Scarica il testo completo in PDF

Transcript

Scarica il testo completo in PDF
COMMEMORAZIONE COLOMBIANA 2002
MARTHA CANFIELD
CRISTOFORO COLOMBO NELLA NARRATIVA ISPANOAMERICANA
Il 12 ottobre 1492, vale a dire 510 anni fa, il marinaio Rodrigo de Triana, sulla nave di Cristoforo
Colombo, avvistando terra, lanciò il più famoso grido della storia. La notte precedente, verso le
10.00, stando sul castello di poppa, l'ammiraglio aveva visto una luce fioca e intermittente, che
pensò potesse provenire dalla costa, e lo disse a diverse persone senza azzardare un'interpretazione
definitiva. Il malcontento dei marinai era già arrivato al culmine, dopo due mesi di navigazione nel
«verde mare delle tenebre», come veniva chiamato allora il misterioso oceano, e lui aveva promesso
che, se entro tre giorni non avessero trovato terra, le navi avrebbero invertito la rotta. Tuttavia,
poche ore dopo, la sua intuizione si sarebbe rivelata fondata, e con l'alba del nuovo giorno una
nuova era avrebbe avuto inizio. 1
Fin dagli esordi la scoperta del Nuovo Mondo e il suo ingresso nella conoscenza e nell'immaginario
europeo sono segnati da una particolare commistione di elementi ambigui e precisi, di rigore
scientifico e slancio della fede religiosa, di forza di volontà e compulsione visionaria. Questa
commistione resterà come impronta indelebile – prodotta da un insieme di cause, oltre a questa
delle origini – nella prospettiva, nella cultura, nella letteratura americana e soprattutto
ispanoamericana. La figura di Colombo, vista come il bandolo della matassa, riunirà in sé,
anch'essa, valutazioni e significati storici e simbolici contrastanti, perfino paradossali, e forse
proprio per quello il suo fascino non tramonterà mai.
Quando parte per il suo primo viaggio di scoperta Colombo ha 41 anni. Ne farà altri tre nei dodici
anni successivi, prima di morire nel 1506, all'età di 55 anni. Dal 1492, anno della Scoperta, al 1521,
anno in cui ha termine la spedizione di Magellano, passano meno di trent'anni: tre decadi
vertiginose che sconvolgono il mondo e i parametri culturali. «Nessun momento della storia è stato
così breve e convulso, nemmeno il primo viaggio sulla luna, il quale ha mostrato il livello raggiunto
dalla tecnologia dell'uomo, ma non ha sconvolto il quadro della conoscenza umana» 2 , cosa che
avvenne nel secolo XVI proprio a causa dell'incontro con un mondo nuovo e soprattutto, come ha
detto efficacemente Todorov, un mondo altro. Agli uomini di quel secolo non resterà che riordinare
le macerie di un mondo infranto dalla chiglia delle navi di Colombo, Vespucci, Magellano.
Paradossalmente, quel tratto di mentalità medievale che spinge Colombo, sarà la prima causa
dell'età moderna 3 . Invece agli ignari abitanti del continente "scoperto" non resterà che assumere,
con dolore mai placato, la fine catastrofica del loro universo, e l'avvento di un ciclo storico nel
quale faticheranno per secoli cercando semplicemente di non soccombere. Dalla congiunzione tra
questi esseri e quelli nascerà un nuovo uomo, una nuova utopia, una nuova razza, quella che il
filosofo messicano José Vasconcelos chiamerà «cosmica», nella quale molti porranno la speranza,
perché destinata a dare al meticcio americano la vocazione eroica e universale, oltre che il difficile
raggiungimento della felicità. Così, ne La razza cosmica, pubblicato nel 1925, l'utopia del paradiso
recuperato, una delle prime impressioni avute da Colombo nelle nuove terre, si ripropone nel
Novecento attraverso la riflessione insieme lucida e sognante del pensatore ispanoamericano.
L'America, come si sa, nasce da un equivoco, e se essa non si fosse trovata di mezzo tra l'Europa e
l'Estremo Oriente, le navi probabilmente si sarebbero perdute nell'oceano. Ma Colombo, che era
convinto di essere arrivato nel Catai, non volle mai ammettere di aver sbagliato meta e restò
prigioniero del suo errore per tutta la vita. Tuttavia dobbiamo a lui due idee destinate a radicarsi
nell'immaginario europeo, quella dell'America come terra dell'abbondanza e dell'eterna primavera, e
quella dell'indio come «nobile selvaggio», uomo naturale, nudo, felice, innocente. Col suo Diario di
bordo, scritto nel suo castigliano da sefardita genovese, Cristoforo Colombo offre la prima
testimonianza sullo spazio ancora ignoto e senza nome che successivamente sarà chiamato
1
Tra la vasta bibliografia in proposito, sono da ricordare, per la loro precisione e per la piacevole
lettura, i due volumi di Nicola Bottiglieri, Nel verde mare delle tenebre. Viaggi reali e immaginari nei secoli
XIV-XV, Edizioni Associate, Roma, 1994; e Cristoforo Colombo, uomo delle frontiere, Edizioni Associate,
Roma, 1996.
2 Nicola Bottiglieri, Cristoforo Colombo, uomo delle tenebre, cit., p. 48.
3 Tzvetan Todorov, La conquista dell'America. Il problema dell' «altro», Einaudi, Torino, 1984, p. 12-16.
America 4 ; cerca, con i concetti e le espressioni di un europeo del XV secolo, di registrare una realtà
fino ad allora mai osservata né descritta, ricorrendo a ogni istante alla parola «meraviglia». Quasi
cinque secoli dopo, uno degli scrittori più rappresentativi dell'America Spagnola, Alejo Carpentier,
userà l'insolita formulazione del «reale-meraviglioso» per indicare la specificità della letteratura
ispanoamericana. Il Diario di Colombo, in cui le terre appena scoperte si descrivono come
bellissime, variegate, multiformi, ricche d'acqua, fertilissime, piene di verzieri fioriti, con alberi
carichi di frutti, pesci multicolori, uccelli dal canto armonioso, abitanti ben fatti e di ottimo aspetto,
candidi e generosi, ma dove anche la fauna e la flora insolite si mescolano con Esperidi e Floride,
con sirene, ciclopi e amazzoni, è considerato giustamente il primo passo alla ricerca dell'espressione
americana, il primo tentativo di capire per mezzo della parola una nuova realtà lentamente
assimilata. In questo senso non c'è dubbio che il testo di Colombo fonda una nuova letteratura,
come è stato in genere affermato. Ma noi vorremmo azzardare un'ipotesi in più: che sia proprio la
sensazione di "meraviglia" comunicata al lettore, grazie allo splendore del reale, ma ancor di più
alla commistione tra reale e meraviglioso, teorizzata più tardi da Carpentier e da altri ribattezzata
«realismo magico», quello che più di ogni altro tratto caratterizzerà l'espressione letteraria
americana, e che questo tratto – questa è la nostra ipotesi – derivi direttamente dal testo capostitipe,
e cioè dal Diario di Colombo 5 .
Nel Diario ci sono, in effetti, due strategie narrative: una che fa riferimento all'esperienza reale,
l'altra all'immaginario medievale. La prima è testimoniata dalle annotazioni giornaliere del marinaio
che trascrive le miglia percorse, traccia la rotta, osserva i venti, interpreta il volo degli uccelli, gli
indizi di terra, ecc.; la seconda, invece, affiora inaspettatamente nella percezione dell'oceano come
spazio fuori del mondo. In questa seconda strategia di scrittura è possibile rintracciare le immagini
della letteratura oltremondana, sia religiosa che pagana. È molto affascinante osservare come queste
due strategie narrative, messe a punto da qualcuno che non era esattamente uno scrittore, danno
inizio a una bipolarità nella percezione del reale, dimostratosi anche, appunto, meraviglioso, e
soprattutto a una prospettiva narrativa che si prolunga attraverso i secoli fino a esplodere nelle opere
più famose della narrativa ispanoamericana contemporanea.
Nicola Bottiglieri ha indicato come alcune delle immagini del Diario rimandano al Medioevo o alla
mitologia classica: l'oceano, la luce, gli uccelli-pesci, la trasparenza 6 . Io invece vorrei proporvi una
lettura del Diario di Colombo che rimanda non nel passato, ma nel futuro, nella letteratura che
verrà. Ad esempio, l'oceano veniva di solito associato al vuoto, dove il mondo finisce, e non per
caso, dato che allora si pensava che a un certo punto le navi potessero cadere nel cielo: Dante stesso
mette in bocca di Ulisse, che parla del suo ultimo viaggio, queste parole: «de' remi facemmo ali al
folle volo», Inferno, XXVI. Tuttavia, come sappiamo, e proprio attraverso l'impresa di Colombo,
l'oceano diviene il ponte che unisce due mondi, che collega la cristianità e le Indie, l'Oriente e
l'Occidente. Ma questa esaltante funzione non mitiga il carattere ostile delle acque sconfinate. E
allora, nella scrittura del Diario, vediamo affiorare l'immagine dell'oceano come un deserto.
L'immensità inospitale, la mancanza di acqua dolce, di alberi, di vita, nonché l'atmosfera di tempo
sospeso, creano facilmente l'associazione con il deserto. E viceversa, andando avanti nei secoli, se
riprendiamo in mano l'intramontabile romanzo sulla pampa argentina e il suo abitante il gaucho, il
Don Segundo Sombra di Ricardo Güiraldes, del 1926, troveremo come l'autore per definire meglio
la natura "desertica" della pampa ricorre all'immagine del mare oceano, invertendo così la
paradigmatica equazione colombiana.
4
Saúl Yurkievich, Nuovo mondo, mondo ignoto, in Storia della civiltà letteraria ispanoamericana, UTET,
Torino, 2000, vol. I, pp. 33-36.
5 Cfr. Cristóbal Colón, Diario de a bordo, edición de Luis Arranz, Historia 16, Madrid, 1985; e Los cuatro
viajes. Testamento, edición de Consuelo Varela, Alianza, Madrid, 1996. Si veda anche Cristoforo Colombo,
La lettera della scoperta. Febbraio-Marzo 1493, nelle versioni spagnola, toscana e latina con il Cantare di
Giuliano Dati, a cura di Luciano Formisano, Liguori, Napoli, 1992.
6 Nicola Bottiglieri, Cristoforo Colombo, uomo delle tenebre, cit., pp. 73-90.
Il giorno 11 settembre 1492, poco dopo la partenza dalle Canarie, i marinai notano i resti dell'albero
maestro di una nave e cercano invano di issarlo a bordo. Dice Colombo nel suo Diario: «videro un
grande tronco d'albero di nave di cento venti tonnellate e non fu loro possibile prenderlo» 7 . Siamo
di fronte alla prima delle due strategie narrative accennate: l'autore offre il racconto schietto e senza
commenti di un fatto reale. Tuttavia il potere evocativo del fatto narrato è enorme: l'albero maestro
non solo ricorda un naufragio, ma ribadisce insieme l'impossibilità di navigare oltre i confini del
mondo. Sta lì, come le carcasse di animali in un deserto, a segnare quanto meno il grande rischio
dell'avventura intrapresa. Mare come deserto, resti di naufragio come carcasse di animali.
Facciamo ora di nuovo un salto di cinque secoli e andiamo a riprendere una delle opere cult della
narrativa ispanoamericana del secondo Novecento: Cent'anni di solitudine del Premio Nobel
Gabriel García Márquez. Anche qui troveremo echi più o meno iperbolizzati del Diario di Colombo
(si ricordi che l'iperbole è una delle figure retoriche privilegiate da García Márquez). José Arcadio
Buendía, capostipite della famiglia che per cent'anni guiderà di destini di Macondo, «ignorava
completamente la geografia della regione»; e così come Colombo scambiò Cuba con la terra ferma,
egli scambiò Macondo con un'isola; dopo aver riflettuto sui dati ottenuti nelle sue esplorazioni, a un
certo momento esclama: «Diamine! Macondo è circondata dall'acqua da ogni parte!» 8 . E
certamente sbaglia. Lui, che non riuscirà mai a vedere il mare, ne deduce la presenza, e concepisce
la palude come «un vasto universo», come «una distesa acquatica senza orizzonti». Poi, in quella
palude, come faceva Colombo nell'ambito misterioso del mare, scorge creature che non provengono
dalla percezione bensì dall'immaginazione. Ci si racconta nel primo capitolo che la «palude
grande», che «si confondeva a occidente con una distesa acquatica senza orizzonti», era popolata da
«cetacei dalla pelle delicata con testa e busto di donna, che perdevano i naviganti con la malìa delle
loro tette madornali». Infine l'albero maestro relitto di naufragio che viene incontro alla nave di
Colombo diventa, nella vicenda di José Arcadio Buendía, un intero galeone spagnolo, intrappolato
dalla vegetazione nella vasta distesa della foresta sconosciuta:
Quando si svegliarono, già col sole alto, rimasero stupefatti. Davanti a loro, circondato
da felci e palme, bianco e polveroso nella silenziosa luce del mattino, c'era un enorme
galeone spagnolo. Leggermente piegato a tribordo, dalla sua alberatura intatta pendevano i
brandelli squallidi della velatura, tra sartie adorne di orchidee. Lo scafo, coperto da una
nitida corazza di remora pietrificata e di musco tenero, era fermamente inchiavardato in un
pavimento di pietre. Tutta la sua struttura sembrava occupare un ambito proprio, uno
spazio di solitudine e di dimenticanza, vietato ai vizi del tempo e alle abitudini degli uccelli.
Nell'interno, che la spedizione esplorò con un prudente fervore, non c'era altro che un fitto
bosco di fiori. 9
Spazio di solitudine e di oblio vietato ai vizi del tempo. Sì, l'immagine di questo relitto del passato
suggerisce un tempo sospeso in cui il presente si fonde con un passato mitico non decodificabile:
forse la nave ha viaggiato attraverso le terre, forse l'acqua è divenuta terra? Ma suggerisce anche
che la conquista spagnola si confonde ormai con il passato mitico, forse perché il suo significato
storico è tuttora da delucidare. E in ogni caso, García Márquez vede la terra americana degli
7
Martes, 11 de Setiembre. Aquel día navegaron a su vía, que era el Güeste, y anduvieron 20 leguas y
más, y vieron un gran troço de mástel de nao de çiento y veinte toneles, y no lo pudieron tomar»: Cristóbal
Colón, Los cuatro viajes, cit., p. 49.
8 «¡Carajo! – gritó – , Macondo está rodeado de agua por todas partes»: Gabriel García Márquez, Cien
años de soledad [1967], Plaza y Janés, Barcelona, 19777, p. 17; trad. it Cent'anni di solitudine, a cura di
Enrico Cicogna, Mondadori, Milano, 1995, p. 14.
9 Cent'anni di solitudine, cit., pp. 13-14.
antenati come la vedeva Colombo, spazio al di là del tempo, paradiso ritrovato dove l'innocenza non
è stata ancora corrotta. Ricordiamo che Macondo era un villaggio costruito sulla riva di un fiume
«dalle acque diafane che rovinavano per un letto di pietre levigate, bianche ed enormi come uova
preistoriche» 10 . Quando José Arcadio Buendía parte con i suoi uomini alla ricerca dei confini della
zona, in un viaggio che è in rapporto speculare con quello di Colombo, visto che egli si muove
verso la civiltà, scopre che la terra in cui vivono è niente meno che un «paradiso di umidità e di
silenzio, anteriore al peccato originale». È la stessa impressione di Colombo quando sbarca a San
Salvador e trova un mondo fuori del tempo: non vi sono città o strade, non viene praticato il
commercio, non vi è traccia di metalli, di fuoco, di animali domestici, di culture. Gli indios hanno
corpi giovanissimmi, «che io non scorsi alcuno – assicura Colombo – che fosse di età superiore ai
30 anni» 11 , sui quali il tempo non ha lasciato traccia, capelli come crini della coda dei cavalli, si
dipingono il corpo con tatuaggi, il ché li rendi più vicini al mondo della natura. Sono inermi, nudi,
ingenui, come se vivessero in una condizione molto simile appunto a quella del Paradiso Terrestre,
prima della colpa, quando gli uomini non avevano coscienza della loro nudità. È stato suggerito che
in questo mondo fuori del tempo gli spagnoli incarnano il veicolo della conoscenza e quindi del
peccato: è precisamente con il loro arrivo che il paradiso finisce e inizia il Nuovo Mondo, le Indie
Occidentali, l'America, parte ormai del Vecchio Mondo. Il peccato originale dell'uomo americano è
forse aver conosciuto gli spagnoli.
Ad ogni modo, come si vede, il rapporto realtà storica / parametri mitici è inevitabile quando si
parla dell'America. Ma rimane stabilito che la suggestione di quelle pagine inaugurali del Diario
dell'Ammiraglio non verrà mai a scemare. Il viaggio nello spazio che, nel toccare la terra
americana, diventa un viaggio a ritroso nel tempo, fino al raggiungimento impossibile del paradiso,
sarà il tema di un altro celebre romanzo del Novecento: I passi perduti di Alejo Carpentier del
1953. 12
Tuttavia, perché non rimanga l'impressione che la continuità di prospettiva e di motivi letterari tra
gli scritti di Cristoforo Colombo e la letteratura ispanoamericana è casuale, o che semplicemente
rimanda a motivi più o meno universali, vogliamo ricordare che esiste una consapevolezza delle
fonti e che la figura del folle e sventurato Ammiraglio non solo non tramonta ma addirittura negli
ultimi anni si è verificata una vera fioritura di romanzi che lo scelgono come protagonista e perfino
come voce narrante.
La riprova del fatto che gli echi del Diario di bordo ritrovati in Cent'anni di solitudine non siano
casuali, ma che anzi García Márquez l'abbia letto attentamente e se lo ricordi benissimo l'abbiamo
nel romanzo successivo dello stesso autore, ossia L'autunno del patriarca (1975). Nel primo
capitolo, in sintonia con il registro burlesco e paradossale dell'opera, assistiamo a un lungo e comico
pastiche in cui si descrive l'arrivo di Colombo nel regno del patriarca con la riproduzione di intere
frasi prese dal Diario:
e contemplando le isole [il patriarca] evocò di nuovo e tornò a vivere lo storico venerdì
d'ottobre in cui uscì dalla sua stanza all'alba e si accorse che tutti nella casa presidenziale
avevano messo un berretto rosso, [...] di modo che si mise a indagare cosa era successo
nel mondo mentre lui dormiva che la gente della sua casa e gli abitanti della città se ne
andavano attorno esibendo berretti rossi e trascinando dappertutto una filza di bubboli, e
alla fine trovò qualcuno che gli raccontasse la verità signor generale, che erano arrivati certi
10
Ibidem, p. 3.
«y todos los que yo vi eran todos mançebos, que ninguno vide de edad de más de XXX años»:
Cristóbal Colón, Los cuatro viajes, cit., p. 62.
12 Alejo Carpentier, Los pasos perdidos [1953], Biblioteca Carpentier - Alianza Editorial, Madrid, 1988;
trad. it. I passi perduti, Sellerio, Palermo, 1995.
11
forestieri che parlottavano in lingua europea perché non dicevano il mare ma la mare e
chiamavano pappagalli gli ara, piroghe le canoe e zagaglie le fiocine e che avendo visto
che gli andavamo incontro per riceverli nuotando intorno alle loro navi s'inerpicarono sui
pali dell'alberatura e si gridavano gli uni agli altri mirate che ben fatti sono, et di assai
formosi corpi et di molti belli sembianti, et coi capelli grossi et quasi come setole di cavalli, e
avendo notato che eravamo dipinti per non spellarci sotto il sole si agitarono come cocorite
bagnate gridando mirate che eglino si pingono di ghezzo, et eglino sono del colore del sole
de' canari, né bianchi né neri, e noi non capivamo che cazzo baccagliavano tanto a fare
signor generale se eravamo naturali così come le nostre madri ci avevano messo al mondo
e invece loro erano vestiti come il fante di bastoni nonostante il caldo, che loro dicono
calura come i contrabbandieri olandesi, e hanno i capelli acconciati come le donne benché
tutti siano uomini [...] e si meravigliavano che i nostri arpioni avessero sulla punta una lisca
di agone che loro chiamano dente di pesce, e facevano baratto di tutto quello che avevamo
con questi berretti rossi e con queste filze di pepite di vetro che ci mettevamo al collo tanto
per fargli piacere [...] 13
La figura di Colombo attraversa tutto il capolavoro di García Márquez, come una figura fantomatica
che trasmette la sua discutibile autorità al patriarca. Dice una delle molte voci narranti che questi
portava uno sperone d'oro al tallone di sinistra «che gli aveva regalato l'ammiraglio del mare oceano
[ossia Cristoforo Colombo in persona] perché lo portasse fino alla morte in segno della più alta
autorità». È evidente che García Márquez non ha simpatia per lo Scopritore e un altro personaggio
dice che «ese hombre tenía la pava», vale a dire che portava con sé la disgrazia. Dopo l'uscita del
romanzo, in una celebre intervista, l'autore confermò questa antipatia e ripeté che Colombo
diffondeva la sfortuna 14 .
Nel 1979, quattro anni dopo L'autunno del patriarca, esce L'arpa e l'ombra del cubano Alejo
Carpentier, dove si ripropone la «leggenda del pilota sconosciuto», secondo cui Colombo avrebbe
sempre custodito gelosamente un gran segreto comunicatogli da un pilota sconosciuto, che spinto
da una tempesta era arrivato in America e al suo ritorno alle Azzorre o alle Canarie era stato
raccolto da Colombo, a cui aveva comunicato in punto di morte la scoperta. La leggenda è stata
demolita da Samuel Eliot Morison diversi anni prima dell'uscita del romanzo di Carpentier, ma non
ha smesso di trovare divulgatori, al meno in certi contesti, come appunto Carpentier.
Nel 1992, in occasione dei festeggiamenti per il Quinto Centenario, uscì Vigilia del almirante
(Veglia dell'ammiraglio) 15 , del paraguaiano Augusto Roa Bastos, un romanzo scritto in tre mesi ma
pensato tutta la vita, come l'autore ha dichiarato. Qui troviamo, diversamente che in quello di
Carpentier, insieme a un'accorata rivendicazione dell'universo indigeno, una riflessione sentita e
coinvolgente sul folle ammiraglio, geniale ed enigmatico, infelice e ostinato nel portare a termine
ciò che riteneva la sua missione: diffondere la parola di Cristo nell'altra parte del mondo.
Il contrasto fra queste visioni di Cristoforo Colombo, da una parte esaltato, dall'altra denigrato
corrisponde ai cambiamenti della prospettiva storica. Può essere emblematico il fatto che nel IV
13
Per la versione originale si veda Gabriel García Márquez, El otoño del patriarca, Editorial
Sudamericana, Buenos Aires, 1975, pp. 44-45; trad. it. di Enrico Cicogna, L'autunno del patriarca, con una
introduzione di Cesare Segre, Mondadori, Milano, 1984, pp. 41-42.
14 Plinio Apuleyo Mendoza, El olor de la guayaba. Conversaciones con Gabriel García Máquez, La
Oveja Negra, Bogotá, 1982, p. 124; trad. it. Odor di guayaba. Conversazioni con Gabriel García Márquez,
Mondadori, Milano, 1983, p. 146.
15 Augusto Roa Bastos, Vigilia del Almirante, Alfaguara, Madrid, 1992.
centenario, ossia nel 1892, si pensò di consacrarlo come Santo di due mondi, mentre nel V
centenario, ossia nel 1992, egli fu sottoposto a un vero processo di dannazione, considerato come il
corruttore dell'America, colui che aveva dato avvio alla tratta degli schiavi, alla distruzione delle
culture indo-americane, alla strage secolare delle popolazioni indigene e alla discriminazione tuttora
esistente.
Oggi, all'inizio del XXI secolo, siamo di fronte a una nuova svolta nella prospettiva d'analisi: ormai
sono lontane le immagini degli indios visti come miti creature che barattano pezzi di vetro in
cambio di oro e che prendono la spada dalla parte della lama. Oggi, nel nuovo contesto del dramma
mondiale dell'inquinamento e del pericolo non lontano della distruzione del nostro pianeta, l'indio è
diventato il profeta del futuro, l'indianità ci si presenta come una scelta di vita, un «grido di libertà e
una ritrovata identità continentale, non europea, non cristiana, non yankee» 16 . Molti osservatori
affermano che l'ultima difesa dei nativi americani sta nell'incontro tra il movimento ecologista e gli
indiani, ecco perché essi sono diventati l'espressione della lotta per la rivendicazione dei popoli
della terra. Il movimento ecologista e il movimento indianista si offrono a vicenda l'opportunità di
difendere se stessi e la terra, sia essa foresta, prateria o montagna. I nativi possono avvantaggiarsi
del movimento ambientalista, mentre gli ambientalisti vedono nella gestione dei nativi la migliore
speranza di protezione per i territori ancora intatti delle Americhe.
Se per molto tempo la dicotomia civiltà / barbarie voleva dire nell'America Latina opporre la città
civilizzatrice alla barbarie delle campagne, oggi la difesa del pianeta crea il punto di incontro fra la
barbara civiltà metropolitana e la civile barbarie della natura. La morte e la devastazione che hanno
sempre accompagnato la penetrazione dell'uomo bianco nella natura americana possono essere
fermate in nome del popolo inquinato. Questa è la posizione dei movimenti ecologisti nei confronti
degli indiani degli Stati Uniti e un atteggiamento simile viene adottato nei confronti degli indios
dell'Amazzonia 17 .
La percezione simbolica dell'ambiente dunque è cambiata: la foresta, che veniva concepita come
luogo oscuro abitato da lupi, streghe e orchi, è divenuta il paradiso terrestre ancora ricuperabile,
spazio ispiratore di un modello di vita migliore. La città invece, una volta centro e fonte della
civiltà, è divenuta la giungla di cemento, luogo pieno di insidie, divoratrice dell'ambiente.
Ricordiamo, come ultimo cenno letterario, e già per finire, che l'inversione della tradizionale
dicotomia si trova già nei meravigliosi racconti dell'uruguaiano Horacio Quiroga 18 , scritti più di 70
anni fa, forse come un'eco dell'utopia rousseauiana e, attraverso Rousseau, ancora, come
conseguenza della fantastica visione di Colombo.
In questo contesto Cristoforo Colombo, più che il corruttore dell'America, colui che ha iniziato la
tratta degli schiavi, può essere visto come il primo europeo che cinquecento anni fa vide la foresta
equatoriale come il luogo dove era possibile incontrare il paradiso terrestre e forse recuperare
l'innocenza perduta. La sua idea, legata all'immaginario medievale, si rivela oggi profetica.
Vedendo il paradiso terrestre sulle coste dell'Orinoco egli lo vedeva esattamente dove oggi lo
collocano i movimenti ecologisti. E poiché l'accelerazione delle conquiste tecnologiche non sembra
portarci a guadagnare del tempo ma a perdere lo spazio vitale, rallentiamo, rallentiamo, e diamoci
tempo per ascoltare con nuovo spirito le voci del passato.
16
«L'Espresso», 24 marzo 1991, cit. da Nicola Bottiglieri, Cristoforo Colombo, uomo delle frontiere, cit.,
p. 113.
17
Ibidem, p. 114.
Cfr. Horacio Quiroga, Todos los cuentos, edición crítica de Napoleón Baccino Ponce de León y Jorge
Lafforgue, Colección Archivos, Madrid, 1993; e l'antologia Cuentos, edición de Leonor Fleming, Cátedra,
Madrid, 1991. In italiano: Racconti d'amore di follia e di morte, prefazione di Dario Puccini, trad. di Fausta
Antonucci, Editori Riuniti, Roma, 1987; e Anaconda, trad. di Fausta Antonucci, Editori Riuniti, Roma, 1988.
18