Conferenza su Tolstoj, profeta di non violenza
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Conferenza su Tolstoj, profeta di non violenza
Leone Tolstoj, profeta di nonviolenza Pier Cesare Bori e Fabrizio Truini. Mercoledì 15 dicembre 2010: In occasione della serata in memoria di Lev Tolstoj, a Roma il 15 dicembre 2010, nel corso 'La pace in cammino: attualità di maestri, esperienze e metodi‘, organizzato dal Cipax in collaborazione con Adista, Archivio Disarmo, Cdb S.Paolo, Confronti, Lega Diritti dei Popoli, Ore Undici, Pax Christi Roma, Progetto Continenti. Religions for Peaee-Italia, SAE gruppo romano, Servizio Rifugiati e Migranti della Federazione delle Chiese Evangeliche. Introduzione di Fabrizio Truini Buonasera e benvenuti a tutte e a tutti. Sono Fabrizio Truini, responsabile del Punto Pace Pax Christi di Roma e poi socio fondatore del Cipax che, insieme alle altre associazioni, ha preparato questo corso annuale ‘La pace in cammino: attualità di maestri, esperienze e metodi” che noi seguiamo. Questa sera sono veramente contento per due ordini di ragioni. La prima è che dedichiamo questa sera a Leone Tolstoj, questo grande romanziere noto in tutto il mondo, e ne vedremo soprattutto due aspetti: l'aspetto religioso e l'aspetto pacifista. Noi l'abbiamo evocato appunto dal titolo ‘profeta di nonviolenza’. Profeta, ricordando gli antichi profeti: una delle ultime fotografie di Tolstoj con la sua barba ci dà questa immagine tradizionale del grande profeta. In tutto il mondo è noto come grande romanziere: è stato detto credo giustamente che Tolstoj sta alla narrativa come Dante sta alla poesia, come Shakespeare sta alla tragedia e alla commedia. Io fin dal liceo sono stato innamorato della prosa di Tolstoj: ‘Guerra e Pace’, ‘Anna Karenina’, ‘Resurrezione’, ‘La morte di Ivan Ilic’, la ‘Sonata a Kreutzer’, tanti racconti uno più bello dell'altro. Tuttavia non conoscevo l'altra dimensione di Tolstoj, mi sfuggiva. Non solo, ma quando apparve la biografia, bellissima peraltro, di Piero Citati su Tolstoj nell'83 fui rafforzato in questa mia ignoranza. Piero Citati è innamorato di Tolstoj come letterato. Tra l'altro, c'è una sua espressione che mi è sempre rimasta in mente: dice che Tolstoj aveva una grande potenza di scrittura, “una potenza sciamanica”, perché sapeva immedesimarsi nei personaggi - Guerra e Pace ha 570 personaggi - ma anche negli animali, nelle cose, nel cavallo con cui andava spesso a caccia con il cane da caccia e la lepre e le piante e i fiori. Citati la chiama appunto “potenza sciamanica”. Però poi, quasi alla fine del libro, a pagina 269, quando parla <dell'altro> Tolstoj dice che “in fondo è un mediocre ragionatore, un noioso sofista e polemista, un cattivo autore di parole d'ordine per le folle, un geniale ma dilettante di filosofia ecc”. Per cui questa idea di un altro Tolstoj l'avevo lasciata perdere. Poi invece arrivò un libro che mi fece rizzare un po’ le orecchie, perché c'era il rapporto tra Gandhi e Tolstoj. Allora stavo attento, finché nell'88 - parlo del mio rapporto con Tolstoj, non so se anche voi lo ritrovate - apparvero due libri di Lev Tolstoj, uno degli Oscar Mondatori intitolato ‘Perché la gente si droga e altri saggi su società, politica e religione’ così ho conosciuto l'altra dimensione di Tolstoj. E soprattutto poi la ristampa de: ‘Il regno di Dio è in voi’ grazie all'associazione degli Amici di Tolstoj, che fecero quest’opera meritoria, poi continuata anc he con altre edizioni. Quindi c'è questa faccia diversa di Tolstoj di cui rimasi veramente ammirato, perché veramente non al conoscevo. Per illustrare questi due aspetti che a noi soprattutto interessano, l'aspetto pacifista e l'aspetto religioso - e questa è la seconda ragione della mia gioia questa sera - abbiamo con noi come guida e come aiuto il professor Pier Cesare Bori. Il professor Pier Cesare Bori è sposato, ha tre figli, ha insegnato fino ad ora all'Università di Bologna Filosofia Morale nella facoltà di Scienze Politiche; ha fatto corsi sui diritti umani nella globalizzazione, sull’etica fra le culture, una raccolta di saggi molto importanti su questo tema: ‘Universalismo come pluralità delle vie’. Ma siccome è anche laureato non solo in giurisprudenza, ma in teologia e scienze bibliche - è stato tra l'altro ricercatore nell'Istituto di Scienze Religiose di Bologna di Alberigo - ha scritto anche in materia di storia dell'interpretazione biblica: ha scritto ‘Koinonia’, ‘Chiesa Primitiva’, ‘Il Vitello d'oro’, ‘L’interpretazione infinita’. E tanti corsi ha fatto negli Stati Uniti, in Tunisia, in Giappone e quest'anno anche in Cina, presentando Pico della Mirandola, quindi l’umanesimo e il rinascimento a cui i cinesi sono molto attenti. Ma soprattutto a noi interessa quello che Pier Cesare Bori ha scritto su Leone Tolstoj, grazie a delle ricerche approfondite compiute in Russia. Ha avuto il grande privilegio di entrare nella casa della tenuta di Tolstoj, di stare nella sua biblioteca, di leggerne i manoscritti. Ha curato e ha pubblicato diverse cose, per esempio ‘La mia fede’ per Mondatori nell’88, ‘Pensieri per ogni giorno’ nella Cultura della Pace nel 95, ‘Le confessioni di Tolstoj’ nel 96 e poi due libri secondo me fondamentali. Il primo: ‘Tolstoj, oltre la letteratura’ delle Edizione. Cultura della Pace di Fiesole di Padre Balducci e poi (io ce l'ho solamente in fotocopia) ‘L'altro Tolstoj’. Sono due libri veramente fondamentali. Oltre al fatto che, come avevo accennato, c’è stato quel primo libro su Gandhi e Tolstoj, ‘Un carteggio e dintorni’ del 1985 che aveva risvegliato la mia attenzione e da cui appresi che Gandhi considerava Tolstoj un suo maestro, colui che veramente l'aveva portato a persuadersi della bontà della linea della nonviolenza. Tra l'altro, pochi sanno che in un'intervista, quando domandarono a Gandhi chi era stato il suo maestro, lui a bruciapelo rispose: "è stata mia moglie, perché mentre io tante volte l’assalivo psicologicamente, la condizionavo, lei mi rispondeva sempre con pazie nza e con la pratica quotidiana della nonviolenza”. Dico questo perché c'è un aspetto che io e forse anche voi avete rintracciato fin dall'inizio in Tolstoj: non giovanissimo era stato tenente d'artiglieria, aveva sfidato la morte, aveva giocato anche disperdendo un po' delle sue fortune col gioco e con le donne, ma poi si era sposato e appunto nell'epoca più felice della sua vita, negli anni 1863-1869, aveva composto ‘Guerra e Pace’. ‘Guerra e Pace’ è l'epopea del popolo russo che blocca l'invasione napoleonica e comincia nel 1805, subito dopo la campagna d'Italia di Napoleone, nei salotti di un'amica della famiglia dello zar che introduce il discorso proprio con un riferimento all'Italia: le prime parole di ‘Guerra e Pace’ che dice la principessa, accogliendo gli ospiti e introducendo così la conversazione: “Genova e Lucca ormai sono appannaggio di Napoleone”. E anzi Tolstoj usa una parola in italiano, dice ‘proprietà’, che è una parola molto importante poi per l'aspetto della filosofia sociale. In questi salotti ovviamente il tema è la guerra e la paura di Napoleone, l’Anticristo. E questo già designa tutto. E allora si può carpire proprio all'inizio un dialogo tra il conte Pierre e il principe Andrei, che sono i personaggi fondamentali del libro in cui praticamente si sdoppia la personalità di Tolstoj: “se tutti si battessero per convinzione non ci sarebbero guerre” disse il principe Andrei. “E sarebbe molto meglio” osservò Pierre. “Senza dubbio” riprese il principe sorridendo, “ma questo non succederà mai”. “E perché dunque andate in guerra?”. “Perché? Non lo so, perché mi occorre. Inoltre perché la vita che conduco qui non mi piace” dice il principe Andrei. E subito dopo passa una giovane principessa che dice: “E’ proprio quello che dico io: non capisco perché gli uomini non possono fare a meno della guerra. Com'è che noi donne non ne abbiamo bisogno, non ne proviamo alcun desiderio?”. E poi più avanti il padre del principe Andrei si ritrova di nuovo col figlio e con Pierre e di fronte alle perplessità di Pierre, che appunto aspira alla pace, dice: “Ma queste sono chiacchiere da femminucce”. Un'altra traduzione italiana dice "fanfaluche da femminucce”. Anche l'aspetto religioso è rintracciabile in Guerra e Pace per esempio in una lettera che Maria, la sorella del principe Andrei, scrive dicendo: “Ma perché succede questo, perché c'è la guerra, perché queste distruzioni? Perché gli uomini hanno dimenticato la legge di Dio, l'amore per i nemici”. Si richiama alla semplicità del Vangelo e del cristianesimo. Credo sia una costante che poi verrà ampliata e approfondita da Tolstoj. E poi, quando Napoleone è alle porte e le chiese suonano le campane per chiamare tutti a una preghiera corale, la buona Natascia, la fidanzata di Andrei (che poi muore nelle sue braccia) va in chiesa come tutte le buone cristiane soprattutto della nobiltà e prega con fervore. Però comincia ad avere delle perplessità quando deve pregare per lo zar; e poi proprio non può pregare, non può dire quelle parole che seguono quando si vuole la protezione di Dio per ‘schiacciare il capo ai nemici’. Questo Natascia non lo può sopportare. Ecco, io credo che in queste poche frasi che ho ricordato di Guerra e Pace ci sia la prima ispirazione di Tolstoj che poi prenderà forma più ampia e articolata e che addirittura si esprimerà in quella che è stata definita la dottrina della non resistenza al male con la violenza. Ma di tutto questo ci parlerà adesso il professor Bori, il quale ha preparato una bellissima lettera a Lev Nicolaevic Tolstoj. La leggeremo insieme e il professor Bori la commenterà man mano. Ancora grazie infinite al professor Bori per la sua presenza e per l'aiuto che ci darà. Intervento del Professor Bori dell’Istituto di Scienze Religiose di Bologna Buonasera. Ringrazio dell'invito. Mi è stato chiesto di scrivere anch'io, anche noi una lettera a Tolstoj, come è stato fatto per Panikkar. Mi è sembrata una cosa un po’ strana, ma poi l’ho fatto. Vediamo se poi è così strano. La leggo. Pensavo di commentarla e magari migliorarla con voi, in base alle vostre osservazioni. Caro Lev Nikolaevic, gli amici, nel titolo dell’incontro che abbiamo fatto per ricordarti, hanno voluto chiamarti profeta, “profeta di nonviolenza”. Non credo che ti piaccia essere chiamato profeta, ma un poco lo sei stato. Hai visto molte cose. Quando fu ucciso Alessandro II, nel 1881, hai implorato il figlio di concedere la grazia ai terroristi attentatori. Le tue parole ancora commuovono chi ha cuore: “Maestà, imperatore, io che sono una nullità, uomo per nulla degno, fragile, malvagio... Una parola solamente di perdono e di carità cristiana...può sopprimere quel male che consuma la Russia...” . La lettera forse non fu nemmeno aperta, la sequenza di attentati e di condanne continuò, nel 1887 anche il fratello di Vladimir Ilic Uljanov fu impiccato per un attentato ad Alessandro III, e questo fatto segnò per sempre Lenin. Era suo fratello. Hai visto con spavento il montare degli imperialismi e dei nazionalismi. Hai visto la fame e l’ignoranza delle moltitudini. Gridasti inascoltato - alla vigilia di quella guerra che si può dire durò sino al 1945 - che il carro delle nazioni europee stava per ribaltare. Hai visto la corruzione e l’asservimento delle religioni - perfino del buddhismo - e li denunciasti. Hai visto la miseria della droga, la lotta fra i sessi e fra le generazioni, hai visto, hai parlato con forza ...Non avesti il premio Nobel e la tua chiesa ti escluse. Siccome la forza, anche profetica, è pur sempre forza, molti oggi trovano più vicine e persuasive e gentili le tue parole come scrittore dei grandi romanzi e racconti. Sono belli, ma dimenticano che hai dedicato molti libri a riflettere direttamente sul mondo, su Dio, sulla vita e sulla morte e non sanno che questi libri sono indispensabili per capirti anche come scrittore; per capire perché hai messo una certa scritta biblica all’inizio di Anna Karenina o perché dici che Ivan Ilic vede alla fine una certa luce o perché la violenza sia per te il contrario del Regno di Dio. Alcuni pensano che la nonviolenza sia una tecnica per risolvere i conflitti senza armi. Ma per te era una scelta metafisica: era nientedimeno che il passaggio dalla menzogna alla verità, dalla morte alla vita e quindi anche dalla guerra alla pace. Tu hai detto che è possibile arrivare già ora a una esistenza vera e piena e totale e senza fine, se si risveglia in noi la consapevolezza che «la vita si manifesta sì nel tempo e nello spazio, ma questo è soltanto il suo manifestarsi» (‘Della vita’, 1886). Hai spiegato che a questa consapevolezza si giunge non con le parole, ma attraverso una porta stretta: un atto di sottomissione al principio che la vita si trova solo perdendola. Il non rispondere all’offesa era per te il principale di questi gesti, cui se ne accompagnano tanti altri cui le grandi tradizioni spirituali ci invitano, insieme con una promessa di quella vera felicità che Gesù di Nazareth chiamava “beatitudine”. In questo senso tu sei stato piuttosto che un profeta, un maestro che “tramanda, non fabbrica” (Confucio, che tu amavi): volevi trasmettere il nucleo delle diverse esperienze spirituali dell’umanità, volevi invitare ciascuno a riconoscere questo nucleo nella propria tradizione (come hai fatto con Gandhi). In mille modi diversi questo nucleo può essere formulato. A te piaceva quello della lettera di Giovanni: “come si fa a dire di amare Dio che non si vede, se non si ama il fratello, che si vede?”. Negli ultimi dieci anni ti dedicasti a preparare libri di lettura che raccoglievano la tradizione sapienziale dei popoli. Tu stesso usavi il tuo Ciclo di lettura e te lo facevi leggere da tua figlia negli ultimi giorni di malattia nella stazione di Astapovo. Leggeste il 5 novembre, forse il 6; il 7 il tuo corpo morì. La pagina del 7 novembre finiva, e finisce così: “Noi poniamo inutilmente la domanda, che cosa avviene dopo la morte? perché parlando del futuro, parliamo del tempo, ma morendo, usciamo dal tempo”. Ed è questa la ragione per cui sappiamo, Lev Nikolaevic, che tu riceverai questa lettera che ti abbiamo scritto, con tanto affetto. Roma, 15 dicembre 2010 Pier Cesare e i partecipanti all’incontro Adesso vi spiego un po' questa lettera. Le date le sapete 1828-1910, Tolstoj muore il 7 novembre 1910, 20 novembre nel calendario europeo (a quel tempo la Russia aveva ancora il vecchio calendario giuliano, non aggiornato di 15 giorni, cosa che l'Europa aveva fatto già nel 500). Profeta di nonviolenza: Tolstoj non avrebbe amato essere chiamato profeta. Aveva una grande barba, ma era la barba di chi non se la faceva, cioè dei contadini, dei vecchi del villaggio vicino alla sua casa di Jasnaja Poljana. Lui ha sempre vissuto in campagna, tranne un periodo in cui con la famiglia, avendo i figli da portare a scuola, stettero a Mosca; ma altrimenti era un signore di campagna. Casa modesta fra l’altro, niente di particolare, però una grande tenuta. ‘Profeta’ sicuramente per lui era troppo, perché al centro della sua visione religiosa c'era piuttosto l’idea di sapienza, cioè di quel sapere religioso a cui l'esperienza, e anche l'esperienza accumulata attraverso la tradizione giunge, piuttosto che l'irruzione di una rivelazione: la dimensione rivelata forte gli era alquanto estranea. Fu affascinato quando, nella crisi religiosa degli anni ‘70, intorno al ‘75, lesse i libri sapienziali, trovò questa nozione di sapienza – o meglio ‘rasumienie’ – la trovò nel libro dell’Ecclesiaste, la trovò nei libri sapienziali. Scriveva agli Amici: “Ho trovato quest’idea di rasumienie”, gli piacque molto. Nella sua riscrittura del Nuovo Testamento, dei Vangeli, del prologo di Giovanni tradusse così: "in principio c'era la rasumienie”, cioè l'intendimento, la sapienza. Il termine russo ‘rasumienie’ non è ‘raison’, non è razionalismo, è un termine biblico - io l’ho trovato nella sua Bibbia segnato - è un termine che designa la sapienza biblica. Quindi piuttosto un discorso sapienziali che profetico. Però ha visto molte cose. Mi ha sempre impressionato questo fatto: che tra gli attentatori che furono impiccati nell'87 c'era anche il fratello di Lenin, una cosa che sconvolse la famiglia, che segnò poi la vita di questo rivoluzionario, che gli diede quella particolare impronta di risentimento e di odio che marcò e corruppe, io penso, l'intento rivoluzionario e lo segnò appunto di una carica di odio che produsse anch’esso altro odio e altra violenza. All'inizio questo fatto ebbe un ruolo molto importante. Non saprei dimostrarlo, ma sento che fu molto importante. C’è questa lettera bellissima riportata nel libro ‘Tolstoj e la letteratura”. Hai visto con spavento il montare degli imperialismi e dei nazionalismi: la sua lettura del Nuovo Testamento è imperniata attorno al discorso della montagna, che lui chiama ‘la legge di Dio’. Per lui sono cinque fondamentali imperativi, che sono: non offendere, non desiderare la donna d'altri, non compiere atti di disordine sessuale, non giurare, non resistere al male con il male. E poi il rifiuto del nazionalismo, che per lui è fondamentale: “amate i vostri nemici”. Già in ‘Guerra e Pace’ appunto si coglie questo quando Natasha prega. Natasha sente dire “mir siem”, “la pace sia con tutti”. E ‘mir’ in russo vuol dire anche ‘mondo’. E qualche volta lui scrive ‘mir’ in maniera diversa, al modo di ‘mondo’. Siamo ancora prima della cosiddetta conversione, che avvenne alla fine degli anni ’80, ma Natasha già sente l’assurdità di questo pregare per i nemici. Notare che lui era un soldato, un ufficiale di artiglieria, aveva fatto valorosamente la guerra a Sebastopoli, gli piaceva anche “sentire fischiare le pallottole”, lo scrive ancora ai primi del ‘900, “allegramente” diceva, però detestava la guerra come carneficina. E’ all’inizio poi dell'obiezione di coscienza. Questo libro è fondamentale per questo tema della guerra. ‘Imperialismi’: questo è il termine poi di Lenin, ma lui scrive una lettera a un indù, scrive una lettera a un cinese invitando alla riscossa, invitando a liberarsi dal giogo imposto da minoranze europee inconsistenti e deboli. Da qui nasce la lettera a Gandhi, cioè non scrive direttamente a Gandhi, scrive a un indù rivoluzionario. Allora Gandhi chiede di poter pubblicare questa lettera su Indian Opinion e allora nasce questa corrispondenza fra i due. Hai visto la fame e l'ignoranza delle moltitudini: lui ebbe una forte vocazione pedagogica, fin nei primi anni ‘60 a Jastaja Poljana, poi riprende nei primi anni ’70 con la scuola per contadini di Jastaja Poljana. Scrive quattro libri di lettura (ho fatto anche la prefazione all’edizione Einaudi) e poi più tardi, verso la fine della vita, queste compilazioni sapienziali. Il carro delle nazioni europee stava per ribaltare: è un’espressione che c’è uno in uno dei saggi qui. Molto bello il saggio sulla guerra russo-giapponese, che si chiama ‘Ricredetevi’. Hai visto la corruzione e l’asservimento delle religioni – perfino del buddismo – e li denunciasti. Si fa spesso l’accostamento tra Tolstoj e Dostoevskij: sono molto diversi. Tolstoj tra l’altro è più grande, vive più a lungo. Non amava Dostoevskij, soprattutto perché la visione dostoevskiana è una visione molto negativa dell'umanità e rinvia poi alla grande istituzione di salvezza che è la Chiesa Ortodossa: ‘I fratelli Karamazov’ è scritto di concerto con il procuratore del Sinodo, cioè con il magistrato laico che presiedeva la Chiesa russa in assenza del patriarca. Tolstoj invece è molto critico verso la Chiesa russa soprattutto per il suo asservimento, per il fatto che asseconda la guerra: la guerra russo-turca veniva esaltata nei suoi taccuini da Dostoevskij perché avrebbe portato alla riconquista di Costantinopoli. Invece Tolstoj detestava questa guerra. Ed è proprio il momento di crisi più profondo, il ‘78, in cui lui si accosta per l'ultima volta alla comunione però non ce la fa. Lo racconta molto bene in ‘Confessione’, che è un testo bellissimo. Da quel momento, dal ‘78 e poi dal ‘79 c’è tutta una sua rilettura dei Vangeli, scrive ‘In che consiste la mia fede’, scrive ‘Il regno di Dio è dentro di voi’, scrive ‘Cosa bisogna fare’: una serie di testi. E riscrive, traduce – è una cosa molto seria – con il greco, con il testo biblico sinodale e poi la sua versione, i quattro Vangeli. Fa una versione concordata. Un po’ semplice, ma al centro però c'è una nozione di sapienza che l’esegesi attuale rivaluta: Gesù come predicatore di sapienza. La ‘Terza ricerca su Gesù’ insiste molto su questa dimensione di Gesù. Critica fortemente le religioni. Accanto a questo scrive una critica della teologia dogmatica. L'arcivescovo Makarii. Parlo del buddismo perché è interessante: quando scrisse ‘Ricredetevi’ nel 1905 rimane scandalizzato dal vedere che i buddisti giapponesi fanno la stessa cosa, cioè esaltano la guerra e dicono più o meno le stesse cose che dicono le chiese in Europa. Hai visto la miseria della droga, perché la gente si droga, la lotta fra i sessi (ricordate la Sonata a Kreutzer), la lotta fra generazioni, hai visto e hai parlato con forza. Non avesti il premio Nobel, lo dettero a un italiano di cui non ricordo il nome che poi fu interventista in realtà, milanese, fondatore della città umanitaria, ma insomma di tutt'altro livello. La tua Chiesa ti escluse. Nel 1901 fu escluso dalla Chiesa, fu una specie di scomunica, per cui Tolstoj non è un autore ortodosso, anche se devo dire che adesso tornano a occuparsene: l'anno scorso c'è stato un convegno all'Orientale a Bologna in cui era presente anche un importante prelato che studia Tolstoj, almeno come testimone della crisi religiosa, nonostante la condanna. Siccome la forza anche profetica è pur sempre forza…. Effettivamente in questi scritti è mo lto brutto ciò che dice, ma effettivamente questi testi sono pesanti e in qualche modo un po' aggressivi. …molti oggi trovano più vicine, persuasive e gentili le tue parole come scrittore di grandi romanzi e racconti. Sono belli, ma queste persone (per esempio Citati) dimenticano che hai dedicato molti libri a riflettere direttamente, esplicitamente sul mondo, su Dio, sulla vita e sulla morte. Per esempio quello che è uscito dopo ‘Della vita’ è un testo molto interessante, lo scrive nell'86 a partire da una conferenza alla Società Psicologica di Mosca: fa questa conferenza, poi ci lavora su. E’ quasi contestuale a ‘La morte di Ivan Ilic’. Non leggere ‘Della vita’ per capire ‘Ivan Ilic’ è sbagliato anche metodologicamente, dal punto di vista critico. Io l’ho detto a uno studioso italiano e lui mi ha detto: “Hai ragione, però è più bello così, cioè è più bello pensare che Ivan Ilic muore senza speranza”. Invece Ivan Ilic vede una luce e vede una luce perché fa qualche cosa, perché sentendo accanto a lui la mano del figlio, umida di lacrime, dice: “la mia vita è stata falsa, non è stata così, non è stata come doveva essere, ma è possibile fare ancora qualcosa. Che cosa si può fare? Si può liberarli, si può cessare di tormentarli. Posso ancora fare una cosa”. Quando capisce questo cessa di urlare (aveva urlato per tre giorni), si calma e muore. Ma vede una luce. La luce è legata proprio al fatto di avere capito, alla fine della sua vita, che bisogna fare qualcosa di buono, in questo caso cessare di tormentare la sua famiglia con la sua lotta contro la morte. Questo è il senso, ne sono sicurissimo. E questo studioso ha risposto: “Hai ragione, ma è più bella una finale nichilistica”. Per capire perché hai messo una certa scritta biblica all’inizio di Anna Karenina: All’inizio di ‘Anna Karenina’ c’è un’epigrafe importantissima: “mia la vendetta, io retribuirò” (“mia vendicta, ego retribuam”, nel testo antico slavo): è fondamentale perché è lo scrittore che si pone di fronte alla vicenda di Anna Karenina, al suicidio di Anna Karenina, dicendo: non giudicare, è Dio che rivendica a sé il giudizio. Gli uomini non possono giudicare. E Tolstoj spinse questa posizione all'estremo, cioè no ai tribunali, no ai giudici, no al carcere - quindi ‘Resurrezione’ è tutto sulla questione penale - tutto sulla linea del no anche alla guerra. Tolstoj in realtà afferma con estrema coerenza e potenza il principio della signoria di Dio, il regno di Dio è la signoria di Dio, cioè è Dio solo che giudica ed eventualmente condanna. Però quasi ribaltando (ma forse anche nella Bibbia è così), cioè l'unico signore in terra è l'uomo, perché l'uomo è immagine di Dio, ma nessuno può giudicare, nessuno può condannare l’uomo. …o perché la violenza sia per te il contrario del Regno di Dio. Mi veniva in mente che c'è una frase evangelica molto interessante che dice invece: “il regno dei cieli subisce violenza e i violenti se ne impadroniscono”. Potremmo provare a riflettere su questo. Alcuni pensano che la nonviolenza sia una tecnica per risolvere i conflitti senza armi: questa è una cosa importante, non si vuole svalutare, perché è un modo per diffonderla, per radicarla, però per Tolstoj è una scelta metafisica. Questa in realtà è una citazione di Bobbio, però se scriviamo a Tolstoj, forse Tolstoj non sapeva chi era Bobbio (adesso magari lo sa). Bobbio dice così nella fine dell’’Elogio della mitezza’: era nientemeno che il passaggio dalla menzogna alla verità, dalla morte alla vita e anche quindi come conseguenza dalla guerra alla pace. Tu hai detto che è possibile arrivare sin d'ora a un'esistenza vera e piena e totale e senza fine e si risveglia in noi la consapevolezza che la vita si manifesta sì nel tempo e nello spazio, ma questo è solo il suo manifestarsi. Qui sarebbe lungo commentare. Hai spiegato che a questa consapevolezza si giunge non con le parole, ma attraverso la porta stretta della sottomissione al principio che la vita si trova solo perdendola. Penso che capiti a tutti, non c'è bisogno di commentare tanto, anche perché sono cose che si capiscono facendole, ma facendole non vuol dire fare dei piccoli gesti, vuol dire con tutto il proprio essere accettare queste cose. Queste affermazioni (che la vita si trova solo perdendola, che non si deve rispondere alla violenza con la violenza) avevano per lui un significato decisivo. C’è un punto nei suoi scritti - credo che sia ‘In che consiste la mia fede’ – in cui all'inizio dice proprio che lui leggeva e rileggeva il Vangelo e non capiva cosa volesse dire. “Il libro era davanti a me. Alla fine dopo nume rose e vane ricerche e studi, dopo molti dubbi e sofferenze rimasi di nuovo solo con il mio cuore e il libro misterioso davanti a me. Non riuscivo a dargli lo stesso senso che gli davano gli altri, non riuscivo ad attribuirgliene uno diverso, non riuscivo a rinunciarvi. E soltanto dopo aver perso parimenti la fiducia sia nelle interpretazioni della critica dotta, sia in quelle della teologia dotta e averle accantonate tutte secondo la parola di Cristo: ‘se non mi accoglierete come bambini non entrerete nel regno dei cieli’, improvvisamente capii quello che non avevo capito prima. Il passo che risultò per me la chiave di tutto fu quella del quinto capitolo di Matteo versetto 39: Vi hanno detto: occhio per occhio dente per dente, ma io vi dico non opponete resistenza al male”. Quindi per lui l’assunzione della condizione infantile e l'assunzione di questo passo alla lettera significa proprio quello che dice: non rendete male per male - è per lui la chiave ermeneutica, il luogo centrale del Nuovo Testamento, perché per lui – forse perché rifletteva di fronte alla guerra russo-turca - perché per lui che stava in condizioni estreme, il senso della vita si ritrova solo attraverso il gesto di abbandonare le difese, abbandonare l'attaccamento all’io. Sono cose difficili che non so neanche dire bene, sono cose che si devono capire e si capiscono, come dice lui, facendole. La cosa interessante è che, avendo trovato questa chiave di lettura, che per me è profondamente cristiana e cristologica, tuttavia egli trova anche corrispondenze in tante altre tradizioni e altri testi e quindi comincia a leggere - io ho visto la sua biblioteca, ho aiutato a pubblicare anche il catalogo dei libri non russi - quindi studia l'islam, studia il buddismo, studia il confucianesimo, il taoismo. Allora anche in Russia si cominciavano a studiare seriamente queste cose e si studiavano perché la Russia era un impero aperto all'Asia e all'Oriente. Lui stesso aveva fatto qualche esame all’Università di Studi Orientali da giovane, intorno al ’48, ma non aveva finito gli studi universitari. Lui comunque si rifà sempre al Nuovo Testamento o meglio al Vangelo, che per lui è l'espressione più alta e più chiara dell’idea che la vita si trova perdendola. Per inciso, fu accusato non solo nel testo sinodale di condanna, ma anche da Salaviov, che scrisse un'orrenda leggenda ‘L’Anticristo’, in cui un protagonista negativo è Tolstoj, è una specie di filantropo anticristo, insomma. Una cosa orribile da parte di Salaviov che ammirava Tolstoj ma, non essendone ricambiato, alla fine concepì una sorta di risentimento nei suoi confronti. Una delle cose di cui viene accusato è negare la resurrezione, mentre il tema della vita è proprio al centro di tutto il suo discorso, la ‘vita vera’, che cos’è la ‘vita vera’. La vita vera è quella che si acquista perdendola. Però non capiva effettivamente Paolo, che era troppo difficile per lui e pensava, come pensavano molti positivisti (Rénan per esempio, che peraltro lui non stimava) che Paolo avesse costruito la Chiesa. Invece un vero grande esegeta, Schweitzer, capì effettivamente il ruolo di Paolo, che appunto costruisce una grande mistica della resurrezione. Ma Schweitzer aveva altri strumenti rispetto al nostro tenente di artiglieria Tolstoj. In questo senso tu sei stato piuttosto che un profeta un maestro, che “tramanda non fabbrica. Lui amava molto Confucio, Confucio è questo: nel V-IV secolo a.C. non scrive ma ripubblica i testi della tradizione e dice di sé: “io tramando, non fabbrico”. Volevi trasmettere il nucleo delle diverse esperienze spirituali dell'umanità, volevi invitare ciascuno a riconoscere questo nucleo nella propria tradizione (come hai fatto con Gandhi). Cioè insegnava qual è il nucleo profondo delle tradizioni religiose, anche se a lui piaceva la formulazione cristiana. Per esempio un testo che lui amava moltissimo era “come si può dire di amare Dio che non si vede se non si ama il fratello che si vede”. Questo fatto di insegnare a me piace molto. Tolstoj dice: “io, nullità, uomo per nulla degno, fragile, malvagio”. Io, Pier Cesare Bori, insegno anche in carcere agli studenti detenuti arabi e facciamo ogni volta un po' di Corano in arabo. All'inizio erano diffidenti, adesso gli piace molto, capiscono. Io dico: “io sono uno che vi insegna la vostra religione ”. Non c'è niente di meglio secondo me di questo. Questo è l'antico insegnamento buddista di Ashoka, che nel suo editto diceva: “ciascuno rispetti le proprie religioni”. E i bahai anche hanno come obbligo di studiare le religioni degli altri. Questo mi sembra una cosa molto importante, molto nobile. È una forma altissima di amore del prossimo quella di insegnargli ad amare la sua religione, a scoprirla. Così è successo per Gandhi, che non sapeva niente dell’induismo. Non ha imparato da Tolstoj, ha imparato a Londra da due persone che incontrò nell’unico ristorante vegetariano che trovò e questi gli insegnarono a leggere la Bagavadgita e lui scoprì la sua religione a Londra, perché, come capita, nel contesto prossimo più familiare si era persa memoria di queste cose importantissime, c’era solo devozione popolare. E poi appunto Tolstoj, che gli insegna a cogliere quel nucleo profondo dei suoi testi: la nonviolenza – Tolstoj non dice nonviolenza, dice non resistenza - la ahimsa è nei testi induisti e buddhisti ma Gandhi la riscopre nelle sue proprie fonti, grazie all'aiuto di uno che viene da fuori. Questo trovo che sia bellissimo. Negli ultimi dieci anni ti dedicasti a preparare dei libri di lettura che raccoglievano la tradizione sapienziale dei popoli. Aveva una vocazione pedagogica molto forte e cominciò a fare questo lavoro. Lo aiutavano anche i familiari, leggevano libri: naturalmente il Nuovo Testamento, la Bibbia, ma poi anche cose dell'ebraismo, buddhismo, induismo, stoicismo: molto Epitteto, molto Marc’Aurelio, molto Seneca; poi scrittori contemporanei come Ruskin, moltissimo Pascal, un po’ Rousseau. Tutte queste cose con sue introduzioni diventano dei libri di lettura. Ce ne sono quattro. Io ho tradotto il più piccolo, che si chiama ‘Pensieri degli uomini saggi’, con due-tre pensieri per ogni giorno, ma poi la cosa è cresciuta e ne ha fatti altri tre. L'ultimo lo leggeva anche lui, se lo faceva leggere. Lui finì la sua vita fuori casa come sapete perché finalmente attuò quello che faceva parte di quella scelta di cui dicevamo, cioè di rinuncia, di abbandono, insieme alla nonviolenza, anche quella di abbandonare, di andare come pellegrino: era il suo sogno. Infatti parte di casa finalmente. Passò a trovare una figlia a Optimapostum(?) in un monastero ma non volle fermarsi. Prese il treno, andò avanti, c'erano i finestrini aperti, la gente fumava e si è preso una polmonite e fu ricoverato nell'appartamento del capostazione di Astapova e lì morì dopo 3-4 giorni. Il mondo si raccolse intorno a lui, fu forse il primo grande evento mediatico. C’è un bel libro di Poster(?) su questo per Adelphi. Telegrammi, stampa, fotografi, tutti lì intorno. E lui diceva: “Ma perché vi occupate tanto di me, con tanta gente che soffre, che è malata?”. Si faceva leggere il libro di lettura; lesse sicuramente il 5 e il 6 novembre, il 7 morì. E il 7 dice - un tema che lui sviluppa tante volte: noi poniamo inutilmente la domanda, che cosa avviene dopo la morte? perché parlando del futuro parliamo del tempo. Ma morendo usciamo dal tempo”. Questo era un suo tema. Ed è questa la ragione per cui noi pensiamo che lui possa aver sentito questa lettera. DIBATTITO Fabrizio Truini: Ringraziamo molto il professor Bori per questa lettura commentata molto semplice ma molto profonda. Adesso sta a voi porre domande. Anch'io ne ho una a proposito della sua pratica della nonviolenza: se ci vuole ricordare qualcosa a proposito dell’aiuto che dava agli obiettori del servizio militare. Antonio Guagliuni: Lei professore durante la sua relazione ha citato una frase attribuita a Gesù, probabilmente sua visto il contenuto, in cui si dice: "dopo Giovanni Battista il regno di Dio subisce violenza e i violenti se ne impadroniscono”. Io facevo parte del gruppo biblico di San Paolo e abbiamo discusso a lungo su questa frase senza venirne a capo. Sarei molto contento se lei dicesse una sua idea in proposito. Domanda: Io ho ascoltato con molto interesse questo suo testo, in particolare, soprattutto la parte in cui cita il testo ‘Della Vita’, del 1886. La mia domande è semplicissima: esistono traduzioni di questo testo, dove si potrebbero trovare, perché la cosa mi interessa estremamente. Betta: Vorrei chiedere qualcosa sul rapporto di Tolstoj con la moglie e in generale con la famiglia, perché da qualche parte ho letto che con la moglie non aveva un buon rapporto, anzi questo fatto che è morto fuori casa probabilmente era anche una fuga da una realtà famigliare pesante. Mi riallaccio alla relazione di Tolstoj con la famiglia per chiederle della relazione di Tolstoj con la sofferenza delle persone che gli erano vicine. Pina: Mi sembra che il pensiero di Tolstoj sia utopico per certi aspetti. Qual è il suo rapporto con l’utopia? Perché il pensiero è bellissimo, però in certi casi purtroppo l'uso della vio lenza, che non ci dovrebbe essere, può anche essere liberatorio, per esempio la Resistenza. La storia ce l'ha mostrato, anche se la guerra è condannabile certamente. E anche l’esperienza di Jasnaja e la scuola che fece Tolstoj, ecco, vorrei sapere qualche cosa in più, perché mi pare che poi fu un'esperienza fallimentare. Risposte del Prof. Bori Tolstoj appoggiò l'obiezione di coscienza. Scoprì che esistevano dei gruppi cristiani, le chiese pacifiste, i mennoniti, i quaccheri che da 4-5 secoli facevano questo e lui si rammarica di esserne stato tenuto all'oscuro, ma poi ravvisa a poco a poco una tradizione importante che parte da certi martiri cristiani e sostiene l'obiezione, aiuta ad emigrare in Canada i settari, i ducobori che rifiutavano il servizio militare, rinuncia ai diritti d'autore, pubblica all'estero le sue cose che sono appunto contro la guerra. E quando incontra Gandhi lo incontra rallegrandosi del fatto che in Sudafrica ci siano episodi di obiezione di coscienza e al tempo stesso comunica a Gandhi che ci sono già anche in Russia episodi di obiezione di coscienza importanti. Quindi non è affatto lui l'inventore dell'obiezione di coscienza, prima c'era stato Thoreau negli Stati Uniti, che si era rifiutato di pagare le tasse per la guerra ed era finito in carcere: per breve tempo, ma la sua è una testimonianza molto importante. E’ una storia lunga, ma Tolstoj la ripropone con forza e anche sostenendo gli obiettori. Ed è una storia importante: nella I guerra mondiale ci furono in Inghilterra 16.000 obiettori, cioè non un piccolo numero, ma chi è che le racconta? Persone che soffrirono, persone che impazzirono, che si suicidarono. Degli eroi. A proposito di “il regno di Dio subisce violenza” non so, non ho avuto tempo di approfondire. Credo che ci siano due significati, uno “ il regno di Dio subisce violenza”, cioè viene aggredito, veniamo aggrediti, siamo perseguitati; però non escluderei anche un significato che in fondo è bello, ed è che nel regno dei cieli si passa per la porta stretta, che in qualche modo suppone anche una violenza su di noi. Da ragazzo mi si diceva questo. Certo farsi violenza non è bello, ma forse una rivoluzione che in qualche modo sia una visione diversa della vita, che in qualche modo quindi è un farsi forza, forse contiene anche questo quel passo. Però credo che il significato originario sia una constatazione di quello che sta accadendo, cioè l'annuncio del regno viene contrastato. ‘Della vita’ è stato tradotto da Igor Sibaldi in questa stessa collana, Oscar Mondadori, però non credo che si trovi più, ma si trova in biblioteca. Si può trovare anche su Internet, ma in qualche biblioteca si trova e si fa il prestito interbibliotecario. È un testo di quelli molto espliciti, perciò anche forse un pochino sgradevole, però per me è un testo importante. Sibaldi è una persona molto competente. Ha preso uno strano avvio, forse proprio a partire dal testo ‘Della Vita’, quello spunto di sciamanesimo di cui parla Citati: cioè c’è un che di veggente che può essere preso in Tolstoj per prendere una certa direzione. In Tolstoj c'è una specie di superominismo. Sibaldi è diventato un esoterico, scrive libri strani sugli angeli, su cosa accadrà nel 2012. Per inciso, Nietsche lesse ‘In che consiste la mia fede’ in versione francese, ‘Ma religion’. Era a Nizza nel 1886 circa e ci sono ne ‘L'anticristo’ e in una serie di suoi appunti molte cose su Tolstoj. Da un lato detesta Tolstoj, perché rappresenta tutto ciò che non condivide, ma al tempo stesso dà ragione a Tolstoj dicendo: “il cristianesimo che noi vediamo non è il vero cristianesimo: i tribunali, le leggi … il cristianesimo è un'altra cosa. Io non lo accetto, però…”. La domanda sui rapporti matrimoniali. Si, questo è un problema grosso di rapporti difficili in casa. Ci fu un periodo idilliaco: i primi 10-15 anni furono molto belli. Poi divennero difficili: dopo la sua conversione lui voleva lasciare tutto, non solo rinunciò ai diritti d'autore ma voleva dare tutto ai contadini, voleva spogliarsi, la moglie era preoccupata, doveva mettere a tavola ogni giorno 30 persone, i figli ma anche la servitù, quindi c'era un problema di risorse, era gelosa di questi amici contadini, di questi settari che venivano a trovarli, di un certo Cerkov che era suo collaboratore. Insomma ci fu una crescente incomprensione di cui sono testimonianza i diari di lei, i diari dei figli e una quantità enorme di gossip che viene continuamente alimentato e che però bisogna che noi non alimentiamo. Anche Manzoni ebbe difficoltà familiari enormi, probabilmente era una persona arida che faceva fatica, però noi cerchiamo di leggere i Promessi Sposi, le sue cose bellissime, non stiamo a dire: “però…”. Tolstoj sì, fu in difficoltà, forse anche Albert Schweitzer e tanti altri. Guardiamo con compassione queste cose, pensando a noi stessi, alle difficoltà che ci sono in queste situazioni. C'è un modo molto antipatico di mettersi al di sopra ed è un modo per non ascoltare, un modo di dire: “sì però anche lui andava con le contadine”. Ma è successo nel ’58. Anche Manzoni del resto aveva un figlio illegittimo e se lo rimproverò per tutta la vita. Allora non devi dire: “sì, anche lui andava con le contadine”, è accaduto questo fatto quando era un ragazzo, un nobile aristocratico e fumava, beveva, andava a spasso per l'Europa. Ma è passato molto tempo. Fabrizio: ma poi c'è “Resurrezione”. Bori: Ma è tutta una storia sua. Questo è un modo per non ascoltare, per evitare di confrontarsi con cose grandi e importanti. Perciò bisogna che noi, che siamo persone sensibili evitiamo di coltivare questo modo, che è un modo appunto per sottrarsi alle parole impegnative. Tolstoj non usa il termine ‘utopia’, ma è un ‘che fare?’quello che si avvicina di più a questo. ‘Che cosa dobbiamo fare?’, che sta tra Cernicevski e Lenin, che entrambi avevano scritto ‘che fare?’. La sua visione, che forse ha anche una certa attualità, è ritornare a guadagnarsi il pane con le proprie mani. Lui aveva una visione in cui l'agricoltura era al centro, pensava che ciascuno dovesse fare un po' tutto, cioè dovesse fare lavoro manuale, dovesse studiare, dovesse cantare, era contro la divisione del lavoro. Insomma era una concezione religiosa, cristiana, anarchica, nonviolenta. Però quando si dice utopia è quando uno dà forma a un mondo diverso. Lui invece suggeriva queste cose che non ebbero attuazione. Ci fu qualche comune Tolstojana che continuò anche, perché Lenin tutto sommato guardò con una certa benevolenza a Tolstoj e ordinò che si pubblicasse tutto. Sono usciti 90 volumi dell'Opera Omnia di Tolstoj, dal ‘28 al ‘58. L'edizione del giubileo ha pubblicato tutto, quindi disponiamo di un'ottima edizione fatta in epoca comunista. Anche sul fatto della violenza, lui dice alla fine della postfazione alla ‘Sonata a Kreutzer’ una cosa che per me è fondamentale: "ciò che io dico è come una bussola, è una direzione, non è una legge”. Anche la nonviolenza non è una legge. Pensate anche alle parole di Paolo. Non è una legge ma è un'indicazione, è un modo in cui si concreta la legge dell'amore, il modo primario, fondamentale. Quindi non diciamo: “però se capita l'assassino che uccide......”. Sì, ma non c'è in questo momento, non c’è Hitler in questo momento. Allora non costruiamo l'eccezione su questo principio fondamentale sulla base di ipotesi possibili di quello che può accadere, ma viviamo il presente il più possibile senza esitare nell'applicare questo principio. Ho avuto una discussione su questo facendo la presentazione dell’’Elogio della mitezza’ di Bobbio. Zagrebelski ha fatto un bellissimo elogio, poi ha cominciato con il ‘però’ e ha distrutto tutto. Ho fatto eccezione su questo: è molto comodo, è come parlare della moglie: “si però la moglie…”. No. Ascoltiamo ciò che viene indicato come una direzione per l'esistenza. Optiamo sempre in questa direzione e poi vediamo cosa sarà, cosa ci ispirerà il momento. Sull'aspetto pedagogico perché dire che è fallito? È finito. E’ diverso. È come dire che la scuola di Don Milani è fallita: è durata qualche anno. Gli scritti pedagogici di Jasnaja Poljana rimangono fondamentali per i pedagogisti. All'incontro che abbiamo fatto alla Scuola di Pace di Pisa c'era un bravissimo pedagogista, Venturini, un vecchio amico, che ha fatto un bello studio sul ruolo enorme che ebbe, è una pietra miliare. Lui si opponeva alla scuola tedesca autoritaria. Si può leggere. Anche questo in Mondadori: “Quale scuola?”. Sono degli scritti molto importanti. In più ci sono i libri di lettura. E in più, però non credo tradotto, c'è anche un sillabario nell'Opera Omnia. Poi lui finì. Cioè non è che fallì, si dedicò ad ‘Anna Karenina’. In quegli anni (‘70-‘73) questo sillabario fu accettato dal governo russo, quindi ebbe diffusione. Ricordo che prima ci fu un rapporto col ministero dell'istruzione, cioè in Russia in quel momento, dopo l'abolizione della servitù della gleba ci fu un grande sforzo di andata verso il popolo, lui ebbe un grande successo con ‘Guerra e Pace’, tradotto in francese subito. Quindi fino ad ‘Anna Karenina’ ebbe un ascolto enorme, quindi anche gli scritti pedagogici ebbero molta importanza. È su questo slancio di andata verso il popolo che poi cominciò l'impazienza dei rivoluzionari e cominciò la violenza, gli attentati e purtroppo così tutto andò a catafascio. Cesare : In Tolstoj c’è quel principio che mi sembra ci sia ancora nella morale cattolica, cioè ‘uccidere il tiranno è lecito’? Bori: Lui scrive la ‘Lettera a un indù’: è una lettera non a Gandhi ma a TaraknatDas che era invece un terrorista. Gli anarchici facevano questo: uccisero Alessandro II che era lo zar delle riforme. Tolstoj fu assolutamente contrario alla possibilità di uccidere il tiranno. Per quanto riguarda la casistica cattolica, a un certo momento i gesuiti soprattutto ammisero questa possibilità. Ho un ricordo vago di questo, forse erano i sovrani poi che davano addosso i gesuiti. Francesco Zanchini: Ti volevo chiedere, data la sua ostilità nei confronti della prassi della Chiesa ortodossa sulla pace e sulla guerra, se lui avesse una lettura di quel passo di cui abbiamo parlato prima, secondo il quale del regno di Dio si impadroniscono i violenti. Era questa la sua lettura? Bori: Non lo so, voglio vedere nella sua edizione dei Vangeli, è una ricerca che si può fare, perché lui ha tradotto tutto, quindi ha una sua traduzione. Credo che la sua lettura sia che ‘subisce violenza’. Comunque credo che la Chiesa ortodossa non si avvalesse di questo passo particolare per la guerra giusta, ma per altri motivi antichi, connessi alla vicenda secolare della Chiesa ortodossa, del rapporto con la Turchia. Gianni Novelli: Qualche anno fa - entriamo più nel personale biografico tuo - nell'intervista data a Gabriella Caramore a ‘Uomini e Profeti’, che conservo gelosamente, parlavi anche del lavoro che fai a Bologna, anche del tuo percorso religioso spirituale vicino ai quaccheri. Puoi entrare un po' in questa esperienza che è pressoché ignota in Italia e magari anche forse fra di noi? Bori: Sono quasi vent'anni che io ho chiesto di aderire alla Società Religiosa degli Amici,. popolarmente detta ‘Quakers’, quaccheri, ma è una denominazione popolare che risale al tempo delle origini. Sono andato a Londra e ho chiesto di essere ammesso. Sono membro individuale, in Italia ce ne sono pochissimi, due o tre. Ho anche chiesto di non fare rigetto della Chiesa cattolica cioè non volevo fare nessun gesto di rifiuto negativo, volevo fare un gesto positivo, dire: per me questa è la forma più decente di cristianesimo. Ho fatto questo e ne sono contento. Abbiamo un piccolo gruppo, ci troviamo in silenzio, si fa culto silenzioso, un'ora o un po' meno, 2 volte al mese. Non è una meditazione, ma in questo silenzio, chi si sente parla, senza contraddittorio. E’ una cosa molto bella. Direi che è lì che io mi trovo più pienamente, perché penso sia la forma che realizza di più da un lato il culto in spirito e verità di cui parla Gesù, e dall'altro l'idea di una prassi, quella che appunto “come fai a dire di amare Dio e non vedi il tuo prossimo”. Poi ci sono tante vie. Io stesso lavoro molto in un ambiente cattolicissimo militante, la Fondazione per le Scienze Religiose fondata da Alberigo. Mi accolgono bene, assecondo la religione degli altri nei suoi aspetti migliori, piuttosto che opporsi e dire "La mia è l'unica vera”. Simone Weil diceva: “ogni religione è l'unica vera”. Io direi: è tanto più vera quanto più sa tacere e confondersi con l'umanità per far crescere la vita, per promuovere la vita. Non si differenzia paludandosi di sacro o di ritualità, di parole speciali eccetera. Per me quella forma è la forma che ho trovato più bella, più conveniente. A me. Poi so che la dimensione rituale è così importante e così connaturata che so che molte persone ne sentono il bisogno, ma io penso che quanto più spirituale è un culto, tanto più è vero. Giorgio: I miei tre figli, di cui due abbastanza grandi che sono ricercatori in materie scientifiche, vivono con molta fatica sia la vita universitaria sia la vita politica del nostro momento attuale. Ho sentito tante cose belle che Tolstoj ha scritto. Lei quale consiglierebbe per iniziare una lettura di Tolstoj in questo campo non romanzesco che potesse aiutarli nel momento attuale del nostro paese e nel momento attuale soprattutto di chi vive in un ambiente culturale come l'università? Bori: Io francamente trovo che l'opera filosofica è abbastanza ardua, non nel senso che sia difficile ma nel senso che come dicevo c'è una certa aggressività. Leggerei alcuni grandi racconti come ‘Ivan Ilic’, come ‘Padre Sergio’, non ‘Sonata a Kreutzer’. E leggerei forse ‘Confessione’, che è il libro che sta al discrimine tra i due momenti ed è un libro bellissimo. Ce n'è anche un’edizione Marietti a cui ho fatto io la prefazione. Ci sono parecchie edizioni. È un libro che si collega ad Agostino e a Rousseau, è un po' questa la sequenza. Secondo me è un libro molto bello ed è aperto, mentre invece i testi più espliciti vanno bene per chi ha già fatto una scelta e possono respingere anche. Cioè sono molto predicatori, e questo è un problema. Sono molto belli questi libretti di meditazione quotidiana, però purtroppo non sono tradotti e quello che ho fatto io non si trova più. ‘L'altro Tolstoj’, del Mulino, è la ricerca più completa che io ho fatto, ma non si trova più. Può darsi che Servitium possa rifarlo. Antonio Thellung : Io vorrei sottolineare una cosa, che può sembrare fine a se stessa, ma in realtà io poi vedo che si applica anche nella realtà attuale, anche nel disastro dei rapporti attuali un po' a tutti i livelli, cioè il fatto di cui si parlava prima, che Tolstoj avesse difficoltà con la moglie oppure anche queste altre ‘scappatelle’ con le contadine. Queste cose io credo che siano punti di forza non di debolezza, perché tutto quello che lui ha maturato e ha espresso evidentemente viene fuori da una vita vissuta anche nella contraddizione, anche negli aspetti negativi. Cioè quello che la società perbenista in qualche modo identifica come fatti negativi, in realtà sono elementi di vita e chi li vive, chi ci passa attraverso riesce poi a trovare qualche cosa. Ora qual è l'applicazione al disastro soprattutto politico dei tempi di oggi? E’ questa mania di valutare quello che viene fuori non per quello che è nel contenuto, ma per chi lo ha detto: se l’ha detto il tale non vale, se l’ha detto il tal'altro si. Ma perché? E’ la stessa cosa. E’ come dire: va bene, ma Tolstoj non andava d'accordo con la moglie, se l’è fatta con qualcun’altra, perciò non è credibile. Ma come sarebbe? Non siamo capaci di valutare i contenuti? Ecco, io trovo che c'è una grande carenza di questo, una grande incapacità di valutare il senso delle cose, il senso anche di quello che viene detto, e invece questa superficialità basata esclusivamente su una contrapposizione. Tenevo a valutare questo, perché lei lo ha accennato brevemente e mi piacerebbe che fosse sottolineato meglio. Bori: Mi pare sia detto benissimo, non ho nulla da aggiungere. Stefano : Non so se la memoria mi tradisce, però per caso è Tolstoj che ha messo nella sua tenuta una piantagione di mele, facendole venire dalla Val di Non? Bori: La casa è molto modesta, la tenuta è molto bella. Ho sentito anch'io questo o forse è uscito un articolo su questo. La tenuta è quasi un museo dell'agricoltura, perché il regime sovietico l’ha conservata con tutti gli antichi attrezzi agricoli, la gente va lì, i matrimoni si fanno lì, è tradizionale in Russia passare per Jasnaja Paljana. Adesso c'è Vladimir Ilic Tolstoj, che la tiene in mano. Ogni due anni si ritrovano più di 100 Tolstoj. Ettore : Volevo chiedere semplicemente se si può dire che tramanda la tradizione degli Amici, dei quaccheri. E poi: questa dei quaccheri è una tradizione nel senso che intendi tu? Bori: C'è un contatto, ma in mezzo a tanti altri, non mi sembra che abbia un ruolo particolare la tradizione, però egli è a conoscenza di questo e ammira questo insieme ad altre cose che lui scopre, per esempio Adin Ballu che negli Stati Uniti lottava contro la schiavitù. Non c'è un ruolo particolare del quaccherismo. I quaccheri sono un gruppo estremamente tradizionale, perché fanno un salto indietro e mettono in atto il Vangelo di Giovanni, fondamentalmente, che non ha l'eucarestia e intende l'eucarestia nel senso della parola. Quindi c’è un arcaismo in realtà della Società degli Amici, mettono in atto la descrizione delle adunanze profetiche descritte da Paolo nel capitolo 12. Però non mettono in atto la descrizione della cena del Signore, perché pensano che sia una cosa di cui si sono impadronite le chiese, è diventato un terreno di lotta, un terreno di supremazia, per cui saltano a piè pari questo aspetto. E’ coerente con la visione di Fox degli Amici nel contesto puritano. Mi sembra una scelta abbastanza illuminata perché, considerando tutta la confusione e la violenza che si fa intorno al problema del sacerdozio, al problema di chi celebra queste cose, di chi è legittimato, di chi ha la tradizione apostolica eccetera, veramente si fanno dei passi verso l'oscurità e verso la distanza da Gesù immensi. Quindi è una scelta radicale di rinuncia ai sacramenti, non c’è neanche il battesimo: i quaccheri, pur essendo dei cristiani in genere eccellenti, da 350 anni non si battezzano, eppure continua la Società e fanno delle cose veramente belle. C'era perfino un osservatore al Vaticano secondo, abbiamo pubblicato un articolo con la sua corrispondenza, è piaciuto; molto amava molto la preghiera ‘adsumus’, siamo qui. Quindi quello che sto dicendo serve anche per informare che esistono tanti cristianesimi, esistono tante forme anche molto decenti. I quaccheri non hanno neanche partecipato alla guerra d'indipendenza da cui nacquero gli Stati Uniti, perché fu un'operazione violenta guidata da un gruppo massone, che è quello che poi in sostanza ha avuto in mano gli Stati Uniti per tanti anni. I quaccheri non parteciparono e da allora furono emarginati, nonostante che ci sia l’impronta quacchera sulla Pennsylvania, su Philadelphia eccetera. Ripresero un po' di quota con la guerra contro lo schiavismo e per l'uguaglianza dei sessi, però di nuovo con le guerre mondiali e con la propaganda bellicista furono oscurati. Però è la storia di un cristianesimo. Nel 1600 abbiamo una petizione di 6000 donne per la libertà degli Amici. Abbiamo scritti di meeting di donne che scrivono. Pensate cosa era il cattolicesimo e cos'erano le donne nel 1600. Quindi siamo di fronte a delle forme molto belle, E’ il meglio che ho trovato, non volendo abbandonare la tradizione in cui sono cresciuto. Quella forma mi sembra la più decente. Poi però appunto voglio aiutare ciascuno a trovare il meglio in se stesso, nella sua tradizione, per cui non vorrei assolutamente proporre me stesso come soluzione possibile.