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Introduzione Alvise Mattozzi Occuparsi del senso degli oggetti tecnici (OT) vuol dire innanzitutto presupporre che gli OT, in qualche modo, producano o articolino senso, o vi contribuiscano, o vi partecipino, o siano passibili d’attribuzioni o siano sorgente di senso; in secondo luogo, e conseguentemente, vuol dire cercare di rendere conto dei processi menzionati. La presupposizione riguardo l’esistenza di una relazione tra OT e senso, seppur non scontata, sembra ormai essere sufficientemente accettata, se non altro perché sottesa all’idea che gli OT e, più in generale la tecnica, contribuiscano alla, o partecipino della, cultura (Maldonado 2005; Nacci 2000; Riccini 2003; 2005). Il passaggio successivo, quello relativo alla possibilità di rendere conto della relazione che si pone tra OT e senso, è, se lo si intende come elaborazione e applicazione di categorie descrittive adeguate, e non come un generico atteggiamento ermeneutico, compito della semiotica. L’impegno della semiotica è, in effetti, come sottolinea Paolo Fabbri, quello di “dire qualcosa di sensato sul senso”. Confrontarsi con il “senso degli oggetti tecnici” comporta allora individuare un oggetto di ricerca, con una sua “positività”, di cui è necessario rendere conto, evitando di affrontare la questione in termini metaforici o impressionistici. Proprio per questo, volendo essere più rigorosi, ma forse meno accattivanti, si sarebbe dovuto intitolare questo volume La significazione degli oggetti tecnici. Dato che, però, con “significazione” s’intende l’articolazione del senso, la sostanza non cambia: con questa raccolta s’intende impostare un discorso sugli OT e sui processi d’articolazione del senso di cui essi partecipano, al fine di dare un contributo alla riflessione semiotica – ma non solo – sugli oggetti. Ciò nonostante, questa raccolta non contiene ricerche prettamente semiotiche, ma ricerche che sono state sviluppate in ambito socio-antropologico. Questo perché il contributo che si vuole fornire si pone in una posizione intermedia tra le due indicate inizialmente: data per scontata la relazione tra OT e senso, prima di elaborare le categorie e i modelli descrittivi adeguati a renderne conto è necessario individuare i modi attraverso cui gli OT 4 partecipano dell’articolazione del senso. L’attuale esiguità di ricerche semiotiche sugli OT1, nonché la non amplissima mole di ricerche sugli oggetti2, ha imposto di rivolgersi ad un ambito specifico di ricerche socio-antropologiche, quelle che si richiamano, più o meno direttamente, ai social studies of science and technology o science and technology studies (STS). A queste ricerche si riconosce il fatto di aver sviluppato una duratura e approfondita riflessione sugli OT, che spesso si è interrogata sulla loro significazione, in alcuni casi convocando esplicitamente la semiotica. La rilevanza degli OT e della tecnica è tale, che la riflessione degli STS e di ambiti a loro affini, come i workplace studies, non solo fornisce indicazioni su come impostare una semiotica degli OT, ma permette un sostanziale arricchimento della più generale riflessione semiotica. Come si vedrà, non si tratta, dunque, di vampirizzare ricerche d’altri, ma di dissodare insieme un campo di ricerca che si delinea già condiviso. Questa raccolta si pone, dunque, sotto il segno del dialogo tra semiotica e altre scienze sociali. Essa, forte della presenza nella collana in cui appare di testi quali Duranti (a.c. 2001), Goodwin (2003), Latour (1994)3, attraverso cui si è cercato di rinnovare tale dialogo, vuole promuoverlo (il volume nel suo complesso), documentarlo (la prima parte e l’appendice) e rilanciarlo (la seconda parte). La raccolta Questa raccolta non è un’antologia: pur essendo presenti alcuni articoli che possono essere considerati dei classici degli STS, non contiene i testi necessariamente più rappresentativi di questo ambito 1 La riflessione sugli OT è emersa in ambito semiotico recentemente come sviluppo delle ricerche sugli oggetti e sui “nuovi media”. A questo proposito è da segnalare il seminario Semiotica delle macchine tenuto ad Urbino nell’estate del 2004 sotto la direzione di J-F. Bordron e A. Zinna. Cfr. anche Zinna (2004b). 2 Tra gli altri cfr. i recenti Deni (2002; a.c. 2002), Floch (1995b; 1995c), Fontanille (1995; 2004a), Landowski e Marrone (a.c. 2002), Mattozzi (2004a; 2004b), Magli (2002), Montanari (1999), Pozzato (2001), Semprini (1995; a.c. 1999). 3 Questi ultimi due testi, per tipo di approccio e oggetto di ricerca, non solo precedono questo volume, ma lo hanno anche reso pensabile e possibile. 5 di ricerca o di altri ad esso affini. I saggi qui presentati, al di là del loro singolo valore e interesse, sono stati scelti poiché attraverso essi è possibile impostare uno specifico discorso sulla significazione degli OT in quanto articolazione del senso ed affermarne, così, la loro radicale semioticità. La prima parte – Attanti e reti – è composta da ricerche svolte nell’ambito dell’actor-network theory (ANT), specifico approccio agli STS. In queste ricerche si fa direttamente riferimento alla semiotica al fine di de-scrivere gli OT. L’Appendice è strettamente connesso a questa prima parte, dato che presenta riflessioni di carattere più teorico-metodologico sul dialogo tra ANT e semiotica. La seconda parte – Pratiche e attività –, teoricamente meno compatta, integra la prima presentando una serie di ricerche che si focalizzano sulle pratiche d’uso in cui gli OT sono coinvolti. Questi saggi colmano una lacuna degli STS, e dell’ANT in particolare, che consiste nel non prendere in considerazione come un dato OT è effettivamente usato quotidianamente, dato che gli STS s’interessano prevalentemente alle pratiche d’innovazione che portano alla costituzione di un OT. Attanti e reti Gli STS sono ricerche di carattere socio-antropologico che cercano di rendere conto non dell’influenza sociale su scienze e tecniche, ma del loro stesso contenuto, in quanto intrinsecamente sociale. Studiano cioé le scienze e le tecniche nel loro farsi, grazie all’osservazione dei processi di produzione scientifica e tecnologica, anche con l’ausilio di metodi etnografici4. All’origine di tali ricerche vi è il “programma forte in sociologia della scienza” (Bloor 1976) che sostiene il “principio di simmetria”. Secondo tale principio gli stessi tipi di cause devono essere utilizzati per spiegare teorie o credenze che si affermano in quanto vere o che sono rigettate in quanto false: se si spiega l’emergere di una teoria che si rivela falsa tramite fattori sociali, questi dovranno spiegare anche l’affermazione e la stabilizzazione della teoria contraria, reputata vera. 4 Per un’introduzione agli STS, cfr. Latour (1987). 6 L’ANT è uno specifico approccio agli STS, che si caratterizza per una radicalizzazione del “principio di simmetria” (Callon, Latour 1992). Nata tra la Francia e l’Inghilterra nella prima metà degli anni ’80, grazie alla riflessione di sociologi quali Michel Callon, Bruno Latour e John Law, l’ANT afferma che né la società, né la natura possono essere posti all’origine o a garanzia della stabilizzazione di scienze e tecniche, ma che, invece, natura e società emergono in conseguenza dello stabilizzarsi dei processi scientifici o tecnici, in virtù di una purificazione successiva. Tale purificazione permette di distinguere, nel confuso groviglio di relazioni che è alla base dell’emergenza di un oggetto teorico, tecnico o naturale, ciò che è attribuibile alla natura e ciò che è attribuibile alla società. La radicalizzazione del principio di simmetria impone, dunque, di considerare alla stessa stregua attori o, meglio, attanti del processo tecnico o scientifico indipendentemente dal fatto che essi siano umani (sociali) o non-umani (naturali o tecnici) (cfr. Latour 1992b*5). L’ANT cerca, dunque, non di dare una spiegazione sociale dei fatti scientifici o tecnici, ma di rendere conto della emergenza, costituzione e stabilizzazione di oggetti teorici, naturali o tecnici, in quanto attori reticolari – attori-rete, per l’appunto – formati dalle relazioni tra elementi eterogenei che li costituiscono6. Per rendere conto di ciò, l’ANT segue la circolazione degli attanti, elementi che agiscono partecipando delle relazioni, rilevando come, attraverso tale circolazione, che avviene spesso attraverso delle trasformazioni 5 Per evitare di ripetere troppo spesso “in questo volume” in riferimento agli articoli di cui si parla in questa introduzione e che sono presenti nella raccolta, si è preferito sottolineare il fatto che essi sono presenti nel volume tramite un asterisco posto successivamente alla data di pubblicazione. 6 Rispetto a ciò che si è detto, l’ANT è soggetta a due tipi di malintesi: a) viene ritenuta una teoria che si inscrive nel campo del costruttivismo sociale (Nacci 2000, pp. 202-203; Maldonado 2005, p. 219), in quanto comunque parte degli STS; b) i termini actor-network vengono ritenuti dicotomici (Maldonado 2005, p. 223) e, in quanto tali, sostituibili con altri quali individuo/sistema, agency/struttura. Questi fraintendimenti non permettono di cogliere la carica innovativa, la produttività e la solidità teorico-epistemologica dell’ANT, riducendone l’interesse, come troppo spesso avviene, ad una serie di salutari provocazioni. L’ANT non può essere ascritta al costruttivismo sociale, dato che essa non ritiene la società come qualcosa che si dà a priori. Si tratta di un costruttivismo, ma non sociale – come si vedrà, sarebbe meglio utilizzare la brutta parola “articolazionismo”. Actor-network è un termine composto che rende conto del fatto che un attore è sempre il risultato di una rete di relazioni che lo costituisce (Latour 1999a). 7 – delle traduzioni di questi attanti in altri attanti –, si articoli, grazie ad un processo di “ingegneria eterogenea” (heterogeneous engineering) (Law 1987), una rete che permette l’emergere di un dato attore. Così, ad esempio, Law (ib.) spiega come la rete commerciale portoghese creatasi nel 1500 sia l’effetto dell’allineamento di una serie d’elementi che concernono principalmente un nuovo tipo di vela, l’uso della bussola e nuove pratiche nautiche che hanno permesso di soggiogare o di riconfigurare l’allineamento contrario degli elementi naturali (venti, correnti, ecc.). L’ANT si è costituita grazie anche ad un intenso dialogo con la semiotica, portato avanti soprattutto da Latour che, fin dalle sue prime ricerche, ha direttamente collaborato con semiologi (Bastide, Latour 1983; 1986; Fabbri, Latour 1977). La relazione tra ANT e semiotica è così rilevante che si è giunti a definire l’ANT una “semiotica spietata” (ruthless semiotics) (Law 1999). Latour ha trasferito la sua esperienza semiotica7 nella riflessione del Centre de Sociologie de l’Innovation (1992) dell’Ecole des Mines di Parigi e, con il contributo dell’antropologa Madeleine Akrich, ha sviluppato una “semiotica delle macchine” (Akrich, Latour 1992*) che permette di de-scrivere gli OT e non solo il loro processo d’emergenza. Tale semiotica è documentata dai saggi che compongono la prima parte. Con de-scrizione Akrich e Latour intendono il reperimento dello script di un dato OT. Cioè, l’estrazione di ciò che delinea i possibili ruoli, azioni e regole d’interazione tra l’OT e ciò che lo circonda. Il rilevamento dello script permette di rendere conto della significazione degli OT dato che con essa si intende la riorganizzazione della “rete di relazioni – relazioni di tutti i tipi possibili – all’interno della quale noi siamo posti e che ci definisce” (Akrich 1990*) che un dato OT opera. Gli articoli qui presentati hanno tutti una forte valenza metodologica e, nel caso di Latour (1992b*), anche epistemo7 Sorprende che T. Maldonado (2005) non colga la rilevanza che la semiotica ha avuto per Latour. Maldonado (p. 220) cita Bloor e M. Serres come fonti teoriche e lessicali, senza menzionare A. J. Greimas. Forse proprio questo misconoscimento è all’origine dell’idiosincrasia di Maldonado verso lo stile e il linguaggio di Latour e dei malintesi di cui si è accennato nella nota precedente. Per un’introduzione al pensiero di Latour che tiene conto dell’influenza della semiotica cfr. Pacciolla (2005). 8 ontologica – questo articolo è stato definito, infatti, un “manifesto ontologico” (Callon, Latour 1992). Con essi, grazie all’analisi di specifici OT quali sistemi di produzione e di distribuzione di energia elettrica in paesi in via di sviluppo (Akrich 1992c*), chiudi-porta a pistone, cinture di sicurezza, sistemi di regolazione del traffico (Latour 1992b*), un box di connessione per reti via cavo (Akrich 1990*), si vuol mettere alla prova la semiotica da loro elaborata e, al contempo, mostrarne le potenzialità, nonché la produttività teorica. Nell’ultimo articolo di questa prima parte, molto più recente, Marianne de Laet e Annemarie Mol (2000*), attraverso l’analisi di una pompa usata nella savana dello Zimbabwe, cercano di ripensare alcune categorie dell’ANT, come quella fondamentale d’attore-rete e quella di “ingegnere eterogeneo” (Law 1987; 2002b). Viene così introdotto il concetto di “oggetto fluido”, modellato sulla topologia degli spazi fluidi che, differentemente dalle reti e dalle regioni che le prime delineano (Law 2000; Mol, Law 1994), non presenta confini stabili e definiti ed è suscettibile di trasformazioni graduali e locali. Pratiche e attività La seconda parte sembra opporsi alla prima da molti punti di vista: gli articoli non presentano la compattezza teorica della prima parte, anche se quasi tutti sono riferibili, più o meno direttamente, agli STS; molti tra essi tendono ad essere critici nei confronti dell’ANT; nessuno fa esplicito ricorso alla semiotica; assumono tutti uno specifico punto di vista: quello degli operatori che partecipano delle pratiche quotidiane di gestione e di manutenzione degli OT e non quello degli innovatori, privilegiato dall’ANT. Tutti questi articoli, però, si confrontano, in modo più o meno esplicito, con la questione della significazione degli OT. Tale questione è affrontata proprio a partire dal punto di vista privilegiato da questi articoli: quello degli operatori. In questo modo essi integrano le ricerche dell’ANT e la prima parte. I recenti sviluppi della semiotica degli oggetti hanno teso a mettere in luce che la significazione di un OT si realizza, così come per gli utensili (Leroi-Gourhan 1964a, p. 278), “solo (all’interno del loro) ciclo operazionale” e hanno sempre più orientato la ricerca verso lo studio delle pratiche in cui si dispiega il “ciclo 9 operazionale” per meglio rendere conto della significazione degli OT: si sono così cominciati ad elaborare modelli di analisi che considerano la gestualità presupposta (Deni 2002), la prasseologia (Zinna 2004a; 2004b), fino a proporre di considerare per, l’appunto, l’attività effettiva (Mattozzi 2004a; 2004c), senza giungere ancora, però, a definire un modello d’analisi adeguato a descrivere una serie di fenomeni che rilevano di una semiotica delle pratiche, questione su cui la riflessione semiotica è stata ripresa in modo sistematico solo di recente8. Questa seconda parte si presenta, dunque, anche come un contributo specifico a questa riflessione. In apertura di questa seconda parte si è scelto di porre in apertura l’articolo di Steve Woolgar (1997*) che funge da cerniera tra le due parti: più simile agli articoli della prima parte, scritto originariamente all’inizio degli anni ’90 (Woolgar 1991b), esso si pone all’interno della tradizione degli STS, adotta una metodologia esplicitamente testualista, molto vicina alla semiotica, e assume ancora il punto di vista degli innovatori, anche se direttamente rivolto agli utenti. La prospettiva è simile a quella dell’analisi del box di connessione di Akrich (1990*), ma l’analisi di Woolgar si focalizza sulle pratiche attraverso cui un dato utente è inscritto – configurato – in un OT e non tanto su come tale inscrizione risulta dalla documentazione del progetto e dal box realizzato, come fa invece Akrich. Pur condividendo con l’ANT un’impostazione antiessenzialista, il punto di vista di Woolgar, riflessivo e fondamentalmente scettico – “macchina in quanto testo” è, non a caso, considerata solo una metafora –, lo porta a criticare l’ANT, che reintrodurrebbe delle forme di determinismo (Grint, Woolgar 1997). Christian Heath e Jon Hindmarsh, sono tra i principali rappresentanti dei workplace studies (Heath, Button, a.c. 2002; Heath, Luff 2000; Heath, Luff e Hindmarsh, a.c. 2000)9. Quest’ambito di ricerche, costituitosi nel corso degli anni ’90 (Borziex, Conein, a.c. 1994; Engestrom, Middleton, a.c. 1996), si 8 Cfr. l’introduzione in Basso (2002), Fabbri (2005), Fontanille (2004b), Mangano (2005). Quest’ultimo è il resoconto del recente convegno dal titolo Semiotica delle pratiche tenutosi nella primavera del 2005 presso il Centro Internazionale di Studi Semiotici e Cognitivi dell’Università di San Marino sotto la direzione di Zinna. 9 Per un’introduzione in italiano cfr. Parolin, Rotta (2003), per un’introduzione focalizzata sulle ricerche di carattere etnometodologico cfr. Fele (2002). 10 interessa di rendere conto delle pratiche lavorative in quanto mediate da OT. Tali ricerche cercano così di colmare le lacune degli STS riguardo gli operatori, nonché quelle della sociologia del lavoro che si interessa prevalentemente di relazioni tra umani, senza rivolgersi allo studio delle attività di lavoro effettive di cui partecipano anche gli OT (Heath, Button 2002, p. 161). I workplace studies sono il risultato della convergenza tra le ricerche degli STS, e dell’ANT in particolare, e quegli approcci che, rifacendosi al “paradigma dell’azione situata” (Suchman 1987, cfr. infra), criticano l’ergonomia cognitiva. Vari approcci hanno contribuito allo sviluppo di queste ricerche: activity theory (Engeström 2000), etnometodologia, interazionismo simbolico, “ergonomia dell’attività” (cfr. infra), in particolare l’approccio cours d’action (Theureau 2003; Theaureau, Filippi 2000)10. L’articolo di Heath e Hindmarsh (2000*) attraverso un’analisi etnometodologica che si focalizza sugli scambi verbali e sui dettagli dell’interazione con schermi e pannelli in un sala di controllo, con dei computer e con sistemi per la collaborazione a distanza, cerca di mettere in luce come un OT features in nell’interazione, cioè come esso emerga dall’interazione stessa per poi caratterizzarla, assumendo così visibilità e rilevanza. La riflessione di Nicolas Dodier (1995b*) sull’attività tecnica si pone all’interno di una più ampia ricerca (Dodier 1995a) sui limiti della solidarietà che si realizza all’interno di una rete tecnica, sulla sua moralità e sulla violenza messa in atto da tale rete nei confronti degli operatori. Pur assumendo una prospettiva ANT, Dodier critica questa teoria: l’ANT considera solo il punto di vista degli innovatori e non degli operatori, si preoccupa quindi solo di tracciare il dispiegamento della rete senza preoccuparsi delle conseguenze di esso, non distinguendo tra forza del dispiegamento e delle sue associazioni e violenza11. Grazie ad un’etnografia del lavoro ad una catena di montaggio, Dodier mostra quali siano i vari aspetti che caratterizzano l’attività tecnica, attraverso cui gli operatori devono 10 Per rassegna critica di queste ricerche da un punto di vista ANT, cfr. Berg (1998). Questa critica oggi non è più così pertinente come quando fu formulata. Infatti, l’ANT e in particolare Latour hanno iniziato ad occuparsi in modo sistematico della “moralità delle articolazioni” (Latour 2000; Berg 1998) e della necessità di considerare la “normatività” (Latour 2004), integrando così l’impostazione di Latour (1992b*). 11 11 regolare i rapporti tra vari elementi della rete e garantirne così la stabilità, messa continuamente in crisi dalle caratteristiche intrinseche degli OT. L’articolo di Naoki Ueno (2000*), come quello di Heath e Hindmarsh s’inscrive all’interno dei workplace studies e presenta un’impostazione etnometodologica, integrata però dal contributo di Latour (1990) sulle inscrizioni e da quello di Charles Goodwin (2003) sulla visibilità. Quest’ultima, in relazione alla produzione al tornio di microcomponenti è, in effetti, il tema dell’articolo. Ueno mostra come la visibilità di prodotti e produzione emerga grazie alle relazioni tra operatori, OT e documenti contenenti una serie d’inscrizioni che mediano l’interazione tra diversi settori dell’azienda. L’articolo di Christophe Dejours (1993*) è l’unico che non ha alcuna relazione con gli STS. Dejours, psicanalista e psichiatra, nonché “ergonomo dell’attività” (cfr. infra) ha sviluppato la “psicodinamica del lavoro”, approccio che, attraverso sedute collettive di racconto dell’esperienza lavorativa, si propone di comprenderne il vissuto, mettendo in luce sia gli aspetti relativi alla sofferenza che alla gioia. Di chiara ispirazione fenomenologica, quest’approccio ha posto particolare attenzione al corpo e alle mediazioni da esso operate nel corso dell’interazione con OT. Nell’articolo qui presentato, attraverso l’analisi di racconti d’esperienze di lavoro nell’industria di processo, si mette proprio in luce il contributo del corpo allo sviluppo dell’intelligenza pratica. Criteri di selezione Come si è accennato, gli articoli sono stati scelti non solo per mostrare ma, soprattutto, per impostare, con e attraverso essi, un discorso sugli OT e la loro significazione. Se, dunque, alcuni criteri grazie ai quali si è operata questa scelta sono probabilmente già evidenti, altri emergeranno solo nel corso dell’introduzione. La scelta dei saggi della prima parte è stata quasi obbligata dato che quelli qui presentati sono gli articoli più rilevanti per quanto riguarda il dialogo tra ANT e semiotica al fine di de-scrivere gli OT e di rendere così conto della loro significazione. Solo l’ultimo articolo, quello di De Laet e Mol è stato selezionato considerando anche altri criteri. Si voleva, infatti mostrare, attraverso un articolo 12 più recente, come si era evoluta la riflessione dell’ANT e come, all’interno di essa, si era modificata la presenza della semiotica. La seconda parte ha richiesto un processo di selezione più articolato. Al di là della scelta di fondo, già menzionata, relativa al voler integrare la riflessione dell’ANT con analisi di pratiche quotidiane di gestione degli OT, si è ritenuto utile inserire articoli che, rispetto alla prima parte, presentassero una più ampia gamma di punti di vista, sia di carattere metodologico che rispetto agli OT presi in considerazione. Questa scelta è stata guidata dall’idea di mostrare l’ampia diffusione dell’interesse, più o meno diretto, più o meno esplicito, verso le questioni relative alla significazione. Proprio per far conoscere un ventaglio più ampio di prospettive si sono esclusi articoli già tradotti in italiano (Goodwin 2003). L’interesse verso le pratiche ha portato a privilegiare quegli articoli che si focalizzavano effettivamente su di esse, così da escludere tutti quei contributi che danno prevalentemente rilevanza a interazioni verbali o a racconti a posteriori delle pratiche, come ad esempio Orr (1996) o Theureau (2000; 2003), in cui pure si fa esplicitamente uso della semiotica. Unica eccezione a questo criterio è rappresentata dall’articolo di Dejours, che però, molto più di altri, e in qualche modo astraendosi dai racconti verbali, riesce a mettere in luce il ruolo del corpo e della dimensione sensibile nell’interazione con OT. Per ragioni che si comprenderanno nel corso dell’introduzione si è poi scelto di privilegiare le rare analisi di OT tradizionali, non informatici o informatizzati. Questa è la raccolta. Nel resto dell’introduzione delineo quello che è il discorso sulla significazione degli OT che questa raccolta tenta di impostare. Dato che uno dei suoi obiettivi è quello di promuovere il dialogo tra semiotica e altre scienze sociali, ciò che segue si rivolge sia a semiologi che ad antropologi e sociologi. Spero, dunque, che mi vengano perdonate delle specificazioni che possono apparire pedanti. Mi auguro, inoltre, di non alienarmi l’interesse di alcuno ma, al contrario, di mostrare che le aporie, i problemi, le empasse di ciascun ambito possono essere, se non risolte, per lo meno meglio articolate pensandole attraverso l’altro. 13 Oggetti tecnici e significazione Nel corso del ‘900, la tecnica è stata spesso messa in relazione al “pensiero” (Nacci 2000), sia per evidenziare il circolo virtuoso che in questa relazione si crea, sia per metterne in luce il circolo vizioso. Nel primo caso il “pensiero” è inteso come “cognizione” e ci si trova, dunque, in presenza di un potenziamento delle facoltà cognitive – le tecniche come “artefatti cognitivi”. Nel secondo caso il “pensiero” è inteso come “senso” e ci si trova, dunque, in presenza di un “perdita di senso”, come emerge dalla riflessione sulla tecnica svoltasi durante la prima metà del ‘900 (ib.). Più raramente, invece, si è associato in modo altrettanto sistematico tecnica, e più nello specifico, OT e significazione. Se escludiamo la rilevante eccezione di Simondon (1958, pp. 136-147) e la riflessione sulla significazione degli oggetti sviluppatasi in ambito semiotico – che, però, non ha quasi mai preso in considerazione effettivi OT –, tale questione è divenuta d’interesse delle scienze sociali e umane solo di recente12. In sintesi, si possono individuare tre orientamenti alla significazione degli OT13. Essa può essere considerata: inerente agli OT – già “nelle cose”; il significato può essere colto senza la necessità di un’interpretazione, né di alcuna mediazione; trascendente14 gli OT e le pratiche di cui essi partecipano; in questo caso il significato è attribuito, reso, assegnato, conferito a OT e pratiche tramite un’interpretazione che 12 A metà degli anni ’90 doveva essere pubblicato un volume collettaneo dal titolo Material Discorse: Essays on the Meaning of Human Artifacts, a cura di R. Frost e B. Pfaffenberger, con un fine simile a quello della presente raccolta; tale volume non ha mai visto la luce. Recentemente, in ambito ergonomico cognitivo, tendenzialmente restio a considerare questioni relative alla significazione (cfr. infra), si è iniziato ad interrogarsi su questo tema (cfr. Mattozzi 2005): il primo capitolo di Norman (2005) è indicativamente intitolato Il significato delle cose. 13 Questi tre orientamenti sono rinvenibili nella più generale riflessione sulla significazione, anche se qui ce ne interesseremo prevalentemente in relazione agli OT. 14 Onde evitare malintesi filosofici specifico che uso qui “trascendente” nel senso di “che va oltre, al di sopra di qualcosa in quanto assunto come termine di riferimento” (www.demauroparavia.it). OT e pratiche sono assunti come termini di riferimento. 14 prevede una mediazione, operata da un soggetto e/o altre istanze (mente, cultura, comunità di pratiche, ecc.); immanente agli OT alle pratiche di cui essi partecipano; in questo caso il significato emerge dal processo di articolazione delle relazioni, che si dispiega attraverso successive mediazioni, tra OT e le entità che lo circondano; l’interpretazione non è che una di queste mediazioni; il senso, dunque, si15 articola. Questi tre orientamenti sono ovviamente il frutto di un’astrazione, dato che nelle riflessioni e nelle analisi riguardo gli OT essi si trovano spesso sovrapposti e combinati. Distinguerli permette di compararli e di poterne sondare più accuratamente l’adeguatezza. Indipendentemente dalle loro origini e dall’ambito d’adozione e d’applicazione, ciascuno di questi orientamenti, nonché la generale riflessione sulla significazione, risultano essere più o meno direttamente in contrasto con l’ergonomia classica, definita anche come “ergonomia del compito” (cfr. infra). L’ergonomia è, in effetti, l’ambito di ricerca che si è occupato in modo più sistematico di OT e delle pratiche di cui essi partecipano. È dunque comprensibile che delle ricerche che si focalizzano sullo stesso, o su simile, oggetto di studio si pongano più o meno esplicitamente in contrasto con l’ergonomia, soprattutto nel caso in cui mettono in luce aspetti, quali la significazione, da essa non affrontati. Questa è, d’altra parte, la critica che, dall’interno della stessa ergonomia, muove John J. Flach (2000), rappresentante del primo orientamento. Così come altri autori che ad esso fanno riferimento16, Flach muove la sua critica a partire dalla psicologia ecologica di James J. Gibson, per affermare, contro una versione verbocentrica della significazione in cui è necessaria l’interpretazione, che il significato è il materiale grezzo disponibile ad essere colto da un sistema di processamento delle informazioni. Questo primo orientamento, qui definito “inerente”, si distingue dagli altri due per il fatto di non dare rilevanza alla mediazione in 15 E’ necessario assumere questo “si” in modo radicale, come “mormorio anonimo” (Deleuze 1986, p. 78). 16 Conein (1997), Conein, Jacopin (1994), Kirsh (1999), T. Ingold (proprio su questo punto cfr. Grasseni, Ronzon 2004, p. 84). 15 quanto istanza necessaria alla significazione. Sia che si consideri il ruolo dell’interpretante nel costituire il segno e del segno nel costituire la significazione, sia che si consideri una relazione tra forme, quella dell’espressione e quella del contenuto, a base della semiosi, sia che si consideri il ruolo dell’enunciazione nell’attualizzare la significazione, è noto che la semiotica è la disciplina che studia tutto ciò che può essere usato per mediare. Dunque, al fine di impostare un discorso sulla significazione degli OT da un punto di vista semiotico, ritengo più opportuno e produttivo prendere in considerazione solo i secondi due orientamenti17, quello trascendente e quello immanente, che considerano la mediazione. Per meglio comprendere la rilevanza e la specificità dell’orientamento trascendente e di quello immanente, che si basano proprio sulla presa in considerazione della mediazione, è utile operare un confronto con l’ergonomia, che invece elude tale questione. Il discorso dell’ergonomia L’ergonomia, scienza interdisciplinare che mira “ad adattare le condizioni di lavoro alla natura fisio-psicologica dell’uomo” (Grandjean 1969, p. 17) articola il suo discorso, per lo meno nella sua versione classica, intorno ad alcune dicotomie18. La prima, che ne individua l’ambito di ricerca, è quella “uomo/macchina”, declinazione in termini ergonomici delle dicotomie “soggetto/oggetto” o “soggetto/mondo”. Essa è alla base della seconda: user- o human-centered/machine centered. Tale dicotomia individua l’obiettivo che l’ergonomia si pone: progettare macchine che si adattino all’uomo. La terza dicotomia è quella “mente/corpo”, che emerge fin dalla definizione citata più sopra, in cui si fa riferimento alla natura “fisio/psicologica” dell’uomo. Pur non essendo una dicotomia specifica del discorso dell’ergonomia, costituendo, per lo meno da Cartesio, uno dei fondamenti del 17 Li ritengo semioticamente più adeguati. Si consideri anche che delle questioni sollevate dal primo orientamento se ne può rendere conto nei termini di rilevanza e salienza, che pertengono ai processi di significazione, ma che non li esauriscono. 18 Grazie ad un processo d’ontologizzazione, tali dicotomie sono spesso considerate degli stati del mondo e non delle semplici categorie analitiche. In quanto tali sono assunte in modo rigido, venendo a costituire dei veri e propri dualismi. 16 pensiero occidentale, essa viene declinata in modo specifico in questo ambito. Ciò emerge se si prendono in considerazione le origini che gli stessi ergonomi individuano per la disciplina19: da un lato i primi studi di medicina del lavoro di Bernardo Ramazzini, dall’altro l’”organizzazione scientifica del lavoro” propugnata da Frederick Taylor. Ramazzini anticipa di quasi un secolo (Carnevale, Moriani 1986) lo sguardo clinico (Foucault 1963) che tende ad oggettivare il corpo, mentre Taylor imposta tutto il suo discorso sulla dicotomia “concezione/esecuzione”. Per Taylor l’attività d’interazione con OT rileva della sola esecuzione o, meglio, l’“organizzazione scientifica del lavoro” vuole ridurre tale attività a pura esecuzione, dispensando gli operatori dalla necessità di usare il loro sapere, preso in carico e gestito dagli ingegneri che si occupano della concezione. La dicotomia “concezione/esecuzione” è stata poi trasposta in quella più ergonomica di “compito/attività”: “compito”, ciò che, concepito dagli ingeneri, è prescritto all’operatore; “attività”, ciò che l’operatore effettivamente fa, l’esecuzione del compito. A partire da queste origini, l’ergonomia si è costituita come scienza del corpo (fisiologico) al lavoro, da cui la metafora dell’”uomo motore”. Solo negli ultimi 30-40 anni, in relazione al diffondersi di “tecnologie cognitive” si è sviluppata un’“ergonomia della mente”, cognitiva. Questa estensione dell’ambito di ricerca dell’ergonomia non ha intaccato la dicotomia mente/corpo, ma la ha sancita (Cypher 1986: 243): alla metafora dell’“uomo-motore” si è affiancata quella dell’“uomo-elaboratore” (Theureau 2003). Un’ergonomia così dualisticamente impostata, nel momento in cui si pone il problema di mettere in contatto un umano e una macchina, considerati assoluti e scissi, si trova nella paradossale (e un po’ metafisica) posizione di far comunicare due monadi. Il compito dell’ergonomia non può allora che realizzarsi nella forma d’adeguazione immediata, dal momento che non è possibile convocare alcuna istanza di mediazione, non prevista dalla teoria. Come spiega Donald Norman (1988), tale adeguazione è assicurata da mapping e affordance, cioè da configurazioni presenti negli oggetti che rispecchiano e riproducono configurazioni 19 Origini in parte mitiche visto che ufficialmente l’ergonomia è nata nel 1949. 17 cognitive. Il mapping riguarda analogie “tra i comandi, il loro azionamento e i risultati che ne derivano nel mondo esterno” così da consentire “una comprensione immediata” (p. 32, corsivo mio); le affordance, categoria derivante dalla psicologia gibsoniana, che indica quelli che sono gli “inviti all’uso” forniti dagli oggetti, presuppongono anch’esse l’immediatezza. Quest’impostazione fondata sull’immediatezza20 la si ritrova anche nella concezione che l’ergonomia ha dell’attività. Nel momento in cui un compito è ben progettato – cosa garantita dalla task analysis (analisi dei compiti) – l’attività vi si adegua immediatamente: il compito si realizza non problematicamente nell’attività. Soggiacente a questa concezione dell’attività vi è la “teoria dell’azione programmata” desunta dalle scienze cognitive ed assunta all’interno dell’ergonomia. Secondo questa teoria l’azione è innanzitutto pianificata mentalmente e la sua realizzazione non è che la messa in atto di ciò che è stato pianificato: l’utente, dunque, dopo aver capito il funzionamento della macchina o gli ordini impartiti, si forma delle intenzioni ed è capace di trasporre queste “intenzioni in una sequenza d’azioni” (Bagnara, Broadbent 1993). Questo disconoscimento della mediazione rende inutile qualunque problematizzazione della significazione: nel momento in cui si realizza un’adeguazione immediata non si pongono problemi d’articolazione e/o interpretazione. Crisi del discorso dell’ergonomia – Mediazioni e significazione Nel corso degli ultimi vent’anni, questo tipo d’impostazione dell’ergonomia è stato messo fortemente in crisi da una serie di approcci e proposte, interni ed esterni all’ergonomia, che hanno cercato di dare rilevanza alle istanze di mediazione che intervengono tra umano e macchina, tra compito e attività e tra pianificazione e esecuzione dell’azione. O meglio, alle istanze di mediazione che emergono nel corso dell’azione e che ne rendono possibile il dispiegamento. In ambito francofono si è sviluppata l’”ergonomia dell’attività” – contrapposta a quella classica, definita 20 Per una critica più approfondita, cfr. Mattozzi (2003; 2004c). Nei saggi presenti in Norman, Draper (a.c. 1986) quest’impostazione è molto più sfumata, ma si perde nei testi di Norman successivi, di carattere più divulgativo. Indirettamente, tale questione è affrontata da un punto di vista filosofico in De Carolis (2004). 18 “del compito” (Montmollin 1996; Dejours 1995). Essa s’interessa più delle strategie messe effettivamente in atto dagli attori, che dell’adeguazione di prescrizioni (Dejours 1995; cfr. Dejours 1993*). Secondo quest’approccio l’attività è irriducibile al compito e non può essere considerata la sua semplice esecuzione, dato che il compito è riconcepito dall’attività e, dunque, è semmai quest’ultima che si realizza nel compito (Clot 1996, p. 276; cfr. Dodier 1995b*). In ambito anglosassone, invece, come diretta critica della teoria dell’azione programmata si è sviluppato il “paradigma dell’azione situata” (Mantovani 2000; Grasseni, Ronzon 2004, pp. 61, 151179), inaugurato dall’etnometodologa Lucy Suchman (1987). Per Suchman – riferimento per molti degli articoli presenti in questa raccolta – l’azione non è prima programmata, mentalmente e, quindi, messa in atto, ma sempre situata e distribuita, cioè organizzata contingentemente in relazione agli elementi che essa trova e può concatenare nel corso del suo dispiegamento; la pianificazione non è che uno di questi elementi, una risorsa tra le altre, che può essere utilizzata per organizzare l’azione e per valutarne gli effetti, ma che non può in alcun modo determinarla. Entrambe queste critiche operano uno spostamento dell’attenzione dai termini delle dicotomie alle relazioni che le costituiscono, rendendo possibile una valorizzazione della mediazione. Ciò ha portato ad un radicale ripensamento dell’ergonomia e del suo discorso. L’antropologo cognitivo Ed Hutchins (1995), in base ai dati raccolti durante la sue etnografia di pratiche di navigazione, ha fatto notare che nel momento in cui si considera la cognizione, così come l’azione, situata e distribuita, va in crisi la rigida dicotomia soggetto/oggetto e, in particolare, una rigida divisone tra mente e mondo esterno – dunque, anche quella tra uomo e macchina – con la conseguenza che l’unità d’analisi dell’ergonomia non può non comprendere l’ambiente sociomateriale, in cui sono già presenti elementi che possono assurgere a istanze di mediazione21. A questo proposito, Theuraeu (2003) 21 La situazione presupposta dall’ergonomia del compito e realizzata nella sua pratica sperimentale – umano vs macchina – è chiaramente irreale (cfr. Woolgar 1997*): le interazioni con qualunque OT, per quanto nuovo, sono sempre mediate dalle relazioni che costituiscono la situazione in cui l’OT è inserito, cfr. Latour (1996c), Bruni (2005). Ueno (2000*), attraverso il concetto di “ecologia” vuole proprio mettere in luce questo aspetto. 19 ritiene che non si possa più parlare di user-centered design ma solo di practice-centered design. Hubault (1999, p. 30) a partire dalle riflessioni dell’“ergonomia dell’attività” rifiuta la dicotomia concezione/esecuzione, ritenendo che l’attività tecnica comporti sempre una parte di concezione e, dunque, dell’interpretazione, giungendo alla conclusione che per “l’ergonomia il lavoro è … innanzitutto una questione di senso”: tutte le attività richiedono la mobilitazione dell’intelligenza a partire dal corpo, attraverso le cui sensazioni e percezioni si ha accesso al senso (Dejours, 1993*). Come si può rilevare, a seguito della valorizzazione della mediazione emerge la questione della significazione (Mantovani 2000): come afferma il decano degli ergonomi francesi Maurice de Montmollin (1996, p. 15, trad. mia) l’attività tecnica “acquista il suo senso, in tutte le accezioni di questo termine” solo nel momento in cui è considerata come processo, anche sociale. L’ANT ha particolarmente approfondito, in modo autonomo ma non estraneo al dibattito che ha coinvolto l’ergonomia, la questione della mediazione. “Mediazione” è, infatti, una categoria fondamentale dell’ANT. Grazie ad essa si cerca di rendere conto di singolarità, eventi o attanti, che con il loro emergere riarticolano le relazioni da cui queste stesse singolarità emergono. In particolare Antoine Hennion (1993) fa notare che con mediazione non si deve intendere un’istanza che connette due istanze che le preesistono, ma due istanze che vengono costituite da una terza, che “media”, a partire da uno sfondo di sole relazioni. Un esempio di ciò è fornito dal primo articolo di Akrich (1992c*) in cui si mostra come un gruppo elettrogeno, per il tipo di relazioni che articola grazie alla sua specifica configurazione, sia in grado di far emergere un “ambito civico” e uno “commerciale” all’interno dei villaggi senegalesi: il gruppo elettrogeno opera, dunque, una mediazione tecnica e, pertanto, una mediazione sociale (Akrich 1993a). Per caratterizzare meglio cosa si deve intendere per mediazione Latour (1999b) distingue tra “mediazione” e “intermediazione”. Solo nel primo caso l’attante o l’evento emergente eccede le cause che lo hanno generato, cosa che lo mette nella condizione di riarticolare le relazioni di cui è parte; nel caso dell’intermediazione non si verifica nessun eccesso e si instaura una relazione semplice così come determinata dalle sue cause. La possibilità d’intermediazione 20 solitamente si dà quando una serie di relazioni vengono oggettificate, debrayate, e vincolate in una “scatola nera”, cioè in un dispositivo chiuso e funzionante che non pone problemi e non viene più messo in questione – ad esempio un chiudi-porta a pistone, della cui presenza non ce ne si rende conto se non quando si rompe (Latour 1992b*). Tali relazioni tendono così a “rarefarsi” (Akrich 1993a), a diventare trasparenti, invisibili, dando anche l’impressione d’immediatezza. Sia Latour che Hennion mettono in luce la coincidenza tra il concetto di mediazione e quello semiolinguistico di enunciazione, pienamente assunto all’interno della riflessione di Latour (1988a; 1999c). La significazione degli oggetti tecnici Le discipline e gli approcci precedentemente descritti al fine di cogliere e rendere conto della significazione degli OT hanno adottato uno dei due orientamenti che considerano la mediazione – “trascendente” o “immanente” –, o una combinazione tra i due, senza, peraltro, necessariamente escludere l’orientamento “inerente”22. Quello “trascendente” è l’orientamento più frequentemente assunto per rendere conto della significazione, in generale, non solo in relazione agli OT. Esso è adottato dall’“ergonomia dell’attività” e, quindi, in questa raccolta da Dejours (1993*) che a quest’approccio si riferisce. Per Dejours il significato è attribuito, più che all’OT, all’esperienza che gli operatori ne fanno; di esso se ne può rendere conto attraverso il racconto del vissuto degli operatori. Esso è adottato anche da altri approcci d’impostazione psicologica (activity theory (Engeström 2000), psicologia culturale proposta in Mantovani (2000, pp. 169-172), Norman (2005)). Ad esso si fa ampiamente riferimento anche all’interno di ambiti lontani dalla psicologia, quali gli studi di cultura materiale (Mannoni, Giannichedda 1996, p. 20; Manquet 2003) o la sociologia e, in particolare, l’interazionismo simbolico. Proprio a partire da quest’ultimo ambito di ricerche sociologiche è stato elaborato, da Susan L. Star e James R. Griesemer (1989), il 22 La combinazione più diffusa è probabilmente quella tra orientamento inerente e orientamento trascendente che, reiterando tradizionali dualismi, pone in relazione la significazione con qualità primarie e secondarie. 21 concetto di boundary object: esso è un oggetto posto sul confine tra diverse culture o comunità di pratiche che viene interpretato in modo differente da ciascuna di esse e che permette a tali comunità di comunicare. Tale concetto è discusso sia in Ueno (2000*), che in de Laet e Mol (2000*). Per Ueno, ad esempio, il “piano di produzione” su cui si basano le azioni del management e degli operai è considerabile un boundary object che permette a diversi reparti della fabbrica da lui analizzata di comunicare23. Più complessa, e più esplicita, è la riflessione sulla significazione degli OT di Simondon (1958, pp. 136-147), che si pone in una posizione intermedia tra un orientamento immanente e uno trascendente: a partire da un ripensamento della teoria dell’informazione, Simondon ritiene l’umano, e più in generale il vivente, un mediatore, un trasduttore che, per quanto riguarda gli OT, coglie l’informazione che emerge dalle forme degli OT stessi in quanto significazione; in questo modo riesce a regolare tra loro gli OT, che invece interagiscono solo sulla base di forme. Dodier (1995b*), che si rifà esplicitamente a Simondon per molte delle categorie che usa, sembra adottarne anche la prospettiva sulla significazione. Gli altri approcci citati e quelli a cui si rifanno gli altri articoli presenti in questa raccolta tendono tutti a privilegiare un orientamento immanente. Tale orientamento è sostenuto dall’ANT in modo molto esplicito e coerente. Per l’ANT la significazione si articola congiuntamente all’articolarsi delle reti di relazioni che costituiscono il mondo o, meglio, il “collettivo” (Latour 1999b; 1999d), inteso come l’insieme delle associazioni tra attanti umani e non umani (1999b, p. 304). A partire da queste considerazioni che Akrich (1990*) può dichiarare che la significazione di un OT dipende da come esso “riorganizza differentemente la rete di relazioni – di tutti i tipi possibili – all’interno della quale noi siamo posti e che ci definisce”; Akrich specifica che la significazione emerge dalla messa in relazione tra OT e utenti, intesa, in ambito ANT, come traduzione tra istanze. Akrich e Latour (1992*) ascrivono quest’impostazione alla semiotica che essi considerano lo 23 Come si vedrà, sia Ueno che soprattutto de Laet e Mol, assumendo un’orientamento “immanente”, tendono a riformulare e criticare il concetto di boundary object, troppo connesso ad un concetto trascendente di interpretazione. 22 studio di come il senso è costruito – oggi Latour direbbe “articolato” (1999b; 1999d; 2004) – specificando che “la parola “senso” è assunta nella sua accezione originaria”, come traiettoria. Per l’ANT, dunque, il senso si articola attraverso la successione di diverse traduzioni tra attori-rete che tracciano, così, una traiettoria. La posizione dell’etnometodologia, a cui si rifanno sia Heath e Hindmarsh (2000*), che Ueno (2000*), non è altrettanto chiaramente ascrivibile ad un orientamento immanente. Gli etnometodologi, infatti, tendono, da un lato, a non adottare una radicale simmetria tra attanti umani e non-umani (Suchman 2001), cosa che può portare a conferire ad un umano un ruolo trascendente, e, soprattutto, dall’altro, non esplicitano una “teoria del senso per spiegare la comprensione” (Fele 2002, p. 134), limitandosi a constatare che vi è del senso e che questo viene articolato. Nonostante quest’atteggiamento restio a teorizzare la significazione, si può affermare che l’etnometodologia adotta, più o meno implicitamente, un orientamento immanente. Gli etnometodologi assumono come oggetto d’analisi l’organizzazione del “campo fenomenico” costituito dagli oggetti e dalle azioni. L’intelligibilità di questo dipende dal concatenarsi di pratiche osservabili, cioé dal modo in cui partecipanti all’interazione “riflessivamente e continuativamente, costituiscono il senso e l’intelligibilità della “scena” a partire dall’interno delle attività in cui sono coinvolti” (Heath, Luff 2000, p. 19, trad. mia). L’etnometodologia, dunque, prendendo in considerazione l’allineamento di relazioni tra “dettagli che si costituiscono reciprocamente attraverso cui azioni, oggetti, artefatti … acquistano il loro valore (significance)” e considerando che “i significati non ineriscono ad elementi o proprietà individuali, né ad una struttura sottostante posta dietro le apparenze, ma solo alle relazioni di “referenza reciproca” dispiegate in un campo di fenomeni osservabili” (Suchman 2000, p. 6, trad. mia), s’inscrive chiaramente all’interno di un orientamento immanente. Esso, però, non esclude l’esistenza di pratiche interpretative fondate su “attività segniche” che operano un tipo di mediazione qui definita trascendente. Tali pratiche sono ritenute solo il prodotto “a freddo”, retrospettivo, di una pratica che si è svolta “a caldo”, effettivamente analizzata. In Heath e Hindmarsh (2000*), può capitare di accennare ad 23 un’istanza trascendente – un soggetto – che interpreta, ma ciò che interessa gli autori è capire come un OT features in nel corso dell’interazione, cioè ne emerge e, una volta emerso, la caratterizza. Questo processo, delineato dall’espressione feature in è una mediazione molto simile a quelle considerate dall’ANT24. Oggetti tecnici, significazione, semiotica Come può la semiotica inserirsi in questo dibattito e dialogare sulla significazione degli OT con i vari approcci presentati? Con quale ruolo? Diversamente dai vari approcci, teorie e ricerche citate che solo raramente, e sempre in modo circoscritto, riflettono esplicitamente sui temi di cui ci si sta occupando, la semiotica è la disciplina che studia processi e sistemi di significazione. E’ dunque nella posizione di approfondire le varie questioni sollevate per cercare di comprendere quale sia l’orientamento, o la combinazione di orientamenti, più adeguato a rendere conto della significazione degli OT. Semiotica e orientamento immanente La semiotica, però, come altri approcci, tentenna tra un orientamento trascendente e uno immanente. Questo tentennamento persiste nonostante il fatto che il linguista danese Louis Hjelmslev (1943), sistematizzando la riflessione semiotica a lui precedente, abbia chiaramente privilegiato un orientamento immanente alla significazione. Hjelmslev definisce infatti quest’ultima come una relazione tra forme, quella del piano dell’espressione e quella del piano del contenuto. Per Hjelmslev, dunque, che non propone alcun investimento ontologico dei due piani del linguaggio – non vi è “nessuna giustificazione per chiamare l’un(o) piuttosto che l’altr(o) … espressione o contenuto” (p. 65) – ma si limita ad una definizione funzionale – cioè relazionale (cfr. n. 34) –, la significazione non è altro che il risultato 24 In Heath, Luff (2000) si sottolinea che gli OT non operano una mediazione, ma che essi, per l’appunto, feature in. Cioè, nei termini dell’ANT, essi non operano un’intermediazione, presa in considerazione, ad esempio, dall’activity theory, ma un’effettiva mediazione. 24 dell’articolarsi di relazioni, senza la necessità che intervenga alcuna istanza trascendente. Le forme, infatti, ambito di pertinenza dell’analisi semiotica (Greimas, Courtès 1979, p. 170), non sono che “strutture” (pp. 147-148), cioè “entità autonom(e) di relazioni” (p. 347). L’impostazione hjelmsleviana e il “principio d’immanenza” che ne consegue sono stati fortemente criticati all’interno della stessa semiotica, in quanto ritenuti formalisti (Coquet 1991; Fontanille 2004, p. 19) e non adeguati a rendere conto di fenomeni non afferenti al linguaggio verbale. In particolare, non adeguati a rendere conto d’oggetti (Semprini 1995; 2002) e pratiche (Basso 2002). Ma la definizione di significazione fornita da Hjelmslev (1943) non è affatto formalista se interpretata alla luce dell’epistemologia relazionale che ne è alla base.– “gli ‘oggetti’ … non sono (…) che intersezioni di fasci di (…) dipendenze25” (p. 26). Nulla vieta, infatti, di considerare relazioni che non siano relazioni linguistiche, che costituiscono oggetti che non sono oggetti linguistici, al fine di renderne conto in modo altrettanto rigoroso dell’analisi linguistica e per produrre simili risultati in termini d’intelligibilità ed euristicità. Nulla, se non un’interpretazione restrittiva del “principio di immanenza” secondo la quale solo le relazioni interne ad un testo possono essere prese in considerazione. Ma per Hjelmslev il “principio d’immanenza” – applicato all’intero linguaggio verbale – è un principio metodologico a garanzia dell’omogeneità della descrizione di ciò che si sta studiando26. Ciò che è rilevante nel “principio d’immanenza” è dunque l’omogeneità e non l’inclusione all’interno di un dato ambito, che è invece effetto della relazione d’omogeneità. La semiotica, dunque, non si deve limitare a rendere conto di sole relazioni linguistiche. Greimas (1974, p. 140) lo aveva tanto ben presente che tentò di descrivere in termini relazionali lo spazio urbano, anticipando, così, di dieci anni l’ANT: 25 Cioè, fasci di relazioni. L’esclusione di relazioni extra-linguistiche dipendeva solo dal fatto che queste non sarebbero state omogenee con ciò che lui stava cercando di descrivere nel corso di quella specifica ricerca. 26 25 … l’istanza individuale appare costituita dall’insieme di relazioni dell’individuo con gli oggetti che lo circondano, facendo di lui il centro di questa rete relazionale; l’istanza collettiva, per contro, si presenta come l’insieme delle reti (elettricità, gas, acqua, fogne, telefono, posta, metropolitana, strade, ecc.) i cui termini costituiscono altrettante istanze individuali. Gilles Deleuze e Felix Guattari (1980, p. 115; Deleuze 1986, p. 49) anch’essi assumono la teoria hjelmsleviana per descrivere relazioni non necessariamente linguistiche. Affermano così che la prigione è la “forma del contenuto” che rinvia non alla parola “prigione”, ma ad altri concetti e parole, come “delinquente, delinquenza” che, in quanto enunciati, ne costituiscono “la forma dell’espressione”27 – esempio ripreso da Fabbri (1998a, p. 19) ad illustrazione della “svolta semiotica”. L’orientamento immanente, e l’epistemologia relazionale che ne è alla base, caratterizzano anche la semiotica di Charles S. Peirce e, più in generale, il pragmatismo e lo strutturalismo (Deleuze 1973), paradigmi all’interno dei quali si sono sviluppate le due principali tradizioni semiotiche28. Altra caratteristica che accomuna le due tradizioni semiotiche e deriva direttamente dall’epistemologia relazionale, è l’impostazione antidualista e antiessenzialista: la rilevanza data alle relazioni, piuttosto che ai termini di queste relazioni, che ne sono solo l’effetto, impedisce di assumere a fondamento della propria teoria questi termini e le dicotomie che essi manifestano, nonché di conferire loro una qualunque essenza. Al contempo, l’epistemologia relazionale impedisce di pensare ad un’istanza che trascenda queste stesse relazioni. Così 27 Per Deleuze e Guattari (1980) la semiotica riguarda solo una parte della loro hjelmsleviana “strato-analisi”: l’analisi del piano dell’espressione, cioè dei concatenamenti enunciazionali. Qui, pur ritenendo la riflessione di Deleuze e Guattari fondamentale per il discorso che si tenta di delineare, non si assume la rigida divisione da loro proposta che associa piano del contenuto a concatenamenti macchinici e piano dell’espressione a concatenamenti enunciazionali. Qui, con semiotica, che viene così a coincidere con “stratoanalisi”, s’intende l’analisi globale delle relazioni tra i due piani,. 28 La filosofa C. Chauviré (1995, pp. 63-64) sottolinea che la descrizione peirciana della semiosi come processo autonomo non presuppone alcun soggetto trascendentale e che, in quanto tale, essa ricorda il processo senza soggetto dello strutturalismo. I presupposti epistemologici qui citati, soggiacenti alla semiotica di Peirce, come a quella di Hjelmslev, sono al centro delle ricerche di C. Paolucci che, in questa sua archeologia, s’ispira al lavoro di Deleuze e Guattari i quali, attraversando strutturalismo e pragmatismo, hanno elaborato una filosofia relazionale, immanentista, antidualista e antiessenzialista. 26 l’epistemologia semiotica non permette di assumere a fondamento della propria riflessione dicotomie quali corpo/mente, sensibile/intelligibile o soggetto/mondo. Hjelmslev, in effetti, dispiegando l’epistemologia relazionale in modo coerente su tutta la teoria, ha liberato il concetto di segno da ogni residuo dualistico che ancora caratterizzava l’impostazione saussuriana (Fabbri 1998b, p. 212). La semiotica, nelle sue principali tradizioni che, se non altro, hanno questo in comune, è, dunque, caratterizzata da un’epistemologia relazionale, da una teoria della significazione immanente e da un’impostazione antidualista e antiessenzialista. La riflessione semiotica che cerca di introdurre, più o meno surrettiziamente, istanze di mediazione trascendenti – interprete, soggetto, cultura, ecc. – o che cerca di riontologizzare espressione e contenuto ascrivendoli, ad esempio, alla dicotomia sensibile/intelligibile (tra gli altri, Zinna 2004a) o a interiorità/mondo esterno percepito (Fontanille 2004a), non sembra essere capace di un’elaborazione all’altezza delle sue premesse epistemologiche. L’ANT, invece, fondata sulle stesse premesse della semiotica (Latour 1984a), nel momento in cui ascrive la propria teoria della significazione (e se stessa) alla semiotica non compie alcuna forzatura29, né dà di semiotica o di significazione una definizione riduttiva – anche se certe sue applicazioni lo sono (cfr. infra). Semmai, messasi di fronte ad oggetti di ricerca recalcitranti una teoria della significazione – gli oggetti, in generale, che hanno costretto la semiotica al silenzio per vent’anni (cfr. infra) – sollecita e forza la semiotica a riscoprire le sue premesse epistemologiche al fine di riuscire a rendere adeguatamente conto della loro significazione. Una semiotica degli OT non può, allora, che assumere un orientamento immanente, coerente con la generale impostazione semiotica e, quindi, assumere anche la definizione di semiotica e di significazione degli OT proposta dall’ANT (Akrich 1990*, Akrich, Latour 1992*), grazie alla quale si può rendere effettivamente conto della significazione degli OT come articolazione di senso. Con gli 29 Contrariamente a quello che possono pensare critici favorevoli (Høstaker s.d.) o contrari (Lenoir 1994) alla “svolta semiotica” di Latour (1984a, 1991). 27 articoli presenti in questa raccolta, che quasi tutti privilegiano un orientamento immanente, si cerca dunque di affermare questa ipotesi30. Antidualismo, adeguatezza e semiotica degli oggetti L’orientamento immanente, con l’epistemologia che ne è alla base, non solo è semioticamente plausibile e coerente, ma risulta anche adeguato. Come si è visto, la possibilità di prendere in considerazione la significazione degli OT si è data solo nel momento in cui è stato possibile valorizzare la mediazione e superare, così, il rigido dualismo dell’“ergonomia del compito”. Dato che non si tratta di negare dicotomie e dualismi, che, in quanto sistemi di categorizzazione, sono inevitabilmente presenti e partecipano dell’articolazione delle nostre pratiche, ma di rendere conto della loro emergenza, costituzione e stabilizzazione, una ricerca che si vuole adeguata dovrebbero evitare di sovrapporre propri dualismi a quelli che emergono dalla situazione analizzata e, quindi, dovrebbe riuscire a rendere conto esaustivamente di essi. L’epistemologia relazionale, per le caratteristiche descritte in precedenza, non solo garantisce di non reintrodurre nuovi dualismi, ma soprattutto, non assumendone nessuno, garantisce di poter rendere conto di tutte le dicotomie e di tutti i dualismi, risultando così più adeguata dell’orientamento trascendente che deve perlomeno presupporre e assumere una dicotomia, quella tra l’istanza di base e l’istanza che la trascende. Queste affermazioni, riguardo la maggior adeguatezza dell’orientamento immanente, si basano non solo su considerazioni di carattere teorico-epistemologico, ma anche sull’osservazione della passata esperienza di riflessione semiotica sugli oggetti (Krampen 1979) che, non a caso, si è risolta in un fallimento: una volta esauritasi, per vent’anni non si è stati capaci di dire qualcosa di nuovo e rilevante sugli oggetti a partire da quell’esperienza. Il primo periodo di riflessione semiotica sugli oggetti è stato caratterizzato dall’elaborazione di Roland Barthes (1964; 1966)31. 30 Il contributo che più si discosta da un orientamento immanente è quello di Dejours (1993*), ma anche in quel caso ciò che viene descritto, l’intelligenza pratica come intelligenza del corpo, rimanda ad un’impostazione immanente: l’intelligenza pratica, infatti, non è che una intelligenza immanente. 28 Nel tentativo di rendere conto degli oggetti, che si dimostravano alquanto refrattari a piegarsi alle categorie saussuriane, Barthes sostiene che essi partecipano della significazione ma che, differentemente dai segni linguistici, la loro significazione si fonda su un “supporto”, uno strato, non significante, ma funzionale. Questa teorizzazione, per quanto fondamentale per far accedere gli oggetti alla riflessione semiotica, rinunciando esplicitamente (1964, p. 33) ad un approccio differenziale e, dunque, immanente, veniva imbrigliata in una rete di dualismi dispiegatasi a partire da quello significazione/funzione: “segni linguistici” / “segni semiologici” o funzioni-segno, “dimensione antropologica semiologica” / “dimensione antropologica tecnica”, parole/cose. Essa, dopo qualche sviluppo apportato da altri semiologi (Krampen 1979) – tra gli altri, Jean Baudrillard (1968), Umberto Eco (1968), Luis Prieto (1975) – non poteva che isterilirsi: la semiotica veniva ridotta a rendere conto della funzione in quanto significata e di possibili altre connotazioni a cui essa poteva rinviare, tralasciando completamente l’oggetto, divenuto solo il veicolo per qualcos’altro (Dodier 1995a; Latour 2000). Dato che solo il qualcos’altro era di pertinenza semiotica, tale riflessione ha ingenerato una smaterializzazione degli oggetti (Dagognet 1989; Maldonado 1970) che ha portato ad ignorare la loro configurazione plastica, la loro costituzione materica, nonché la funzione effettiva, in quanto praticata, cioè l’uso32: tutto ciò era considerato parte del “supporto” e in quanto tale pre- o non-significante. Tale impostazione dualistica non poteva che porre le basi per una sua evoluzione “cognitiva”, in cui emerge un’istanza trascendente che presiede all’attribuzione delle significazioni che aleggiano sopra all’oggetto. Essa è stata prontamente proposta da Eco (1975, p. 36) quando, parlando della produzione come fenomeno culturale, introduce l’esempio della produzione di un utensile come l’amigdala, specificando che tale produzione dà luogo ad un substrato semiotico solo nel momento in cui l’utensile è pensato e nominato come funzione, estendibile ad altri oggetti simili. Due pagine dopo (p. 39), Eco compie la definitiva ed esiziale (per la semiotica degli oggetti) ascrizione della 31 Per una approfondimento della elaborazione di Barthes, che non può essere ridotta solo a questi due testi, cfr. Mattozzi (2006). 32 Cfr. anche Zinna (2004a). 29 riflessione barthiana ad un orientamento trascendente, cognitivamente impostato. Egli, infatti, afferma che la pertinenza semiotica di un oggetto risiede nel fatto che, una volta “concettualizzato” il suo “possibile uso”, esso diventa il segno concreto di un uso virtuale33. Secondo quest’impostazione, che sclerotizza la riflessione sugli oggetti nella successione di dicotomie funzione/significazione-azione/cognizionecorpo/mente34, alla semiotica degli oggetti non resta che il compito di dire se un oggetto comunica bene o male la sua funzione. Questo compito, in base a queste premesse, è però svolto sicuramente meglio dall’ergonomia cognitiva. Quando, a metà degli anni ’90, la riflessione semiotica sugli oggetti (Floch 1995b; 1995c; Fontanille 1995; Semprini 1995) è riemersa, si è sviluppata (cfr. n. 2), pressoché immemore della riflessione precedente, su basi epistemologiche, teoriche e metodologiche completamente diverse. Questa rinascita è stata resa possibile dal passaggio da un paradigma del segno a uno del testo (Marrone 2002), che ha permesso di comprendere che il “segno non è che la risultante manifesta di una strutturazione di parti” e “il componente di una struttura più ampia”. Si è dunque reso necessario descrivere queste strutture, cioè “ricostruire il sistema delle differenze” e “l’articolazione formale interna” (p. 14). Da ciò che afferma Gianfranco Marrone emerge chiaramente che il passaggio dal segno al testo è un passaggio ad un’impostazione più coerentemente e diffusamente relazionale. Non è un caso, dunque, se la rinata semiotica degli oggetti ha dismesso la dicotomia funzione/significazione, ascrivendo la prima alla seconda, grazie ad una sua traduzione in termini narrativi (Floch 1995)35. Akrich 33 Si confronti l’approccio di Eco con quello proposto da Deleuze e Guattari (1980, p. 108): i due teorici francesi, che riprendono esplicitamente la teoria di Leroi-Gourhan, ritengono che “i contenuti si trovano legati alla coppia mano-utensile e le espressioni alla coppia faccia-linguaggio” (cfr. n. 27). 34 Questa prospettiva dualistica continua comunque a riemergere (De Ruggeri 2004; Manquet 2003), anche lì dove non ce lo si aspetterebbe (Deni 2002). 35 Anche se non completamente: la dicotomia funzione/significazione è utilizzata da A. Zinna (2004a; 2004b), per distinguere oggetti e testi, dire e agire. Per quanto questa impostazione dualistica possa richiamare il primo periodo di riflessione semiotica sugli oggetti, Zinna è molto critico verso quella riflessione proprio perché ha cercato di rendere conto solo di come la funzione è comunicata e non della funzione in sé. Purtroppo non è possibile approfondire qui la questione della funzione, chiaramente di fondamentale importanza per lo sviluppo di una semiotica degli oggetti. Propongo solo 30 (1990*) aveva già esplicitamente sostenuto ciò, rifacendosi a categorie semiotiche: ciò che designiamo come la funzione degli oggetti tecnici non si oppone alla significazione. Tale opposizione appartiene ad una prospettiva tecnicista o, al contrario, culturalista. Dal nostro punto di vista la funzione non è che parte del programma d’azione definito dallo script di un dato dispositivo tecnico. Articolare il senso Nonostante l’orientamento immanente risulti plausibile ed adeguato, la definizione di significazione data da Hjelmslev come relazione tra due forme, ascrivibile a questo orientamento, non è sufficiente a rendere conto della significazione come “articolazione di senso”. Tale definizione si presenta come troppo statica rispetto alla necessità di rendere conto dell’articolazione come processo, come messo in luce anche dall’ANT in cui si parla di articolazione “di una traiettoria” (Akrich, Latour 1992*). Nel Dizionario (Greimas, Courtès 1979, p. 323), Greimas, dopo aver passato in rassegna varie definizioni assiomatiche di significazione conclude la voce dandone una di carattere empirico: la significazione non può che essere colta al momento della sua manipolazione, al momento in cui, interrogandosi su di essa in un linguaggio e in un testo dati, l’enunciante è condotto ad operare trasposizioni, traduzioni da un testo in un altro, da un livello di linguaggio in un altro, insomma da un linguaggio ad un altro linguaggio. Questa definizione, soprattutto se presa nella sua interezza è alquanto problematica e non del tutto coerente con l’impostazione relazionale e immanente che si sta cercando di affermare. Non qualche riflessione e qualche citazione. Coerentemente con l’impostazione generale qui assunta, della funzione si deve rendere conto in termini relazionali. E’ indicativo che la semiotica, che pure con Hjelmslev (1943) ha sviluppato una teorizzazione relazionale di funzione (cfr. Greimas, Courtès 1979, pp. 152), quando ha affrontato gli oggetti non abbia saputo proporre una teoria un po’ più complessa di quella di carattere operativo desunta dal senso comune. Barthes stesso (1963; 1973), ad esempio, aveva una visione più complessa del concetto di funzione che non ha però pensato di trasporre agli oggetti. Senz’altro la via è considerare la funzione una relazione narrativa così come prima di Floch (1995) hanno proposto Greimas (1973), a cui Floch si è ispirato, e M. Hammad (1977) in relazione all’architettura. Per uno sviluppo della “componente funzionale” di Floch in termini di “valorizzazioni funzionali”, cfr. Fontanille (2002). La riflessione di carattere sistemico di Simondon (1958) può risultare molto utile per un ripensamento generale della questione. 31 potendo qui approfondire la questione, che a mio parere segnala una difficoltà e una titubanza della semiotica a mantenere le sue premesse epistemologiche nel passaggio al livello empirico, trattengo solo ciò che mi è utile a proseguire il discorso: la significazione si dà empiricamente come successione di traduzioni (cfr. anche Greimas 1970, pp. 43-44). Anche in questo, dunque, la semiotica si presenta simile all’ANT, secondo cui l’articolazione di reti avviene attraverso successive traduzioni. Per la semiotica, come si può leggere, le traduzioni avvengono tra testi, tra linguaggi, cioè tra forme, cioè tra assetti di relazioni. Riprendendo Hjelmslev, allora, la significazione in quanto articolazione di senso può essere pensata come la messa in relazione, cioè la traduzione, di una forma del contenuto in una forma dell’espressione, la cui relazione diviene piano dell’espressione per un altro contenuto. E’ questo processo di successive traduzioni che traccia una traiettoria, traccia un senso o, hjelmslevianamente, traccia il senso36. Con articolazione di senso si può dunque intendere la riconfigurazione di una porzione di uno sfondo di sole relazioni lungo una direzione tracciata dal processo di riconfigurazione stesso che avviene tramite successive traduzioni37. Il compito della semiotica è, dunque, quello di rendere conto di come si costituiscono dati assetti di relazioni, cioè delle forme, e come queste si pongono in relazione, cioè si traducono, in altri assetti, in altre forme, in base a due grandi insiemi di relazioni: quelle narrative e quelle enunciazionali o discorsive. Una semiotica degli OT deve, allora, descrivere le varie relazioni che un OT intrattiene e come esse si traducono in altre relazioni. Il modello d’analisi proposto da Akrich e Latour, che si basa sul reperimento degli script, cioè di forme, che si traducono in altre forme, in altri assetti di relazioni, va in questa direzione, anche se è necessario complessificarlo per meglio rendere conto dell’articolazione interna all’oggetto – configurazione plastica, composizione materica – e della sua articolazione esterna, in relazione alle pratiche d’uso38, in cui, come mostrano i saggi della 36 Ricordo che per Hjelmslev il senso è la materia o continuum, esso è comparabile al “collettivo” di Latour e al piano di consistenza-immanenza di Deleuze. 37 Per una teoria della signficazione simile, anche se più pragmaticamente impostata, cfr. Quéré (1998; 1999). 38 In Mattozzi (2004a; 2004b; 2004c) si è proposto e messo alla prova un primo modello d’analisi degli oggetti che sistematizzando e gerarchizzando le componenti dell’ormai 32 seconda parte, le istanze di mediazione che operano queste traduzioni si demoltiplicano (Dodier 1995b) – tra le altre, il linguaggio verbale e gestuale (Heath, Hindmarsh 2000*), ulteriori artefatti (Ueno 2000*), il corpo (Dejours 1993*). Cognizione come punto di vista Come era stato anticipato, il discorso sulla significazione degli OT che con questo volume si cerca di impostare verte sull’idea di significazione come articolazione del senso che è immanente agli OT e alle pratiche di cui essi partecipano. Tale articolazione, per come la si è descritta qui, è un processo impersonale – si è detto che “il senso si articola” –: essa non necessita di alcuna istanza, punto di vista, soggetto e, men che mai, mente, che prenda in carico i processi di articolazione. Ciò permette di affermare la radicale semioticità degli OT e, al contempo, di evitare la sovrapposizione tra cognizione e significazione: uno dei classici malintesi a cui può portare l’orientamento trascendente. E’ a causa di questo malinteso che molti (tra gli altri, Mantovani 2000) hanno iniziato ad occuparsi di significazione degli OT solo nel momento in cui si sono diffuse le “tecnologie cognitive”. Per evitare di dare l’impressione che anche questa raccolta contribuisse a reiterare questo malinteso e per mostrarne la fallacia, si è scelto di dare il più ampio spazio possibile a saggi che si focalizzassero su OT tradizionali e, in particolare, su macchine-utensili a cui, per troppo tempo, si è negato un qualunque contributo alla significazione, in virtù del fatto che si pensa, erroneamente, che questi OT richiedano solo uno sforzo fisico – che, comunque, articolerebbe del senso. Per la semiotica, la cognizione non è che una delle dimensioni della significazione39, insieme ad azione e passione. In particolare, per Greimas (Greimas, Courtès 1979, p. 56), la dimensione classico modello elaborato da Floch, tenta di rendere conto delle successive traduzioni – o “transcodifiche orizzontali” (Greimas 1970, pp. 43-44) – tra relazioni interne all’oggetto, relazioni a lui esterne e relazioni che si ingenerano nella pratica d’uso. L’approfondimento di questa riflessione dovrebbe integrare quella sulla significazione degli OT di Simondon che si basa proprio sull’idea di trasposizioni tra forme. 39 Dunque, diversamente da altri approcci (tra gli altri, Eco 1997, p. 114), non considero la semiotica parte delle scienze cognitive né, d’altra parte, vista anche l’accezione specifica che ha “cognitivo” nella semiotica greimasiana, ritengo le scienze cognitive parte della semiotica. Sono due ambiti di ricerca distinti. 33 cognitiva si riferisce al sapere ed è gerarchicamente superiore a quella pragmatica. Ad ogni modo, la semiotica greimasiana, anche per contraddizioni interne alla teoria in conseguenza di una difficoltà a dispiegare completamente un’impostazione relazionale e immanente, non ha mai ben chiarito le relazioni che si pongono tra azione, passione e cognizione40. Il fatto che la significazione non necessiti di un’istanza che prenda in carico i processi di articolazione non vuol dire che tale istanza non possa comunque emergere (Deleuze 1986, p. 78). Qui si assume che è tale istanza ad esercitare la cognizione, che altro non è che un punto di vista su azioni e passioni: un certo numero di azioni e passioni, cioè di relazioni, viene debrayato, oggettivato, e preso in carico da un altro ambito di azioni e passioni. Non si tratta, dunque, della reintroduzione surrettizia di un’istanza trascendente, ma semplicemente del risultato di dinamiche enunciazionali, grazie alle quali è però possibile rendere conto di fenomeni, quali la riflessività, che non superano o eludono il piano delle relazioni, ma che semplicemente mettono in prospettiva alcune di esse41. Anche Latour (1988a) adotta la teoria dell’enunciazione per rendere conto di relazioni che si riferiscono ad altre relazioni: infatti, per Latour (1994) non ci sono che interazioni e ripiegamenti di queste interazioni – debrayage, appunto –, a partire dai quali è possibile incorniciare altre interazioni e anche operare calcoli su di esse, senza che si passi mai ad un altro “livello” (pp. 224-225) (cfr. Ueno 2000*). Dialoghi Tra ANT e semiotica Come è emerso dai paragrafi precedenti, e come rileva anche Akrich (1992b*), il dialogo tra semiotica e ANT si basa sulla condivisione della stessa epistemologia relazionale. Non si tratta 40 Un riordino è stato tentato da Fontanille (1999) nel tentativo di valorizzare la passione a scapito dell’azione, precedentemente privilegiata. 41 Tale proposta si basa anche su una riconsiderazione della riflessione di Deleuze (1986) sulle categorie foucaultiane di enunciabile e visibile, visto appunto come il risultato di azioni e passioni (De Baptistis, Mattozzi 2005). 34 tanto d’interdisciplinarietà – rispetto alla quale nutro le stesse perplessità d’altri semiologi42 (Greimas, Courtés 1979, Fabbri 1974, Semprini 1995) – quanto del dialogo tra ambiti diversi, uno tendenzialmente più metodologico (la semiotica) e uno tendenzialmente più empirico (l’ANT), di una stessa riflessione sul sociale e sulle sue articolazioni (Latour 2005). La semiotica, dunque, come metodologia per le scienze sociali, capace di fornire modelli e categorie descrittive (Fabbri 1998a). Akrich e Latour si sono rivolti alla semiotica proprio per trovare categorie adeguate a de-scrivere gli OT. Ma, contrariamente a quanto sostenuto a volte da Latour, non si tratta dell’utilizzazione della semiotica come semplice “scatola d’attrezzi”. Le categorie semiotiche sono state infatti scelte in base al fatto che esse non preludono ad una divisione a priori tra tecnica e società, tra umani e non-umani (Callon, Latour 1992). L’adeguatezza di tali categorie dipende, dunque, dal fatto che emergono da un comune sfondo epistemologico antidualista. La scelta della “semiotica” non è, dunque, affatto casuale ma strettamente legata ad una riflessione più generale (Latour 1984a; 1991; 1999b; 1999d) che mira a portare a compimento la “svolta semiotica”43, interrottasi nel momento in cui non si è avuto il coraggio di estendere, in modo coerente e conseguente, l’epistemologia relazionale a fenomeni esterni al linguaggio verbale o non riducibili ad esso – non è un caso che Latour (1988a, 1999c) abbia più volte affermato di voler continuare il progetto di Greimas. Ciò che dovrebbe meravigliare, allora, non è il fatto che l’ANT utilizzi la semiotica o che si definisca una semiotica, per quanto spietata – ruthless semiotics (Law 1999) –, o che la semiotica si rivolga all’ANT per impostare una semiotica degli OT, quanto il fatto che questo dialogo non sia più intenso e che, anzi, si sia negli anni affievolito44. Nonostante la semiotica abbia ancora un ruolo centrale 42 Per questo sono molto scettico rispetto alle eclettiche semiotiche degli oggetti proposte in Van Onck (1994), Krampen (1995), Benoist (2002). 43 Cioè, il progetto strutturalista (Deleuze 1973), anche se con altri mezzi. 44 Questo affievolimento è probabilmente dipeso da una mancata risposta dei semiologi alle convocazioni dell’ANT, avvenute, per altro, non senza malintesi e semplificazioni (Akrich 1992b*). Nel periodo in cui la convocazione è stata più intensa – a cavallo tra gli anni ’80 e ’90 – la semiotica greimasiana non sembrava essere troppo interessata alla riflessione dell’ANT, dato che non aveva ancora intrapreso la riflessione sugli oggetti e si 35 nella riflessione di Latour (1999b, 1999d), il resto dell’ANT sembra assumerla più come lontano sfondo teorico su cui muoversi, che come risorsa metodologica. Ciò emerge molto chiaramente dal saggio di de Laet e Mol (2000*). Scritto una decina d’anni dopo i saggi di Akrich e Latour, non vi compaiono più termini mutuati dalla semiotica, nonostante le autrici dichiarino di “rifarsi alla tradizione semiotica all’interno” degli STS. Pur citando Akrich (1992*), il riferimento principale non sono i saggi qui pubblicati, ma un precedente articolo di Mol, scritto insieme a Jessica Mesman (1996), in cui si radicalizza la definizione di semiotica proposta da Akrich e Latour (1992*), espungendo qualunque riferimento al senso e alla significazione. La semiotica viene ridotta allo studio di mutue relazioni all’interno di un sistema o, meglio, allo studio di come “elementi di una rete, di un discorso, di un testo, si cocostituiscono reciprocamente formando l’insieme di cui sono parte e garantendosi esistenza reciproca” (p. 429, trad. mia). Questa ridefinizione della semiotica schiaccia l’articolazione su un unico piano, marginalizzando l’idea di traduzione. Coerentemente con quest’impostazione, la metodologia scelta da Mol è ispirata alla topologia, più che alla semiotica (Mol, Law 1994). Al fine di ridare attualità e rilevanza al dialogo tra ANT e semiotica, è necessario considerare come esso si sia fino ad oggi sviluppato, verificando come le categorie semiotiche siano state utilizzate dall’ANT. Tra le varie categorie semiotiche che si ritrovano nei saggi qui pubblicati e, più in generale, nella letteratura ANT, mi sembra opportuno soffermarsi su quelle usate più frequentemente: “enunciazione” e “attante”. La prima è in realtà meno diffusa di “attante”, che ormai la si può ritrovare anche esternamente all’ANT, ma estremamente rilevante nella riflessione di Latour – “più in profondità della questione del tempo e dello spazio vi è … l’atto di enunciazione, di delega …” (1997, trad. mia) –, che ne ha anche operato un approfondimento teorico. Come messo in luce anche da Hennion (1993), la rilevanza dell’enunciazione è legata al concetto di concentrava, invece, sulle passioni, all’epoca lontane dagli interessi dell’ANT. Bisogna anche considerare che proprio in quel periodo veniva a mancare Françoise Bastide (2001), che più di altri aveva mantenuto vive le relazioni tra i due ambiti. 36 mediazione. In quanto tale – e su questo punto si basa l’approfondimento di Latour (1999c) – essa soggiace all’emergere e al costituirsi di attanti e alle loro successive traduzioni. Nel saggio qui presentato (Latour 1992b*), l’enunciazione e le sue varie declinazioni – debrayage, embrayage – sono utilizzate per rendere conto di come un dato script può essere inscritto in differenti sostanze45, e così rendere conto del fatto che corpi siano sostituiti da segni, segni da OT, corpi da OT e viceversa – es. il programma d’azione “chiudere la porta” debrayato da un attante umano ad uno non-umano come un chiudiporta a pistone. Latour è interessato a mettere in luce il differente funzionamento dell’enunciazione nei testi tradizionali e negli OT: nei testi tradizionali si è sempre in compresenza di più istanze e vige un principio di reversibilità; l’enunciazione tecnica, invece, opera un distacco molto più radicale dall’istanza di enunciazione con la possibilità di introdurre un’irreversibilità. Latour cerca così di rendere conto delle proprietà della sostanza, a cui la semiotica ha effettivamente dato poco valore, fino a tempi recenti (Fontanille 2004a; Magli 2003). Ma, introducendo un altro tipo di debrayage, quello che qui si è tradotto come “debrayage d’ancoraggio” – lo shifting down opposto allo shifting out/in – confonde dei semplici debrayage con una traduzione intersemiotica mediata dallo script, con il rischio di reintrodurre una nuova manichea divisione tra testi e oggetti, tra parole e cose. Con attante Akrich e Latour intendono un’entità, cosa o persona, che compie un’azione. Essa è distinta dall’attore in quanto quest’ultimo è fornito di altre proprietà e può essere considerato all’origine dell’azione. Il ricorso alla categoria di attante è motivato dall’esigenza di ridistribuire l’agency46: innanzitutto tra attanti umani e non-umani e, quindi, più radicalmente, tra una molteplicità di attanti, nessuno dei quali può essere considerato da solo responsabile dell’azione. Questo uso della categoria di attante è coerente con l’uso semiotico, anche se opera alcune semplificazioni. In semiotica “attante” è una categoria astratta – un funtivo di una funzione di trasformazione. In quanto tale, esso 45 Latour parla di materia, ma si tratta di sostanza dell’espressione. Seguendo il significato attribuitogli all’interno degli STS, con agency qui si intende la competenza a, o il potere di, agire. 46 37 occupa una posizione specifica all’interno di una complessa architettura teorica. La semiotica non è interessata ad individuare gli attanti, ma a determinare che posizione essi assumono all’interno della trasformazione di cui partecipano (il ruolo attanziale) e, quindi, come contribuiscono, attraverso varie istanze, a costituire un attore. Alla prima semplificazione operata da Akrich e Latour, che disconoscono l’ambito teorico specifico al quale appartiene l’attante, se ne è successivamente aggiunta un’altra, di cui si lamenta anche Latour (1999a, p. 18): il concetto di “attante” è ormai prevalentemente utilizzato solo al fine di indicare un attore sospendendo l’ascrizione di questo al gruppo degli umani o dei non-umani, tralasciando la questione della redistribuzione dell’agency. Come si è potuto vedere, sia per “enunciazione” che per “attante”, l’ANT da un lato approfondisce ed espande il valore teorico della categoria, dall’altro opera una semplificazione di carattere metodologico. Si arricchisce, così, la riflessione semiotica, ma s’impoverisce l’analisi. In effetti, più che spietata, la semiotica dell’ANT è spiantata, misera. In fondo, è lo stesso Latour (1999a, p. 20) a definire, con orgoglio, l’ANT “un metodo grezzo” (a crude method) per imparare dagli attori stessi come essi articolano il sociale, e ad affermare che la caratteristica del lessico e delle categorie utilizzate è la loro “ridicola povertà” (ridiculous poverty). Se l’obiettivo dell’ANT è esclusivamente quello di tracciare la circolazione di attanti all’interno di una rete che essi stessi contribuiscono a costruire, allora non servono, in effetti, molte categorie. Per quanto fondare l’analisi del sociale su tale circolazione possa essere liberante e produttivo, neanche l’ANT si limita a questo lavoro da controllore del traffico – sapendo che neanche tali controllori si limitano al lavoro che pregiudizialmente gli si attribuisce (cfr. Heath, Hindmarsh 2000*). Come dimostrato anche dai saggi qui presentati, il problema non è tanto quello di tracciare delle relazioni, quanto descriverle, cioè mettere in luce possibili differenze tra relazioni. E’ ciò che cercano di fare Latour (1992b*) aggiungendo un ulteriore debrayage, Akrich (1990*) complessificando la categoria di attante/attore ed entrambi nel momento in cui s’interrogano su quali siano le ingiunzioni tipiche che un OT rivolge ad un attante umano. La semiotica greimasiana è 38 un po’ più sofisticata – in tutti i sensi – di quella dell’ANT e spesso ha elaborato delle categorie adeguate a rendere conto delle differenze tra relazioni individuate da Akrich e Latour: la pluralità di ruoli attanziali e le istanze che si frappongono tra attante e attore – ruolo tematico, figurativizzazione – possono, ad esempio, riuscire a descrivere le differenze individuate da Akrich (1990*), così come la teoria delle modalità fornisce già un modello per pensare le ingiunzioni degli OT. Il problema non è però quello di mostrare che la semiotica “ci era già arrivata” – cosa che Akrich e Latour sanno – ma quello di capire il loro rifiuto ad usare certe categorie. In parte le risposte sono contenute in Akrich (1992b*) in parte sono rintracciabili nella vicinanza dell’ANT all’etnometodologia. Questa resistenza è motivata dal fatto che si ha il timore di imporre le proprie categorie, assunte a priori e ritenute universali, agli attori, invece di indurle dagli attori stessi. Se, però, si concorda sulla necessità che per descrivere adeguatamente delle relazioni sono necessarie categorie più articolate di quelle finora elaborate dall’ANT e al contempo si concorda sul fatto che l’elaborazione e l’utilizzo di queste categorie deve essere desunto e giustificato dall’oggetto di studio stesso, induttivamente, grazie ad un’attenta analisi – cosa che la semiotica ha sempre più cercato di attuare –, allora si apre uno spazio per un dialogo e una produttiva collaborazione tra ANT e semiotica. Tra ANT, studi sull’attività tecnica e semiotica I saggi della prima parte dimostrano che l’ANT non si limita a rendere conto solo dell’emergere degli OT nel corso di processi di innovazione, così come fanno solitamente le ricerche degli STS, ma si interroga anche su cosa accade nella fase subito successiva all’innovazione per capire come un OT, introdotto in un dato ambito, riarticoli le relazioni che lo costituiscono (Akrich 1992c*; de Laet, Mol 2000*). E’ indubbio però che, nonostante i numerosi ripensamenti e integrazioni grazie ai quali l’ANT si è sviluppata e trasformata nel corso degli ultimi quindici anni (de Laet, Mol 2000*; Latour 1999a; ), essa ha continuato ad eludere le pratiche quotidiane d’interazione degli operatori con OT. E’ presumibile che questa lacuna dipenda dai limiti metodologici precedentemente accennati: in effetti, le relazioni che 39 si instaurano al fine di mantenere una rete sono meno eclatanti di quelle nuove che emergono dalla riarticolazione generata dall’emergere di un nuovo attante. Per ciò la loro analisi necessita di maggior attenzione ai dettagli (Heath, Hindmarsh 2000*). Non è un caso che de Laet e Mol, che molto più degli altri si avvicinano descrivere pratiche quotidiane di gestione e manutenzione, per renderne conto sono costrette ad utilizzare un nuovo concetto, quello di “oggetto fluido”, che indica una proprietà degli OT in azione già messa in luce da Dodier (1995b*) grazie all’osservazione di pratiche di gestione e manutenzione: l’inesorabile mancanza di concretizzazione (Simondon 1958) che costringe gli operatori ad operare continui aggiustamenti al fine di mantenere la stabilità di un OT. La seconda parte di questa raccolta, come si è detto, si propone di colmare questa lacuna e integrare così le analisi dell’ANT. Nonostante le differenze tra i vari saggi e in special modo tra le due parti, l’idea dietro la costruzione di questa raccolta è quella di mostrare una continuità tra i vari momenti di istanziazione di un OT attraverso cui si dispiega la sua significazione. Tale continuità è resa possibile dalle successive traduzioni tra un momento e l’altro: dalle pratiche d’inscrizione di possibili relazioni in un OT (Woolgar 1997*), a come un OT attualizza queste relazioni (Akrich 1990*), a come modifica, una volta inseritosi nell’ambito a cui è destinato le relazioni (Akrich 1992c*; Latour 1992b*), alle relazioni specifiche che emergono per mantenere questa nuova rete di relazioni (De Laet, Mol 2000*; Dodier 1995b*), che mettono in gioco una serie di istanze specifiche – il linguaggio verbale e gestuale (Heath, Hindmarsh 2000*), altri artefatti (Ueno 2000*), il corpo (Dejours 1993*). La significazione si dispiega nel corso di questo processo: solo un approccio immanente può, a mio parere, renderne adeguatamente conto. La semiotica, come le è stato riconosciuto dall’ANT, è la sola disciplina, avendo sempre pensato congiuntamente significazione e mediazione, che può rendere conto di questo articolarsi della significazione attraverso successive mediazioni-traduzioni. E’ grazie a tale impostazione che la semiotica può, peraltro, operare una mediazione metodologica tra i vari approcci qui presentati. Essa permette, infatti, di pensare la continuità e le 40 differenze tra le varie fasi prese in considerazione e di renderne conto. Tale continuità si pone come terreno comune di confronto tra i vari approcci nel tentativo di riuscire, in un unico movimento, a rendere l’ANT sensibile a certi oggetti di studio, la semiotica capace di cogliere il senso che si articola nelle pratiche e interessare gli altri approcci alla continuità, ad un tempo, empirica e metodologica, a tutto ciò presupposta. Ciò implica sondare in che modo e in che quantità la semiotica riesce a rendere conto degli aspetti degli OT e delle pratiche di cui partecipano messi in luce dagli approcci presentati nella seconda parte, in particolare quelli che più si discostano da un orientamento immanente, come Dejours (1993*) e, per certi versi, Dodier (1995b*). Così come implica lo scambio e la traduzione di categorie. E’ in base a questo desiderio di dialogo che si è deciso di tradurre accountability con enunciabilità: è una traduzione tra lingue, ma soprattutto tra teorie – etnometodologia e semiotica – che permette di mettere meglio in luce come una serie di questioni, soggiacenti a questi due concetti, siano già condivise tra le due teorie, ma soprattutto di metterne in comune delle altre. Si è deciso di operare questa traduzione in base alla riflessione sulla comparabilità tra teoria della significazione dell’ANT e dell’etnometodologia e in base al fatto che, soprattutto in Ueno (2000*), accountable è opposto a visibile, che è teorizzato facendo riferimento a Foucault e quindi alla dicotomia visibile/enunciabile. Questa raccolta, facendo convergere i vari articoli presentati nello specifico discorso sulla significazione degli OT qui delineato e reso possibile da questi stessi articoli, non fa che porre le basi per questo dialogo: il resto è ricerca47. 47 Così come è compito della ricerca capire come, a partire dal discorso qui impostato, si riconfigura il rapporto tra semiotica e design, tra semiotica e design studies e tra semiotica e progettazione. Se, da un lato, la semiotica non può certo sottrarsi alle nuove sollecitazioni che provengono dal design (Chiapponi 1999; 2005), dall’altro, nel momento in cui, congiuntamente all’ANT, s’interroga su come gli oggetti articolano e riarticolano il sociale (Latour 2005) e, quindi, significano, può, più immodestamente, prendere parte al dibattito sull’idea di progettazione, soprattutto se questo si fonda sul concetto ANT d’“ingegneria eterogenea” (Chiapponi 1999), per contribuire a ripensare una prasseologia, o pragmatica, della progettazione stessa (Maldonado 1970). 41 42