazione. “Mediazione” è, infatti, una categoria
fondamentale dell’ANT. Grazie ad essa si cerca di rendere conto di
singolarità, eventi o attanti, che con il loro emergere riarticolano le
relazioni da cui queste stesse singolarità emergono. In particolare
Antoine Hennion (1993) fa notare che con mediazione non si deve
intendere un’istanza che connette due istanze che le preesistono, ma
due istanze che vengono costituite da una terza, che “media”, a
partire da uno sfondo di sole relazioni. Un esempio di ciò è fornito
dal primo articolo di Akrich (1992c*) in cui si mostra come un
gruppo elettrogeno, per il tipo di relazioni che articola grazie alla
sua specifica configurazione, sia in grado di far emergere un
“ambito civico” e uno “commerciale” all’interno dei villaggi
senegalesi: il gruppo elettrogeno opera, dunque, una mediazione
tecnica e, pertanto, una mediazione sociale (Akrich 1993a). Per
caratterizzare meglio cosa si deve intendere per mediazione Latour
(1999b) distingue tra “mediazione” e “intermediazione”. Solo nel
primo caso l’attante o l’evento emergente eccede le cause che lo
hanno generato, cosa che lo mette nella condizione di riarticolare le
relazioni di cui è parte; nel caso dell’intermediazione non si verifica
nessun eccesso e si instaura una relazione semplice così come
determinata dalle sue cause. La possibilità d’intermediazione
20
solitamente si dà quando una serie di relazioni vengono
oggettificate, debrayate, e vincolate in una “scatola nera”, cioè in un
dispositivo chiuso e funzionante che non pone problemi e non viene
più messo in questione – ad esempio un chiudi-porta a pistone,
della cui presenza non ce ne si rende conto se non quando si rompe
(Latour 1992b*). Tali relazioni tendono così a “rarefarsi” (Akrich
1993a), a diventare trasparenti, invisibili, dando anche
l’impressione d’immediatezza. Sia Latour che Hennion mettono in
luce la coincidenza tra il concetto di mediazione e quello semiolinguistico di enunciazione, pienamente assunto all’interno della
riflessione di Latour (1988a; 1999c).
La significazione degli oggetti tecnici
Le discipline e gli approcci precedentemente descritti al fine di
cogliere e rendere conto della significazione degli OT hanno
adottato uno dei due orientamenti che considerano la mediazione –
“trascendente” o “immanente” –, o una combinazione tra i due,
senza, peraltro, necessariamente escludere l’orientamento
“inerente”22.
Quello “trascendente” è l’orientamento più frequentemente
assunto per rendere conto della significazione, in generale, non solo
in relazione agli OT. Esso è adottato dall’“ergonomia dell’attività”
e, quindi, in questa raccolta da Dejours (1993*) che a
quest’approccio si riferisce. Per Dejours il significato è attribuito,
più che all’OT, all’esperienza che gli operatori ne fanno; di esso se
ne può rendere conto attraverso il racconto del vissuto degli
operatori. Esso è adottato anche da altri approcci d’impostazione
psicologica (activity theory (Engeström 2000), psicologia culturale
proposta in Mantovani (2000, pp. 169-172), Norman (2005)). Ad
esso si fa ampiamente riferimento anche all’interno di ambiti
lontani dalla psicologia, quali gli studi di cultura materiale
(Mannoni, Giannichedda 1996, p. 20; Manquet 2003) o la
sociologia e, in particolare, l’interazionismo simbolico. Proprio a
partire da quest’ultimo ambito di ricerche sociologiche è stato
elaborato, da Susan L. Star e James R. Griesemer (1989), il
22
La combinazione più diffusa è probabilmente quella tra orientamento inerente e
orientamento trascendente che, reiterando tradizionali dualismi, pone in relazione la
significazione con qualità primarie e secondarie.
21
concetto di boundary object: esso è un oggetto posto sul confine tra
diverse culture o comunità di pratiche che viene interpretato in
modo differente da ciascuna di esse e che permette a tali comunità
di comunicare. Tale concetto è discusso sia in Ueno (2000*), che in
de Laet e Mol (2000*). Per Ueno, ad esempio, il “piano di
produzione” su cui si basano le azioni del management e degli
operai è considerabile un boundary object che permette a diversi
reparti della fabbrica da lui analizzata di comunicare23.
Più complessa, e più esplicita, è la riflessione sulla
significazione degli OT di Simondon (1958, pp. 136-147), che si
pone in una posizione intermedia tra un orientamento immanente e
uno trascendente: a partire da un ripensamento della teoria
dell’informazione, Simondon ritiene l’umano, e più in generale il
vivente, un mediatore, un trasduttore che, per quanto riguarda gli
OT, coglie l’informazione che emerge dalle forme degli OT stessi in
quanto significazione; in questo modo riesce a regolare tra loro gli
OT, che invece interagiscono solo sulla base di forme. Dodier
(1995b*), che si rifà esplicitamente a Simondon per molte delle
categorie che usa, sembra adottarne anche la prospettiva sulla
significazione.
Gli altri approcci citati e quelli a cui si rifanno gli altri articoli
presenti in questa raccolta tendono tutti a privilegiare un
orientamento immanente. Tale orientamento è sostenuto dall’ANT in
modo molto esplicito e coerente. Per l’ANT la significazione si
articola congiuntamente all’articolarsi delle reti di relazioni che
costituiscono il mondo o, meglio, il “collettivo” (Latour 1999b;
1999d), inteso come l’insieme delle associazioni tra attanti umani e
non umani (1999b, p. 304). A partire da queste considerazioni che
Akrich (1990*) può dichiarare che la significazione di un OT
dipende da come esso “riorganizza differentemente la rete di
relazioni – di tutti i tipi possibili – all’interno della quale noi siamo
posti e che ci definisce”; Akrich specifica che la significazione
emerge dalla messa in relazione tra OT e utenti, intesa, in ambito
ANT, come traduzione tra istanze. Akrich e Latour (1992*)
ascrivono quest’impostazione alla semiotica che essi considerano lo
23
Come si vedrà, sia Ueno che soprattutto de Laet e Mol, assumendo un’orientamento
“immanente”, tendono a riformulare e criticare il concetto di boundary object, troppo
connesso ad un concetto trascendente di interpretazione.
22
studio di come il senso è costruito – oggi Latour direbbe
“articolato” (1999b; 1999d; 2004) – specificando che “la parola
“senso” è assunta nella sua accezione originaria”, come traiettoria.
Per l’ANT, dunque, il senso si articola attraverso la successione di
diverse traduzioni tra attori-rete che tracciano, così, una traiettoria.
La posizione dell’etnometodologia, a cui si rifanno sia Heath e
Hindmarsh (2000*), che Ueno (2000*), non è altrettanto
chiaramente ascrivibile ad un orientamento immanente. Gli
etnometodologi, infatti, tendono, da un lato, a non adottare una
radicale simmetria tra attanti umani e non-umani (Suchman 2001),
cosa che può portare a conferire ad un umano un ruolo
trascendente, e, soprattutto, dall’altro, non esplicitano una “teoria
del senso per spiegare la comprensione” (Fele 2002, p. 134),
limitandosi a constatare che vi è del senso e che questo viene
articolato. Nonostante quest’atteggiamento restio a teorizzare la
significazione, si può affermare che l’etnometodologia adotta, più o
meno implicitamente, un orientamento immanente. Gli
etnometodologi assumono come oggetto d’analisi l’organizzazione
del “campo fenomenico” costituito dagli oggetti e dalle azioni.
L’intelligibilità di questo dipende dal concatenarsi di pratiche
osservabili, cioé dal modo in cui partecipanti all’interazione
“riflessivamente e continuativamente, costituiscono il senso e
l’intelligibilità della “scena” a partire dall’interno delle attività in
cui sono coinvolti” (Heath, Luff 2000, p. 19, trad. mia).
L’etnometodologia, dunque, prendendo in considerazione
l’allineamento di relazioni tra “dettagli che si costituiscono
reciprocamente attraverso cui azioni, oggetti, artefatti … acquistano
il loro valore (significance)” e considerando che “i significati non
ineriscono ad elementi o proprietà individuali, né ad una struttura
sottostante posta dietro le apparenze, ma solo alle relazioni di
“referenza reciproca” dispiegate in un campo di fenomeni
osservabili” (Suchman 2000, p. 6, trad. mia), s’inscrive chiaramente
all’interno di un orientamento immanente. Esso, però, non esclude
l’esistenza di pratiche interpretative fondate su “attività segniche”
che operano un tipo di mediazione qui definita trascendente. Tali
pratiche sono ritenute solo il prodotto “a freddo”, retrospettivo, di
una pratica che si è svolta “a caldo”, effettivamente analizzata. In
Heath e Hindmarsh (2000*), può capitare di accennare ad
23
un’istanza trascendente – un soggetto – che interpreta, ma ciò che
interessa gli autori è capire come un OT features in nel corso
dell’interazione, cioè ne emerge e, una volta emerso, la caratterizza.
Questo processo, delineato dall’espressione feature in è una
mediazione molto simile a quelle considerate dall’ANT24.
Oggetti tecnici, significazione, semiotica
Come può la semiotica inserirsi in questo dibattito e dialogare
sulla significazione degli OT con i vari approcci presentati? Con
quale ruolo? Diversamente dai vari approcci, teorie e ricerche citate
che solo raramente, e sempre in modo circoscritto, riflettono
esplicitamente sui temi di cui ci si sta occupando, la semiotica è la
disciplina che studia processi e sistemi di significazione. E’ dunque
nella posizione di approfondire le varie questioni sollevate per
cercare di comprendere quale sia l’orientamento, o la combinazione
di orientamenti, più adeguato a rendere conto della significazione
degli OT.
Semiotica e orientamento immanente
La semiotica, però, come altri approcci, tentenna tra un
orientamento trascendente e uno immanente.
Questo tentennamento persiste nonostante il fatto che il linguista
danese Louis Hjelmslev (1943), sistematizzando la riflessione
semiotica a lui precedente, abbia chiaramente privilegiato un
orientamento immanente alla significazione. Hjelmslev definisce
infatti quest’ultima come una relazione tra forme, quella del piano
dell’espressione e quella del piano del contenuto. Per Hjelmslev,
dunque, che non propone alcun investimento ontologico dei due
piani del linguaggio – non vi è “nessuna giustificazione per
chiamare l’un(o) piuttosto che l’altr(o) … espressione o contenuto”
(p. 65) – ma si limita ad una definizione funzionale – cioè
relazionale (cfr. n. 34) –, la significazione non è altro che il risultato
24
In Heath, Luff (2000) si sottolinea che gli OT non operano una mediazione, ma che
essi, per l’appunto, feature in. Cioè, nei termini dell’ANT, essi non operano
un’intermediazione, presa in considerazione, ad esempio, dall’activity theory, ma un’effettiva
mediazione.
24
dell’articolarsi di relazioni, senza la necessità che intervenga alcuna
istanza trascendente. Le forme, infatti, ambito di pertinenza
dell’analisi semiotica (Greimas, Courtès 1979, p. 170), non sono
che “strutture” (pp. 147-148), cioè “entità autonom(e) di relazioni”
(p. 347).
L’impostazione hjelmsleviana e il “principio d’immanenza” che
ne consegue sono stati fortemente criticati all’interno della stessa
semiotica, in quanto ritenuti formalisti (Coquet 1991; Fontanille
2004, p. 19) e non adeguati a rendere conto di fenomeni non
afferenti al linguaggio verbale. In particolare, non adeguati a
rendere conto d’oggetti (Semprini 1995; 2002) e pratiche (Basso
2002).
Ma la definizione di significazione fornita da Hjelmslev (1943)
non è affatto formalista se interpretata alla luce dell’epistemologia
relazionale che ne è alla base.– “gli ‘oggetti’ … non sono (…) che
intersezioni di fasci di (…) dipendenze25” (p. 26).
Nulla vieta, infatti, di considerare relazioni che non siano
relazioni linguistiche, che costituiscono oggetti che non sono
oggetti linguistici, al fine di renderne conto in modo altrettanto
rigoroso dell’analisi linguistica e per produrre simili risultati in
termini d’intelligibilità ed euristicità. Nulla, se non
un’interpretazione restrittiva del “principio di immanenza” secondo
la quale solo le relazioni interne ad un testo possono essere prese in
considerazione. Ma per Hjelmslev il “principio d’immanenza” –
applicato all’intero linguaggio verbale – è un principio
metodologico a garanzia dell’omogeneità della descrizione di ciò
che si sta studiando26. Ciò che è rilevante nel “principio
d’immanenza” è dunque l’omogeneità e non l’inclusione all’interno
di un dato ambito, che è invece effetto della relazione
d’omogeneità. La semiotica, dunque, non si deve limitare a rendere
conto di sole relazioni linguistiche. Greimas (1974, p. 140) lo aveva
tanto ben presente che tentò di descrivere in termini relazionali lo
spazio urbano, anticipando, così, di dieci anni l’ANT:
25
Cioè, fasci di relazioni.
L’esclusione di relazioni extra-linguistiche dipendeva solo dal fatto che queste non
sarebbero state omogenee con ciò che lui stava cercando di descrivere nel corso di quella
specifica ricerca.
26
25
… l’istanza individuale appare costituita dall’insieme di relazioni
dell’individuo con gli oggetti che lo circondano, facendo di lui il centro di
questa rete relazionale; l’istanza collettiva, per contro, si presenta come
l’insieme delle reti (elettricità, gas, acqua, fogne, telefono, posta,
metropolitana, strade, ecc.) i cui termini costituiscono altrettante istanze
individuali.
Gilles Deleuze e Felix Guattari (1980, p. 115; Deleuze 1986, p.
49) anch’essi assumono la teoria hjelmsleviana per descrivere
relazioni non necessariamente linguistiche. Affermano così che la
prigione è la “forma del contenuto” che rinvia non alla parola
“prigione”, ma ad altri concetti e parole, come “delinquente,
delinquenza” che, in quanto enunciati, ne costituiscono “la forma
dell’espressione”27 – esempio ripreso da Fabbri (1998a, p. 19) ad
illustrazione della “svolta semiotica”.
L’orientamento immanente, e l’epistemologia relazionale che ne
è alla base, caratterizzano anche la semiotica di Charles S. Peirce e,
più in generale, il pragmatismo e lo strutturalismo (Deleuze 1973),
paradigmi all’interno dei quali si sono sviluppate le due principali
tradizioni semiotiche28. Altra caratteristica che accomuna le due
tradizioni semiotiche e deriva direttamente dall’epistemologia
relazionale, è l’impostazione antidualista e antiessenzialista: la
rilevanza data alle relazioni, piuttosto che ai termini di queste
relazioni, che ne sono solo l’effetto, impedisce di assumere a
fondamento della propria teoria questi termini e le dicotomie che
essi manifestano, nonché di conferire loro una qualunque essenza.
Al contempo, l’epistemologia relazionale impedisce di pensare ad
un’istanza che trascenda queste stesse relazioni. Così
27
Per Deleuze e Guattari (1980) la semiotica riguarda solo una parte della loro
hjelmsleviana “strato-analisi”: l’analisi del piano dell’espressione, cioè dei concatenamenti
enunciazionali. Qui, pur ritenendo la riflessione di Deleuze e Guattari fondamentale per il
discorso che si tenta di delineare, non si assume la rigida divisione da loro proposta che
associa piano del contenuto a concatenamenti macchinici e piano dell’espressione a
concatenamenti enunciazionali. Qui, con semiotica, che viene così a coincidere con “stratoanalisi”, s’intende l’analisi globale delle relazioni tra i due piani,.
28
La filosofa C. Chauviré (1995, pp. 63-64) sottolinea che la descrizione peirciana della
semiosi come processo autonomo non presuppone alcun soggetto trascendentale e che, in
quanto tale, essa ricorda il processo senza soggetto dello strutturalismo. I presupposti
epistemologici qui citati, soggiacenti alla semiotica di Peirce, come a quella di Hjelmslev,
sono al centro delle ricerche di C. Paolucci che, in questa sua archeologia, s’ispira al lavoro
di Deleuze e Guattari i quali, attraversando strutturalismo e pragmatismo, hanno elaborato
una filosofia relazionale, immanentista, antidualista e antiessenzialista.
26
l’epistemologia semiotica non permette di assumere a fondamento
della propria riflessione dicotomie quali corpo/mente,
sensibile/intelligibile o soggetto/mondo. Hjelmslev, in effetti,
dispiegando l’epistemologia relazionale in modo coerente su tutta la
teoria, ha liberato il concetto di segno da ogni residuo dualistico che
ancora caratterizzava l’impostazione saussuriana (Fabbri 1998b, p.
212). La semiotica, nelle sue principali tradizioni che, se non altro,
hanno questo in comune, è, dunque, caratterizzata da
un’epistemologia relazionale, da una teoria della significazione
immanente e da un’impostazione antidualista e antiessenzialista.
La riflessione semiotica che cerca di introdurre, più o meno
surrettiziamente, istanze di mediazione trascendenti – interprete,
soggetto, cultura, ecc. – o che cerca di riontologizzare espressione e
contenuto
ascrivendoli,
ad
esempio,
alla
dicotomia
sensibile/intelligibile (tra gli altri, Zinna 2004a) o a
interiorità/mondo esterno percepito (Fontanille 2004a), non sembra
essere capace di un’elaborazione all’altezza delle sue premesse
epistemologiche.
L’ANT, invece, fondata sulle stesse premesse della semiotica
(Latour 1984a), nel momento in cui ascrive la propria teoria della
significazione (e se stessa) alla semiotica non compie alcuna
forzatura29, né dà di semiotica o di significazione una definizione
riduttiva – anche se certe sue applicazioni lo sono (cfr. infra).
Semmai, messasi di fronte ad oggetti di ricerca recalcitranti una
teoria della significazione – gli oggetti, in generale, che hanno
costretto la semiotica al silenzio per vent’anni (cfr. infra) – sollecita
e forza la semiotica a riscoprire le sue premesse epistemologiche al
fine di riuscire a rendere adeguatamente conto della loro
significazione.
Una semiotica degli OT non può, allora, che assumere un
orientamento immanente, coerente con la generale impostazione
semiotica e, quindi, assumere anche la definizione di semiotica e di
significazione degli OT proposta dall’ANT (Akrich 1990*, Akrich,
Latour 1992*), grazie alla quale si può rendere effettivamente conto
della significazione degli OT come articolazione di senso. Con gli
29
Contrariamente a quello che possono pensare critici favorevoli (Høstaker s.d.) o
contrari (Lenoir 1994) alla “svolta semiotica” di Latour (1984a, 1991).
27
articoli presenti in questa raccolta, che quasi tutti privilegiano un
orientamento immanente, si cerca dunque di affermare questa
ipotesi30.
Antidualismo, adeguatezza e semiotica degli oggetti
L’orientamento immanente, con l’epistemologia che ne è alla
base, non solo è semioticamente plausibile e coerente, ma risulta
anche adeguato. Come si è visto, la possibilità di prendere in
considerazione la significazione degli OT si è data solo nel
momento in cui è stato possibile valorizzare la mediazione e
superare, così, il rigido dualismo dell’“ergonomia del compito”.
Dato che non si tratta di negare dicotomie e dualismi, che, in quanto
sistemi di categorizzazione, sono inevitabilmente presenti e
partecipano dell’articolazione delle nostre pratiche, ma di rendere
conto della loro emergenza, costituzione e stabilizzazione, una
ricerca che si vuole adeguata dovrebbero evitare di sovrapporre
propri dualismi a quelli che emergono dalla situazione analizzata e,
quindi, dovrebbe riuscire a rendere conto esaustivamente di essi.
L’epistemologia relazionale, per le caratteristiche descritte in
precedenza, non solo garantisce di non reintrodurre nuovi dualismi,
ma soprattutto, non assumendone nessuno, garantisce di poter
rendere conto di tutte le dicotomie e di tutti i dualismi, risultando
così più adeguata dell’orientamento trascendente che deve
perlomeno presupporre e assumere una dicotomia, quella tra
l’istanza di base e l’istanza che la trascende.
Queste affermazioni, riguardo la maggior adeguatezza
dell’orientamento immanente, si basano non solo su considerazioni
di carattere teorico-epistemologico, ma anche sull’osservazione
della passata esperienza di riflessione semiotica sugli oggetti
(Krampen 1979) che, non a caso, si è risolta in un fallimento: una
volta esauritasi, per vent’anni non si è stati capaci di dire qualcosa
di nuovo e rilevante sugli oggetti a partire da quell’esperienza.
Il primo periodo di riflessione semiotica sugli oggetti è stato
caratterizzato dall’elaborazione di Roland Barthes (1964; 1966)31.
30
Il contributo che più si discosta da un orientamento immanente è quello di Dejours
(1993*), ma anche in quel caso ciò che viene descritto, l’intelligenza pratica come
intelligenza del corpo, rimanda ad un’impostazione immanente: l’intelligenza pratica, infatti,
non è che una intelligenza immanente.
28
Nel tentativo di rendere conto degli oggetti, che si dimostravano
alquanto refrattari a piegarsi alle categorie saussuriane, Barthes
sostiene che essi partecipano della significazione ma che,
differentemente dai segni linguistici, la loro significazione si fonda
su un “supporto”, uno strato, non significante, ma funzionale.
Questa teorizzazione, per quanto fondamentale per far accedere gli
oggetti alla riflessione semiotica, rinunciando esplicitamente (1964,
p. 33) ad un approccio differenziale e, dunque, immanente, veniva
imbrigliata in una rete di dualismi dispiegatasi a partire da quello
significazione/funzione: “segni linguistici” / “segni semiologici” o
funzioni-segno, “dimensione antropologica semiologica” /
“dimensione antropologica tecnica”, parole/cose. Essa, dopo
qualche sviluppo apportato da altri semiologi (Krampen 1979) – tra
gli altri, Jean Baudrillard (1968), Umberto Eco (1968), Luis Prieto
(1975) – non poteva che isterilirsi: la semiotica veniva ridotta a
rendere conto della funzione in quanto significata e di possibili altre
connotazioni a cui essa poteva rinviare, tralasciando completamente
l’oggetto, divenuto solo il veicolo per qualcos’altro (Dodier 1995a;
Latour 2000). Dato che solo il qualcos’altro era di pertinenza
semiotica, tale riflessione ha ingenerato una smaterializzazione
degli oggetti (Dagognet 1989; Maldonado 1970) che ha portato ad
ignorare la loro configurazione plastica, la loro costituzione
materica, nonché la funzione effettiva, in quanto praticata, cioè
l’uso32: tutto ciò era considerato parte del “supporto” e in quanto
tale pre- o non-significante. Tale impostazione dualistica non
poteva che porre le basi per una sua evoluzione “cognitiva”, in cui
emerge un’istanza trascendente che presiede all’attribuzione delle
significazioni che aleggiano sopra all’oggetto. Essa è stata
prontamente proposta da Eco (1975, p. 36) quando, parlando della
produzione come fenomeno culturale, introduce l’esempio della
produzione di un utensile come l’amigdala, specificando che tale
produzione dà luogo ad un substrato semiotico solo nel momento in
cui l’utensile è pensato e nominato come funzione, estendibile ad
altri oggetti simili. Due pagine dopo (p. 39), Eco compie la
definitiva ed esiziale (per la semiotica degli oggetti) ascrizione della
31
Per una approfondimento della elaborazione di Barthes, che non può essere ridotta solo
a questi due testi, cfr. Mattozzi (2006).
32
Cfr. anche Zinna (2004a).
29
riflessione barthiana ad un orientamento trascendente,
cognitivamente impostato. Egli, infatti, afferma che la pertinenza
semiotica di un oggetto risiede nel fatto che, una volta
“concettualizzato” il suo “possibile uso”, esso diventa il segno
concreto di un uso virtuale33. Secondo quest’impostazione, che
sclerotizza la riflessione sugli oggetti nella successione di
dicotomie
funzione/significazione-azione/cognizionecorpo/mente34, alla semiotica degli oggetti non resta che il compito
di dire se un oggetto comunica bene o male la sua funzione. Questo
compito, in base a queste premesse, è però svolto sicuramente
meglio dall’ergonomia cognitiva.
Quando, a metà degli anni ’90, la riflessione semiotica sugli
oggetti (Floch 1995b; 1995c; Fontanille 1995; Semprini 1995) è
riemersa, si è sviluppata (cfr. n. 2), pressoché immemore della
riflessione precedente, su basi epistemologiche, teoriche e
metodologiche completamente diverse. Questa rinascita è stata resa
possibile dal passaggio da un paradigma del segno a uno del testo
(Marrone 2002), che ha permesso di comprendere che il “segno non
è che la risultante manifesta di una strutturazione di parti” e “il
componente di una struttura più ampia”. Si è dunque reso
necessario descrivere queste strutture, cioè “ricostruire il sistema
delle differenze” e “l’articolazione formale interna” (p. 14). Da ciò
che afferma Gianfranco Marrone emerge chiaramente che il
passaggio dal segno al testo è un passaggio ad un’impostazione più
coerentemente e diffusamente relazionale. Non è un caso, dunque,
se la rinata semiotica degli oggetti ha dismesso la dicotomia
funzione/significazione, ascrivendo la prima alla seconda, grazie ad
una sua traduzione in termini narrativi (Floch 1995)35. Akrich
33
Si confronti l’approccio di Eco con quello proposto da Deleuze e Guattari (1980, p.
108): i due teorici francesi, che riprendono esplicitamente la teoria di Leroi-Gourhan,
ritengono che “i contenuti si trovano legati alla coppia mano-utensile e le espressioni alla
coppia faccia-linguaggio” (cfr. n. 27).
34
Questa prospettiva dualistica continua comunque a riemergere (De Ruggeri 2004;
Manquet 2003), anche lì dove non ce lo si aspetterebbe (Deni 2002).
35
Anche se non completamente: la dicotomia funzione/significazione è utilizzata da A.
Zinna (2004a; 2004b), per distinguere oggetti e testi, dire e agire. Per quanto questa
impostazione dualistica possa richiamare il primo periodo di riflessione semiotica sugli
oggetti, Zinna è molto critico verso quella riflessione proprio perché ha cercato di rendere
conto solo di come la funzione è comunicata e non della funzione in sé.
Purtroppo non è possibile approfondire qui la questione della funzione, chiaramente di
fondamentale importanza per lo sviluppo di una semiotica degli oggetti. Propongo solo
30
(1990*) aveva già esplicitamente sostenuto ciò, rifacendosi a
categorie semiotiche:
ciò che designiamo come la funzione degli oggetti tecnici non si oppone
alla significazione. Tale opposizione appartiene ad una prospettiva tecnicista o,
al contrario, culturalista. Dal nostro punto di vista la funzione non è che parte
del programma d’azione definito dallo script di un dato dispositivo tecnico.
Articolare il senso
Nonostante l’orientamento immanente risulti plausibile ed
adeguato, la definizione di significazione data da Hjelmslev come
relazione tra due forme, ascrivibile a questo orientamento, non è
sufficiente a rendere conto della significazione come “articolazione
di senso”. Tale definizione si presenta come troppo statica rispetto
alla necessità di rendere conto dell’articolazione come processo,
come messo in luce anche dall’ANT in cui si parla di articolazione
“di una traiettoria” (Akrich, Latour 1992*).
Nel Dizionario (Greimas, Courtès 1979, p. 323), Greimas, dopo
aver passato in rassegna varie definizioni assiomatiche di
significazione conclude la voce dandone una di carattere empirico:
la significazione non può che essere colta al momento della sua
manipolazione, al momento in cui, interrogandosi su di essa in un linguaggio e
in un testo dati, l’enunciante è condotto ad operare trasposizioni, traduzioni da
un testo in un altro, da un livello di linguaggio in un altro, insomma da un
linguaggio ad un altro linguaggio.
Questa definizione, soprattutto se presa nella sua interezza è
alquanto problematica e non del tutto coerente con l’impostazione
relazionale e immanente che si sta cercando di affermare. Non
qualche riflessione e qualche citazione. Coerentemente con l’impostazione generale qui
assunta, della funzione si deve rendere conto in termini relazionali. E’ indicativo che la
semiotica, che pure con Hjelmslev (1943) ha sviluppato una teorizzazione relazionale di
funzione (cfr. Greimas, Courtès 1979, pp. 152), quando ha affrontato gli oggetti non abbia
saputo proporre una teoria un po’ più complessa di quella di carattere operativo desunta dal
senso comune. Barthes stesso (1963; 1973), ad esempio, aveva una visione più complessa del
concetto di funzione che non ha però pensato di trasporre agli oggetti. Senz’altro la via è
considerare la funzione una relazione narrativa così come prima di Floch (1995) hanno
proposto Greimas (1973), a cui Floch si è ispirato, e M. Hammad (1977) in relazione
all’architettura. Per uno sviluppo della “componente funzionale” di Floch in termini di
“valorizzazioni funzionali”, cfr. Fontanille (2002). La riflessione di carattere sistemico di
Simondon (1958) può risultare molto utile per un ripensamento generale della questione.
31
potendo qui approfondire la questione, che a mio parere segnala una
difficoltà e una titubanza della semiotica a mantenere le sue
premesse epistemologiche nel passaggio al livello empirico,
trattengo solo ciò che mi è utile a proseguire il discorso: la
significazione si dà empiricamente come successione di traduzioni
(cfr. anche Greimas 1970, pp. 43-44). Anche in questo, dunque, la
semiotica si presenta simile all’ANT, secondo cui l’articolazione di
reti avviene attraverso successive traduzioni. Per la semiotica, come
si può leggere, le traduzioni avvengono tra testi, tra linguaggi, cioè
tra forme, cioè tra assetti di relazioni. Riprendendo Hjelmslev,
allora, la significazione in quanto articolazione di senso può essere
pensata come la messa in relazione, cioè la traduzione, di una forma
del contenuto in una forma dell’espressione, la cui relazione diviene
piano dell’espressione per un altro contenuto. E’ questo processo di
successive traduzioni che traccia una traiettoria, traccia un senso o,
hjelmslevianamente, traccia il senso36. Con articolazione di senso si
può dunque intendere la riconfigurazione di una porzione di uno
sfondo di sole relazioni lungo una direzione tracciata dal processo
di riconfigurazione stesso che avviene tramite successive
traduzioni37. Il compito della semiotica è, dunque, quello di rendere
conto di come si costituiscono dati assetti di relazioni, cioè delle
forme, e come queste si pongono in relazione, cioè si traducono, in
altri assetti, in altre forme, in base a due grandi insiemi di relazioni:
quelle narrative e quelle enunciazionali o discorsive.
Una semiotica degli OT deve, allora, descrivere le varie relazioni
che un OT intrattiene e come esse si traducono in altre relazioni. Il
modello d’analisi proposto da Akrich e Latour, che si basa sul
reperimento degli script, cioè di forme, che si traducono in altre
forme, in altri assetti di relazioni, va in questa direzione, anche se è
necessario complessificarlo per meglio rendere conto
dell’articolazione interna all’oggetto – configurazione plastica,
composizione materica – e della sua articolazione esterna, in
relazione alle pratiche d’uso38, in cui, come mostrano i saggi della
36
Ricordo che per Hjelmslev il senso è la materia o continuum, esso è comparabile al
“collettivo” di Latour e al piano di consistenza-immanenza di Deleuze.
37
Per una teoria della signficazione simile, anche se più pragmaticamente impostata, cfr.
Quéré (1998; 1999).
38
In Mattozzi (2004a; 2004b; 2004c) si è proposto e messo alla prova un primo modello
d’analisi degli oggetti che sistematizzando e gerarchizzando le componenti dell’ormai
32
seconda parte, le istanze di mediazione che operano queste
traduzioni si demoltiplicano (Dodier 1995b) – tra le altre, il
linguaggio verbale e gestuale (Heath, Hindmarsh 2000*), ulteriori
artefatti (Ueno 2000*), il corpo (Dejours 1993*).
Cognizione come punto di vista
Come era stato anticipato, il discorso sulla significazione degli
OT che con questo volume si cerca di impostare verte sull’idea di
significazione come articolazione del senso che è immanente agli
OT e alle pratiche di cui essi partecipano. Tale articolazione, per
come la si è descritta qui, è un processo impersonale – si è detto che
“il senso si articola” –: essa non necessita di alcuna istanza, punto
di vista, soggetto e, men che mai, mente, che prenda in carico i
processi di articolazione. Ciò permette di affermare la radicale
semioticità degli OT e, al contempo, di evitare la sovrapposizione
tra cognizione e significazione: uno dei classici malintesi a cui può
portare l’orientamento trascendente. E’ a causa di questo malinteso
che molti (tra gli altri, Mantovani 2000) hanno iniziato ad occuparsi
di significazione degli OT solo nel momento in cui si sono diffuse le
“tecnologie cognitive”. Per evitare di dare l’impressione che anche
questa raccolta contribuisse a reiterare questo malinteso e per
mostrarne la fallacia, si è scelto di dare il più ampio spazio possibile
a saggi che si focalizzassero su OT tradizionali e, in particolare, su
macchine-utensili a cui, per troppo tempo, si è negato un qualunque
contributo alla significazione, in virtù del fatto che si pensa,
erroneamente, che questi OT richiedano solo uno sforzo fisico – che,
comunque, articolerebbe del senso.
Per la semiotica, la cognizione non è che una delle dimensioni
della significazione39, insieme ad azione e passione. In particolare,
per Greimas (Greimas, Courtès 1979, p. 56), la dimensione
classico modello elaborato da Floch, tenta di rendere conto delle successive traduzioni – o
“transcodifiche orizzontali” (Greimas 1970, pp. 43-44) – tra relazioni interne all’oggetto,
relazioni a lui esterne e relazioni che si ingenerano nella pratica d’uso. L’approfondimento di
questa riflessione dovrebbe integrare quella sulla significazione degli OT di Simondon che si
basa proprio sull’idea di trasposizioni tra forme.
39
Dunque, diversamente da altri approcci (tra gli altri, Eco 1997, p. 114), non considero
la semiotica parte delle scienze cognitive né, d’altra parte, vista anche l’accezione specifica
che ha “cognitivo” nella semiotica greimasiana, ritengo le scienze cognitive parte della
semiotica. Sono due ambiti di ricerca distinti.
33
cognitiva si riferisce al sapere ed è gerarchicamente superiore a
quella pragmatica. Ad ogni modo, la semiotica greimasiana, anche
per contraddizioni interne alla teoria in conseguenza di una
difficoltà a dispiegare completamente un’impostazione relazionale
e immanente, non ha mai ben chiarito le relazioni che si pongono
tra azione, passione e cognizione40.
Il fatto che la significazione non necessiti di un’istanza che
prenda in carico i processi di articolazione non vuol dire che tale
istanza non possa comunque emergere (Deleuze 1986, p. 78). Qui si
assume che è tale istanza ad esercitare la cognizione, che altro non è
che un punto di vista su azioni e passioni: un certo numero di azioni
e passioni, cioè di relazioni, viene debrayato, oggettivato, e preso in
carico da un altro ambito di azioni e passioni. Non si tratta, dunque,
della reintroduzione surrettizia di un’istanza trascendente, ma
semplicemente del risultato di dinamiche enunciazionali, grazie alle
quali è però possibile rendere conto di fenomeni, quali la
riflessività, che non superano o eludono il piano delle relazioni, ma
che semplicemente mettono in prospettiva alcune di esse41. Anche
Latour (1988a) adotta la teoria dell’enunciazione per rendere conto
di relazioni che si riferiscono ad altre relazioni: infatti, per Latour
(1994) non ci sono che interazioni e ripiegamenti di queste
interazioni – debrayage, appunto –, a partire dai quali è possibile
incorniciare altre interazioni e anche operare calcoli su di esse,
senza che si passi mai ad un altro “livello” (pp. 224-225) (cfr. Ueno
2000*).
Dialoghi
Tra ANT e semiotica
Come è emerso dai paragrafi precedenti, e come rileva anche
Akrich (1992b*), il dialogo tra semiotica e ANT si basa sulla
condivisione della stessa epistemologia relazionale. Non si tratta
40
Un riordino è stato tentato da Fontanille (1999) nel tentativo di valorizzare la passione
a scapito dell’azione, precedentemente privilegiata.
41
Tale proposta si basa anche su una riconsiderazione della riflessione di Deleuze (1986)
sulle categorie foucaultiane di enunciabile e visibile, visto appunto come il risultato di azioni
e passioni (De Baptistis, Mattozzi 2005).
34
tanto d’interdisciplinarietà – rispetto alla quale nutro le stesse
perplessità d’altri semiologi42 (Greimas, Courtés 1979, Fabbri 1974,
Semprini 1995) – quanto del dialogo tra ambiti diversi, uno
tendenzialmente più metodologico (la semiotica) e uno
tendenzialmente più empirico (l’ANT), di una stessa riflessione sul
sociale e sulle sue articolazioni (Latour 2005). La semiotica,
dunque, come metodologia per le scienze sociali, capace di fornire
modelli e categorie descrittive (Fabbri 1998a).
Akrich e Latour si sono rivolti alla semiotica proprio per trovare
categorie adeguate a de-scrivere gli OT. Ma, contrariamente a
quanto sostenuto a volte da Latour, non si tratta dell’utilizzazione
della semiotica come semplice “scatola d’attrezzi”. Le categorie
semiotiche sono state infatti scelte in base al fatto che esse non
preludono ad una divisione a priori tra tecnica e società, tra umani e
non-umani (Callon, Latour 1992). L’adeguatezza di tali categorie
dipende, dunque, dal fatto che emergono da un comune sfondo
epistemologico antidualista. La scelta della “semiotica” non è,
dunque, affatto casuale ma strettamente legata ad una riflessione
più generale (Latour 1984a; 1991; 1999b; 1999d) che mira a portare
a compimento la “svolta semiotica”43, interrottasi nel momento in
cui non si è avuto il coraggio di estendere, in modo coerente e
conseguente, l’epistemologia relazionale a fenomeni esterni al
linguaggio verbale o non riducibili ad esso – non è un caso che
Latour (1988a, 1999c) abbia più volte affermato di voler continuare
il progetto di Greimas.
Ciò che dovrebbe meravigliare, allora, non è il fatto che l’ANT
utilizzi la semiotica o che si definisca una semiotica, per quanto
spietata – ruthless semiotics (Law 1999) –, o che la semiotica si
rivolga all’ANT per impostare una semiotica degli OT, quanto il fatto
che questo dialogo non sia più intenso e che, anzi, si sia negli anni
affievolito44. Nonostante la semiotica abbia ancora un ruolo centrale
42
Per questo sono molto scettico rispetto alle eclettiche semiotiche degli oggetti proposte
in Van Onck (1994), Krampen (1995), Benoist (2002).
43
Cioè, il progetto strutturalista (Deleuze 1973), anche se con altri mezzi.
44
Questo affievolimento è probabilmente dipeso da una mancata risposta dei semiologi
alle convocazioni dell’ANT, avvenute, per altro, non senza malintesi e semplificazioni
(Akrich 1992b*). Nel periodo in cui la convocazione è stata più intensa – a cavallo tra gli
anni ’80 e ’90 – la semiotica greimasiana non sembrava essere troppo interessata alla
riflessione dell’ANT, dato che non aveva ancora intrapreso la riflessione sugli oggetti e si
35
nella riflessione di Latour (1999b, 1999d), il resto dell’ANT sembra
assumerla più come lontano sfondo teorico su cui muoversi, che
come risorsa metodologica. Ciò emerge molto chiaramente dal
saggio di de Laet e Mol (2000*). Scritto una decina d’anni dopo i
saggi di Akrich e Latour, non vi compaiono più termini mutuati
dalla semiotica, nonostante le autrici dichiarino di “rifarsi alla
tradizione semiotica all’interno” degli STS. Pur citando Akrich
(1992*), il riferimento principale non sono i saggi qui pubblicati,
ma un precedente articolo di Mol, scritto insieme a Jessica Mesman
(1996), in cui si radicalizza la definizione di semiotica proposta da
Akrich e Latour (1992*), espungendo qualunque riferimento al
senso e alla significazione. La semiotica viene ridotta allo studio di
mutue relazioni all’interno di un sistema o, meglio, allo studio di
come “elementi di una rete, di un discorso, di un testo, si cocostituiscono reciprocamente formando l’insieme di cui sono parte
e garantendosi esistenza reciproca” (p. 429, trad. mia). Questa
ridefinizione della semiotica schiaccia l’articolazione su un unico
piano, marginalizzando l’idea di traduzione. Coerentemente con
quest’impostazione, la metodologia scelta da Mol è ispirata alla
topologia, più che alla semiotica (Mol, Law 1994).
Al fine di ridare attualità e rilevanza al dialogo tra ANT e
semiotica, è necessario considerare come esso si sia fino ad oggi
sviluppato, verificando come le categorie semiotiche siano state
utilizzate dall’ANT.
Tra le varie categorie semiotiche che si ritrovano nei saggi qui
pubblicati e, più in generale, nella letteratura ANT, mi sembra
opportuno soffermarsi su quelle usate più frequentemente:
“enunciazione” e “attante”.
La prima è in realtà meno diffusa di “attante”, che ormai la si
può ritrovare anche esternamente all’ANT, ma estremamente
rilevante nella riflessione di Latour – “più in profondità della
questione del tempo e dello spazio vi è … l’atto di enunciazione, di
delega …” (1997, trad. mia) –, che ne ha anche operato un
approfondimento teorico. Come messo in luce anche da Hennion
(1993), la rilevanza dell’enunciazione è legata al concetto di
concentrava, invece, sulle passioni, all’epoca lontane dagli interessi dell’ANT. Bisogna anche
considerare che proprio in quel periodo veniva a mancare Françoise Bastide (2001), che più
di altri aveva mantenuto vive le relazioni tra i due ambiti.
36
mediazione. In quanto tale – e su questo punto si basa
l’approfondimento di Latour (1999c) – essa soggiace all’emergere e
al costituirsi di attanti e alle loro successive traduzioni. Nel saggio
qui presentato (Latour 1992b*), l’enunciazione e le sue varie
declinazioni – debrayage, embrayage – sono utilizzate per rendere
conto di come un dato script può essere inscritto in differenti
sostanze45, e così rendere conto del fatto che corpi siano sostituiti da
segni, segni da OT, corpi da OT e viceversa – es. il programma
d’azione “chiudere la porta” debrayato da un attante umano ad uno
non-umano come un chiudiporta a pistone. Latour è interessato a
mettere in luce il differente funzionamento dell’enunciazione nei
testi tradizionali e negli OT: nei testi tradizionali si è sempre in
compresenza di più istanze e vige un principio di reversibilità;
l’enunciazione tecnica, invece, opera un distacco molto più radicale
dall’istanza di enunciazione con la possibilità di introdurre
un’irreversibilità. Latour cerca così di rendere conto delle proprietà
della sostanza, a cui la semiotica ha effettivamente dato poco
valore, fino a tempi recenti (Fontanille 2004a; Magli 2003). Ma,
introducendo un altro tipo di debrayage, quello che qui si è tradotto
come “debrayage d’ancoraggio” – lo shifting down opposto allo
shifting out/in – confonde dei semplici debrayage con una
traduzione intersemiotica mediata dallo script, con il rischio di
reintrodurre una nuova manichea divisione tra testi e oggetti, tra
parole e cose.
Con attante Akrich e Latour intendono un’entità, cosa o persona,
che compie un’azione. Essa è distinta dall’attore in quanto
quest’ultimo è fornito di altre proprietà e può essere considerato
all’origine dell’azione. Il ricorso alla categoria di attante è motivato
dall’esigenza di ridistribuire l’agency46: innanzitutto tra attanti
umani e non-umani e, quindi, più radicalmente, tra una molteplicità
di attanti, nessuno dei quali può essere considerato da solo
responsabile dell’azione. Questo uso della categoria di attante è
coerente con l’uso semiotico, anche se opera alcune
semplificazioni. In semiotica “attante” è una categoria astratta – un
funtivo di una funzione di trasformazione. In quanto tale, esso
45
Latour parla di materia, ma si tratta di sostanza dell’espressione.
Seguendo il significato attribuitogli all’interno degli STS, con agency qui si intende la
competenza a, o il potere di, agire.
46
37
occupa una posizione specifica all’interno di una complessa
architettura teorica. La semiotica non è interessata ad individuare
gli attanti, ma a determinare che posizione essi assumono
all’interno della trasformazione di cui partecipano (il ruolo
attanziale) e, quindi, come contribuiscono, attraverso varie istanze,
a costituire un attore. Alla prima semplificazione operata da Akrich
e Latour, che disconoscono l’ambito teorico specifico al quale
appartiene l’attante, se ne è successivamente aggiunta un’altra, di
cui si lamenta anche Latour (1999a, p. 18): il concetto di “attante” è
ormai prevalentemente utilizzato solo al fine di indicare un attore
sospendendo l’ascrizione di questo al gruppo degli umani o dei
non-umani, tralasciando la questione della redistribuzione
dell’agency.
Come si è potuto vedere, sia per “enunciazione” che per
“attante”, l’ANT da un lato approfondisce ed espande il valore
teorico della categoria, dall’altro opera una semplificazione di
carattere metodologico. Si arricchisce, così, la riflessione semiotica,
ma s’impoverisce l’analisi. In effetti, più che spietata, la semiotica
dell’ANT è spiantata, misera. In fondo, è lo stesso Latour (1999a, p.
20) a definire, con orgoglio, l’ANT “un metodo grezzo” (a crude
method) per imparare dagli attori stessi come essi articolano il
sociale, e ad affermare che la caratteristica del lessico e delle
categorie utilizzate è la loro “ridicola povertà” (ridiculous poverty).
Se l’obiettivo dell’ANT è esclusivamente quello di tracciare la
circolazione di attanti all’interno di una rete che essi stessi
contribuiscono a costruire, allora non servono, in effetti, molte
categorie. Per quanto fondare l’analisi del sociale su tale
circolazione possa essere liberante e produttivo, neanche l’ANT si
limita a questo lavoro da controllore del traffico – sapendo che
neanche tali controllori si limitano al lavoro che pregiudizialmente
gli si attribuisce (cfr. Heath, Hindmarsh 2000*). Come dimostrato
anche dai saggi qui presentati, il problema non è tanto quello di
tracciare delle relazioni, quanto descriverle, cioè mettere in luce
possibili differenze tra relazioni. E’ ciò che cercano di fare Latour
(1992b*) aggiungendo un ulteriore debrayage, Akrich (1990*)
complessificando la categoria di attante/attore ed entrambi nel
momento in cui s’interrogano su quali siano le ingiunzioni tipiche
che un OT rivolge ad un attante umano. La semiotica greimasiana è
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un po’ più sofisticata – in tutti i sensi – di quella dell’ANT e spesso
ha elaborato delle categorie adeguate a rendere conto delle
differenze tra relazioni individuate da Akrich e Latour: la pluralità
di ruoli attanziali e le istanze che si frappongono tra attante e attore
– ruolo tematico, figurativizzazione – possono, ad esempio, riuscire
a descrivere le differenze individuate da Akrich (1990*), così come
la teoria delle modalità fornisce già un modello per pensare le
ingiunzioni degli OT. Il problema non è però quello di mostrare che
la semiotica “ci era già arrivata” – cosa che Akrich e Latour sanno –
ma quello di capire il loro rifiuto ad usare certe categorie. In parte
le risposte sono contenute in Akrich (1992b*) in parte sono
rintracciabili nella vicinanza dell’ANT all’etnometodologia. Questa
resistenza è motivata dal fatto che si ha il timore di imporre le
proprie categorie, assunte a priori e ritenute universali, agli attori,
invece di indurle dagli attori stessi.
Se, però, si concorda sulla necessità che per descrivere
adeguatamente delle relazioni sono necessarie categorie più
articolate di quelle finora elaborate dall’ANT e al contempo si
concorda sul fatto che l’elaborazione e l’utilizzo di queste categorie
deve essere desunto e giustificato dall’oggetto di studio stesso,
induttivamente, grazie ad un’attenta analisi – cosa che la semiotica
ha sempre più cercato di attuare –, allora si apre uno spazio per un
dialogo e una produttiva collaborazione tra ANT e semiotica.
Tra ANT, studi sull’attività tecnica e semiotica
I saggi della prima parte dimostrano che l’ANT non si limita a
rendere conto solo dell’emergere degli OT nel corso di processi di
innovazione, così come fanno solitamente le ricerche degli STS, ma
si interroga anche su cosa accade nella fase subito successiva
all’innovazione per capire come un OT, introdotto in un dato
ambito, riarticoli le relazioni che lo costituiscono (Akrich 1992c*;
de Laet, Mol 2000*). E’ indubbio però che, nonostante i numerosi
ripensamenti e integrazioni grazie ai quali l’ANT si è sviluppata e
trasformata nel corso degli ultimi quindici anni (de Laet, Mol
2000*; Latour 1999a; ), essa ha continuato ad eludere le pratiche
quotidiane d’interazione degli operatori con OT.
E’ presumibile che questa lacuna dipenda dai limiti
metodologici precedentemente accennati: in effetti, le relazioni che
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si instaurano al fine di mantenere una rete sono meno eclatanti di
quelle nuove che emergono dalla riarticolazione generata
dall’emergere di un nuovo attante. Per ciò la loro analisi necessita
di maggior attenzione ai dettagli (Heath, Hindmarsh 2000*). Non è
un caso che de Laet e Mol, che molto più degli altri si avvicinano
descrivere pratiche quotidiane di gestione e manutenzione, per
renderne conto sono costrette ad utilizzare un nuovo concetto,
quello di “oggetto fluido”, che indica una proprietà degli OT in
azione già messa in luce da Dodier (1995b*) grazie all’osservazione
di pratiche di gestione e manutenzione: l’inesorabile mancanza di
concretizzazione (Simondon 1958) che costringe gli operatori ad
operare continui aggiustamenti al fine di mantenere la stabilità di un
OT.
La seconda parte di questa raccolta, come si è detto, si propone
di colmare questa lacuna e integrare così le analisi dell’ANT.
Nonostante le differenze tra i vari saggi e in special modo tra le due
parti, l’idea dietro la costruzione di questa raccolta è quella di
mostrare una continuità tra i vari momenti di istanziazione di un OT
attraverso cui si dispiega la sua significazione. Tale continuità è
resa possibile dalle successive traduzioni tra un momento e l’altro:
dalle pratiche d’inscrizione di possibili relazioni in un OT (Woolgar
1997*), a come un OT attualizza queste relazioni (Akrich 1990*), a
come modifica, una volta inseritosi nell’ambito a cui è destinato le
relazioni (Akrich 1992c*; Latour 1992b*), alle relazioni specifiche
che emergono per mantenere questa nuova rete di relazioni (De
Laet, Mol 2000*; Dodier 1995b*), che mettono in gioco una serie
di istanze specifiche – il linguaggio verbale e gestuale (Heath,
Hindmarsh 2000*), altri artefatti (Ueno 2000*), il corpo (Dejours
1993*). La significazione si dispiega nel corso di questo processo:
solo un approccio immanente può, a mio parere, renderne
adeguatamente conto. La semiotica, come le è stato riconosciuto
dall’ANT, è la sola disciplina, avendo sempre pensato
congiuntamente significazione e mediazione, che può rendere conto
di questo articolarsi della significazione attraverso successive
mediazioni-traduzioni.
E’ grazie a tale impostazione che la semiotica può, peraltro,
operare una mediazione metodologica tra i vari approcci qui
presentati. Essa permette, infatti, di pensare la continuità e le
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differenze tra le varie fasi prese in considerazione e di renderne
conto. Tale continuità si pone come terreno comune di confronto tra
i vari approcci nel tentativo di riuscire, in un unico movimento, a
rendere l’ANT sensibile a certi oggetti di studio, la semiotica capace
di cogliere il senso che si articola nelle pratiche e interessare gli
altri approcci alla continuità, ad un tempo, empirica e
metodologica, a tutto ciò presupposta.
Ciò implica sondare in che modo e in che quantità la semiotica
riesce a rendere conto degli aspetti degli OT e delle pratiche di cui
partecipano messi in luce dagli approcci presentati nella seconda
parte, in particolare quelli che più si discostano da un orientamento
immanente, come Dejours (1993*) e, per certi versi, Dodier
(1995b*). Così come implica lo scambio e la traduzione di
categorie. E’ in base a questo desiderio di dialogo che si è deciso di
tradurre accountability con enunciabilità: è una traduzione tra
lingue, ma soprattutto tra teorie – etnometodologia e semiotica –
che permette di mettere meglio in luce come una serie di questioni,
soggiacenti a questi due concetti, siano già condivise tra le due
teorie, ma soprattutto di metterne in comune delle altre. Si è deciso
di operare questa traduzione in base alla riflessione sulla
comparabilità tra teoria della significazione dell’ANT e
dell’etnometodologia e in base al fatto che, soprattutto in Ueno
(2000*), accountable è opposto a visibile, che è teorizzato facendo
riferimento a Foucault e quindi alla dicotomia visibile/enunciabile.
Questa raccolta, facendo convergere i vari articoli presentati
nello specifico discorso sulla significazione degli OT qui delineato e
reso possibile da questi stessi articoli, non fa che porre le basi per
questo dialogo: il resto è ricerca47.
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Così come è compito della ricerca capire come, a partire dal discorso qui impostato, si
riconfigura il rapporto tra semiotica e design, tra semiotica e design studies e tra semiotica e
progettazione. Se, da un lato, la semiotica non può certo sottrarsi alle nuove sollecitazioni che
provengono dal design (Chiapponi 1999; 2005), dall’altro, nel momento in cui,
congiuntamente all’ANT, s’interroga su come gli oggetti articolano e riarticolano il sociale
(Latour 2005) e, quindi, significano, può, più immodestamente, prendere parte al dibattito
sull’idea di progettazione, soprattutto se questo si fonda sul concetto ANT d’“ingegneria
eterogenea” (Chiapponi 1999), per contribuire a ripensare una prasseologia, o pragmatica,
della progettazione stessa (Maldonado 1970).
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