valutazione vissuti di malattia e cura

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valutazione vissuti di malattia e cura
C. Astolfi, L. Biscaglia, A. Iuso, A. Lupo, G. Natalucci
MEDICO
O DOTTORE?
TI RACCONTO
LA MIA MALATTIA
“...I medici sono proprio bravi, ti stanno ad ascoltare, ti
confortano e non ti curano e basta. Sono partecipativi, non
guardano solo alla malattia. Non sono mica come i dottori!
Sono medici nel vero senso della parola!
Il medico è quello che “cura” veramente la persona nella sua
interezza, il dottore è quello che si sofferma solo sul corpo.
Invece il malato sente il bisogno di partecipare alla cura...”
Medico o dottore? Ti racconto la mia malattia
Editore
Edizioni Panorama della Sanità
Società Cooperativa
Piazzale di Val Fiorita, 3
00144 Roma
Tel. 065911662
Fax 065917809
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Medico o dottore? Ti racconto la mia malattia
Indice
Presentazione
Luigi Macchitella, Fulvio Forino .................................................................................................................................................................................... pag.
1. Qualità percepita e sistema delle cure in ospedale .............................................................................. «
1.1 Le dimensioni della qualità percepita in ospedale e sistemi di misurazione
Giovanna Natalucci ...................................................................................................................................................................................... «
1.2 I percorsi e i modelli di valutazione della qualità percepita.
L’esperienza dell'Azienda Ospedaliera San Camillo Forlanini:
il progetto “l’Azienda ascolta”
Giovanna Natalucci ...................................................................................................................................................................................... «
1.3 “Ti racconto la mia malattia” un modello nuovo di approccio
alla qualità percepita, descrizione del programma, timing delle attività,
selezione del campione e sviluppo delle attività
Giovanna Natalucci ...................................................................................................................................................................................... «
1.4 Presupposti metodologici e modalità d'indagine
Alessandro Lupo ................................................................................................................................................................................................ «
2. La malattia e il suo orizzonte culturale e sociale ........................................................................................ «
2.1 Salute, malattia e il loro significato
Alessandro Lupo ................................................................................................................................................................................................ «
2.2 Narrazione e ricchezza documentale
Giovanna Natalucci ...................................................................................................................................................................................... «
2.3 Vivere la malattia, decifrare l'istituzione. Un percorso fra le interviste
Anna Iuso .................................................................................................................................................................................................................. «
2.4 Disamina antropologica dei contenuti narrativi
Alessandro Lupo ................................................................................................................................................................................................ «
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3. Le parole della malattia: analisi statistica dei dati testuali
raccolti attraverso le interviste etnografiche
Cristina Astolfi, Lilia Biscaglia ............................................................................................................................................................................... «
3.1 Costrutti teorici di riferimento: narrazione, testo e contesto ............................................... «
3.2 Definizioni, concetti generali e strumenti dell'analisi statistico - testuale ............... «
3.3 Le relazioni in primo piano .......................................................................................................................................................... «
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Bibliografia .................................................................................................................................................................................................................................. «
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Presentazione
Le linee strategiche della politica sanitaria che l’Azienda persegue, pubblicate nell’Atto aziendale (Supplemento ordinario n. 4 al BUR n. 3 del 21.1.’08), hanno possibilità di essere sviluppate e trasformate in realizzazioni concrete solamente se il
processo vede in ogni momento del suo evolvere il pieno coinvolgimento del cittadino,
che da oggetto dell’assistenza del Servizio Sanitario diventa sempre più anche soggetto competente, in grado di determinarla e di parteciparvi attivamente. Lo stesso
accesso ai servizi e la loro utilizzazione sono fortemente condizionati dal grado di
conoscenza che i cittadini hanno circa le loro caratteristiche e il loro funzionamento.
Pertanto la centralità del cittadino assume valore strategico assoluto per l’Azienda
ed è perseguita mediante specifiche politiche della comunicazione tese all’informazione, alla formazione ed alla partecipazione. La personalizzazione delle prestazioni ha lo scopo di legare l’intervento dei servizi ad uno specifico piano diagnostico-terapeutico che tenga conto non solo delle evidenze scientifiche, dei protocolli e
delle linee guida ma anche della realtà sociale e delle specificità individuali del
cittadino cui le prestazioni sono rivolte superando per questa via i rischi di
autoreferenzialità dei servizi, individuando il terreno concreto su cui realizzare
l’integrazione tra il sociale e il sanitario e acquisendo la capacità di misurare le
risorse impiegate per ogni cittadino.
L’informazione, sistematica e tempestiva, ha lo scopo di favorire un utilizzo appropriato dei servizi e delle prestazioni sanitarie, così come di indurre un consenso effettivamente informato ai trattamenti e permettere l’esercizio della facoltà di scelta nel
rispetto delle regole del gioco.
La partecipazione rappresenta uno strumento essenziale per la definizione degli
obiettivi di salute e consente scelte programmatiche condivise, tanto più necessarie
con l’evolversi dei rischi, col moltiplicarsi e col progressivo differenziarsi dei bisogni di
salute, che determinano la necessità, sempre più pregnante, di un utilizzo oculato di
risorse disponibili non illimitate.
L’Azienda Ospedaliera San Camillo Forlanini è tesa inoltre a stabilire le migliori
condizioni per “dar voce” ai cittadini attraverso i meccanismi di tutela assicurati dall’UOC
URP attraverso i focus group e le indagini di customer satisfaction per rilevare le
aspettative e il gradimento sulle prestazioni ricevute.
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Questo volume, cui si affianca il video risultato 1° classificato - nella categoria
video promozionali al 3° premio Nazionale “La PA che si vede la TV che parla con te”
indetto dal Formez, presenta le risultanze di un’indagine etnografica di carattere
qualitativo sull’esperienza di malattia e di cura vissuta dai pazienti ricoverati. La ricerca è stata realizzata dall’UOC URP in collaborazione con l’Università degli studi “La
Sapienza” – Facoltà di Lettere e Filosofia – Corsi di laurea triennale in “Teorie e
pratiche dell’antropologia” e specialistica in “Discipline etnoantropologiche”.
La scelta di effettuare questa ricerca è stata improntata allo spirito che guida la
mission aziendale: porre la giusta attenzione al punto di vista del cittadino anche
quando quest’ultimo esprime un giudizio critico sulle eventuali insufficienze presenti
nelle condizioni di ricovero, nelle modalità di presa in carico, nella comunicazione.
Proprio a partire da tali finalità l’Azienda Ospedaliera San Camillo Forlanini, impegnata in un processo di riorganizzazione complessivo, ha ritenuto utile pubblicare i
risultati di questa ricerca: gli stessi vanno nella medesima direzione dei programmi di
riassetto aziendale che vedranno il preciso compimento con l’accorpamento delle
attività assistenziali presso l’ospedale San Camillo in sintonia con gli intendimenti
della Regione Lazio. Si tratta, in sostanza, di attuare profondi interventi per ridare
dignità al ricovero, assicurando le condizioni per la privacy, migliorando il vitto, rendendo accoglienti ed efficienti le Unità di degenza. Chiunque abbia avuto modo di
frequentare il San Camillo nell’ultimo periodo avrà notato il grande sforzo che si sta
facendo per trasformare il nosocomio in una struttura all’avanguardia. Ma non ci
fermiamo solo a tale aspetto. I risultati della ricerca ci confermano la necessità di
lavorare sull’appropriatezza delle prestazioni, attraverso la piena applicazione della
politica del governo clinico e sui valori.
A coronamento di tale progetto si pone l’attenzione alle attese del malato, che
trova nelle iniziative avviate dall’UOC URP il giusto equilibrio: la ricerca di mediazione dei conflitti e la gestione di eventuali controversie con il pubblico in via extragiudiziale,
attraverso i focus group.
In questa cornice di ricerca del confronto continuo e fattivo con il pubblico si
annovera il progetto “Ti racconto la mia malattia”.
Dr. Fulvio Forino
Direttore Sanitario
Dr. Luigi Macchitella
Direttore Generale
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1. Qualità percepita e sistema
delle cure in ospedale
L’orientamento verso la qualità e la necessità di ascoltare per meglio comprendere i bisogni espressi dai cittadini sono principi che, dopo la pubblicazione della
Direttiva del Presidente del Consiglio dei Ministri sui “Principi per l’erogazione
dei servizi pubblici” (1994) e la Direttiva del Ministro della Funzione Pubblica
“Rilevazione della qualità percepita dai cittadini” (2004), sono entrati a far
parte delle attività istituzionali delle Pubbliche Amministrazioni.
Le indagini di customer satisfaction, infatti, oltre a perseguire:
• la trasparenza delle azioni amministrative;
• la tutela dei cittadini;
• il miglioramento dei processi organizzativi all’interno degli enti pubblici;
hanno favorito la creazione di una cultura della soddisfazione dei bisogni dei
cittadini.
Come sostiene Francesca Chiffi (2004), infatti, “non è più sufficiente assicurare la
corrispondenza dell’attività svolta con il dettato normativo ed i principi politicoistituzionali, ma è necessario sviluppare un atteggiamento culturale orientato a costruire un nuovo rapporto con il cittadino, restituendogli un ruolo di centralità
nell’attività amministrativa; riconquistare la fiducia dei cittadini verso le strutture
pubbliche attraverso un’informazione sempre chiara, completa e tempestiva e una
loro attiva partecipazione; predisporre un’organizzazione interna flessibile e veloce,
attraverso la previsione di procedimenti amministrativi più semplici; restituire credibilità nelle istituzioni pubbliche attraverso la qualità del servizio intesa come piena
rispondenza ai bisogni e alle aspettative dell’utente”.
1.1 Le dimensioni della qualità percepita
in ospedale e sistemi di misurazione
La customer satisfaction rappresenta uno strumento di partecipazione, verifica
e controllo da parte dei cittadini, di regolamentazione, vigilanza ed indirizzo per le
Aziende.
I principali obiettivi che motivano e sorreggono un programma e una indagine
di “customer satisfaction” possono essere:
• comprendere meglio le aspettative dei clienti
• conoscere come i clienti percepiscono le prestazioni dell’azienda erogatrice
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Medico o dottore? Ti racconto la mia malattia
• quantificare gli scostamenti tra aspettative e percezioni dei clienti
• valutare se le prestazioni percepite raggiungono un livello minimo, accettabile per i clienti
• tenere sotto controllo l’evoluzione delle aspettative dei clienti nel tempo
• monitorare continuamente le prestazioni dell’azienda erogatrice tenendo
sotto controllo le eventuali criticità del servizio
• valutare l’efficacia delle azioni correttive adottate
• realizzare un sistema informativo sulla qualità
• rendere il personale consapevole delle criticità del servizio
• impostare un sistema premiante in linea con la strategia della qualità.
La qualità può essere osservata da un punto di vista oggettivo e/o soggettivo. Gli
elementi soggettivi di valutazione della qualità poggiano sostanzialmente su giudizi
ed opinioni, misurabili attraverso indicatori connessi all’espressione di gradi di soddisfazione o di adeguatezza dei servizi rispetto alle attese formulate da cittadini degenti ed utenti (ma anche da cittadini non utenti) e da operatori di diversa qualifica
e profilo professionale. Le indagini sulla qualità percepita, condotte con metodi e
tecniche di tipo quantitativo, consentono di impostare i cosiddetti indicatori esterni che forniscono una misura della percezione, da parte del cittadino, della qualità
del servizio. Tali indicatori non descrivono in profondità il vissuto di malattia, ma
certamente offrono una gamma di giudizi che costituiscono comunque una forma
di valutazione finale sul servizio da parte di chi lo riceve; sono per lo più quantificabili
attraverso scale numeriche predefinite che non forniscono informazioni di valore
assoluto, ma diventano tanto più significative quanto più siano confrontate con un
parametro di riferimento: il valore dell’anno precedente, di un altro servizio, di
un’altra azienda, il valore atteso, il valore considerato accettabile.
Dall’adozione di indicatori è possibile ricavare da un lato indici settoriali o di
variabile (ad esempio, un unico indice settoriale che illumina sull’intera variabile
“informazione sanitaria”, esaminata attraverso un certo numero di indicatori semplici), da un altro alcuni indici generali (di qualità tecnica, di dimensione interpersonale,
di comfort) calcolati ciascuno a partire dagli indici settoriali relativi alla rispettiva
area della qualità, da un altro ancora un indice sintetico di qualità, ricavato dalla
media degli indici generali.
Accanto a questi indici, possono essere inoltre implementati indici specifici e
generali di qualità soggettiva (soddisfazione degli operatori, soddisfazione dei cittadini, soddisfazione di tutti i soggetti implicati) e di qualità oggettiva (adeguatezza
rispetto agli standards, rilevanza degli eventi-sentinella, rilevanza delle situazioni
particolari di qualità). Ciascun indice può essere riferito all’insieme dei luoghi ovvero a ciascun luogo o solo ad alcuni, sia esso un complesso o una divisione di degenza
o una specialità ambulatoriale.
Il campo di variazione dell’indice deve essere costruito in modo da rappresentare con evidenza e sinteticità il risultato dell’indagine; può essere cioè compreso
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1. Qualità percepita e sistema delle cure in ospedale
entro range di punteggio di vario tipo (da -10 a + 10, oppure da 0 a +10, da -10 a 0,
oppure con altra scala metrica).
La comparabilità dei risultati può e deve quindi diventare anche strumento di
benchmarking utile a favorire lo sviluppo di azioni di miglioramento dei processi ad
almeno tre livelli:
• rispetto al valore dell’anno precedente
• rispetto al valore di un’altra azienda che eroga il medesimo servizio in una
differente realtà territoriale
• rispetto al valore atteso dall’utente, in un’ottica tesa alla scoperta delle practices
migliori adottate nella gestione dei processi.
Le dimensioni prese in considerazione per poter rendere più afferrabile e
gestibile il concetto di qualità dal punto di vista del cittadino, come qualità ad
ampio spettro, sono le seguenti:
La
-
qualità tecnica riguarda gli aspetti riferiti alla prestazione del servizio:
Assistenza medica
Assistenza infermieristica
Professionalità degli operatori
Pianificazione dell’assistenza sanitaria
Continuità delle cure
Presa in carico del paziente (to care)
Tempestività della risposta
Igiene
Prevenzione, Promozione della salute
La qualità dei rapporti interpersonali e dell’umanizzazione attiene ai rapporti tra medico e paziente, tra infermiere e paziente, tra operatori e famiglia, tra
utenti e amministrazione, tra addetti al proprio interno, tra fornitori e clienti a
qualunque anello della catena, includendovi anche l’aspetto della trasparenza e circolazione delle informazioni sui servizi, quello dell’umanizzazione e della
personalizzazione dell’assistenza:
- Accoglienza
- Rispetto delle abitudini di vita
- Rispetto della dignità e della privacy
- Identificabilità degli operatori
- Informazione
- Consenso
- Capacità relazionale
- Empatia
- Umanizzazione
- Rispetto della morte
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Medico o dottore? Ti racconto la mia malattia
La qualità del comfort si riferisce all’ambiente di vita all’interno dei servizi
sanitari, dalle prestazioni alberghiere alla pulizia, dalla qualità del cibo ai sistemi
informativi di accesso ai servizi e alle prestazioni:
- Alloggio e locali
- Effetti letterecci e personali
- Aree di socializzazione/svago
- Vitto
- Pulizia
La qualità organizzativa riguarda la qualità e l’efficacia dell’organizzazione del
lavoro, dei processi tecnici e di supporto, delle procedure generali e specifiche, dei
volumi e tipologie di output finali, della divisione gerarchica, della gestione delle
risorse umane, della gestione dei sistemi decisionale, informativo, formativo:
- Condizioni tecniche e logistiche di accesso alle prestazioni
- Prenotazioni e tempi di attesa
- Procedure
- Attrezzature e risorse
- Sicurezza e ambiente
- Organizzazione del personale e clima
1.2 I percorsi e i modelli di valutazione della
qualità percepita. L’esperienza dell’Azienda
Ospedaliera San Camillo Forlanini:
il progetto “l’Azienda ascolta”
Nell’Azienda Ospedaliera San Camillo Forlanini, l’Ufficio Relazioni con il Pubblico a partire dal 1999 ha cercato di esplorare le potenzialità di un sistema standardizzato di valutazione della qualità percepita.
In considerazione dell’elevata complessità organizzativa del sistema aziendale e
della pluralità dei soggetti implicati e dei rispettivi punti di vista, sarebbe stato praticamente impossibile predisporre un piano esauriente e valido di indagine senza
ricorrere alla compartecipazione fin dalla fase progettuale di una serie di collaborazioni stabili da parte dei soggetti interni, rappresentativi delle diverse figure professionali e interessati alla promozione della qualità nei vari dipartimenti aziendali.
Il ricorso a testimoni particolarmente significativi per competenza ed ambito di
appartenenza (operatori di diverse professionalità, direttori, medici di base …) ed
il loro pieno coinvolgimento hanno costituito uno strumento indispensabile per il
perseguimento di tre obiettivi fondamentali:
1. il consenso preventivo e la creazione di un ambiente favorevole e attento alla
qualità e al suo monitoraggio,
2. lo sviluppo della partecipazione e di una cultura diffusa della qualità e dei suoi
strumenti e procedure,
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1. Qualità percepita e sistema delle cure in ospedale
3. lo sviluppo di un orientamento al cambiamento.
Nella nostra indagine questi testimoni hanno fortemente contribuito a:
• rinforzare la fase esplorativa dello studio,
• illuminare circa casi critici esemplari verso cui orientare lo studio,
• illuminare sulle criticità organizzative dell’azienda,
• consentire ai progettisti il miglioramento dello ‘standard setting’, ossia della
procedura teorico-metodologica volta a definire gli oggetti da porre in analisi
(dimensioni e criteri della qualità) e i valori (scala di importanza) da attribuire
a ciascun oggetto,
• costituire una rete di consenso verso il progetto e di attenzione verso i
risultati, nella prospettiva di una partecipazione continua al miglioramento
della qualità.
In particolare, i compiti principali della procedura di standard setting sono stati
sostanzialmente due:
• validare ed integrare la lista degli indicatori preparata dai ricercatori (513 elementi)
• attribuire valori agli standard per consentirne l’indicizzazione.
In considerazione dell’elevata complessità organizzativa del sistema delle cure e
della pluralità dei soggetti implicati e dei rispettivi punti di vista, l’URP ha dall’inizio
impostato il proprio piano di indagine impiegando nella prima fase di ricerca 4 tipi
di questionari, rivolti rispettivamente:
• ai ricoverati
• ai familiari
• agli utenti in regime ambulatoriale
• agli operatori sanitari.
Sono stati somministrati test di gradimento e di opinione delle prestazioni e dei
servizi a campioni di utenti e operatori all’interno dei presìdi; in particolare, sono
stati individuati e messi alla prova nei test indicatori volti alla rilevazione di giudizi
ed opinioni dei cittadini e degli addetti (qualità percepita).
Sono state interessate alla ricerca valutativa 92 unità operative appartenenti a 8
diversi dipartimenti, collocate nei 2 ospedali San Camillo e Forlanini.
L’esperienza, avviata nel 1999, è stata negli anni “ripensata” per assicurare la maggiore autenticità e completezza possibile. A tale scopo sono stati introdotti questionari somministrati telefonicamente per cogliere tutti i possibili elementi (dalla fase
pre-ricovero, all’esperienza vissuta in ospedale, alla dimissione), al fine di registrare
l’opinione “a consuntivo”.
Dall’esperienza operativa sul campo è affiorata la consapevolezza del bisogno di
individuare metodi di analisi e di valutazione sul risultato di salute conseguito in
rapporto alle risorse impegnate. Mentre la dimensione economico-finanziaria
aziendale è oggetto di un negoziato e di un processo di attribuzione di risorse ben
strutturato, rimane da definire il criterio di verifica del raggiungimento del risulta-
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Medico o dottore? Ti racconto la mia malattia
to di salute. Poiché la salute rappresenta una variabile multi-dimensionale si è ritenuto opportuno introdurre una metodologia di avvicinamento progressivo a concetti interpretabili nel contesto specifico aziendale con un processo sistematico,
basato non solo sull’evidenza tecnica, ma anche sulla maturazione di una cultura
aziendale definita.
L’assioma su cui si è basato lo sforzo interpretativo è che la qualità sia una
variabile multi-dimensionale in costante modificazione. Essa non può essere valutata attraverso un approccio univoco, né, tanto meno, attraverso una procedura a
termine: è viceversa il prodotto di un processo continuo, basato sull’identificazione
di eventi critici ed occasioni di vantaggio organizzativo, l’adozione di modifiche di
comportamenti individuali e collettivi, il costante controllo dei parametri relativi
alla qualità tecnica dell’atto professionale, alla qualità percepita da parte dei beneficiari
e alla qualità organizzativa.
In tale cornice di ricerca continua, si inquadra il progetto di indagine “Ti racconto la mia malattia!” realizzato nel periodo 2006-2007. La scelta di promuovere
un’indagine qualitativa presentava il vantaggio di indagare la dimensione interpersonale
per risalire, attraverso l’analisi dei “vissuti”, agli aspetti di qualità tecnica ed
organizzativa percepiti e liberamente espressi da un campione di ricoverati.
Questa indagine etnografica sulle narrazioni di malattia e di degenza è stata resa
possibile grazie alla preziosa collaborazione con l’Università degli studi “La Sapienza” – Facoltà di Lettere e Filosofia – Corsi di laurea triennale in “Teorie e pratiche
dell’antropologia” e specialistica in “Discipline etnoantropologiche”.
1.3 “Ti racconto la mia malattia” un modello
nuovo di approccio alla qualità percepita
descrizione del programma, timing
delle attività, selezione del campione
e sviluppo delle attività
In forza della convenzione stipulata con l’Università, l’UOC URP dell’Azienda Ospedaliera San Camillo Forlanini ha realizzato un progetto di ricerca per
la valutazione della qualità percepita e dei vissuti di malattia e di cura dei ricoverati, attraverso la somministrazione di interviste ai pazienti. Un particolare
ringraziamento va rivolto agli 8 studenti, avviati al tirocinio teorico-pratico di
laurea specialistica (Emanuele Bruni, Silvia D’Amico, Serena Di Genova, Arianna
Drudi, Sara Fabrizi, Anastasia Martino, Aurora Massa, Giovanna Salome), i quali,
dopo adeguata formazione da parte della Dott.ssa Natalucci Direttrice dell’UOC
URP e del Prof. Lupo Docente dei corsi di laurea, hanno effettuato direttamente le interviste ai malati ricoverati in un campione di Unità operative, indicate
preventivamente dal Direttore Sanitario Aziendale, dai Direttori sanitari di
Presidio, dal Direttore del Dipartimento Infermieristico Tecnico della Riabilitazione ed Ostetrico.
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1. Qualità percepita e sistema delle cure in ospedale
Timing delle attività:
• Presentazione del progetto alle Unità Operative nella giornata del corso “Capire è curare, capire è guarire” 19 dic. 2006. Tra il 20 e il 22 dicembre – i
Direttori e i coordinatori infermieristici hanno incontrato gli tagisti nelle rispettive Unità Operative e per definire tempi e modalità di avvio delle interviste.
• Incontri di formazione psicologica e all’intervista con le dottoresse Paola
Ciurluini e Franca Ghezzi (psicologhe), il professor Alessandro Lupo (antropologo),
la dottoressa Giovanna Natalucci (sociologa).
La formazione si è svolta in 3 momenti:
I°) 10/01/07 dalle 14,30 alle 17,30 - Fase antecedente l’inizio della ricerca:
Guida alla conoscenza e alla consapevolezza delle reazioni emozionali alla malattia, preparazione all’ascolto attivo ed empatico, suggerimenti volti ad evitare gli
errori soggettivi dell’intervistatore facilitando la conversazione e di conseguenza la
relazione e il processo di conoscenza.
II°) 22/01/07 dalle 14,30 alle 17,30 - Fase Intermedia:
Elaborazione psicologica delle impressioni, emozioni e sensazioni provate dai
tirocinanti durante l’intervista, analisi individuali e di gruppo delle dinamiche di
transfert e contro-transfert.
III°) 19/02/07 dalle 14,30 alle 17,30 - Fase Conclusiva:
Analisi e valutazione del contenuto emozionale e cognitivo delle interviste alla
luce dell’interazione psichica e motivazionale dei conduttori e dei soggetti esaminati.
Formazione metodologica propedeutica alla fase del progetto relativa all’analisi
e alla valutazione dei risultati (sbobinamento delle interviste e analisi dei testi,
predisposizione di griglie interpretative, impostazione del report).
• Somministrazione delle interviste: gennaio – giugno 2007
• Trascrizione integrale delle interviste, fino a luglio 2007
• Analisi e valutazione del contenuto affettivo e cognitivo dei testi: luglio – settembre 2007
• Predisposizione schede informative: settembre – ottobre 2007
• Ideazione, progettazione, realizzazione del video “Ti racconto la mia malattia”
in due versioni (7’ e 15’) settembre – ottobre 2007
• Partecipazione al 3° Premio Nazionale indetto dalla Presidenza del Consiglio –
Formez: “La PA che si vede, la TV che parla con te”. Ritiro della targa di 1°
classificato alla categoria video promozionali: 7 novembre 2007 Bologna
• Realizzazione del Corso di formazione obbligatoria “Ti racconto la mia
malattia!”Ascoltare il cittadino: dall’analisi delle narrazioni di malattia, come valore dell’esperienza, al focus group, come strumento efficace di riduzione del
contenzioso con presentazione dei risultati dell’indagine “diari” alle UUOO che
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Medico o dottore? Ti racconto la mia malattia
hanno partecipato al progetto di ricerca. Il corso si è tenuto in 2 edizioni: 22 e
23 novembre 2007 e 5 e 6 dicembre 2007.
L’ideazione del corso rispondeva all’esigenza di rappresentare in un’unica sessione i due aspetti dell’ascolto: ex ante, ossia l’intervista diretta del paziente per
cogliere le emozioni, i vissuti, ma anche le osservazioni sia di carattere positivo
che negativo, legate all’esperienza percepita; ex post, ossia l’impiego del metodo
del focus per affrontare in via extragiudiziale i conflitti insorti con i pazienti.
• Stesura del report finale di ricerca: dicembre 2007
La selezione del campione è stata così definita:
Campione: 68 interviste nelle UO di degenza e 18 interviste nel poliambulatorio,
per un totale di 86 interviste.
Criteri di selezione del campione:
• I degenti dovevano essere ricoverati da almeno 3 giorni presso l’UO considerata
• ciascun tirocinante aveva il compito di intervistare un uomo e una donna di
età inferiore a 50 anni, un uomo e una donna di 50 o più anni , compatibilmente con la disponibilità a rilasciare l’intervista.
• Per l’osservazione pediatrica ciascuno stagista doveva intervistare due bambini
(di circa 9-10 anni)e un genitore di ciascuno. Si doveva intervistare il genitore
prima e separatamente dal bambino, chiedergli l’autorizzazione a intervistare il
figlio da solo.
• Per il poliambulatorio bisognava cercare pazienti in attesa per almeno un’ora e
chiedere se erano disponibili a farsi intervistare ancora per 10 minuti dopo la
visita.
1.4 Presupposti metodologici
e modalità d’indagine
La scelta di effettuare un’indagine etnografica di carattere qualitativo sull’esperienza vissuta dai pazienti nell’ambito ospedaliero è nata dall’esigenza di integrare e
approfondire le informazioni precedentemente raccolte mediante la
somministrazione di questionari, che difficilmente consentivano di accedere alla
dimensione dei significati attribuiti dai diversi attori sociali a tali esperienze e della
loro valutazione complessiva. L’indagine etnografica, per come si è venuta
configurando nell’ambito dell’antropologia culturale e sociale, mira a documentare
e analizzare le forme di comportamento umano rilevabili nei diversi contesti sociali, portando alla luce il punto di vista e le motivazioni degli attori e individuando le
reti di relazioni e i molteplici fattori che concorrono a orientare e determinare le
loro condotte. Si tratta di fenomeni complessi, che possono essere spiegati solo
adottando una prospettiva olistica, multidimensionale (che in altri termini eviti il
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1. Qualità percepita e sistema delle cure in ospedale
rischio di riduttive spiegazioni monocausali), e seguendo metodologie d’indagine
adeguate.
In particolare, la ricerca etnografica s’incentra soprattutto su due tecniche strettamente complementari: l’osservazione partecipante e l’intervista in profondità.
L’osservazione è in genere alla base di qualsiasi processo conoscitivo, scientifico e
non, ma quella “partecipante” praticata dagli antropologi si caratterizza per il fatto
di richiedere una prolungata immersione dell’osservatore nel contesto sociale studiato, al fine di permettergli di cogliere i modelli di comportamento, i codici che
regolano la comunicazione e l’interazione tra gli individui, che variano enormemente a seconda del bagaglio culturale dei diversi gruppi umani. Un’osservazione a
distanza, che – come per le scienze naturali – si prefiggesse di preservare l’autonomia dello sguardo dello studioso e la sua ininfluenza sui fenomeni osservati, oltre
che assai difficilmente praticabile in termini concreti, sarebbe del tutto inadeguata
all’esame dei comportamenti umani, che sempre si ispirano e sono determinati dai
diversi significati e finalità che le persone danno alle proprie esperienze ed azioni.
Gli esseri umani, a differenza degli atomi e delle cellule, ma anche di gran parte degli
esseri viventi, sono “oggetti” che hanno la stessa natura del “soggetto” che li osserva e dunque interagiscono con lui, essendone influenzati e influenzandolo a loro
volta. Ciò per un verso ostacola l’aspirazione (oggi ritenuta utopistica, non solo
nelle scienze umane) a una conoscenza “oggettiva”, ma consente all’osservatore di
penetrare a fondo nella realtà studiata. Solo un’osservazione attenta e prolungata,
che coinvolga consapevolmente il ricercatore nell’azione, gli permette di accedere
alle “regole del gioco”, a quei modelli di comportamento socialmente condivisi che
costituiscono il peculiare patrimonio culturale delle diverse società umane.
E tuttavia, per accedere a quei modelli e quei codici – che come s’è detto
sono enormemente diversi e mutevoli, dipendendo dal variabile bagaglio culturale di ogni gruppo – l’osservazione partecipante non è sufficiente, ché spesso gli
attori non manifestano in maniera esplicita, immediatamente percettibile e comprensibile, il significato delle proprie azioni. L’accesso alla dimensione del significato è reso compiutamente possibile dall’espressione verbale, in particolare dal
dialogo, dall’interrogazione verbale: ecco dunque la fondamentale importanza
dell’intervista, che per essere euristicamente feconda ed esauriente, per consentire di cogliere la ricchezza e la complessità dei significati che gli esseri umani –
animali simbolici – attribuiscono ad ogni oggetto, azione, relazione, emozione,
vicenda della propria esistenza, non può esser chiusa entro i rigidi schemi e gli
angusti spazi di un questionario, ma va lasciata aperta alle idiosincratiche e feconde variazioni del dialogo intersoggettivo e alle possibilità di approfondimento che
nascono dai tempi lunghi e dall’intimità condivisa. Il che non toglie, ovviamente,
che sia estremamente utile e spesso necessario impostare l’intervista su un temario
preventivamente allestito, in mancanza del quale le informazioni raccolte da soggetti diversi difficilmente sarebbero comparabili e sottoponibili ad un’analisi si-
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Medico o dottore? Ti racconto la mia malattia
stematica. Tuttavia, se si intende valorizzare l’aspetto qualitativo di un’indagine,
onde far emergere il senso delle azioni e dei vissuti – come nel caso che qui
presentiamo –, flessibilità e profondità sono caratteristiche imprescindibili dell’intervista etnografica. Una profondità che passa anche attraverso la reiterazione
nel tempo, giacché ciò che viene riferito nelle interviste non è mai la “realtà”, ma
una sua rappresentazione (per intenderci: non è la procedura terapeutica affrontata in ospedale, ma uno dei tanti possibili racconti di ciò che si ricorda dell’esperienza terapeutica vissuta). E le rappresentazioni, si sa, variano nel tempo, a seconda dei contesti, degli interlocutori, degli obiettivi che più o meno consapevolmente ci si prefigge di raggiungere con esse.
Ecco perché ha senso, se si vuole conoscere esaurientemente il senso che le
diverse persone attribuiscono al proprio vissuto di malattia e di degenza, seguirle
passo passo nel loro percorso, osservarle da vicino, immersi con loro nei diversi
contesti in cui si trovano a transitare, raccogliendo per mezzo di interviste ripetute e prolungate le descrizioni, le riflessioni e le interpretazioni che esse danno delle
proprie esperienze. L’integrazione di osservazione partecipante e interviste approfondite si rende necessaria per consentire al ricercatore di conoscere dal vivo
la complessità dell’azione sociale e dei fattori che entrano in gioco nel determinarla e nell’influenzarla, permettendogli al contempo di accedere alla dimensione del
significato, che sola può render conto delle azioni e delle scelte osservate. Un’osservazione che non venisse affiancata dalle interviste risulterebbe il più delle volte
monca, per l’impossibilità di cogliere il senso, le motivazioni e gli obiettivi di gran
parte dei comportamenti osservati; ma anche delle interviste che non venissero
integrate con l’osservazione diretta renderebbero impossibile capire quanto “costruite” siano le rappresentazioni che gli attori danno della propria realtà e quali
siano gli elementi che contribuiscono a determinarle.
Questo per quel che riguarda le metodologie d’indagine della ricerca etnografica
in generale. Nello specifico caso che ci interessa, la decisione di focalizzare l’attenzione sulle “narrazioni” che i pazienti transitati per l’ospedale elaborano circa la
propria esperienza ha ovviamente comportato l’attribuzione di uno statuto privilegiato all’intervista, visto che la ricerca mirava tra le altre cose a raccogliere un
corpus documentale, fatto di “testi” orali registrati e accuratamente trascritti, da
cui partire per effettuare l’analisi dei “vissuti di degenza” dei cittadini che, nella
veste di utenti, transitano per le strutture dell’Azienda Ospedaliera San Camillo
Forlanini. Affinché gli intervistati potessero formulare liberamente le proprie narrazioni, lasciando emergere il senso più personale della loro esperienza di malattia
e di terapia, si è deciso di non imporre un rigido limite temporale alle inteviste (la
cui durata media va, a seconda dei reparti, da qualche decina di minuti a ben oltre
un’ora), né di assoggettarne la realizzazione ad un questionario rigido. Tuttavia, al
fine di dare sistematicità alla ricerca e di garantire la comparabilità dei materiali con
essa ottenuti, si è allestito un elenco di nodi tematici attorno ai quali i diversi
18
1. Qualità percepita e sistema delle cure in ospedale
intervistatori avrebbero organizzato le interviste (non necessariamente seguendo
l’ordine di stesura):
Modo di concepire il corpo e la malattia
Il racconto della malattia e alla fine di che percorso si è giunti in Ospedale
Aspettative sulla malattia (cosa ne sa)
Descrizione del dolore
Familiarità con la malattia
In quale momento/fase della vita si colloca l’evento di malattia
Analisi dei bisogni (protezione, rassicurazione, socializzazione…)
Contesto socio-familiare (chi si fa carico della malattia, parenti, amici e vicini…)
Aspettattive sull’ospedale in generale e su questo servizio o reparto
Aspettative sugli operatori
Tempi e ritmi dell’ospedale
Il risveglio
L’attesa
La pulizia personale
I pasti
La notte
Come percepisce il “clima” tra gli operatori
La visita medica
Le informazioni ricevute dai medici su malattia, cure e terapia
La visita dei parenti
Consegna della documentazione sanitaria per il medico curante
Il rapporto con gli infermieri
Il rapporto con i medici
Il rapporto con gli altri pazienti
Il rapporto con gli altri utenti in attesa
Capacità di ascolto empatico da parte degli operatori
Esami e consulenze
Le terapie farmacologiche
Aspettative prima dell’intervento chirurgico (paura di non svegliarsi,
dell’anenstesia, del dolore…)
Esperienza dell’intervento chirurgico e aspettative
Progettualità futura
La cornice istituzionale dell’indagine essendo l’attività di tirocinio prevista dai percorsi di laurea in antropologia di nuovo ordinamento – che nel caso specifico prevede 6 crediti formativi, corrispondenti a 150 ore –, gli otto ricercatori hanno potuto
dedicare solo una parte esigua del tempo all’osservazione nei reparti, concentrandosi
prevalentemente sulla individuazione degli interlocutori da intervistare, la preparazione delle interviste (circa 8 a testa), la loro realizzazione e trascrizione, la redazio-
19
Medico o dottore? Ti racconto la mia malattia
ne di schede di commento che fornissero un supporto alla ricostruzione delle figure
dei narratori, dei reparti e del contesto in cui le interviste si sono svolte. A conti fatti,
considerando il complesso delle attività svolte, l’impegno è andato considerevolmente oltre i limiti temporali previsti dal tirocinio; in compenso esso ha certamente
costituito una valida esperienza formativa, in cui i tirocinanti hanno potuto mettere
alla prova dei fatti le conoscenze teoriche e metodologiche apprese in sede universitaria, ed ha al contempo permesso di produrre un consistente corpus documentale
(86 interviste per svariate centinaia di pagine), di cui qui si offre un primo abbozzo di
analisi. L’indagine realizzata è dunque frutto di un compromesso tra le esigenze
metodologiche solitamente avvertite dall’antropologia (che prevedono prolungate e
intense immersioni sul terreno, accompagnate da interviste numerose, prolungate e
ripetute), le disponibilità e le restrizioni delle strutture sanitarie ospedaliere (fatte di
specifiche competenze, ritmi prestabiliti e rigide norme, igieniche, operative e di riservatezza), e i vincoli dell’attività di tirocinio formativo (riservata ai laureandi e dal
limitato arco temporale). Tenuto conto di questa cornice, i risultati ottenuti ci inducono a considerare del tutto soddisfacente l’esperienza fatta, sia per la sua natura
innovativa, sia per le incoraggianti prospettive d’indagine future cui essa prelude, sia
infine, e soprattutto, per la qualità e l’originalità delle testimonianze raccolte, che
hanno confermato al di là di quanto sperato l’utilità del dare ascolto alle narrazioni
dei pazienti circa le proprie esperienze ospedaliere.
20
Medico o dottore? Ti racconto la mia malattia
2. La malattia e il suo orizzonte
culturale e sociale
2.1 Salute, malattia e il loro significato
Il senso dell’indagine sulle narrazioni di malattia in contesto ospedaliero nasce
dall’incontro di due sensibilità per un medesimo oggetto: da un lato la pratica
medica e la sua capacità di risolvere i problemi di salute della popolazione e, dall’altro, l’attenzione ai vissuti, alle percezioni non solo di “soddisfazione”, secondo
parametri metodologicamente già esplorati, ma anche in relazione alle rappresentazioni simboliche dei concetti di salute / malattia, per una medicina che non sia
solo tecnica ma che si faccia carico della persona nel suo complesso.
Si tratta di un orientamento che non scaturisce solo da un drastico cambiamento di impostazione teorico-metodologica, ma che risponde anche, sul versante clinico, alle derive più spinte che negli ultimi tempi ha prodotto lo specialismo
tecnico, con i rischi di una disumanizzazione della medicina e la conseguente perdita di efficacia nel trattamento di quei mali per i quali risulta essenziale la qualità
della relazione terapeutica.
Questa prospettiva ispira il più recente percorso della branca dell’antropologia culturale e sociale che si occupa dei temi legati alla salute e alla malattia, un
tempo studiati presso popolazioni esotiche ed oggi affrontati in contesti assai più
familiari, e forse anche più complessi. Essa combina l’attenzione fenomenologica
per la dimensione soggettiva (tra i cui padri sta il Merleau-Ponty della Fenomenologia
della percezione) con l’approccio critico ai fenomeni e alle istituzioni sociali (tra i
cui fondatori si colloca Michel Foucault) e tra le altre cose persegue una attenzione olistica verso i fenomeni di interesse medico, con il superamento di vecchi
paradigmi riduzionisti. Per citare l’editoriale con cui Tullio Seppilli apriva nel 1996
il primo numero di AM Rivista della Società italiana di antropologia medica, l’obiettivo che l’antropologia si prefigge nel suo dialogo con la medicina “è quello di un
contributo critico al superamento dei limiti biologistici che frenano oggi lo sviluppo della nostra medicina e ne riducono […] le fondamenta scientifiche e le possibilità operative. O forse meglio, in positivo, un contributo critico alla costruzione
di una nuova medicina, scientifica e unitaria, capace di accogliere in un quadro
epistemologico coerente l’eredità dei numerosi tentativi attraverso i quali l’uomo
ha cercato di fronteggiare le minacce alla sua salute” (Seppilli 1996: 21).
21
Medico o dottore? Ti racconto la mia malattia
In altre parole, e semplificando, si tratta di chiarire perché la dimensione culturale avrebbe un qualche rilievo nel campo della soluzione dei problemi di salute,
considerato l’universale comun denominatore biologico che accomuna gli esseri
umani, dovunque essi vivano. Soprattutto alla luce dello straordinario e innegabile
grado di efficacia raggiunto dalle conoscenze intorno a tale supporto fisiologico e
alle tecniche per preservarne o ripristinarne la salute.
A nessun sociologo e antropologo culturale verrebbe in mente di mettere in
discussione i successi ottenuti dalle conoscenze mediche, tra i cui effetti più manifesti vi sono l’enorme allungamento della vita e l’incremento esponenziale della
popolazione del pianeta. E tuttavia, proprio quei successi hanno prodotto un radicale cambiamento nelle tipologie di problemi che assillano l’umanità (soprattutto
all’interno del nostro prospero mondo occidentale, ché altrove la situazione è
drammaticamente diversa): tante delle malattie acute (spesso di origine batterica
o virale) che assillavano i nostri antenati sono state molto efficacemente contrastate, ed hanno lasciato il passo a una “vasta patologia degenerativa, spesso di
lungo periodo”, contro cui i modelli biomedici risultano assai meno efficaci (Seppilli
ibidem: 7). Ora, mentre i mali del primo tipo erano e restano in buona misura
affrontabili sulla base di un intervento che tenga conto esclusivamente dei fattori
organici, assai più difficile è gestire la seconda tipologia ignorando il fatto che gli
esseri umani non sono solo dei corpi, ma degli animali simbolici e sociali, la cui
esistenza è comprensibile nelle sue multiformi manifestazioni – di cui fa ovviamente parte anche la malattia – solo se si tiene conto anche delle determinanti sociali
e culturali che contribuiscono a plasmare tutti gli individui della specie in modi
estremamente diversi.
Non sono solo gli antropologi culturali, ma gli stessi esponenti delle scienze
naturali, a rilevare come l’evoluzione della specie e lo sviluppo individuale dei suoi
singoli membri sia avvenuto e avvenga nella stretta relazione tra la struttura fisiologica dell’essere umano e quella straordinaria trovata evolutiva che è stata la
cultura, ovvero la capacità, che noi abbiamo più di ogni altra specie, di trasmetterci
da una generazione all’altra conoscenze e modelli di comportamento infinitamente vari e complessi senza che ciò debba comportare alcuna modifica del comune
patrimonio genetico. La qual cosa ha fatto sì che la cultura di un gruppo entri
sempre in gioco, sin dalle fasi più precoci dello sviluppo dei suoi membri, nel determinare come essi svilupperanno le generiche e ancora informi attitudini che la
natura (ossia il patrimonio genetico) fornisce loro. Per cui quello che noi siamo da
adulti (come saperi, capacità, gusti, propensioni, perfino appetiti) è determinato in
misura sostanziale non dal corredo genetico ricevuto dai genitori, ma dal bagaglio
culturale che essi (e molti altri) ci hanno faticosamente trasmesso. È in base ai
modelli culturali e comportamentali acquisiti sin dalla primissima infanzia che un
individuo svilupperà una maggiore o minore resistenza al dolore o una capacità di
controllo su certe parti o funzioni del suo stesso corpo, ed è sempre a seconda
22
2. La malattia e il suo orizzonte culturale e sociale
delle tecniche del corpo attraverso cui si sarà formato e le categorie concettuali
che informano la sua conoscenza del mondo che egli vivrà in maniere distinte i
disturbi prodotti da una medesima patologia e reagirà diversamente alle terapie
cui viene sottoposto.
La tendenza a pensare in termini dicotomici gli esseri umani - da una parte il
loro corpo e dall’altra la loro mente, quasi si trattasse di entità ontologicamente
distinte e irrelate, da una parte la loro universale base biologica e dall’altra la loro
variabilissima diversità culturale - non permette di spiegare esaurientemente un’infinità di fenomeni che riguardano l’uomo, tra cui anche quelli legati alla malattia e
alla terapia.
D’altronde non è un mistero nemmeno per la ricerca medica più avanzata che
sia i processi patogeni che quelli di guarigione sono spesso fortemente influenzabili
dalla personalità, dalle convinzioni, dalle emozioni e dal contesto di vita del paziente
(Seppilli ibidem: 8). Con questo non s’intende dire che le conoscenze e le tecniche
della scienza medica non abbiano una loro capacità d’azione diretta sull’organismo,
ma semplicemente rimarcare come quest’azione non esaurisca i fenomeni che riguardano la persona nel suo complesso. E che per accrescere la capacità di comprensione e di intervento su tali fenomeni è necessario tener conto anche dei
fattori di ordine storico-sociale che entrano in gioco nel determinarli.
Si tratta, in altre parole, di recuperare una prospettiva olistica, cioè totalizzante, comprensiva, che permetta di superare la cosiddetta “dicotomia cartesiana”,
ovvero la separazione tra dimensione fisiologica e dimensione mentale, che ha
indiscutibilmente permesso straordinari progressi conoscitivi e operativi, ma al
prezzo di perder di vista, nell’erronea convinzione che fossero irrilevanti o addirittura “irreali”, tutti quei fenomeni che riguardano la componente soggettiva
culturalmente plasmata e socialmente determinata degli individui.
Per render conto di tutte le diverse dimensioni in cui si dispiega il fenomeno
malattia, è stata da tempo introdotta la distinzione tra concetti diversi come quelli di disease e illness, ovvero tra la malattia intesa in termini fisiologici, sulla base
delle evidenze cliniche “oggettive” solitamente considerate dai medici, e l’esperienza soggettiva della malattia, così come essa viene vissuta dai singoli pazienti
(Eisenberg 1977: 11). Mentre la dimensione organica della malattia è ben nota,
meno familiare è la illness, variamente tradotta in italiano come “malessere”
(Signorini 1988: 45) o “esperienza di malattia” (Quaranta 2006: 117), che riguarda
la “percezione ed esperienza individuale di determinati stati ritenuti socialmente
sfavorevoli” (Young 1982: 265); in altre parole la dimensione soggettiva, idiosincratica e culturalmente plasmata della malattia.
Il più delle volte, specie nei casi clinicamente più seri, ovviamente vi è una piena
sovrapposizione tra le due categorie, nel senso che vi sono sia disease che illness
(Eisenberg [1977] fa il caso della Chetoacetosi diabetica o delle fasi tumorali terminali). Ma in molti altri casi non necessariamente l’una si accompagna all’altra. Il
23
Medico o dottore? Ti racconto la mia malattia
medico può diagnosticare disease in assenza di qualsiasi illness (come ad esempio
nel caso dell’ipertensione asintomatica), così come il paziente può avvertire disturbi e sofferenze in totale assenza di riscontri clinici (è il caso di malesseri privi
di riscontri organici come certe cefalee, o l’“isteria” di un tempo). È ovvio che
quest’ambito si presta prioritariamente a quei disturbi che ricadono nell’ambito
della psiche (anche se dicendo ciò non vogliamo riproporre le schematizzazioni
appena criticate: ogni caso di malattia, per esser compreso e trattato a fondo, va
considerato “olisticamente”, nell’insieme integrato delle sue manifestazioni).
Il dare il giusto rilievo al vissuto del paziente, il conferirgli l’ultima parola sul
suo stato (cfr. Gadamer [1994] e Canguilhem [1998]), permette di superare i
limiti dell’approccio empirista di certa medicina, non riducendo le “malattie” a
“entità biologiche o psicofisiologiche universali” (Good 1999: 14), ma cogliendole
nella loro peculiare e concreta manifestazione individuale: un’ottica secondo la
quale torna perfettamente utile il detto attribuito a Salvador de Madariaga secondo il quale “non esistono malattie, ma malati”.
Dar spazio alla dimensione soggettiva del malessere ci consente inoltre di cogliere la natura costruita e culturalmente determinata della sofferenza, che colloca i singoli casi di malattia entro cornici di significato ampie, ove la sofferenza fisica
e psichica è spesso assimilata a molti altri tipi di “sventura”, e spiegata da sistemi di
pensiero “olistici”, capaci di conferire senso alle umane sventure.
Uno dei passi attraverso i quali procedono quanti adottano questa prospettiva
consiste nel de-naturalizzare le condotte umane, mostrando come ogni percezione, sensazione, concettualizzazione, scelta, azione compiuta dai membri della nostra specie – per quanto inevitabilmente basata su strutture organiche e orientata
e limitata da fattori biologici universali – sia determinata, nelle sue forme, funzioni
e significati, dai diversi contesti storici e culturali in cui gli individui vivono. Anche
fenomeni che siamo soliti considerare in termini biologizzanti – come appunto la
salute e la malattia – sono in realtà sempre inestricabilmente connessi alla sfera
del significato e del valore. È sempre in quest’ottica che ha senso distinguere tra
approcci riduttivamente diretti alla cura (cure) dei corpi e altri più olisticamente
(e umanisticamente) orientati verso il “prendersi cura” (to heal) delle persone
(cfr. Cosmacini 1995).
In questo senso, l’antropologia degli ultimi decenni ha molto insistito sul fatto
che la conoscenza e il trattamento della malattia non possano esaurirsi nello studio
e nell’intervento clinico sulla sua dimensione organica, e che la malattia – come ha
recentemente osservato Byron Good (1999: 83) – “non è un’entità, ma un modello
esplicativo”; che spesso essa è espressione dei rapporti sociali e di potere esistenti
tra gli individui, a volte portando all’imposizione violenta dello status di “ammalato”
a chi si discosta dalla norma, altre inducendo gli individui ad esprimere con il linguaggio del corpo “malato” il proprio disagio per le condizioni esistenziali in cui si trovano a vivere (Scheper-Hughes 1992; Lock - Scheper-Hughes 2006).
24
2. La malattia e il suo orizzonte culturale e sociale
Fondamentali, in questo approccio, sono state la riformulazione dello statuto
epistemologico del corpo, non più “oggetto ‘naturale’ ma […] prodotto ‘storico’”
(Pizza 2005: 27) e l’introduzione del concetto di “incorporazione” (embodiment;
Csordas 1990, 2003), in base al quale non si concepisce più il corpo come qualcosa
di “dato”, passivo oggetto di conoscenza, ma come ineludibile strumento e soggetto – culturalmente plasmato – della conoscenza stessa.
Partendo da queste premesse, sarà facile comprendere perché possa risultare
problematico e non sempre soddisfacente – anche a fronte di evidenti successi sul
piano clinico – un approccio alla malattia che la riduca alla sua sola dimensione
organica, per quanto evidentemente prioritaria essa si dimostri in tanti casi, specie
in quelli clinicamente più acuti; un approccio che ignori le mutevoli e idiosincratiche forme e il “senso” che la malattia assume per il soggetto che la vive; che
concentrandosi su organi e tessuti dimentichi la persona nel suo complesso; che
isolando il paziente dal suo contesto ne ignori e rescinda le relazioni sociali; che
dimentichi il fatto “politico” che i responsi diagnostici, le scelte e le pratiche
terapeutiche interferiscono sempre in qualche misura con l’autonomia, la sovranità, la libertà d’azione dei soggetti coinvolti.
È da questa consapevolezza che nasce l’interesse per l’applicazione di modalità
d’indagine etnografiche qualitative a contesti sanitari “locali”, come nel caso del
progetto di cui si presentano i risultati in questo report finale di ricerca.
Dopo avere per decenni rivolto la propria attenzione alle conoscenze e alle
pratiche mediche di civiltà lontane, presso le quali una gran parte delle spiegazioni della malattia e delle risorse per combatterla si basavano su concezioni di
ordine simbolico – come le teorie umorali, le grandi dicotomie caldo/freddo o
yin/yang, oppure convinzioni di carattere magico-religioso –, gli antropologi sono
stati chiamati a dirigere il proprio sguardo e applicare i propri metodi d’indagine
alle realtà sociali e culturali dei loro paesi d’origine insieme ai sociologi. Tra i
campi privilegiati di osservazione antropologica in ambito medico vi è quello del
“versante storico-sociale della fenomenologia di salute/malattia, specie per quanto
riguarda le dinamiche culturali e della soggettività e la loro stessa incidenza sui
meccanismi delle difese organiche e del controllo dei processi corporei” (Seppilli
1996: 21).
Anche nel nostro mondo tecnologico, in cui il lessico ed alcune elementari
conoscenze scientifiche sono diffusi nella popolazione dei profani, gli individui “incorporano” le proprie esperienze, plasmano secondo i propri modelli culturali le
singole esperienze di malattia, raffigurano mediante simboli e inanellano in complesse trame narrative il proprio vissuto.
Tra i membri meno superstiziosi della secolarizzata società occidentale contemporanea capita di investire emozioni e valori sulla malattia, di rappresentarla
attraverso potenti metafore, i cui eventuali usi perversi sarà certo utile svelare e
combattere, come invoca Susan Sontag nei suoi libri (1979, 1989), ma che è illuso-
25
Medico o dottore? Ti racconto la mia malattia
rio e ingenuo credere di poter sradicare ed evitare del tutto (v. Good 1999: 72).
Nei contesti urbani, fatti di una socialità monadica, anonima, individualizzante,
ove crescono esponenzialmente le famiglie fatte di un solo componente e scompaiono quelle estese d’un tempo, la malattia resta un fatto sociale, che interferisce
con le reti di relazioni in cui ognuno di noi è inserito, che attiva solidarietà e
forme di interazione latenti, che suscita partecipazioni affettive vaste quanto intense.
Anche nella nostra temperie secolarizzata, connotata da una razionalità senza
miti e senza dèi, che ha fortunatamente superato da tempo l’epoca delle terapie
magiche, dell’attribuzione delle cause di malattia agli untori e alle streghe e della
loro violenta quanto iniqua persecuzione, gli individui non possono fare a meno di
leggere la propria menomazione, sofferenza ed eventuale morte entro una cornice di significato che tocca le questioni fondamentali del perché, del senso morale
delle vicende umane, della colpa e del castigo (basti pensare alla stigmatizzazione
con cui vengono concepiti mali come l’AIDS).
Donde la quantità di persone che – pur fruendo a prezzi spesso modicissimi
dei servigi del più potente sistema terapeutico mai realizzato dall’umanità nella
sua lunga storia – si rivolgono a medici non convenzionali scientificamente poco
credibili, o di tradizioni esotiche e new age, a maghi, a sacerdoti di religioni “pagane”, quando non a ciarlatani che sottraggono loro ingenti ricchezze. Come spiegare tutto ciò se non con la capacità di tali operatori e di tali risorse terapeutiche di
soddisfare un’esigenza di senso e di relazione che la pur potentissima biomedicina
non è in grado (né si prefigge) di appagare (cfr. Dei 1996)?
Anche nella nostra società democratica e laica, così attenta – almeno a parole
– alla tutela della libertà, dell’autonomia, della dignità e della riservatezza dei singoli, che è stata capace di cancellare quel terribile esempio di inutile violenza che
erano i manicomi, l’esercizio del sapere biomedico non manca di controllare e
disciplinare i corpi, delimitare le scelte e le condotte, ostacolare od orientare le
azioni degli individui, come la cronaca ci mostra quotidianamente (basti pensare
alle questioni riguardanti la riproduzione e l’eutanasia).
Tutto questo ci dimostra come anche noi, che frequentiamo le strutture
ospedaliere e ci affidiamo ai presidi terapeutici della sanità pubblica, in realtà
differiamo assai meno di quanto si creda dalle popolazioni del passato e dell’altrove solitamente studiate da storici ed etnologi. Ne consegue che gli stessi
metodi d’indagine, concetti e prospettive analitici elaborati per studiare quei più
esotici contesti possono rivelarsi assai utili per comprendere la nostra stessa
realtà sociale.
2.2 Narrazione e ricchezza documentale
L’indagine etnografica sulle narrazioni di malattia e di degenza ha consentito di
esplorare la qualità percepita dai pazienti con una metodologia di tipo qualitativo:
26
2. La malattia e il suo orizzonte culturale e sociale
a partire dall’analisi della narrazione del “vissuto” delle persone intervistate, ci si è
proposti di superare l’approccio tradizionale di valutazione del gradimento, tipico
delle indagini quantitative di customer satisfaction. Attraverso le rappresentazioni
fornite dagli intervistati si è cercato di individuare aspetti significativi del sistema
delle cure e delle sue eventuali zone d’ombra, con l’obiettivo di evidenziare punti
di forza e nodi critici nelle quattro dimensioni della qualità indicate nel par. 1.1:
qualità tecnica, qualità dei rapporti interpersonali, qualità del comfort, qualità
organizzativa.
Per quanto riguarda in particolare la percezione da parte degli utenti della
qualità tecnica del servizio, è emersa dalle interviste una serie di aspetti riconducibili all’aspettativa da parte dei malati e dei loro familiari di una “presa in carico” globale, competente, interdisciplinare, professionale. Tale presa in carico, che
può essere indicata sinteticamente con l’inglese to care, in contrapposizione alla
semplice somministrazione di cure (to cure), implica una convergenza di intenti,
una visione condivisa, un’azione sinergica tra le parti che compongono l’azienda
ospedaliera.
D’altro canto, l’alta specializzazione delle strutture di tale azienda (che di per
sé costituisce un punto di forza, assicurando un sistema di cure di eccellenza), le
sue dimensioni e la complessità che ne deriva comportano anche grandi difficoltà
di scambio tra le Unità Operative e il rischio di una parcellizzazione degli interventi. Il punto di tensione risiede nell’esigenza di riportare ad unitarietà gli interventi sul malato: si pensi alle diverse sollecitazioni raccolte circa l’aspettativa di
ricevere informazioni non contrastanti, cure coordinate, attenzione sistemica alle
diverse parti del corpo interessate ai processi di malattia; o alla necessità di governare il sistema delle consulenze che, seppure assicurate da team di professionisti
sempre più specializzati, talvolta determinano interventi frammentari se non addirittura contrastanti.
Dai racconti emerge la richiesta di una “cabina di regia” che metta al riparo il
malato dagli eventi critici sia prevedibili, sia di natura improvvisa; più in generale si
avverte l’esigenza di conciliare la necessaria specializzazione delle strutture e delle competenze con l’obiettivo di perseguire quanto più possibile un approccio
olistico alla persona malata.
Il desiderio di “presa in carico” da parte del malato si coglie anche nell’aspettativa di visite che implichino un contatto diretto e ripetuto con il proprio
corpo. La durata e la modalità delle visite costituiscono per il paziente importanti indicatori del grado di attenzione del medico nei suoi confronti. È chiaro
che dietro alla cosiddetta dimensione professionale percepita c’è una domanda
di fiducia, di sicurezza, di attenzione personalizzata nonché l’aspettativa di ricevere informazioni chiare, tempestive, esaustive e complete. Questi ultimi aspetti
sono più direttamente riconducibili alla dimensione della qualità che si riferisce
ai rapporti interpersonali. Tra le varie sollecitazioni che emergono dalle in-
27
Medico o dottore? Ti racconto la mia malattia
terviste in merito alle relazioni tra medico e paziente, tra infermiere e paziente,
tra operatori e famiglia, tra utenti e amministrazione (ivi compreso anche l’aspetto
della trasparenza e circolazione delle informazioni e quello dell’umanizzazione e
della personalizzazione dell’assistenza), si evidenzia in particolare l’interesse del
malato per un approccio improntato al counseling relazionale. Il paziente vuole
sentirsi ascoltato con attenzione. Non si aspetta semplicemente di udire delle
parole o seguire sommariamente i punti di un discorso, ma di poter ricevere
partecipazione, attenzione, conforto, finanche compassione (una “condivisione
del pathos” tale da costituire una sponda cui affidare il peso della propria malattia). Questo comporta per l’operatore la necessità di prestare attenzione non
solo alla scelta del contesto o delle parole da utilizzare, ma anche ai gesti, ai
segni, al tono della voce, alle pause…, in sintesi a tutto ciò che consente di
esprimere empatia nei confronti dell’interlocutore. Tale esigenza assume particolare rilevanza quando l’operatore si trova nella necessità di comunicare notizie spiacevoli al paziente o ai suoi familiari.
Più in generale, la comunicazione efficace costituisce un aspetto centrale della
relazione con il cittadino: essere informato in modo chiaro, corretto ed esaustivo
consente infatti a quest’ultimo di esercitare il proprio diritto a conoscere, a
formulare il proprio assenso alle cure e, eventualmente, a scegliere in modo
consapevole tra interventi alternativi. Essa è condizionata dall’interazione tra le
diverse rappresentazioni (della salute, della malattia, della morte) delle quali
ognuna delle figure interessate (paziente, caregivers, operatori) è portatrice dal
proprio angolo visuale, sulla base delle esperienze vissute e della propria cultura
di riferimento.
Le 86 interviste hanno permesso di raccogliere un “corpus” di racconti la cui
lettura offre una gamma notevole e variegata di spunti per la riflessione da parte
dei diversi possibili interlocutori: medici, infermieri e personale amministrativo.
Pubblicare l’intero corpus delle interviste (diverse centinaia di pagine) è evidentemente impossibile per ragioni di spazio.
Una lettura antropologica ed una epistemologia narrativa, con la citazione di
passi significativi di numerose interviste, è presentata in altre parti di questo
volume.
Nel capitolo 3 è descritta l'analisi statistica dei dati testuali effettuata con un
software dedicato.
In questo paragrafo sono state estratte dalle interviste alcune citazioni che,
nella loro brevità, appaiono particolarmente efficaci per la rappresentazione del
vissuto di malattia e delle aspettative di cura dei pazienti.
Le citazioni presentate nelle pagine che seguono sono state raggruppate sulla
base delle quattro dimensioni della qualità indicate nel par. 1.1. Un ultimo gruppo
di citazioni viene infine riportato sotto la denominazione “vissuto di malattia”,
sulla base del concetto di illness espresso nel paragrafo precedente.
28
2. La malattia e il suo orizzonte culturale e sociale
QUALITÀ TECNICA
Professionalità degli operatori
“Le visite durano una decina di minuti. Non è una visita perché i medici non ti
toccano. Si basano sull’esito degli esami, sulla cartella clinica.”
“Spesso i dottori prescrivono le medicine e basta, non ti guardano proprio in faccia,
sfogliano i documenti e neppure ti toccano! Ma se non ti tocca, che medico è?”
“Nella struttura non ci deve essere il buon medico e il cattivo medico, la buona
infermiera e la cattiva infermiera, perché si gioca con la salute delle persone. Però può
accadere e allora devi solo pregare che non ti capiti mai come dottore…”
Presa in carico del paziente ‘to care’
“I medici “curano” proprio! Ti stanno a sentire, ti parlano, ti stanno vicino se hai
bisogno, ti danno spiegazioni mica come i chirurghi…che tagliano e basta, …”
“Riconosco che gli infermieri sono abilissimi per ciò che riguarda la manualità. La
relazione diventa più umana se sei considerata una persona nella tua totalità”
“È un problema di prospettiva, i medici sono come addestrati a guardare al corpo. Bisogna capire che io non sono un malato, sono una persona!
Mente e corpo non si possono separare”
Tempestività della risposta
“Io sono qui da quasi una settimana e ancora non ho ricevuto una diagnosi precisa,
ma la cosa che mi dà fastidio è che non mi si diano spiegazioni. Come faccio a dare un
senso al mio stare qua?”
“Tu suoni e risuoni il campanello, ma non vengono e allora sei solo, con i tuoi pensieri
e magari ingigantisci quello che è, forse per loro è normale è la routine.”
29
Medico o dottore? Ti racconto la mia malattia
QUALITÀ INTERPERSONALE
Accoglienza
“È brutto sì. Le prime volte voi italiani non parlate inglese, e altro mondo parla inglese,
tu stai nell’ignoranza, e questa già è una cosa che non va bene.”
“Una persona nell’ospedale, perde gli affetti, non c’è più nessun conoscente
intorno. Spesso il malato è portato qui di notte, quando è tutto buio, e questo sviluppa
un senso di panico. Si avrebbe bisogno di un parente vicino, ci vorrebbe qualcuno
che rassicuri il malato. I più anziani ci mettono almeno tre o quattro giorni per capire
dove sono e come muoversi. Se perdiamo la sicurezza, perdiamo tutto!”
Rispetto della dignità e della privacy
“Qui la privacy non esiste proprio e non perché sono in una stanza con altri quattro
letti. In Olanda e in Inghilterra si usano dei separè tra un paziente e l’altro. E’ una
piccola cosa, però aiuta l’individuo a mantenere la propria integrità e dignità.”
“Le infermiere arrivano ogni mattina a farti il bidè, persone che tu non hai mai visto e
conosciuto, fortunatamente sono tutte donne.”
“Io non mi aspetto di essere coccolata, ma rispettata per quello che sono, una persona che soffre. La malattia non si può eliminare dalla vita, è connaturata ad essa, va
accettata: se c’è un inizio, c’è anche una fine. Ma la dignità permane.”
“Bisogna imparare una strategia per essere paziente e rimanere persona. I medici ti
trattano con rispetto se tu ti rispetti e pretendi rispetto. Rispondono con cortesia e
umanità se chiedi con cortesia e umanità. Per me non occorre pietismo, il malato è
una persona con una dignità.”
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2. La malattia e il suo orizzonte culturale e sociale
Informazione
“Le decisioni vanno prese insieme dal dottore e dal paziente, anche perché l’operazione la devo fare io!”
“Il primario è venuto lui stesso in prima persona a parlarmi. E con molta calma, con
molta delicatezza m’ha spiegato tutte le cose e poi alla fine m’ha convinta. Sarà dura
accettarla la situazione però insomma m’ha fatto piacere che sia venuto lui stesso a
parlarmi.”
“I paroloni andrebbero banditi, altrimenti non si capisce nulla”.
“Noi da profani non possiamo capire un meccanismo che c’é nel fisico; non capisco
cosa succede dentro di me. Queste cose di chiarimento, mi piacerebbe approfondirle,
non so perché non te le spiegano bene, forse perché é difficile capirle? Pensano che
uno dovrebbe conoscere la medicina per capire?”
“Il medico dice: ‘Va tutto bene’, ma se sto bene allora perché mi sento male? Io poi non
capisco il linguaggio difficile della medicina, mi devi spiegare le cose facilmente”.
“Per me la teoria giusta è sapere il più possibile per poi partecipare anche
alla mia cura, secondo me è importante, anche sapere in quale situazione ti trovi e
soprattutto quello che puoi o magari anche quello che non puoi fare, sapere anche
come starai, per affrontare il dopo”
“I medici non ti dicono nulla. Glielo devi domandare. Ho avuto un dolore al petto e mi
hanno fatto subito l’elettrocardiogramma. Non mi hanno comunicato l’esito fino al
giorno dopo, quando sono stata “io” a chiedere spiegazioni.”
“Qui se si chiedono spiegazioni, i medici sono molto lapidari. Bisogna fare in modo
che il malato sia partecipe della cura, che capisca le proprie condizioni, non agire
come se ci si trovasse davanti a un bambino ‘cretino’ a cui bisogna sorridere e scherzare perché non può capire!”
“Il parlare sulla testa del malato è una vergogna e qui si fa. Quando il medico dice
qualcosa sulla mia vita, io ho il diritto di sapere. Mentendo non si rende la vita più
semplice, ma solo più insicura. Si devono cambiare queste semplici cose. Non cercare
solo di migliorare le medicine.”
“Dovrebbero dare informazioni durante il giro visite anziché dire “va beh, stia tranquillo”. Non ti danno informazioni, passano frettolosamente, ti guardano, poi parlano con
l’infermiera ‘dare questo, fare quello’ e non si capisce se la terapia riguarda te o l’altro
caso che sta là dentro. E dopo un quarto d’ora, neanche venti minuti sono fuori. Poi alla
fine si crea una sensazione di distacco, di incertezza, di insicurezza.”
31
Medico o dottore? Ti racconto la mia malattia
Capacità relazionale
“La gentilezza è una cosa importante perché tanti sono scorbutici se domandi. Allora
succede che un malato che vorrebbe chiedere si vergogna e non lo fa per paura di
dar fastidio. Invece qui ci sono medici a cui puoi chiedere, mica come il mio dottore
della mutua, che è un “fanatico”.
“Con gli infermieri è un rapporto variabile. Dipende da chi incontri. Ci sono quelli
altrettanto scorbutici di qualche medico, ci sono quelli molto carini, umani, disponibili
che sono venuti, si sono presentati, altri invece mettiamoci una croce sopra”
“A me la gente che ti aggredisce mi dà fastidio, questa gente che ti parla con un tono
un po’ altezzoso e poi figurati, tu già stai steso, il medico ti parla dall’alto, e tu ti devi
giustificare stando stesa, ma insomma... Intanto parlami con un tono più gentile e
soprattutto alla mia stessa altezza!”
“Il medico dovrebbe avere tutto un altro rapporto e invece ti fa sentire un verme:“ma
che sei venuto a fare? ” “ Sono venuto perché sto male” e lui: “Che hai? per questo sei
venuto? ”Ed io: “che dovevo morì per venire?”
“Mia moglie piangeva e i miei familiari credevano che io non lo sapessi, invece io
avevo capito tutto. Loro non volevano dirmi niente, ma mica sono stupido! Ho capito
che si erano messi d’accordo con il medico per non farmi sapere cosa avevo e così mi
sono “incavolato”! Già sapevo tutto da quando avevo fatto le lastre, perché il radiologo mi aveva avvisato e poi avevo sentito mia moglie che parlava al telefono col
medico di un nodulo maligno. E che mi volevano fare “tonto”? ”
“Io penso che qualcosa sia cambiato, mi sembra che gli operatori siano più attenti alle
emozioni, c’è un maggiore rispetto per gli altri, per i pazienti, cioè credo che abbiano
compreso che una maggiore cortesia, disponibilità faccia bene a tutti, non solo a noi.”
32
2. La malattia e il suo orizzonte culturale e sociale
Empatia
“Alcuni fanno le cose con amore, altri no, se io ti chiamo, prova almeno ad ascoltarmi,
‘almeno’, perché se tu nemmeno mi ascolti non so proprio come mi puoi aiutare;
questo vale per i medici come per gli infermieri. ‘Il male non è fare del male, è non fare
il bene’ diceva Pasolini.”
“Io penso che un <vero medico> deve avere compassione dei malati.”
“A volte un conforto è bene accetto, una carezza fa sempre piacere”.
“Io ho difficoltà a spiegare in modo preciso come mi sento, non conosco i termini
medici. Io so solo che sto male: è difficile dire come. Dopo un po’ mi vergogno a
chiedere e quindi alla fine sto zitta”
“ho trovato dei medici gentilissimi, mi hanno spiegato le cose, tutto... Con calma, si
sono seduti, hanno parlato, mi hanno molto confortato”
“Il medico parla con te ma pensa a qualcos’altro”
“I medici non hanno il tempo di rendersi conto di chi sei, servirebbe un lungo colloquio, non solo per capire che malattie hai avuto, ma anche quali sono le tue esigenze
i tuoi problemi. Il medico dovrebbe farlo ma non c’è.”
Umanizzazione
“Se una persona è anziana e per di più malata, ha bisogno di conforto, di attenzione oltre che di medicine, di un “sorriso”, in un ospedale si perde ogni tipo di
orientamento, ci si sente soli e confusi. Trattare i malati con umanità significa farli
sentire più compresi e aiutarli a guarire prima, in modo più dolce e meno faticoso
per sé e per gli altri.”
“In questa fase della mia vita bisogna considerare che l’età mi porta verso la fine
del mio percorso, verso la morte. Quando si è anziani, si è stanchi, più affaticati e
meno pazienti!”
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Medico o dottore? Ti racconto la mia malattia
Rispetto della morte
“Non vogliamo l’hotel, ma almeno una stanza per vivere con la propria famiglia gli
ultimi istanti di vita. La mia vicina fino all’ultimo è rimasta qui con tutta la famiglia. Ci
alzavamo per stare fuori cinque minuti, poi dovevamo rientrare, dovevamo tornare al
letto, dove andavamo?
L’ultimo minuto hanno messo i paraventi, e poi è mancata, ho chiesto all’infermiera se
potevo andare altrove, per lasciare i familiari in pace senza estranei, se volevano
urlare di dolore, perché dovevano farlo con noi davanti? Questa cosa mi ha sconvolto
talmente, che ho paura ad instaurare un rapporto di amicizia, è una cosa bruttissima
vedere morire una persona in quel modo!”.
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2. La malattia e il suo orizzonte culturale e sociale
QUALITÀ DEL COMFORT
“Perché stare in corridoio anche dopo operato? Senza un cassetto, un comodino; in
corridoio non si riposa durante la notte. Perché è un continuo andirivieni... sbattono
le porte…rumori, le infermiere parlano sempre a voce alta! In corridoio non ci sono
servizi e anche adesso che ho il letto in camera, tutti quelli del corridoio vengono tutti
nel nostro bagno, per cui alla fine il bagno sembra appunto una latrina pubblica.
Quelli che stanno in corridoio, hanno pure ragione entrano e accendono la luce
nell’ingresso quindi… a mezzanotte, l’una, le due, le tre…
Le pulizie lasciano piuttosto a desiderare.”
“La prima notte ero in corridoio, non vedi nessuno, vedevo soltanto questi piedi per
aria così e non sapevo come avvisare l’infermiere perché non avevo il campanello,
quindi ho cominciato a lamentarmi nella speranza che qualcuno sentisse e mi ha
sentita una ragazza che ha suonato il campanello per me.”
“Mancanza di sedie nella sala d’aspetto”
“I pasti non gli si può dire proprio niente, si mangia bene, le pulizie le fanno, certo il
Forlanini ormai è quasi impulibile”
“Come mai in tutti gli ospedali, in tutte le cose pubbliche ma negli ospedali soprattutto è più doveroso, come mai c’è la carta per le mani, la carta per il bagno, si cambiano
i guanti per tutte le cose, però non è previsto quel fogliettino semplice di carta che si
chiama copri water?”
“Capita che ti portano da mangiare e … non ritirano i vassoi. Stanno magari le ore e ore
là, anche la notte intera”.
“Tutto è organizzato secondo le esigenze dell’ospedale, non del malato. La cena è
alle sei di sera e fino alla mattina dopo non passano nulla…”
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Medico o dottore? Ti racconto la mia malattia
QUALITÀ ORGANIZZATIVA
Prenotazioni e tempi d’attesa
“Ho telefonato da due mesi per potermi ricoverare, ma mi dicevano sempre che non
c’era posto, non c’era posto. Allora dopo una litigata per telefono mi hanno detto:
“facciamo finta che te sei fatto male, vai in pronto soccorso e io parlo con quello che
già sta dentro e ti faccio entrare in corridoio per poterti operare”.
Procedure
“C’è tutta una sorta di burocrazia che non interviene ad aiutare: i barellieri cercano
di portare a piedi il paziente in difficoltà, mentre ne hanno portati parecchi che
camminavano tutti tranquilli con la barella. Stanno aspettando il consulente, che può
arrivare tranquillamente fra tre giorni. Gli infermieri senza l’ordine del medico non
possono fare niente.”
Tutti i medicinali che prendo li ho dovuti comprare io e poi avevano finito il Voltaren e
quindi io per tre notti non sono riuscito a dormire, mi facevano altri farmaci che non
facevano assolutamente niente, allora ho dovuto io comprarlo e me lo hanno fatto”.
Attrezzature e risorse
“Per la Tac con biopsia mi dovevano mette la sonda per andà dritta al polmone. Ti
infilano questo ago, col laser, che devono stare attenti a non toccarti le costole, la
pleure, fino ai polmoni...E nun te devi move, lo sai che vordì?! Io so stato fermissimo,
una volta che è andata bene, che nu me so mosso assolutamente, nun andava bene.
S’ è rotta la TAC, poi da lì m’hanno preso...Ma tu capisci, da San Camillo a venì al
Forlanini, è complicato e praticamente, sulla strada, bo bum, bu bum, bu bum. La
seconda volta vado a fare la broncoscopia e si rompe l’ascensore, dovevo andare in
barella e nu mi ci hanno portato. Poi me dice “Allora puoi mangiare ”, perché stavo
digiuno dalla mattina; mentre stavo mangiando so ritornati i barellieri, dice “ L’ascensore è aggiustato ”, una cosa dietro l’altra, allora mia moglie si è arrabbiata, dice “ma
che stamo a giocà?”, cioè magari la forma non era quella però...C’è stato un po’ di
battibbecco col medico, ci siamo scusati, lui ha capito la mia tensione e quella di mia
moglie, ha visto che io ero abbattuto pe’ sta cosa e m’è venuto pure da piagne e ho
pianto.”
“Stamattina mi sono venuti a misurare la pressione e non funzionava il manometro!
Quindi a… furia di dargli colpi è venuta pure una pressione che, secondo me, è
fortemente sbagliata perché l’ho sempre avuta bassa”.
36
2. La malattia e il suo orizzonte culturale e sociale
Organizzazione del personale e clima
“Molto importante è l’ambiente di lavoro: perché ogni cosa funzioni, deve essere
sereno, ci deve essere collaborazione tra i diversi operatori. Il mio rapporto con i
medici e con gli infermieri è buono, capisco che molte volte i turni di lavoro sono
stressanti, che non c’è abbastanza personale, che si può essere stanchi. Però un
sorriso non costa nulla!”
“Il personale è troppo poco, soprattutto considerando il fatto che qui ci sono tutti
anziani, persone che si lamentano più spesso, costrette a letto e non autosufficienti.
Ci vuole più comprensione per i bisogni di pazienti come questi. Capisco che la
notte due infermieri di turno non bastano e di giorno non sono moltissimi e che
quei pochi sono oberati di lavoro. Ma tutto ciò non è un buon motivo perché una
cattiva condizione del luogo di lavoro si faccia poi scontare al paziente!”
37
Medico o dottore? Ti racconto la mia malattia
VISSUTO DI MALATTIA
(ILLNESS)
“Sul letto di ospedale mi sono cominciati a cadere tutti i capelli, la gente mi guardava
un po’ con gli occhi sbarrati… io so veramente quello che avevo. La gente non è
preparata ad avere accanto delle persone, dei malati di cancro che abbiano una forma di
vita possibile e normale insieme ai sani”
“Immagino che ci siano un gruppetto di cellule cattive, localizzate là da qualche
parte nel mio polmone, più scure delle altre, di colore nero, che devono essere eliminate, devono essere annientate, altrimenti proliferano, fanno figli, e si spargono per
tutto il corpo, ecco questo penso della mia malattia, il tumore è una malattia di quelle
devastanti che cammina piano, piano, che prolifera e poi alla fine te lo ritrovi dappertutto, è per questo che bisogna fare qualcosa e subito, lui non aspetta mica...”
“Dentro di me lo sapevo, me lo sentivo, però ho avuto il tempo di elaborarlo, capire,
quindi quando mi hanno dato la risposta, io lo sapevo già, e sono riuscita a farlo
elaborare meglio anche agli altri, e poi alla certezza della notizia, non è che ti puoi
nascondere, oramai c’è, bisogna accettare e combattere, e poi con il tempo si è anche
ridimensionata la tragedia, certe cose quando non capitano a te non le vuoi sentire
neanche nominare, però poi quando ti succedono che fai? Si affrontano e basta”.
“Prima ero io che aiutavo le altre persone, ad esempio nei lavori di fatica. Ora è il
contrario, devo sempre chiedere una mano. La perdita della mia autosufficienza
è stata un tradimento da parte del corpo”.
“Bisogna comprendere che la vita non finisce con la malattia, che si deve cercare di
vivere al meglio il tempo che rimane, altrimenti si muore prima di morire. Adesso
non ho timore a parlare della malattia che ho passato, non la percepisco come una
vergogna”.
“Mi hanno detto che questa terapia, è molto dura, loro confidano in un attacco
immediato il più possibile massiccio a questo nodulo, e quindi, l’efficacia della terapia
è legata alla sua potenza di attacco, e alla sua, immediatezza.
Mi hanno detto che c’è anche il rischio che possa non colpire o colpire male, e
questo è dovuto al fatto che questo, benedetto o maledetto “foruncolone”, questa specie
di patata, questa benedetta cosa, potrebbe avere delle mutazioni genetiche, cioè si protegge, cambia faccia per evitare di prendere i colpi, quindi si difende a sua volta, e
allora si scherma in qualche modo dai colpi.
Allora noi dobbiamo essere più furbi di lui e più veloci e colpirlo prima che possa
reagire, e quindi sono concentrate in quattro settimane, devo prendere questa roba
per tutto questo tempo, con una sosta di una settimana tra le prime due, e le ultime
due. Mi fanno un po’ riprendere e poi si riattacca, così che, anche se dovesse mutare
e quindi salvarsi loro hanno già un’altra arma alternativa che riesce a capire la mutazione e a colpirlo ancora, fino a quando il mostro crolla, sfinito, e muore.”
38
2. La malattia e il suo orizzonte culturale e sociale
“Non ci voglio entrare più in camera operatoria, l’ultima volta che ci sono entrata, mi
hanno detto che questa operazione era piccola... Venti minuti e basta e poi... ci sono
stata un’ora, non mi hanno fatto l’anestesia, mi hanno fatto quella locale. E mi hanno
fatto pure male... Quello mi diceva pure che non era niente! E che ti devo dire? Che
mi stai a fare male? E no!... Stringevo i denti, però mi faceva male! In teoria, quando
tagliano non dovresti sentire niente e invece io ho sentito tutto”
“Ma le tecniche per far soffrire di meno il malato, ci stanno. È che purtroppo poi si
perdono in un bicchiere d’acqua; la vicina deve stare quaranta giorni a letto perché
ha la frattura del pube, che non è operabile. Sono dieci giorni che sta così, chi le viene
a mettere il tiraggio?”
“No, non mi interessava dov’ero, con chi ero, i trattamenti che mi facevano, niente,
neanche il cervello funzionava più, esisteva solo la gamba e il dolore. Per il resto
niente.”
“Ieri ho pianto tutto il giorno dal dolore. Avevo quel fissatore allora è arrivato il
giorno che me l’hanno dovuto togliere, me l’hanno tolto senza anestesia, con un
attrezzo… come quello per fare i buchi. Un trapanetto a mano. Me l’hanno infilzato
su ogni vite e me le hanno tolte, così, a mano e non puoi capire il male che mi hanno
fatto senza anestesia!”
“ Ci sono molte piccole cose che si possono fare e che non costano niente, ma ci
vuole volontà di cambiamento. Io non mi rendevo conto, fino a quando non sono
stata ricoverata, dell’abisso del popolo degli anziani. E’ un abisso senza fondo in
cui c’è una umanità che alla fine della vita ha paura.”
“In questa fase della mia vita bisogna considerare che l’età mi porta verso la fine del
mio percorso, verso la morte. Quando si è anziani, si è stanchi, più affaticati e meno
pazienti”.
“uno è solo con la malattia!”
“solo chi sta male capisce chi sta male”
39
Medico o dottore? Ti racconto la mia malattia
La ricerca, dalle cui interviste sono stati estratti i brani sopra riportati, ha avuto, tra
le proprie finalità, non solo quella di evidenziare una serie di problematiche legate al
vissuto di malattia e di cura, ma anche quella di fornire agli operatori sanitari indicazioni ai fini di un miglioramento costante della qualità dei servizi forniti.
A tale proposito, appare utile richiamare l’attenzione degli operatori su una
considerazione che sembra scaturire dall’analisi di molte delle interviste raccolte:
l’importanza della comunicazione e della relazione con il paziente ai fini della stessa efficacia del processo di cura.
In primo luogo, i pazienti hanno manifestato il bisogno di un’informazione chiara, corretta ed esauriente sulla malattia e sulla sua terapia, in modo da poter
partecipare consapevolmente al processo di cura e alle decisioni da prendere nel
caso ci si trovi di fronte a scelte terapeutiche alternative. Ciò comporta, fra l’altro, che, nella comunicazione con il malato e con i suoi familiari, gli operatori
cerchino di evitare quanto più possibile il ricorso al gergo specialistico e si sforzino di esprimere i concetti in un linguaggio comprensibile.
Oltre agli aspetti tecnici della comunicazione, riguardanti la comprensione da
parte del malato delle informazioni ricevute in merito alla patologia e alle sue
cure, sono risultati assai rilevanti anche quelli relazionali. L’uso di un linguaggio
troppo tecnico da parte del medico, oltre a rappresentare un ostacolo per la
comprensione del paziente, può sembrare a quest’ultimo una forma di elusione
del rapporto, un modo dell’operatore per sottrarsi a uno scambio effettivo con
lui. La rilevanza della dimensione relazionale ed emotiva nella comunicazione con
il paziente e con i suoi familiari implica un’attenzione da parte degli operatori non
solo ai concetti espressi e alle parole utilizzate, ma anche agli aspetti paraverbali
(tono della voce, pause,…) e non verbali (gestualità, postura, movimenti,…). Per
esempio, una comunicazione di tipo top-down (nel linguaggio, nei toni, nei gesti,
nella posizione degli interlocutori,…) può ostacolare lo sviluppo della relazione
con il malato e dunque il suo coinvolgimento nel processo di cura; al contrario,
una comunicazione attenta a trasmettere empatia può accrescere la fiducia e la
partecipazione del paziente al processo di cura.
In generale, nel malato convivono due esigenze, in parte contrastanti tra loro:
da un lato il bisogno di affidarsi e di trovare una risposta adeguata che lo faccia
uscire dalla condizione di sofferenza, dall’altro il bisogno di rimanere padrone
della propria persona, di non essere privato del controllo sulle decisioni e sugli
atti che la riguardano. Quanto più efficace risulta la relazione con gli operatori,
tanto più il malato riesce a trovare una composizione tra queste due esigenze
attraverso il proprio coinvolgimento nel processo di cura. Oltre alla qualità tecnica delle prestazioni, quella della relazione con il paziente contribuisce a far percepire l’ospedale come un luogo in cui “ci si prende cura” di lui. Particolarmente
significative, a tale riguardo, sono le parole di una giovane paziente, affetta da una
patologia cronica dolorosissima. Non ha trovato, tra le mura dell’ospedale, il ri-
40
2. La malattia e il suo orizzonte culturale e sociale
medio che la strappasse alla malattia; ha ricevuto però un complesso di prestazioni
specialistiche, attenzioni e rassicurazioni che hanno saputo agire beneficamente
sull’insieme della sua persona. La sua dichiarazione di speranza chiude il video “Ti
racconto la mia malattia”:
“La fiducia è talmente cieca che io penso che prima o poi tornerò a respirare,
[…] io ormai mi sono affidata a loro [il personale sanitario dell’ospedale], io non
posso stare senza di loro, non ce la faccio proprio, non credo sia una questione
psicologica, perché io ho provato prima di venire qua ad andare nel luogo in cui
vivo. […] Però qui è l’unico posto, e loro sono gli unici medici che mi hanno
aiutato a stare bene, e ogni volta ci riescono a farmi stare bene. […] Loro sono
attenti a qualsiasi bisogno tu abbia, dal primario, all’inserviente, al portantino, io
sono soddisfatta di loro, pur stando male, però qui mi sento al sicuro.”
2.3 Vivere la malattia, decifrare l’istituzione.
Un percorso fra le interviste
Il vissuto di malattia può essere rappresentato non come frammento del proprio percorso esistenziale, ma come un intero itinerario biografico che ci permette
di constatare che conoscere è ri-conoscere, perché vi ritroviamo ad esempio la
nozione di “malattia biografica” di cui ha parlato per prima Claudine Herzlich1. La
Herzlich ha infatti notato, nella narrazione delle malattie, che esse diventavano a
volte il canovaccio di intere esistenze, come se la malattia diventasse il linguaggio di
una biografia, il codice attraverso il quale concepire lo sviluppo di una vita, i suoi
percorsi spesso accidentati. E in effetti, leggendo memorie e diari di malati (in particolare diari di anoressiche2), si ha la sensazione che la narrabilità della propria vita,
cioè la possibilità di raccontarla, sia data dalla scansione dei tempi della malattia e
delle terapie. I personaggi di queste storie sono l’entourage completo del malato,
inclusi i dottori e gli psicologi. Non si può non pensare a questo quando si legge un
brano come questo: (pensionato, 78 anni, tumore al polmone, uno degli intervistati
più lucidi, più riflessivi, insomma un ottimo informatore):
I (intervistatore): Come si sta rapportando alla malattia in questa fase?
P(paziente):
Sono un po’ scocciato perché è un’ingiustizia. Infatti io non ci credo
proprio al Padre Eterno, perché dico: «Ma scusa?! Perché alcuni
sono malati e altri no? Perché c’è chi è ricco e chi non ha niente?».
Se no sarebbe un Padre ingiusto, non è possibile. Stanno bene a
parlare i preti! Anche perché io già sono stato ammalato
Augé, Marc, Herzlich, Claudine, Il senso del male. Antropologia, storia e sociologia della malattia, Il Saggiatore,
Milano, 1986 [1983].
2
Vedi, per uno sguardo aggiornato sulla realtà italiana, il numero monografico della rivista Prima persona, n. 16,
giugno 2006, “Il cibo”.
1
41
Medico o dottore? Ti racconto la mia malattia
e adesso tocca un’altra volta a me, ma “che cavolo”! Sempre io? Io ho avuto la
sfortuna sin da ragazzino, vuoi sapere perché?
I: Dica…
P: A tre anni mi sono scottato col fuoco della legna, c’ho ancora la bruciatura sulla
schiena. Mi ricordo che mi ci grattavano le patate sopra… a sei anni sono andato
sotto una macchina /due secondi/, ah! e poi c’ho pure un occhio storto… poi…
sono andato a fare il militare e alla prima visita non mi hanno preso perché ero
troppo secco. Alla seconda visita sono risultato pienamente idoneo, così ho dovuto fare sedici mesi di servizio invece di undici… Dimmi se non è sfigaccia! Poi, ero
fidanzato e mi sono lasciato. Con mia moglie non mi volevo sposare, invece m’è
rimasta incinta e sono stato costretto [ride] e vabbè… [pausa di quattro secondi].
Nel ’79 sono stato operato alla coliciste e dopo sei mesi è ritornata di nuovo. Sono
stato “sette anni” con la ferita aperta, che non si ricuciva bene. Ma ti rendi conto?
“Sette anni”! Nell’81 ho fatto una plastica, nell’86 mi sono tagliato un dito col
coltello del pane [mi mostra la mano senza dito]. Nel ’90 ho avuto il cancro al
polmone. Mi sentì male a Pasqua… anzi, non mi sentì male, però ho notato il
sangue mentre tossivo. Mi sono fatto la lastra e c’era quello che c’era. Sono stato
ricoverato all’ospedale di Palestrina, però lì non erano attrezzati per l’operazione.
Infatti sono andato a Genzano, dove mi hanno operato il 21 maggio. Nel ’97 ho
subito un intervento alla prostata, ma non m’hanno tagliato perché hanno usato il
laser. Nel 2000 l’ho dovuta rifare. E adesso sto combattendo con questo tumore,
“un’altra volta”…
Sono pieno di tagli, vedi? [si alza la maglia e mi fa vedere tutte le cicatrici che ha].
Che vita sfortunata! Però non mi fermo mai, solo che adesso i medici mi hanno
sconsigliato di stancarmi troppo. Prima andavo a ballare il liscio, adesso non posso
più. Che poi la sfortuna non ce l’ho solo io, ma pure mia moglie perché è stata
operata a novembre alla tiroide. Capito che periodaccio? […]
È evidente che questa narrazione è più che ben rodata, quest’uomo si ricorda
luoghi e date, ma non ha sotto gli occhi appunti di sorta… per non parlare dell’assimilazione fra sfortuna in amore, e nella vita in generale, e quella in campo medico, che
poi del resto finisce per inglobare anche la moglie: insomma la malattia è una sorta di
kharma negativo che si esprime anche in altri modi, e che lui combatte essenzialmente
con la forza dello spirito: come ha affrontato le difficoltà della vita, il lavoro e un
matrimonio non desiderato, affronta anche la malattia, l’ennesimo ostacolo.
Durante la lettura delle interviste, la mia riflessione immediatamente successiva
fu però riportata sulla questione dello scarto fra oralità e scrittura: anche gli informatori della Herzlich parlavano della propria malattia. Viene da chiedersi che differenza c’è fra il discorso di queste interviste e quello spontaneo della scrittura3 .
Pochi sono i casi pubblicati. Primo fra tutti, il più emblematico, Hervé Guibert, Citomegalovirus. Diario
d’ospedale, Bollati Boringhieri, Torino 1992 [1992].
3
42
2. La malattia e il suo orizzonte culturale e sociale
Perché va da sé che qui parliamo di testi orali, sollecitati, prodotti in un contesto
particolare (l’intervistatore presentato dai medici, o che vaga nei corridoi alla ricerca del buon informatore) che agli occhi dell’intervistato, lo percepiamo bene, è di
volta in volta la persona cui non si può dire tutto (si teme che riferiscano ai dottori,
poi chissà che può succedere, dice la timorosa donna del sud) o al contrario sono
presi per una specie di ufficio reclami, come fa il signore che proprio non ha molte
affinità col primario…
La domanda di partenza quindi era: nelle interviste sono presenti elementi che
ricorrono nei testi in cui il degente scrive liberamente della sua esperienza
nosocomiale? E questi elementi, secondo quali assi logiche organizzarli? Dopo le
emozioni e il piacere della lettura, il mio sguardo si è mosso quindi lungo una specie
di binario su cui correvano, in parallelo, due serie di fattori: da un lato il rapporto
alla malattia, che nella sua dimensione sia concreta che simbolica traduce il vissuto
della malattia, le sue implicazioni personali, morali e sociali che disegnano del resto la
specifica collocazione del malato all’interno del corpo sociale e che determinano il
grado e la qualità della sua “diversità”. Dall’altro, l’interesse per le rappresentazioni
della vita in ospedale, in tutta la loro dimensione il più delle volte pragmatica, per
non dire prosaica, che forse proprio nei dettagli pratici esprime un rapporto con
questo luogo che prende le forme, letteralmente, di un corpo a corpo. Perché
l’elemento comune delle figure del discorso e delle forme retoriche utilizzate è
ovviamente il corpo, causa e fine ultimo dei sistemi di saperi che quotidianamente in
un ospedale vengono messi in moto: quello medico e quello culturale proprio di
ogni degente.
Ho quindi ripreso uno dei rarissimi diari di degenza pubblicati, Citomegalovirus.
Diario d’ospedale, di Hervé Guibert. Qui la malattia, l’AIDS, è appena nominata,
eppure sempre presente, mentre il vero grande soggetto della narrazione è il
banale orrore del ricovero: piccoli e grandi segni d’incuria, i rapporti con le infermiere da negoziare attentamente, le distrazioni o i veri e propri errori del personale medico. E poi la flebo, le urla della stanza accanto, le notti insonni, la paura,
una paura che mobilita tutte le energie del malato; ed è come se, impegnandosi
ostinatamente nelle piccole lotte quotidiane – per ottenere un’asta per la flebo
che non sia difettosa, un tavolino che non si ribalti, una federa che non sia di carta
– egli esorcizzi la malattia, la morte. Si scopre allora che, come la presenza degli
amici o le complicità inattese, persino le antipatie o i veri e propri conflitti contribuiscono a creare il legame con la vita.
Elementi comuni fra uno scritto e qualche orale
Moltissimi sono gli elementi che i riscontrano comuni fra il diario di Guibert (e
pochi altri testi scritti, di solito in Italia non pubblicati, ma reperibili presso l’Archivio Diaristio Nazionale). Primo fra tutti, il cibo, cui seguono le riflessioni sui macchinari o i medicinali che mancano, il rapporto col personale, fra cui spicca spesso
43
Medico o dottore? Ti racconto la mia malattia
una figura, che si staglia sullo sfondo del gruppo per qualità pessime o eccelse.
Certo, tengo a ripetere, non basta stabilire delle ricorrenze di temi, di oggetti
per stabilire una norma, per procedere ad una generalizzazione. Come l’associazione di due termini non dà necessariamente come risultato la loro somma. A
volte, ad esempio, ciò che qualcuno esprime in maniera parcellare, implicita,
frammentaria o allusiva è da altri elaborata con consapevolezza e lucidità. Per
tornare a Guibert, e per cominciare e leggere le parole dei degenti, notiamo
come, oltre agli elementi già riportati, più volte riprende un leit motiv della vita
ospedialiera, il tempo e i rumori: “Un soggiorno in ospedale è come un lunghissimo viaggio con un ininterrotto sfilare di persone, di distribuzione o di rituali, per
riempire il tempo. Non c’è neanche più la notte” (p. 20) “Non riesco a leggere
neanche un articolo di giornale. Meno difficile invece scrivere” (p. 26). La stanza
d’ospedale è un guscio insidioso che, poco a poco, rende terribile lo spazio reale
dell’esterno, anche il corridoio” (p. 37). Già questa terza affermazione sembra
dare un senso diverso alla seconda. Infatti, non riuscire a leggere ma poter scrivere diventa qui espressione di una volontà di concentrazione su se stessi, una minore ricettività rispetto all’esterno, una necessità primaria di esprimersi piuttosto
che ascoltare. In fondo, la chiusura di una frontiera fra il dentro il fuori non ragionata, non problematizzata, non elaborata, ma espressa con termini che nulla lasciano intravvedere di questo limite invalicabile che la malattia pone fra sé e gli altri,
fra il malato e il sano, e che l’ospedale concretizza con muri e porte. Nelle interviste, c’è però qualcuno che esprime chiaramente questa esigenza, con grande
lucidità: l’intervistato che dice (al secondo ricovero) che non vuole fare neanche
le parole crociate perché si deve concentrare sulla sua malattia e il suo percorso
terapeutico; o l’altro signore, che tiene un discorso ben più complesso, in cui
ritroviamo molti degli elementi già citati:
I: Come sta vivendo questa degenza?
P: Oramai, piano piano mi sto abituando. Sono due notti che dormo, prima non
dormivo. È un lento processo di adattamento: vivendo con gli altri ricoverati me
ne sto facendo una ragione. Non è facile, ma alla fine te la fai. Se no, apri la finestra
e ti butti di sotto. Sto in fase di elaborazione diciamo… non per aprire la finestra
eh? [ride] per cercare di reagire a questa cosa. Innanzitutto non so con certezza
che tipo di tumore sia, non lo sanno neanche i medici perché altrimenti avrei già
iniziato la terapia. Poi si deciderà secondo quello che è. Speriamo bene! Non
dovrebbe essere niente di estremamente grave perché io mi tengo regolarmente
controllato. Questa cosa è venuta fuori adesso, è recente. Se Dio vuole, ci dovrebbe essere qualche speranza di cura […].
I: Qual è il suo rapporto con i tempi e i ritmi dell’ospedale?
P: Non riesco ad abituarmi. Ho sempre avuto dei ritmi di vita particolari. Ad esempio,
in genere dormo poco e qui è ancora più difficile prendere sonno. Manca tutto
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2. La malattia e il suo orizzonte culturale e sociale
quello di cui una persona ha bisogno per sentirsi a proprio agio. La pulizia personale è difficile per questo, perché non stai a casa tua e il bagno lo senti estraneo.
Dopo un po’ ti annoi, non sai più che fare, leggi qualcosa, ma poi? Allora passeggio
su e giù per il corridoio. Non riesco a stare a letto.Alla fine devi adattarti per forza.
Ad esempio all’orario dei pasti. Scombussoli quella che è la tua quotidianità. Se sei
abituato a mangiare più tardi, puoi aspettare una mezz’ora, ma poi devi mangiare,
anche perché se salti il pasto se ne parla la sera. Un giorno fai il ribelle, il giorno
dopo ti adegui. Alla fine tutto è organizzato secondo le esigenze dell’ospedale, non
del malato. Pensa che la cena è alle sei di sera e che fino alla mattina dopo non
passano nulla […].
I: Come vede le visite dei parenti? Un sollievo?
P: No, io non le voglio, a parte quelle di mia moglie e di mio figlio.
I: Come mai?
P: Perché le visite ti distolgono da quello che è l’entrare nel limbo dei malati, che
tutto sommato non è così male. Poi non mi va di stare a ripetere sempre le stesse
cose a chi ti viene a visitare per la prima volta: perché stai qua, che hai, come ti
curano, quando esci, ecc… Non mi va di levarmi sempre questa spina da sotto il
piede, perciò non voglio nessuno. Mia moglie e mio figlio non parlano sempre della
mia malattia, ma quando hai cinquanta parenti che chiedono… poi c’è sempre
qualcuno che inizia a piangere e sembra che sta già facendo l’elogio funebre! Che
“caspita” piangete se ancora non si sa nulla?? Proprio l’altro giorno è successa
questa cosa con un altro paziente, che si era spaventato perché credeva che i
parenti sapessero qualcosa di cui lui non era a conoscenza. Non voglio nessuno
che metta il dito nella piaga, perciò non “rompete le scatole”! Dico ai parenti di
non venire, di non perdere tempo. Io ogni tanto mi faccio sentire e basta. Io solo so
quello che ho. Qui dentro il discorso è sempre quello: la malattia. Sì, si parla anche
del più e del meno, però l’argomento centrale quello è… diciamo però che si parla
della malattia in modo più normale.
I: Vale a dire?
P: Nel senso che si parla della malattia come un qualcosa di accettabile: è successo,
ce lo teniamo, stiamo tutti nella stessa barca. Quando ci stanno i parenti è diverso.
Questo è un mondo a parte, fuori c’è un’altra realtà. Se stai da solo la cosa è più
accettabile, sviluppi anche una pseudo-allegria. Invece quando vengono i parenti ti
rendi conto che come malato stai vivendo una realtà diversa da quella che c’è
fuori dall’ospedale. È come la storia del Dr. Jeckill e Mr. Hide: vivi una doppia
identità. Qua dentro si assume un’altra identità, hai un’altra visione della vita.
I: Che visione?
P: Una visione più positiva, più adattabile alle proprie esigenze. Riconsideri la vita.
Con i parenti non è possibile perché con loro hai già un rapporto consolidato,
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Medico o dottore? Ti racconto la mia malattia
quindi non puoi modificare la visione della realtà altrui. Solo tu capisci. Diciamo
che c’è una rivalutazione delle cose più concrete. Fuori ci sono tante distrazioni,
mentre qua ti concentri per forza su te stesso e trascuri l’esterno. Però se l’esterno
ti viene a trovare, non puoi escluderlo perché è una realtà che ti si presenta
davanti. Tu capisci che quella fuori è la vita reale, nell’ospedale è un limbo. Qui si
parla tranquillamente della malattia, senza mezzi termini. E’ anche un modo per
esternarla, per renderla più oggettiva ed è un meccanismo di difesa. Chi sta fuori
ha paura della malattia, tende a escludere i malati. Anzi, non proprio a escludere…
però la gente sopravvaluta il tumore, quindi chi ce l’ha sente maggiormente il
distacco. Il problema è quello: il malato è un diverso.
I: Questo quanto influenza il rapporto con gli altri pazienti?
P: Tanto, perché si crea un rapporto che è quasi di fratellanza. C’è collaborazione
anche nelle piccole stupidaggini quotidiane. Si entra subito in un altro spirito: si
fa attenzione ai bisogni altrui. Ad esempio, ti serve il pappagallo e tu stai a letto?
Nessun problema, vado io a prenderlo. Ma senza spirito eroico, si fa con naturalezza. Tanto probabilmente verrà il momento in cui sarai tu nel bisogno. È come
se si entrasse in una nuova comunità, in una nuova famiglia. Anzi, forse più che
una famiglia. Perché in famiglia certi problemi e certe esigenze non ci sono, se
uno si ammala gli altri non sanno cosa sta passando, non hanno la capacità di
pensare ai bisogni del malato se questi non chiede qualcosa. Qui è diverso: non
ci sei se passa la colazione? Te la prendo io. A casa no. Qui ci sono orari diversi
da quelli usuali. Questa è la mia prima degenza nella vita e mi è servita per
rivalutare la figura del malato. Prima non ci pensavo, dicevo: «Poveraccio quello!» e basta. Anche se non ho mai visto il malato come qualcuno da mettere da
parte, da non considerare. Per me non ci vuole pietismo, il malato è una persona
con una dignità. E poi bisogna reagire nel limite del possibile. Io non pretendo di
essere trattato chissà come, mi basta il rispetto. Un malato non va assillato di
attenzioni inutili.
E poi non mi lamento mai, invece tanti sì. Penso che sia un modo per avvertire
meno il dolore. Ad esempio mia moglie è una lamentosa e quando ha la febbre il
lamento per lei è come una forma di scaricamento del problema, un buttarlo fuori
insomma. Tipo quello che ha una ferita e urla così pensa a urlare e non si concentra sul dolore. Il lamento è una forma di comunicazione.
I medici lo sanno. Io credo che siano preparati psicologicamente ad affrontare
certe malattie. Hanno molta pazienza, soprattutto nei confronti dei malati più difficili, quelli che chiamano ogni cinque minuti. Anche gli infermieri sono brave
persone, svolgono il loro lavoro sempre col sorriso. E questo è importante. Perché
dipende pure da come uno svolge i propri compiti. Questa cosa va oltre il lavoro,
coinvolge la personalità degli operatori sanitari. […]
Poi, ripeto, solo chi sta male capisce chi sta male. Nell’ospedale il malato si crea
una sua realtà e alla fine si convince che non è poi tanto male stare qua dentro. In
realtà è una presa in giro, è un’auto-difesa. Quando viene qualcuno a trovarti,
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2. La malattia e il suo orizzonte culturale e sociale
l’edificio crolla: è una cappa di illusione che ci costruiamo per reagire. Serve anche
terapeuticamente. […]
Queste interviste, o meglio gli stralci che ho scelto in una prima lettura, confermano evidentemente che la malattia in quanto elemento profondamente
perturbatore delle basi fisiche dell’essere, e l’istituzione nosocomiale in quanto
luogo di riformulazione totale dell’universo relazionale e del tempo sociale possono divenire, per alcuni, fonte di una reazione vitale. Alla frattura biografica rappresentata dalla malattia corrisponde una presa di distanza fisica dal mondo precedente per ricostruire le coordinate di una nuova normalità.
Uno degli elementi che emergono con chiarezza in questi testi, è che l’ospedale proietta il malato in un “mondo altro”, e si ritrova in un luogo in cui i ritmi, i
linguaggi, le logiche sono diverse. E tutto è concentrato sul suo corpo, un corpo
che è al centro dell’attenzione, di cui pure in qualche modo viene spossessato, che
agisce entro determinati spazi che non sono solo quelli della malattia e del proprio adattarsi, ma anche quelli dell’interazione col personale.
Lo spazio
Molto di recente, una giovane etnografa francese ha intrapreso un lavoro di
ricerca in un reparto di oncologia ginecologica4, un reparti piccolo, ad altissima
mortalità: lo scopo era quello di osservare il rapporto che si instaura fra delle
degenti in situazione molto critica, e un personale costantemente confrontato alla
morte. Il tutto, ovviamente, tenendo conto della situazione nosocomiale. Fra i tanti
elementi della sua etnografia, mi ha colpito una pratica di cui Anne-Gaël Bilhaut
riporta le caratteristiche, pur senza attardarvisi particolarmente: le infermiere (poiché il personale è praticamente tutto al femminile) tengono, oltre alle cartelle cliniche, delle schede in cui annotano più volte nel corso della giornata (dunque del loro
turno) le condizioni psicologiche delle pazienti: se sono di buon umore, cosa fa loro
piacere, cosa le abbatte, se gradiscono riceve il parrucchiere in camera o sei fiori
che ricevono danno loro serenità, ecc. Annotazioni cioè, di varia e intensa umanità.
Oltre ad introdurre una variante interessante per l’uso della scrittura nel mondo ospedaliero, ciò che mi aveva interessato particolarmente in questa ricerca è l’uso
della scrittura non da parte dei pazienti, ma del personale, che annota sulle schede
cliniche, in spazi appositamente predisposti, riflessioni sullo stato d’animo della paziente, sulle sue reazioni. Mi ha anche intrigato, per tornare ad una questione accennata in
apertura, lo scarto esistente fra l’orale e lo scritto: tutte le emozioni delle infermiere
passano nell’oralità, mentre allo scritto restano, si fa per dire, le emozioni delle pa-
Anne-Gaël Bilhaut, Les mots du corps: une ethnographie des émotions des soignants en cancérologie,
Etnographiques.org, n. 14.
4
47
Medico o dottore? Ti racconto la mia malattia
zienti, l’aspetto fisico, i loro interessi, e così via. Le schede vengono però buttate, dice
la giovane etnografa, nell’ora che segue il decesso. Una strana pratica che meriterebbe
particolare riflessione… A parte l’interessante esperimento scrittorio dell’équipe, mi
aveva affascinato qualcosa che poi è tornato, come un eco, nella lettura di queste
interviste: l’importanza dei luoghi, degli spazi nel loro concretizzare nuovi rapporti,
nuove emozioni e nuovi ritmi. Scrive infatti Anne Gaël Bilhaut:
“La prise en charge émotionnelle que les soignants opèrent ne s’adresse pas
qu’aux affects des patients: ceux-ci reçoivent de nombreuses visites de leurs proches,
qui se tournent vers les infirmières et aides-soignants pour «savoir», «comprendre»,
et aussi trouver la bonne attitude avec le malade. Puisque la chambre et le lit favorisent
l’intimité avec lui, c’est alors dans le couloir, un lieu transitoire, que les proches
finissent par s’épancher et soulager le trop-plein d’émotions emmagasiné dans la
chambre. Les murs délimitant les espaces des services oncologiques deviennent alors
des frontières régulatrices des émotions: tandis que les proches des malades ne
s’autorisent pas l’expression émotionnelle dans la chambre, le couloir, parce qu’il est
l’espace des déplacements, devient souvent celui de la confiance, de l’épanchement
et de la discussion. Or, pour le personnel soignant, le couloir est un espace non
seulement transitoire mais aussi de travail: il distribue les chambres et la salle de
soins infirmiers, il est l’endroit où circulent les chariots, celui où parfois l’on discute
d’un soin ou d’une pathologie, et en aucun cas ne doit être celui où l’on s’abandonne
à exprimer son ressenti (ce qui arrive néanmoins). Pour cela, des lieux inaccessibles
aux visiteurs existent: la salle de soins infirmiers et l’espace de détente où tous
déjeunent. Ces espaces délimités (chambre, couloir, salle de soin, salle de détente)
opèrent comme des régulateurs de l’expression et de la circulation des émotions,
qui agissent différemment selon le sujet”.
Nelle interviste che qui prendiamo in esame, troviamo mille dettagli che sembrano confermare questa percezione e quest’uso dello spazio, ma troppo ricche
sono queste interviste per percorrerle tutte, ciò che volevo fare era mostrare che
i registri linguistici sono sensibili al contesto, al produttore (che sia uomo o donna,
giovane o anziano, recidivo o malato da poco, terminale o quasi guarito, solo o con
famiglia, e così via), eppure riportano delle in varianti che possono servirci per
un’analisi più generalizzata. Il fatto che i casi scelti siano tutti da riportare a malattie
croniche e difficilmente guaribili è del resto garanzia di comparabilità delle immagini
che si hanno del proprio corpo, della malattia, e del luogo ospedale.
Una questione di metodo: il paratesto
Ciò che conta, nella lettura di queste interviste, è che nell’analisi del discorso si
faccia grande attenzione alle variazioni, a volte metaforiche, a volte analogiche, a
volte traslate, dei diversi campi semantici attraverso i quali il soggetto si esprime.
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2. La malattia e il suo orizzonte culturale e sociale
Tutti i discorsi sono attraversati da elementi contrastanti (positivi e negativi) che
letti all’interno della stessa unità discorsiva (ovvero la singola intervista) dimostrano
chiaramente che tutto lo sforzo del paziente sta nell’articolare il rapporto alla malattia col rapporto col “luogo ospedale” come un protocollo esperienziale in cui, in un
andirivieni di sentimenti, si dovrà finire per elaborare una nuova relazione col proprio
corpo malato, con la lotta/avventura per la guarigione e con lo statuto, che si spera
essere transitorio, del malato, cioè di colui che fuori è inesorabilmente diverso. Vivere
nell’ospedale o con l’ospedale è vivere con la propria malattia. Rifiutarla significa invece demandare tutto all’istituzione, ovvero al suo personale: in caso di sconfitta si
vedranno attribuire tutta la colpa, in caso di riuscita l’ospedale sarà il luogo più straordinario del mondo, un nuovo grembo materno.
Vorrei però concludere con una questione di metodo: finora ho preferito riportare indirettamente alcuni elementi, citando invece un lungo stralcio di intervista: è
una scelta metodologica che sarà più chiara con l’intervista che riporterò, sebbene
solo in parte, qui di seguito. L’intervista è in un certo senso una performance,
un’interazione, l’abbiamo detto, fra due o più persone poste in uno specifico contesto, in specifiche coordinate spazio-temporali che sono, in un certo senso, irripetibili
nella loro globalità.
La trascrizione dell’intervista si configura quindi come una sorta di testo teatrale
in cui ci vengono date una serie di indicazioni sul come interpretare (ovvero come è
avvenuto) questo scambio: gli intervistatori hanno regolarmente riportato una serie di dettagli che compongono, per riprendere la termologia di Genette, il “paratesto”
dell’intervista, ovvero una serie di indicazioni che ci dicono come leggere l’intervista:
silenzi, sguardi, gesti, sorrisi che a volte confermano ciò che si sta dicendo, a volte
invece gli conferiscono una sfumatura ironica, amara, disperatamente scherzosa...
insomma, ne variano il senso. Ma sempre il paratesto ci spiega come non sia possibile
prendere le frasi dell’intervistato solo come una successione di parole cui poter
conferire un valore assoluto. Non è solo questione di contesto, o di metafore, ma di
testo, e di un paratesto che ne dà le immediate coordinate di leggibilità.
Per questo motivo, riporterò qui in conclusione uno stralcio di intervista in cui
ho lasciato le annotazioni dell’intervistatrice: vedremo l’intervistato esprimere
ironia con una pacca sulla spalla, agitarsi all’arrivo dell’infermiere per la flebo malgrado i giudizi entusiasti sulle qualità del personale, minimizzare l’importanza delle
terapie che fa in day hospital pur sottolinenado l’efficacia dell’istituzione ospedaliera,
trasporre la propria ansia su un gesto affettuoso della moglie… Il tutto insomma
in un quadro in cui si capisce bene come non solo alle parole si demanda l’attribuzione di senso di uno scambio fra intervistatore e intervistato:
I: Perché è qui in ospedale?
P: Ho scoperto per caso un problema al polmone di cui non ero affatto a conoscenza
perché stavo e sto bene, e spero di stare bene ancora per molto tempo in futuro.
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Medico o dottore? Ti racconto la mia malattia
Dalle lastre e dalla tac è apparso questo nodulo e secondo le ipotesi si sarebbe
formato [mi guarda e sorride] pensi un po’ sopra una cicatrice che mi è venuta in
seguito ad un incidente pauroso avvenuto venti anni fa, con tutta la famiglia.
I: Un incidente, venti anni fa?
P: Sì, eravamo in Spagna, viaggiavamo sulla nostra automobile quando un’altra macchina ci ha travolti, è stato terribile mi creda… [pausa di due secondi]. Io ho avuto
la rottura di due costole, che poi mi ha provocato appunto, questa lesione al
polmone. [pausa di tre secondi].
E pensi! pare che questa cicatrice nel tempo ha cominciato ad andare a male, [pausa
di tre secondi] e per fortuna ce ne siamo accorti! allora con un intervento chirurgico apposito, previa preparazione farmacologia, che è quella che faccio in questo
momento, il professor Martelli che è il capo di questa struttura mi ha assicurato [mi
dà un colpo sulla spalla] che lo leva completamente senza problemi.
I: Ma lei….
P: Poi naturalmente si dovrà controllare nel tempo però insomma si risolve abbastanza bene, questa è la situazione ha capito? [Abbassa ancora di più il tono della
voce]. Io però continuo a lavorare non me ne frega niente!
I: Che lavoro fa?
P: Avvocato penale.
I: Ah! Un lavoro impegnativo?
P: Sì abbastanza, ma è un lavoro che ti da anche tante belle soddisfazioni [sorride].
I: Sì, lo immagino, senta ma come ha scoperto di essere malato, aveva qualche
disturbo?
P: Di avere questo problema, preferisco dire così.
I: Sì, mi scusi… di avere questo problema?
P: No, stavo e sto bene, vado in bicicletta, corro, cioè è del tutto estrinseco alla
malattia diciamo, però certo! va eliminata perché è foriera di guai. [pausa di tre
secondi].
Quindi gliélo ho detto, che questa cosa è iniziata quasi dieci anni fa, [ride] quando
stavo proprio sulla luna! dieci anni! [ Sorride,e muove la mano a indicare il tempo
trascorso]. […]
I: Senta e come si trova qui in ospedale?
P: Mah, devo dire io mi sono informato con una pneumologa, che lavora di fronte
al mio studio, che conosco da tanti anni le ho chiesto, e lei mi ha indirizzato qui,
e sono venuto qui, e devo dire mi trovo bene. Ho parlato con il professor Martelli che è un’autorità in questo campo, e abbiamo impostato questo programma
terapeutico, che consiste in una chemioterapia breve di due cicli, ed io già sto a
50
2. La malattia e il suo orizzonte culturale e sociale
metà del secondo con oggi, e con un controllo radiografico, perché la terapia
deve ridurre questa escrescenza. E… [pausa di due secondi] insomma, fatta
questa riduzione, con il bisturi si toglie tutto intorno e poi basta, cioè si faranno
dei controlli annuali, biennali, come al solito, come per tutti.
Tra l’altro cara!, una cosa che io non sapevo, per gli uomini questa cosa al
polmone, di cui poi io me ne fregavo totalmente, statisticamente corrisponde al
tumore al seno delle donne, cioè sta avendo una tale diffusione, più ancora del
tumore alla prostata. […]
I: La sua famiglia come l’ha presa questa notizia?
P: La famiglia [pausa di tre secondi] che le devo di’ ce so’ rimasti male, [sorride
amaramente] però poi, siamo tutti adulti e consapevoli, lì per lì per me è stata una
mazzata, avrei spaccato un muro…
I: Ecco, come ha reagito?
P: Come ho reagito! Male, malissimo è brutto, molto brutto [scuote la testa
ripetutamente] però… [pausa di quattro secondi]. […]
I: Quindi il lavoro è un aiuto?
P: Certo per me il lavoro è un grande aiuto. Allora detto questo, se metti in conto
l’acciacco, per me è stato il nodulo, per un altro il cuore, per un altro ancora
qualcos’altro, a questo punto uno lo affronta con molta più serenità e la famiglia
ne risente poco, perché la famiglia, non ha più bisogno di te dal punto di vista
pratico, affettivamente è chiaro che avrà sempre bisogno di te.
I: Certo, è naturale…
P: Ecco, se per esempio uno riesce a gestire una problematica…
Per esempio io c’ho un collega che ha ottantacinque anni, bravissimo fa l’avvocato, che sono venticinque anni che è malato di fegato, e lui dice: «Da quando ho
scoperto di essere malato di fegato sto meglio, perché mi sono curato», cioè ha
gestito la propria malattia. Per cui queste problematiche qua si stanno trasformando sempre di più in guarigioni totali almeno questo sembra che sia, ma soprattutto
in gestione nel tempo, negli anni, con questa prospettiva la cosa diventa umana,
cioè non c’è più quella cosa: “Ah, Dio mio!”. Poi è chiaro la tegola te po’ capita’
per qualunque motivo però tendenzialmente, statisticamente diventa una fatto di
lungo termine, male che vada! [pausa di due secondi].
E poi sembra che oggi addirittura si guarisce completamente, poi se il buon Dio,
decide di richiamarti questo può capitare a qualunque età, anche quando stai
giocando! Questo va accettato come fatalità nella vita. Ecco con questa cornice
mentale tu affronti qualsiasi problema.
I: Lei collega questo che le è capitato ad un momento particolare della sua vita?
P: No, credo… c’è da dire che io ‘sta cicatrice ce l’ho dall’incidente, quindi… [pausa
di quattro secondi].
51
Medico o dottore? Ti racconto la mia malattia
Però questi ultimi dieci anni, dai cinquanta ai sessanta anni, sono stati per me degli
anni di grande vitalità, di grandi soddisfazioni professionali, affettive, proprio nel
periodo in cui questa cicatrice si stava rovinando, cioè c’è una assoluta disgiunzione,
tra quello che è questo foruncolo chiamiamolo così, perché alla fine questo è, e la
vita soggettiva di una persona, il resto sono luoghi comuni…
[È appena arrivato un infermiere che sta mettendo qualcosa nella flebo, il paziente
è visibilmente agitato].
I: Parli pure, devo solo controllare una cosa.
P:
I:
P:
I:
Io parlo sì, ma voglio pure vedere che fa lei.
Questo ti metterà un po’ di sonno.
Sì? Ma che cos’è?
Un antistaminico.
P:
I:
P:
I:
P:
Ma dà la nausea?
No, non dovrebbe, stia tranquillo.
[Poi rivolto a me] Queste so’ certe bombe!
Ci credo!
Io la paragono all’attacco a Pearl Harbour! È micidiale! Adesso ha messo pure
l’aggiunta, questa dura tre ore.
I: Così tanto?
P: Sì, è abbastanza ha ragione.
I: Ma lei non è mai stato ricoverato qui?
P: No, no. Io sono qui solo come day hospital, il medico mi ha detto che non c’è
bisogno del ricovero!
I: Ho capito, senta…
P: Comunque io le posso dire riguardo a questo, che la cosa di cui io sono molto
felice, è che continuo a condurre una vita completamente regolare, cioè il discorso
della malattia invalidante, della vita invalidante, nel mio caso non vale, ma non solo
per me, perché io credo che problemi di relazione paradossalmente gliéli dà di più,
che ne so, una malattia banale rispetto ad una cosa più seria, da un punto di vista
pratico, capisce che voglio dire?
I: Sì, ho capito, lei mi sta dicendo che si può condurre una vita assolutamente normale anche con una malattia così seria?
P: Esattamente.
I: E per quanto riguarda la struttura ospedaliera che mi dice?
P: Per quanto riguarda la struttura io, chiaramente per quello che ho visto, ho una
valutazione assolutamente positiva della struttura pubblica, intanto c’è personale
medico di primo ordine, personale infermieristico ottimo, lo vede pure lei, sono
bravissimi, Roberto e Giacomo sono veramente persone di qualità, la struttura è
52
2. La malattia e il suo orizzonte culturale e sociale
pulita, tenuta bene, quindi mi pare appunto assolutamente positiva, ti danno sicurezza, tranquillità, loro sono anche bravi in questo.
I: Percepisce un clima sereno?
P: Sì, grande serenità, ognuno lavora con le proprie competenze, coordinati bene,
seri, come posso dire, organizzati.
I: Per quanto riguarda la terapia che sta facendo, non so… [pausa di due secondi]
lei mi diceva che è molto aggressiva, me ne vuole parlare?
P: Questa terapia, della quale poi non me ne voglio interessare più di tanto perché
sono un po’ fifone, però mi hanno detto che è una terapia molto dura, forte
perché loro confidano in un attacco immediato il più possibile massiccio a questo
nodulo, e quindi, l’efficacia della terapia è legata alla sua potenza di attacco, e alla
sua, come posso dire, immediatezza.
Perché mi hanno detto che c’è anche il rischio che possa non colpire o colpire male,
e questo è dovuto al fatto che questo, benedetto o maledetto “foruncolone”, questa
specie di patata, questa benedetta cosa!, potrebbe avere delle mutazioni genetiche,
cioè si protegge, cambia faccia per evitare di prendere i colpi, quindi si difende a sua
volta, e allora si scherma in qualche modo dai colpi [pausa di due secondi]. Allora noi
dobbiamo essere più furbi di lui e più veloci e colpirlo prima che possa reagire, e
quindi sono concentrate in quattro settimane, devo prendere ‘sta roba per tutto questo tempo, con una sosta di una settimana tra le prime due, e le ultime due. Mi fanno
un po’ riprendere e poi si riattacca, così che, anche se dovesse mutare e quindi salvarsi
loro hanno già un’altra arma alternativa che riesce a capire la mutazione e a colpirlo
ancora, fino a quando il mostro crolla, sfinito, e muore.
I: La terapia ha degli effetti collaterali?
P: La terapia dà degli effetti dopo qualche giorno, effetti gastroenterici, oppure
diarroici, oppure anche un senso di nausea per cui non ti va di mangiare, però
devo dire che ormai hanno raggiunto un tale grado di perfezionamento che con
dei farmaci correttivi degli effetti collaterali ormai ti danno poco fastidio. [pausa
di due secondi]. Io come le dicevo prima continuo a lavorare, salvo quel giorno
o due che mi sento proprio abboccato però a quel punto me ne sto a studio,
faccio altre cose, più leggere, mentre se no vado in tribunale eccetera. Seguo
pure delle cause impegnative però è vero che ho pure dei collaboratori che mi
danno una mano, anche perché ci sono delle cause pure importanti, dove non
puoi mica scherzare, [scuote la testa] devi stare in forma, però ecco non mi
posso lamentare. Cerco di lavorare, certo con qualche intervallo, e con l’aiuto
magari di colleghi, di collaboratori.
I: Senta in questo periodo sente dei bisogni particolari?
P: Non direi, però siccome mi fanno prendere un po’ di cortisone…, io devo premettere che non ho mai preso farmaci, in tutta la mia vita, è la prima volta, una volta
che li prendo, lo faccio in maniera astronomica, [ride] però il cortisone mi mette
53
Medico o dottore? Ti racconto la mia malattia
particolare fame, io lo trovo addirittura eccitante, [abbassa la voce, ma questa
volta per non farsi sentire] mi dà una eccitazione curiosa per cui è un effetto che
potrei definire piacevole, è come una lucidità accentuata che ti viene, per cui ad
esempio, scrivo benissimo, leggo testi difficilissimi e li capisco subito, come posso
dire è una specie di… [pausa di tre secondi] non droga perché non lo è, non lo so,
io la consiglierei ai ragazzi per fare un esame, un po’ di milligrammi di cortisone
chi sa come ti svegli! [sorride divertito].
I: Io però intendevo dei bisogni, non so di protezione, affettivi…
P: No, mi protegge l’ospedale, sa ha una organizzazione ad hoc di gente più che
competente preparata, seria, che sopperisce ai tuoi bisogni, quindi proprio l’ospedale ha una funzione materna eccezionale.
L’altra volta c’era un collega un avvocato civile che diceva le stesse cose: «Ho
sempre sottovalutato le strutture pubbliche, invece ora devo dire che delle strutture pubbliche ci si può fidare», e io gli ho risposto: «È vero c’hai ragione sono
migliori».
Mia figlia ha il marito che lavora ad una società importante e mi ha detto: «Papà, ti
porto di qua, ti porto di là, mi informo», cioè mi avrebbe portato nelle migliori
cliniche, ma sono voluto venire in ospedale, anche perché qui hanno un alto
grado di specializzazione, cioè non potrei stare in mani migliori!
I: Lei quanti figli ha?
P: Due, un maschio e una femmina, e una nipotina di due anni, Caterina, che è
bellissima!
I: Immagino…
P: Senta ma lei ha finito?
I: Sì certo, adesso chi la viene a riprendere quando ha terminato?
P: Ma chi me viene a riprende, me ne vado da solo, ho la macchina qui sotto!
Certo mia moglie, mi ha voluto accompagnare e adesso sta in sala attesa, anzi se
vuole può intervistare pure lei, però io sono completamente autosufficiente gliel’ho detto, non ho problemi di questo tipo, guido io, lei mi ha accompagnato per
farmi compagnia, sa come siete voi donne! No?
I: Va bene grazie mille, è stato gentile.
2.4 Disamina antropologica
dei contenuti narrativi
Nelle pagine che seguono cercheremo di trarre qualche prima considerazione
di taglio antropologico dai passi salienti di alcune interviste. Pur con le limitazioni
che si sono ricordate nel par. 1.4 – tra cui in particolare l’impossibilità di
contestualizzare e approfondire le narrazioni e di corredarle di un’adeguata osser-
54
2. La malattia e il suo orizzonte culturale e sociale
vazione partecipante –, esse ci offrono un panorama estremamente ricco e variegato sul denso vissuto dei pazienti, sulle esperienze della loro frequentazione dell’ospedale, sulle aspettative che essi nutrono nei confronti della struttura e del suo
personale, sui criteri in base ai quali si avvicinano alle terapie che vengono loro
prestate e sulle valutazioni che ne danno. Pur non essendo stato possibile selezionare il campione altro che in base al sesso e all’età, tra coloro che hanno accettato di
farsi intervistare, spesso a lungo e sempre in forma registrata, compaiono una considerevole varietà di figure, dall’ufficiale delle forze armate al pregiudicato, dall’artigiano all’insegnante, dal libero professionista all’immigrato, dalla massaia al (o meglio
“alla”) transessuale, fino allo stesso personale sanitario, che l’inversione di ruolo –
da terapeuta a paziente – induce a formulare considerazioni spesso del tutto omogenee con quelle dei pazienti “profani”.
Pur nella sua limitatezza numerica, il campione rivela una molteplicità di orientamenti culturali, di scale di valori, di forme espressive, di atteggiamenti e di personalità estremamente variegata, rendendo subito percettibile quanto siano diverse – al
di sotto dell’ovvio comun denominatore biologico che ci affratella tutti e che consente alla medicina scientifica di offrire a ognuno un immediato, concreto e valido
aiuto – le modalità con cui i pazienti affrontano i propri problemi di salute e rispondono alle terapie che vengono loro somministrate.
Lo scopo dell’indagine, si ricorderà, non era quello di raccogliere una valutazione
dell’assistenza sanitaria offerta nel San Camillo Forlanini, quanto piuttosto di portare alla luce la dimensione legata alla plasmazione culturale e la condivisione sociale
dei diversi vissuti di degenza e il modo in cui esse influiscono sull’azione terapeutica
e sui suoi effetti. Infatti anche il minimo problema di salute non si esaurisce mai in
una pura questione fisiologica, ma finisce sempre per stimolare e condensare l’attribuzione di significati esistenziali e sociali profondi, che investono le sfere degli affetti
e delle convinzioni più radicate, dell’identità e della vita di relazione del paziente.
Certo, a seconda dell’età, del grado di istruzione, della padronanza della lingua,
della posizione sociale e della patologia, gli intervistati hanno mostrato capacità molto
diverse nel raccontare la propria esperienza tra le mura dell’ospedale: chi affrontasse
per intero la lettura delle centinaia di pagine delle interviste si troverebbe dinanzi sia
le intense riflessioni di chi proprio attraverso la malattia, specie se grave, ha avuto
modo di elaborare un maturo ripensamento del senso della sua esistenza, sia le frettolose considerazioni di chi non si aspetta altro che una rapida soluzione tecnica ai
fastidiosi inciampi di qualche disturbo minore. Ma nel complesso gli interpellati hanno
preso molto seriamente l’inconsueta opportunità di esprimersi in un modo più approfondito e personale dei soliti questionari, rispondendo alle sollecitazioni dei ricercatori con narrazioni di notevole intensità e ricchezza.
Mediante le interviste ci eravamo prefissi l’obiettivo di portare alla luce gli aspetti dell’esperienza dei pazienti che riguardano gli orizzonti di “senso” della loro malattia e le implicazioni relazionali che questa ha nella loro vita sociale. Questa ricer-
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Medico o dottore? Ti racconto la mia malattia
ca, abbastanza inedita nel contesto italiano, ha permesso di individuare alcuni nodi
tematici, dei quali alcuni si sono rivelati particolarmente rilevanti, sia per la testimonianza diretta che offrono del vissuto dei pazienti, sia per gli spunti analitici che se ne
possono ricavare.
Nel proporre un breve excursus degli enunciati corrispondenti ai diversi argomenti, siamo consapevoli della forzatura che ogni estrapolazione dal flusso complessivo della narrazione comporta; confidiamo tuttavia che l’eloquenza delle parole degli interpellati, pur fuori dal contesto in cui sono state pronunciate, ne
consenta comunque un primo sommario esame. Per iniziare, partiremo dagli aspetti
più generali, legati al bagaglio culturale dei pazienti (e dei loro familiari, che hanno
un peso non irrilevante nelle interviste): la cultura infatti ha un peso determinante
nell’orientare i differenti modi in cui le persone percepiscono, rappresentano e
gestiscono il proprio corpo, la sofferenza, la menomazione e le relative terapie,
così come le molteplici condotte e relazioni sociali che caratterizzano il contesto
ospedaliero. Il che com’è ovvio risulta più evidente allorché si tratti di modelli
culturali “esotici”, stridenti rispetto a quelli degli operatori sanitari e degli
intervistatori, ma resta non meno vero anche per chi invece ha una cultura omogenea a quella di questi ultimi. Due esempi. Il primo è quello di una contadina
lucana per la quale l’intera esperienza temporale della sua malattia è scandita dal
calendario liturgico, a riprova del fatto che la percezione dello scorrere del tempo è assai spesso legata ai suoi aspetti “qualitativi” (come appunto le feste), più che
vissuta come un cronometrico susseguirsi di unità omogenee (Elias 1986):
“Perché da noi facciamo le sagre, sette giorni, e la sera sono uscita un poco,
ma sono dovuta andare a casa a letto. Tutte le feste male male male: ho chiuso
l’anno male, ho aperto l’anno male, la Befana qui, male. Mo’, se Dio vuole, il
giorno prima di Sant’Antonio ho cominciato la cura e l’anno prossimo a Sant’Antonio finisco la cura, 17 gennaio, se mi va bene, e pazienza. Vedi quanta
cura aggi’ ‘a fa’”. ( 60 anni, lucana, linfonodi ingrossati)
Il secondo esempio è quello di un’immigrata caraibico-statunitense, che concepisce e vive la sua fisiologia secondo una visione del mondo di stampo new-age, che la
fa rifuggire da ogni intromissione nel corso “naturale” delle cose, retto dal supremo
volere divino, tanto che lo stesso ricorso alle terapie ospedaliere è avvertito come
qualcosa di fastidiosamente perturbativo:
“Io c’ho cinque figli, però io non piace se vai a hospitale, io fare tutto naturale [mentre
parla si massaggia e si palpa il basso ventre]. […Io ho avuto] cinque figli, cinque figli!
Manco [una] medicina, io no preso quella cosa, tutte le cose… Io sono forte, me crede
in Dio, me crede in terra, me crede in tutte le cose naturale [con enfasi], senza problema… […] Perché tu visto adesso con nostra Terra, adesso che fa? Cambia, perché oggi
the mentalità de genti [fa] proprio schifo, and loro [gli uomini] non vuoi prende Mam-
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2. La malattia e il suo orizzonte culturale e sociale
ma Terra come era, Mamma [con enfasi], ma tu devi metti a posto Mamma Terra. Sennò
che fa, come vive? Visto come [fa] caldo fuori? [indicando la finestra] Tu lo sai perché?
Eh! Perché tu ancora prendi the petrolio? Questo è le sangue de Mamma! Prendi the
petrolio? E quando tu prende tutto le sangue a Mamma, che fa Mamma? Muore! [ride]
Hai capito?”. ( 40 anni, di Trinidad, schiacciamento vertebrale)
Senza tener conto del loro peculiare retroterra di concezioni cosmologiche,
abitudini incorporate e valori, ben difficile sarebbe comprendere le idiosincratiche
maniere in cui le due pazienti vivono le reciproche esperienze di malattia, intendono o fraintendono il discorso clinico, lo accettano o ne dissentono, seguono le
indicazioni dei medici, reagiscono alle terapie. Ma la cultura dei pazienti non si limita
ad improntare la cornice di senso più ampia entro cui si collocano i vissuti di malattia, bensì determina i modi specifici in cui i pazienti percepiscono e pensano il proprio corpo. Le interviste offrono un ricco campionario al riguardo, anche andando
a pescare tra i casi più “domestici”:
“Io sono cattolica, no? Per cui ascolto sempre queste cose: «Il corpo è un tempio,
il corpo è un tempio». Al cinquanta per cento è vero, perché comunque è il
contenitore dell’anima… Però siamo anche carne, cioè non siamo niente. Quindi
do rilevanza al mio corpo inteso come fisico, quindi come fisicità, quindi come
percezione mia visiva dell’esterno, non tanto invece di quanto do importanza in
quanto ‘involucro dell’anima’. Faccio un discorso un po’ più elevato, noi siamo
esseri… il male di tonsille a diciassett’anni; ti viene il tumore a trent’anni, te viene
il tumore, però allo stesso tempo hai partorito due mesi prima una creatura che è
nata dentro il tuo corpo, che s’è cibata del tuo corpo, che il tuo corpo ha accolto.
[…] Io queste qui le vivo solo come piccolissime prove. Certo, il tumore è stata
una grande prova, perché io c’avevo F. di due mesi… Allora ti chiedi: «Come?
prima il mio corpo mi dà F. per nove mesi, la culla, e poi dopo mi si rivolta
contro?». Perché a me il tumore m’è nato insieme a F. Ho concepito F. e dopo
quattro mesi è nata questa ciste che poi è un tumore… Lei la prendeva a calci, ci
giocava come fosse una palla.” ( 33 anni, infiammazione alle tonsille).
Se per un verso gravidanza e tumore vengono letti in questo caso come una
paradossale combinazione di vita e di morte, un’altra paziente formula una personale interpretazione degli effetti a lungo termine delle sostenze anestetiche sul suo
organismo, facendone una sorta di entità esogena capace di sovrapporre il proprio
influsso alla libertà d’azione dell’interessata, quasi che le sostanze chimiche avessero
il potere di determinare in lei uno stato di “possessione” simile a quello un tempo
attribuito nel Salento al morso della tarantola (de Martino 1961):
“A volte mi viene un po’ di depressione, l’umore è cagionevole, spesso sono nervosa. Dopo tante operazioni ho accumulato una grande quantità di anestesia che
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Medico o dottore? Ti racconto la mia malattia
mi fa agire in modo diverso da come sono solitamente. L’anestesia ti viene iniettata
per farti dormire e poi rimane in circolo nel corpo: quindi, prima o poi, deve per
forza venire fuori. Ecco perché ho alti e bassi, anche se cerco di contenermi.
Spesso me la prendo con mio marito. Lui deve capire cosa ho passato: non sono io
che agisco, è la reazione di ciò che ho dentro, è un’alterazione del mio carattere.
Inoltre sono molto emotiva, quindi assorbo di più degli altri queste sostanze, che si
sfogano all’esterno in modo aggressivo. […] Non sono io che agisco: è l’anestesia.”
( 74 anni, controllo mammografico)
Lo stesso drastico scollamento tra lo stato psicologico con cui una paziente si
affida fiduciosa alle cure e la mancata risposta del suo organismo alle terapie è
rappresentato attribuendo al corpo una capacità decisionale autonoma, in drammatico contrasto con quella della persona:
“E infatti ne ho parlato con i medici, abbiamo affrontato questo problema e credo
che possa esserci questa possibilità. Cioè: tu fai la terapia con tanta fiducia perché
ti fidi di quello che pensano, però magari il tuo corpo non lo accetta. […] Io non
riesco a darmi una spiegazione, perché io voglio stare bene, però questa cosa mi
confonde perché se il mio corpo non accetta il farmaco vuol dire che non vuole
guarire il mio corpo, invece io voglio guarire.” ( 30 anni, Morbo di Crohn)
Anche la malattia è percepita, pensata e affrontata secondo modalità che dipendono profondamente dai modelli culturali incorporati dai pazienti. Ad esempio, colpisce la radicale difformità dell’atteggiamento mentale con cui affrontano la malattia
pazienti affetti da patologie diverse come i tumori e il Morbo di Crohn: i primi
schiacciati dal peso opprimente del significato ominoso che lo stesso nome del male
ha ormai acquisito nella nostra società – indipendentemente dai sintomi e dalla
gravità del singolo caso e dalle capacità di trattamento che, alla luce dei più recenti
successi della ricerca, la medicina riesce a mettere in atto in questo campo –; i
secondi nel complesso assai più sereni e fiduciosi nelle prospettive di vita, a dispetto
della pesantissima sintomatologia di fronte a una patologia altamente debilitante,
che costringe a un quotidiano calvario alle prese con il dolore cronico. Una differenza di giudizio che risulterebbe inspiegabile se non si tenesse conto di quanto pesi
la carica metaforica attribuita al cancro (Sontag 1979). Ma considerazioni simili valgono anche per problemi di rilievo assai minore; si veda il forte contrasto tra i modi
in cui due diversi pazienti affrontano i rispettivi problemi dentari:
“Non avere più i denti è una cosa molto molto grave. […] Guardi, io ho fatto un’interruzione di gravidanza e questa cosa mi ha fatto soffrire molto, penso che per tutta la
vita… diciamo, ha cambiato il mio corpo e quindi diciamo [che] quell’intervento lì
sarà presente nella mia vita per sempre. Ecco, eeh, i denti io li ho vissuti praticamente
alla stessa maniera: la perdita dei denti, cioè, è una perdita di identità, è una perdita di
58
2. La malattia e il suo orizzonte culturale e sociale
forza, è la perdita di qualche cosa di originario e non si può in nessun modo sostituire,
per cui è una cosa con la quale devi fare i conti tutta la vita. […] Mi sono accorta che
è una cosa troppo primaria, non so come dire: è come una gamba!” ( , piorrea)
“Posso avere dei problemi nel mangiare, ma niente di che, abbastanza superabili, anche
perché ho delle piccole protesi che posso mettere quindi anche per il sociale non ho
grandi problemi. […] Non è un problema grave, via, questi sono interventi abbastanza
superabili, ci sono cose più gravi, questo è un fatto di tempo, di sopportare interventi
anche un pochino dolorosi, però insomma si fanno.” ( 54 anni, impianto dentario).
Quanto all’insorgere della malattia, esso è a volte spiegato in base a concezioni
delle disfunzioni corporee e dei processi patogeni che risultano sensibilmente distanti dal sapere biomedico:
“Perché ‘na vorta quanno stavi a ‘e Poste regolarmente si eri riserva alle sette
meno cinque, cinque minuti prima che staccavi: «Forza, c’è da anna’ a Milano».
«Come a Milano? Io devo stacca’!». «Devi anna’ a Milano». Come riserva ce dovevi
anda’ pe’ forza. […] Guarda che a Milano, oltre che anna’… mica che sei come er
passeggero che sta seduto, eh… devi lavora’… E lì forse m’è venuta a cataratta,
perché a’ voja a passa’ a legge’ tutta ‘a notte co’ ‘a luce spenta.” ( 65 anni, flebite)
“[Il] cancro al seno. È come l’influenza, ce l’hanno tutti. Sa per me qual è il problema? È colpa di Chernobyl. Da quando c’è stata l’esplosione della centrale nucleare, sono comparsi i tumori. Oramai è un’epidemia, dove senti senti, si muore solo
così. Chernobyl c’ha massacrato tutti!” ( 65 anni, controllo mammografico)
Nel parlare del tumore al seno che l’ha colpita, una donna ha esplicitato una
complessa quanto personale teoria circa il possibile nesso tra funzione riproduttiva
femminile, sangue mestruale e insorgere del cancro, che rivela con quanta forza
operi il bisogno dei pazienti di attribuire un significato alle proprie vicende sanitarie,
e come esso si traduca spesso nella “messa in trama” di eventi eterogenei (e clinicamente irrelati), costruendo delle narrazioni che – pur prive di verosimiglianza dal
punto di vista medico – ai loro occhi abbiano una coerenza (Good 1999):
“A me questi problemi sono venuti quando sono entrata in menopausa [abbassa la
voce]. Funziona così: quando la donna non ha più il sangue mensile, manca di uno
sfogo. Quindi, quelle sostanze cattive non possono più uscire dal corpo e rimangono
dentro, intrappolate. […] È tutto dovuto all’organismo della donna che non produce
più sangue sano: quello malato non esce, va in giro per il corpo e si attacca agli
organi, rovinandoli. Con la menopausa non ci sono più ormoni a difesa dell’organismo: quel veleno [il sangue mestruale] si accumula piano piano e prima o poi scoppia per tutto il fisico. È sangue sporco, sangue malato: senza mestruazioni, quella
roba rimane bloccata e fa danni. Ecco anche perché la donna vecchia è squilibrata
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Medico o dottore? Ti racconto la mia malattia
emotivamente, è nervosa. Purtroppo la natura della donna è questa, non si può fare
niente. […] Le donne hanno parti delicate come l’utero e le ovaie che, se vengono
attaccate, diventano mobili, si spostano dentro al corpo. È colpa sempre del sangue
che guasta il normale funzionamento del fisico. Ecco pure perché la donna è soggetta agli sbalzi d’umore: è dovuto tutto all’utero che è stato attaccato. Infatti sa a me
che è successo? […] Sono andata in menopausa a 44 anni. Internamente qualcosa
ha lavorato: ha preso qualche anno di pausa e poi, sul finire dei 60 anni, ha avuto
uno sfogo [con una neoplasia mammaria]. Ci vuole tempo per fare accumulare il
sangue. Ci vuole un margine di incubazione, poi scoppia. […] Mettere al mondo
diversi figli è un’altra forma di sfogo, una forma di difesa. […] La donna è fatta per
mettere al mondo i figli. Più figli fa, più è sana. Ricordo mia madre: aveva 11 figli ed
è andata in menopausa a 55 anni, più tardi di me. Perché ha avuto modo di sfogare
l’utero e le ovaie. Prima si facevano più figli e la donna era più sana, oggi è diverso.
Io ho avuto un solo figlio e infatti ora sto male. Ma a me mi hanno rovinato i medici.
[…] Mi hanno rovinato al reparto di maternità. È stata colpa di un dottorino che ha
visto che io mi ero lacerata e avevo perso tanto sangue mentre il bambino era
asciutto. […] Dopo il parto, il dottorino mi ha cucito l’utero. Non ho potuto fare
altri figli. Non ho più partorito, quindi non ho avuto altri sfoghi. Avevo 35 anni. Ecco
perché mi sono ammalata tante volte: è il mio corpo che ha auto-prodotto la malattia, che è una parte di me.” ( 74 anni, controllo mammografico)
Anche dalla lettura fuori contesto di questa densa narrazione, appare evidente
come la paziente inserisca le conoscenze e i concetti mutuati dalla scienza medica in
una griglia interpretativa ispirata a concezioni popolari della fisiologia femminile (cfr.
Guggino 1986, Pizza 1998), attribuendo una forte connotazione morale a sostanze
(il sangue mestruale, “sporco” e “malato”, assimilato a un veleno) e funzioni (il mestruo, il concepimento) cariche di una densa significazione simbolica, e proiettando
su terzi (il “dottorino” reo di aver interrotto la normale funzionalità riproduttiva)
la responsabilità di un male (il tumore) di cui si ha difficoltà ad accettare l’insorgere
casuale.
I modelli culturali hanno un peso anche nel determinare come i pazienti valutano
la gravità e il rischio cui li espone il loro male:
“Da noi il tumore in Marocco è una cosa che non goverà [guarirà]… che una
persona che rimane [colpita dal cancro] viene a morì. […] Lo sai che gente prima il
tumore non ci sta una medicina… Non goverà [guarirà] mai, no? E loro ancora ci
pensano a questa cosa, no? Non pensano che i tumore possono andare bene, che
una persona diventa normale dopo un sacco di cose: fare una medicina, rimanere
ospedale e dopo senti bene, no?” ( 29 anni, marocchino, gonfiori al collo)
Per questa stessa ragione, un paziente marocchino ha deciso di tenere la famiglia
lontana all’oscuro della propria ospedalizzazione, consapevole del fatto che in quel
60
2. La malattia e il suo orizzonte culturale e sociale
contesto l’eventualità di un cancro sarebbe vista come una condanna assai più definitiva di quanto ormai non si avverta in Italia.
“Quando sono andato sotto i ferri l’ultima cosa che ho fatto prima di farmi
addormentare è stata chiedere l’ora, perché ho pensato: «Se adesso passa poco
tempo, vuol dire che non c’è più niente da fare, perché aprono, guardano e
richiudono. Muoio subito. Se invece passa tanto tempo c’ho speranza, perché vuol
dire che hanno qualcosa da fare». Otto ore di intervento vorranno pure dire
qualcosa, no? Vuol dire che i medici hanno lavorato. La speranza c’è.” ( 78 anni,
tumore al polmone).
Infine, ecco come vengono variamente valutate e interpretate le terapie cui i
pazienti sono sottoposti:
“C’ho mio marito puro a casa che c’ha la polmonite! È andato da questo dottore
di Casaletto Spartano, gli ha segnato delle penicilline, però non hanno fatto bene:
forse erano proprio campione che gli ha dato ‘o farmacista. […] Eh sì, perché
quello non gli ha dato il medicinale buono. […] Perché forse ‘o farmacista non le
ha date proprio quelle [medicine] che [il medico curante] ha segnato, non le
teneva, teneva i campioni. Noi siamo poveri, siamo stupidi, siccome stiamo in
campagna, se ne approfittano proprio ‘sti dottori: «Ti diamo le medicine: se campi
campi, se muori muori».” ( 60 anni, lucana, linfonodi ingrossati).
Un enunciato che, preso alla lettera, parrebbe rivelare un’ingenua diffidenza nei
confronti di medici e farmacisti, in realtà si presta a letture più complesse, se lo si
intende come la rappresentazione metaforica di dislivelli culturali e diseguaglianze
socio-economiche nell’accesso alle risorse da cui dipende la salute: il sospetto che la
scarsa efficacia delle cure dipenda dall’eventualità di un “inganno” nella
somministrazione di farmaci di qualità inferiore (i “campioni”) riflette l’incorporazione
di un vissuto fatto di subalternità ed esclusione e della percezione dello scollamento
tra le concezioni mediche tradizionali e il sapere scientifico. In altre occasioni, le
parole degli intervistati rivelano una insospettata consapevolezza del ruolo che gli
stati emotivi dei malati e la loro partecipazione attiva alla terapia possono avere
sulla sua efficacia:
“Io vado avanti, giorno per giorno, poi magari mentalmente sconfiggi il male. C’è
stato una persona che c’aveva quel male [un tumore] e in termine de sei mesi
doveva mori’. Invece lui aveva detto che con la testa doveva debellare il male che
aveva e alla fine lo ha debellato: tramite analisi e accertamenti clinici ha constatato… I medici, i dottori, j’hanno detto che è stato un miracolo. […] Forza de
volontà: co’ la mente è riuscito a debellarlo. […] Io credo che fisicamente c’hai ‘na
forza interiore, che te dà la forza di andare avanti e mano a mano che vai avanti,
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Medico o dottore? Ti racconto la mia malattia
spariscono i mali, i dolori, solo questo. Le medicine sì, ti aiutano a soffrire di meno,
però che risolvi er caso, no. […] Ai medici bisogna crederci, sennò è finito tutto,
che stai a fa’ qua?” ( 67 anni, pneumotorace).
Altre volte ancora, i sentimenti con cui si affronta la terapia sono di segno opposto e, oltre all’evidente difficoltà a riconoscersi nei principi d’azione delle cure
farmacologiche, la diffidenza nei loro confronti pare riflettere i conflitti decisionali
che spesso si legano alle scelte terapeutiche e l’esautorazione di cui molto spesso il
paziente è vittima.
“Speriamo di risolve’ qualche cosa, ma ce credo poco, perché io non credo alla
chemio, perché credo che questa distrugga tutto e non curi niente, secondo me.
Poi mi sbaglierò, perché io non ho studiato medicina, purtroppo, però non ci
credo […] perché ha degli effetti collaterali devastanti e poi gliel’ho detto: brucia
tutto. Cura. Che cura? Brucia e basta! È un veleno che brucia tutto [..] distrugge
ciò che c’è di buono, cioè quello che è rimasto di buono […] E poi secondo lei
quella boccettina lì è capace di curarmi tutto il disastro che ho in un pezzetto di
polmone?” ( 62 anni, tumore al polmone)
Un altro aspetto che emerge con prepotenza dalle interviste è la dimensione
sociale del fenomeno malattia: nel senso che i pazienti, per lo più pensati e trattati
individualmente dal sistema sanitario, sono invece soggetti sempre inseriti in un fitto
tessuto sociale, che è fortemente coinvolto nell’evento patologico, soffrendo all’unisono con lui, sostenendolo, a volte aggravando la sua sofferenza, rendendola
comunque qualcosa di condiviso e dunque di supraindividuale, di collettivo:
“Niente, a casa nostra non si nasconde niente, sia di brutto che di bello. Perché
bisogna affrontarla tutti assieme, perché non la puoi affrontare da sola una malattia così.” ( 59 anni, metastasi ai polmoni)
“Non lo farò più [tentare il suicidio], anche se sarà difficile la vita, trovi sempre una
soluzione per andare avanti. E facendo questa cosa mi sono accorto che non
faccio male solo a me, ma anche agli amici che ce l’ho, che adesso sono venuti e li
ho visti stando male loro, e non si meritano a stare male per me, allora ho capito
che non faccio solo male a me, ma faccio male pure ad altre persone che mi
vogliono bene e non voglio questo.” (? rumeno, pneumotorace, tentato suicidio)
Naturalmente non son tutte rose e fiori; a volte anzi sono proprio le reti sociali
su cui si dovrebbe fare affidamento a riservare ben tristi sorprese:
“Questo reparto andrebbe rinominato: è medicina geriatrica. Il trattamento dei
malati deve essere modificato. I primi ad essere responsabili dovrebbero essere i
62
2. La malattia e il suo orizzonte culturale e sociale
parenti, invece qui c’è gente che da due giorni sta senza camicia da notte pulita. È
come se l’anziano fosse diventato un fastidio. Le faccio un esempio: c’è stata una
persona che con i suoi lamenti non ci ha fatto dormire per tre notti. Quando è
venuto il figlio, lo sa cos’ha detto? Ha detto: «Bisognerebbe eliminarla».” ( 67
anni, difficoltà respiratorie)
Se dunque a volte la malattia si traduce nel fatto crudele che la perdita dell’integrità fisica dà l’avvio alla “dissoluzione della personalità sociale” (Lévi-Strauss
1975: 189), con il prematuro allentamento di relazioni e affetti che invece proprio
adesso diverrebbero più necessari, nondimeno il più delle volte appare evidente
come il “vero” paziente sia un essere plurimo, una sorta di persona collettiva, che
travalica i confini del corpo individuale. Anche se l’organismo colpito è uno, la
sofferenza (l’illness) è condivisa, donde la necessità di esser presenti, avvertita sia
dai pazienti che dai familiari più prossimi (coniugi, genitori):
“Per mia moglie venire qua significa perdere tutta la giornata. Penso che lei ci
tenga tanto a venire per un fattore psicologico, perché così si sente più vicina a
me, è come se partecipasse al mio male. Infatti io non insisto, la capisco.” (? 61
anni, tumore al polmone)
“Perché adesso negli ospedali pediatrici permettono anche ai genitori di starci?
Perché i medici si sono accorti che una delle cose che impediva ai bambini di
guarire era un taglio netto con un ambiente che dava loro sicurezza. Quando
perdiamo la sicurezza, perdiamo tutto.” ( 67 anni, difficoltà respiratorie)
L’ospedalizzazione dunque costituisce per un verso la traumatica rescissione della
consueta e rassicurante rete di rapporti quotidiani; per altri versi, tuttavia, essa
comporta l’instaurazione di vincoli nuovi, con caratteristiche peculiari, che alcuni
pazienti sanno cogliere e rappresentare con grande sensibilità e finezza analitica:
“[Le visite dei parenti] io non le voglio. […] Perché le visite ti distolgono da quello
che è l’entrare nel limbo dei malati, che tutto sommato non è così male. […]
Questo è un mondo a parte, fuori c’è un’altra realtà. […] Perché si crea un rapporto che è quasi di fratellanza. C’è collaborazione anche nelle piccole stupidaggini quotidiane. Si entra subito in un altro spirito. […] È come se si entrasse in una
nuova comunità, in una nuova famiglia. Anzi, forse più che una famiglia. […] Solo
chi sta male capisce chi sta male. Nell’ospedale il malato si crea una sua realtà e
alla fine si convince che non è poi tanto male stare qua dentro. In realtà è una
presa in giro, è un’auto-difesa. Quando viene qualcuno a trovarti, l’edificio crolla:
è una cappa di illusione che ci costruiamo per reagire. Serve anche
terapeuticamente.” ( 61 anni, tumore al polmone)
“Io ho trovato tanto calore umano, veramente tanto. Mi ricordo (con tutto che lei
si può immaginare come stavo)… mi ricordo quando me so’ svegliata dall’aneste-
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Medico o dottore? Ti racconto la mia malattia
sia ho pianto pe’ 24 ore de seguito, proprio come una fontana, proprio... Comunque ho trovato molto calore umano. […] Stavo in una stanza dove eravamo quattro persone e già m’era andata bene. […] C’era molta solidarietà e molta compagnia, quello che non succede se uno se ricovera in clinica, dove sei chiusa dentro
una camera, insomma, pensa tutto il giorno alle sue disgrazie” ( 69 anni, diabete)
Naturalmente questo bisogno di socializzare la condizione di ammalato varia
molto a seconda delle patologie e delle persone; non sempre l’instaurazione di un
simile clima comunitario (si pensi alla communitas di cui parla Turner [1972]) è
apprezzato o ricercato da tutti:
“So’ un solitario. Non è che socializzo molto con la gente, proprio di natura. Non
mi interessa neanche il fatto di stare in un corridoio. A me l’unica cosa che mi
interessa è che io sono entrato qui per risolvere un problema, non è che a me mi
serve ‘il contorno’. A me mi serve di risolvere ‘il problema’.” ( 45 anni, frattura di
tibia e perone)
La malattia è dunque un evento che investe profondamente la dimensione sociale, ridisegnando il ruolo degli individui e sconvolgendo l’ordinato fluire della loro
esistenza. Ciò comporta che – mentre la scienza medica tende ad affrontarla sul
piano tecnico e volutamente a-semantico dell’intervento sulla componente organica – gli interessati la vivono sempre all’interno di complesse e stratificate cornici di
senso (v. Augé - Herzlich 1986). Anziché eventi isolati, frutto di circostanze casuali
come possono essere un incidente automobilistico, una predisposizione genetica, il
contagio con un agente infettivo o lo scatenarsi di un fenomeno autoimmunitario, le
malattie vengono disposte dai pazienti lungo il proprio percorso esistenziale, creando connessioni tra eventi patologici diversi e distanti nel tempo, magari clinicamente
irrelati, che però per loro acquisiscono un significato proprio in quanto collocati in
un determinato ordine. Ecco nascere quelle che Byron Good (1999) e i suoi colleghi
della scuola di Harvard (Kleinman 1988) hanno chiamato “trame narrative”, che
attraverso la concatenazione di episodi diversi mirano a “estrarre una configurazione da una successione” (Good 1999: 220).
“Ho scoperto per caso un problema al polmone di cui non ero affatto a conoscenza perché stavo e sto bene, e spero di stare bene ancora per molto tempo in
futuro. Dalle lastre e dalla TAC è apparso questo nodulo e secondo le ipotesi si
sarebbe formato [mi guarda e sorride], pensi un po’, sopra una cicatrice che mi è
venuta in seguito ad un incidente pauroso avvenuto venti anni fa, con tutta la
famiglia. […] Sì, eravamo in Spagna, viaggiavamo sulla nostra automobile quando
un’altra macchina ci ha travolti, è stato terribile, mi creda… Io ho avuto la rottura
di due costole, che poi mi ha provocato, appunto, questa lesione al polmone. E
pensi! pare che questa cicatrice nel tempo ha cominciato ad andare a male, e per
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2. La malattia e il suo orizzonte culturale e sociale
fortuna ce ne siamo accorti! […] questa cosa è iniziata quasi dieci anni fa, [ride]
quando stavo proprio sulla luna! Dieci anni! Una cicatrice che comincia a rovinarsi… Poi c’è da aggiungere un aiuto a questa cosa lo ha dato il fumo, perché sono
un fumatore accanito, fumo un paio di pacchetti di sigarette al giorno, sono cinquant’anni che fumo, ho sessantadue anni, e vedendo che non mi succedeva niente ho continuato a fumare.” ( 62 anni, tumore al polmone)
La creazione dell’immaginario nesso causale tra la lesione traumatica al polmone
e il successivo insorgere della neoplasia non costituisce soltanto la “messa in trama”
di episodi che, guardati a ritroso, conferiscono senso a un’esistenza, ma offre una
soluzione eziologica deresponsabilizzante e consolatoria per un male che non solo
appare terrifico, ma di cui non si ha la forza di addossarsi anche l’insorgenza (per via
del fumo). In altri casi, il manifestarsi del male è collegato ad episodi che il soggetto
avverte come decisivi per il proprio percorso esistenziale e che pertanto vengono
concatenati nel racconto:
“Io ho cominciato ad avere dei sintomi di malessere che avevo diciotto anni, in
seguito ad una situazione particolare con un fratello che si è ammalato di schizofrenia e ho cominciato ad avere problemi addominali, scariche, dimagrimenti, eccetera. […] Adesso due anni fa dovevo sposarmi, ho vissuto una situazione stressante, ho avuto una ricaduta con una fistola perianale. […] Adesso aspetto un
bambino, sono stata per sei mesi benissimo, e di punto in bianco ho avuto una
recidiva fortissima. […] Anche in questo caso sono convinta che mi è venuta
questa recidiva per l’ansia del primo figlio, anche se è stata una cosa programmata.” ( incinta, 35 anni, Morbo di Crohn)
Posti di fronte alla nuda e inappagante razionalità della spiegazione clinica del
processo patogenetico – che concentra il proprio sguardo sulle disfunzioni degli
organi e dei sistemi corporei, sull’esposizione ai germi, sulla degenerazione dei tessuti, ecc. –, i pazienti si spingono alla ricerca delle cause profonde (del “perché”)
della loro condizione di malattia, partendo da concezioni, seguendo logiche e giungendo a conclusioni che si pongono su piani sostanzialmente distinti da quelli del
discorso biomedico:
“Io penso che abbiamo tutti un destino, tutti un karma, ogni azione è una
conseguenza di un’altra, ogni anello della nostra vita è incastrato ad un altro.
Può darsi, chi lo sa? […] Io ho avuto un grosso stress, che deriva dal mio modo
di vivere, dal mio carattere, sono una persona ansiosa per tutto quello che
concerne l’esterno, nella famiglia, per le cose che bisogna fare, che bisogna
portare a termine, sono molto ansiosa, quindi probabilmente sì […] Certo siamo il risultato della nostra vita passata, non c’è niente da fare, se fossi vissuta
nel paese di bengodi con le collane di fiori al collo, forse non mi sarebbe venuto
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Medico o dottore? Ti racconto la mia malattia
niente: tutto il tempo a cantare e a giocare. Certo se non fumavo era meglio,
quello sì. […] magari c’è gente che fino alla fine della sua vita fuma tre pacchetti
al giorno, io ne fumavo mezzo e a me mi ha fatto male. Io credo che doveva
succedere, doveva capitare. […] l’antropologa è lei, mi dica lei, cosa è successo?” ( 53 anni, tumore al polmone)
“Periodo molto particolare. A me m’è successo l’incidente perché stavo a litiga’ con
la mia ex moglie pe’ telefono. […] è successo dopo una separazione… un po’ di cose
tutte insieme. […] Sì sì, è stata… […] Io penso che tutto quanto fa parte della vita,
tutto quanto quello che succede. Non è un libro scritto, però te succede tutto quello
che ti deve succedere.” (Ortopedia 45 anni, frattura di tibia e perone)
“Io credo che [la causa del presunto attacco epilettico di mio figlio] sia stato un
accumulo di nervosismo… Forse è che ‘sti bambini sono troppo infelici, vogliono
troppo… Uno gli spiega che non si può avere tutto, ma loro accumulano e reprimono… È inutile, a volte, spiegare che non si può avere tutto!” ( madre di
16enne con sospetta epilessia)
“Io penso che sia stato scatenato da qualcosa in particolare. Per esempio io con
la mia famiglia, mio padre, mia madre, le mie sorelle ci siamo trasferiti in Australia quando avevo tredici anni, da là mi sono cominciati i disturbi e a quindici
anni non mi reggevo più in piedi, e poi quando hanno fatto la diagnosi, lui stesso,
il professore, è ritornato indietro in effetti a quindici anni: cioè la malattia ce l’ho
da tutto questo tempo, quindi per me è questo, perché non volevo andare in
Australia, non mi volevo trasferire, non volevo lasciare le mie amiche, e non
volevo lasciare mia nonna in particolare, i parenti, non volevo andare. Sono
andata là e mi è cambiata tutta la vita completamente […] e non ho retto. ( 35
anni, Morbo di Crohn)
“Poi io c’avevo paura che magari la malattia che c’avevo io [tumore al testicolo]
si potesse contagiare in qualche modo, invece tranquillo… cioè se te deve veni’
te viene. Magari, che ne so, le paranoie, capito? Oppure: non è che me la sono
attaccato - che ne so - perché io lavoro coi computer? Magari te viene, che ne
so… infatti me so’ comprato pure l’apparecchio per misurare, ehm, diciamo, le
radiazioni. […] Però so’ tranquillo che non s’attacca, m’hanno detto. Quindi…
più che altro c’avevo quello de paura. Magari, che ne so, l’attaccavo a qualcuno
in famiglia. Poi m’hanno detto: «Non è che è una cosa che è infettiva». […] Che
poi il paradosso è che, comunque sia, a me m’hanno operato al testicolo destro,
e io il cellulare lo mettevo sempre in tasca, però dalla parte sinistra.” ( 25 anni,
tumore al testicolo)
Questa ricerca del “senso del male” (Augé - Herzlich 1986; Dei 1996, 2004) si
spinge ovviamente sul terreno morale della responsabilità e dei valori, proiettando
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2. La malattia e il suo orizzonte culturale e sociale
sulla dimensione trascendente del “perché” ultimo – scientificamente inafferrabile –
le origini della propria malattia e il suo significato esistenziale più profondo:
“Penso che sia casuale, ma soprattutto penso: «Ma perché proprio a me?» O ho
fatto qualche cosa di male, ma proprio male male male per meritarmelo, chi lo sa?
[…] Mi sto scervellando, ma io cose grosse non ne ho fatte, anzi volontariamente,
proprio… Giuro su Dio - io so’ credente - cose volontarie di cattiverie non ne ho
mai fatte.” ( 62 anni, tumore al polmone)
“Dimmi te se doveva succedere una cosa così! [lei ricoverata in ospedale e il
marito con una neoplasia] Sempre a noi! Certo, è vero pure che ognuno ha i
suoi problemi… però se capitava a qualcun altro era meglio! […] Quando abbiamo avuto la brutta notizia era il 25 ottobre, poi il 28 ottobre mio marito è
stato investito e gli hanno fratturato quattro vertebre. Capito la sfortuna? Ma
che c’abbiamo? Attiriamo le cose negative?” ( 61 anni, pancreatite)
A volte, più ancora che come il castigo per colpe commesse o l’accanirsi insensato di
un cieco destino, la malattia può esser pensata – e accettata – come una forma di altruistica espiazione, una sorta di assunzione su di sé del carico di potenziali disgrazie che
potrebbero minacciare altri:
“Penso che le malattie vengono, non è che mi domando perché a me, piuttosto
che a un altro, anzi meglio a me che ad un altro: non avrei mai voluto che prendesse un altro, invece che me. Le tre cause che loro [i medici] implicano come fondamentali sono cause autoimmuni, […] sono tre sostanzialmente i motivi, però di tre
non ne fanno uno a mio avviso. […] Le malattie succedono nella vita, cioè Dio ha
detto che il sole nasce ogni mattina per tutti: per le persone che credono e quelle
che non credono. È per questo che io non posso chiedermi perché a me e non ad
un altro, così come ogni cosa nella vita […], ecco queste succedono per tutti, però
per chi crede c’è il riscatto, rispetto a chi non crede, cioè se io confido in Dio e
credo nelle sue promesse, allora quelle promesse le ottengo, chi non crede chiaramente no.” ( incinta, 24 anni, rettocolite ulcerosa)
“L’ho superata bene. Con tanta rassegnazione. Non ho mai detto: «Perché è toccata a me?», mai! Sempre ho ringraziato Dio, quando ho saputo questa cosa sono
andata in Chiesa e ho detto: «Signore ti ringrazio che l’hai fatta venire a me e non
ai figli miei e a mio marito». […] Io sono molto religiosa. Allora io gli ho detto a Lui
[guardando verso l’alto]: «È capitata a me, va benissimo, meglio a me che agli altri»,
se io potessi fare da cavia per tutti, se non ce l’avesse nessuno sarei felicissima…
solo a me. Io so’ contentissima. Pensa se m’era presa a una figlia, tu pensa al
bambino: sarei morta.” ( 59 anni, metastasi ai polmoni)
Con il che non si vuol dire che la sofferenza comporti automaticamente la ricer-
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Medico o dottore? Ti racconto la mia malattia
ca di rifugio nel trascendente o l’assunzione delle responsabilità derivanti da una
condotta che l’ideologia vigente dipinge come deviante:
“Non mi sono mai dato la colpa della mia malattia perché sono un fumatore:
credo che nella vita uno debba fare quello che si sente e non sottrarsi ai piaceri.
Magari ho sbagliato a fumare, ho pure speso un sacco di soldi. Ma tanto qui in
ospedale ne ho viste di tutti i colori e ho capito che il fumo non c’entra niente col
tumore. […] Ero andato dal medico, ma lui non aveva capito niente: sono stato un
po’ trascurato dalla sanità italiana. Alla fine sono io che ho deciso di venire qui al
Forlanini per fare delle visite specialistiche: se era per il medico ero già bello
morto! […] Io non sono molto introspettivo e neanche religioso, anzi sono un tipo
razionale, quindi non saprei con chi prendermela per la mia malattia. Penso che
non sia colpa di nessuno: ho una visione delle cose scientifica, non c’è nel tumore
alcun senso mistico.” ( 50 anni, tumore al polmone)
Dunque la ricerca di senso che accompagna l’esperienza di malattia non sempre
è sostenuta dalla solida e rassicurante incastellatura di un credo religioso, ed allora
le riflessioni si fanno più introspettive:
“Io credo che questo sia il grande insegnamento di tutta questa esperienza. Perchè
poi io mi sono sempre chiesta per quale motivo me la stessi vivendo tutta quest’esperienza, perché sai, uno può anche viversela in maniera tranquilla e non farsi
questioni. Però per me è come se avesse sempre avuto una finalità, qualunque
cosa io faccia per me ha una finalità. Secondo me non esistono azioni che non
mirino a... Anche se sono inconscie mirano a qualcosa, per forza, è nella natura
dell’uomo. Allora, in questa situazione io ancora di più mi chiedo a che serve,
perché non vedo altre finalità... Io vedo soltanto che sto soffrendo, sto soffrendo.
Sì, potrei stare meglio, però non vedo a chi possa far del bene io in questa situazione. Ma qualcosa ci deve essere. Questa è una domanda che io mi pongo. Posso
anche nascondermi, però di fatto ci sono. Dal momento che ci sei, qualcosa forse
la dovrai anche fare, un senso ce lo potrai anche avere. Adesso, qual è il ruolo,
qual è il senso, io non lo so, però di fatto io devo continuare ad essere quella che
sono sempre stata.” ( 55 anni, tumore al colon, metastasi polmonari)
L’esperienza della malattia, specie se accompagnata da una presa in carico capace
di offrire sostegno e conforto, può divenire l’occasione per modificare in senso
positivo l’atteggiamento verso l’esistenza; in simili casi il percorso terapeutico, al di
là della risoluzione tecnica dei problemi organici (la rimozione del disease), può
assumere l’aspetto di un radicale riorientamento interiore e di un conferimento di
valore ad esperienze altrimenti vissute in termini solo distruttivamente negativi (cfr.
Waldram 2000):
“Essendo stata sempre bene prima di quel momento [quando le hanno diagnosti-
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2. La malattia e il suo orizzonte culturale e sociale
cato un tumore], ero molto arrabbiata. All’inizio non riuscivo a parlare del mio
male, mi ero chiusa in me stessa, rifiutavo totalmente di affrontare il problema. Poi,
durante il ricovero, ho conosciuto un medico che mi ha spinto con la sua attenzione verso di me a esprimere ciò che tenevo dentro. Ho iniziato a riflettere su me
stessa e ho capito che fino a quel momento mi ero considerata immortale, mi ero
illusa di stare sempre bene, mentre la mia malattia mi ha fatto toccare da vicino la
mia condizione reale, quella di essere umano. Ho capito che potevo vivere in
modo diverso, privo di rabbia, godendo dei momenti che posso vivere. Bisogna
comprendere che la vita non finisce con la malattia, cioè che si deve cercare di
vivere al meglio il tempo che rimane, altrimenti si muore prima di morire.” ( 67
anni, difficoltà respiratorie)
Ciò in cui non immaginavamo di imbatterci sono state le narrazioni di alcune
esperienze che potremmo chiamare “mistiche”, assai più consuete nei terreni di
ricerca “esotici” che non nella secolarizzata società urbana contemporanea. In
questi casi, l’incontro ravvicinato e poi provvidenzialmente scampato con la morte ha la conseguenza di ridisegnare radicalmente l’orientamento morale della persona, costituendo – secondo i più classici modelli di chiamata sciamanica, con una
sorta di viaggio “estatico” nell’aldilà, la percezione estraniata del proprio sé sofferente, l’intervento risolutore di coadiutori extraumani, il ritorno definitivo nell’involucro corporeo risanato (cfr. Eliade 1974; Lewis 1972, 1998) – il punto di
svolta capace di ridefinire l’intero disegno di un’esistenza:
“[Le volte precedenti in cui avevo tentato il suicidio] stavo sicuro che lo farò
ancora. Ma questa volta sono sicuro di no, pure perché quando stavo male, non so
se è stata la mia immaginazione oppure è stata una visione, ma ho visto una cosa
che… Ho visto che esiste il Male, no? E questa mi ha messo paura. Se c’è il Male
allora c’è pure il Dio e io sicuro non voglio finire giù e se faccio questa cosa [il
suicidio] sicuro finirò là e io non voglio. […] Come i film: inferno, e mi sono
spaventato. […] Ho visto uomini alti che ardevano e strillavano, quelli strilli, e pure
adesso li sento quelli strilli. E questa, ve l’ho detto, non lo so se per colpa delle
medicine, non mi importa, ma mi ha dato a me una svegliata e sono sicuro - vi ho
detto - adesso dell’esistenza di Dio.” ( rumeno, pneumotorace, tentato suicidio)
“[Dopo l’incidente] so’ stato 10 giorni in coma… […] Durante er coma, eeh, ho
viaggiato troppo con il cervello. Ho incominciato a vede’ tutte cose strane…
[…] Allora senti, stavo sdraiato così e vedevo tutta gente intorno a me che
pregava, e io facevo: «Ma perché state qui? Non state qua.» E strillavo, no? E
nessuno me rispondeva e continuavano a pregare. Poi a un certo punto ho
incominciato a vedere nell’aria migliaia de puntini, tutti puntini vedevo, no? E
allora me comincio ad avvicinare ad un puntino, così, e vedevo che dentro ‘sto
puntino ce stavano altri mille de puntini, e da lì ho incominciato a vede’ che ‘sto
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Medico o dottore? Ti racconto la mia malattia
puntino m’ha portato alla Via Lattea, ce stavano tutti i pianeti e poi so’ arrivato
alla Terra, e dalla Terra sono arrivato al posto dove stavo io. Ma ‘na cosa troppo
allucinante. […] E poi, a un certo punto, me so’ trovato che la Terra me si voleva
mangiare. Vedevo la Terra che mi si voleva proprio ingoiare, però ci stava della
gente che non voleva. Vedevo proprio la Terra, un buco, che voleva acchiappare
me. […] Me le ricordo [queste cose] come se fossi… come se fossero vere. Cioè
so’ state vere. Ho visto della gente intorno a me che non esisteva, che pregava.
[…] Secondo me quelle persone che so’ state lì [pregando] stavano per aiutarmi
a non morire. Perché io so’ stato molto male. Invece quel buco nero che mi si
voleva mangiare, penso che è la morte, che se cadevo là dentro sarei morto. Era
come se me se volesse [fa un risucchio con la bocca] succhiare, capito come? E
io cercavo de scappa’, di non avvicinarmici. Però c’era l’altra gente che m’aiutava. […] Io me lo spiego che tutto quello che ho visto… che m’hanno dato
un’altra chance. […] E non la voglio più sprecare. […] Ho cominciato a vedere
la vita in un altro modo. […] Io voglio cambiare tipo di vita, come una persona
seria… […] Le cose fatte bene voglio fa’. Spero di riuscirci… Almeno ci provo!”
( 27 anni, frattura al femore)
Come tutte le esperienze cruciali della vita umana, anche la malattia è oggetto
di forte simbolizzazione; dunque non sorprenderà che il linguaggio e i codici espressivi attraverso cui i pazienti e i loro familiari rappresentano tanto il male che li
affligge quanto la risposta del corpo alla terapia siano spesso marcatamente
metaforici. Vediamone brevemente alcuni esempi emblematici, partendo da quella
vera e propria miniera di immagini che è il discorso intorno al cancro, la cui
sinistra aura di morte si cerca di esorcizzare mediante più variegati eufemismi:
“Una nocciolina... i ceci!... le palline… una macchia di tumefazione… questo infortunio… questo brutto male… la nebulosa… un nodulino… questa escrescenza…
l’acciacco… la tegola… questo benedetto o maledetto foruncolone… questa specie di patata, questa benedetta cosa… il mostro…” (vari pazienti oncologici)
Il ricorso alla metafora non è comunque certo esclusivo del cancro:
“Mi piace condividere le mie esperienze con persone che hanno i miei stessi
problemi, perché ci si scambia consigli, quindi è importante, e soprattutto non ti
senti solo su questa barca che è questa malattia. […] Perché è una barca: fa su
e giù. È anche chiamata ‘malattia a fisarmonica’: si allarga e si stringe, però per
me è una barca, perché rende bene l’idea di che cosa sia.” ( incinta, 24 anni,
Rettocolite ulcerosa)
In tutti i casi di malattia la capacità di pensare il proprio male, dandogli un nome
e una fisionomia, costituisce uno dei primi gradini dell’iter terapeutico, nonché un
passo indispensabile verso la guarigione (cfr. Lupo 1999). Le parole di una paziente
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2. La malattia e il suo orizzonte culturale e sociale
ben si prestano a rendere il potere intrinsecamente terapeutico della identificazione, della denominazione e della rappresentazione mentale del proprio male:
“Non lo so come me la immagino [la malattia], non lo so, perché non si può secondo
me immaginare. E che devi immaginare? Perché io se provo a immaginare [ride]
guarisce! Quello riesco a immaginare!” ( 54 anni, metastasi a fegato e pancreas)
Spesso la capacità di raffigurare la malattia può realizzarsi solo in chiave simbolica e alcuni pazienti sanno restituire con grande e suggestiva efficacia le proprie
emozioni di fronte a questo atto immaginativo:
“Il tumore è una bestia. […] È un animale che mangiucchia. C’è qualche analogia
con gli animali sgradevoli. Pensa che lo chiamano ‘cancro’. Per me è una parola
troppo brutta, forse perché ci stanno le erre. Sarà il suono: evoca qualcosa di
incurabile. […] Il tumore è una bestia che va ammazzata. […] Un sorcio che
rosicchia. Mangia continuamente. Infatti il tumore consuma da dentro, ammazza le
cellule buone. Infatti i malati sono secchi secchi, anzi proprio scavati. Ecco perché
mi è venuto in mente un topo, perché il topo mangia di tutto, pure i fili di plastica.
Io spero di avere un topolino di campagna, non un sorcio di fogna! ( 61 anni,
tumore al polmone)
Lo stesso discorso vale per la rappresentazione della cura, che, come già ha
avuto modo di notare Susan Sontag (1979), ruota con insistenza attorno alla
simbologia bellica:
“Queste [la chemioterapia] so’ certe bombe! […] Io la paragono all’attacco di
Pearl Harbor: è micidiale […] mi hanno detto che è una terapia molto dura,
forte, perché loro confidano in un attacco immediato il più possibile massiccio a
questo nodulo, e quindi, l’efficacia della terapia è legata alla sua potenza di
attacco, e alla sua, come posso dire, immediatezza. Perché mi hanno detto che
c’è anche il rischio che possa non colpire o colpire male, e questo è dovuto al
fatto che questo benedetto o maledetto “foruncolone”, questa specie di patata,
questa benedetta cosa, potrebbe avere delle mutazioni genetiche, cioè si protegge,
cambia faccia per evitare di prendere i colpi, quindi si difende a sua volta, e allora
si scherma in qualche modo dai colpi. Allora noi dobbiamo essere più furbi di lui
e più veloci e colpirlo prima che possa reagire. […] Mi fanno un po’ riprendere e
poi si riattacca, così che, anche se dovesse mutare e quindi salvarsi loro hanno già
un’altra arma alternativa che riesce a capire la mutazione e a colpirlo ancora, fino
a quando il mostro crolla, sfinito, e muore.” ( 62 anni, tumore al polmone)
Un altro degli ambiti privilegiati della dimensione metaforica è quello della descrizione del dolore, che per quanti l’hanno studiato costituisce una delle esperienze umane più solitarie e difficilmente comunicabili, anche per l’assenza di un linguaggio appropriato a rappresentarlo (cfr. Cozzi 2003, Le Breton 2007). Senza voler qui
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Medico o dottore? Ti racconto la mia malattia
ripetere una lunga lista delle analogie e delle metafore utilizzate per parlare del
dolore, voglio solo sottolineare l’importanza che – per conviverci, sopportarlo o
superarlo – ha la capacità di confrontarlo e condividerlo con chi ne prova uno
simile, oppure di conferirgli un significato che lo renda giustificabile:
“Sono delle cortellate allo stomaco, è una doglia, una doglia continuativa, nell’apice della sua… Io ho avuto due bambine, quindi [sorride], nell’apice della
doglia il dolore è quello, è fortissimo, un dolore che sembra che stai per morire,
però lo sai che invece no, quindi non è che ti disperi. […] Perché io posso
provare a spiegare all’infinito a lei il mio dolore, e io spero che non lo capisca
mai, quindi è inutile che io dico: «Quel dolore allucinante che pensi di morire da
un momento all’altro, perché ti può scoppiare il cuore per i dolori che senti». Io
posso provare a spiegare, però spero vivamente che non lo capirà mai qual è la
vera sensazione in quel momento. L’altro [ammalato col Morbo di Crohn] lo sa,
e quindi basta dire: «Mamma mia, c’ho un mal di pancia!», l’altro lo sa, che non
è un normale mal di pancia.” ( 35 anni, Morbo di Crohn)
Quanto la capacità di sopportare il dolore possa dipendere dal significato che gli
si attribuisce, in prospettiva dell’ottenimento della “guarigione”, è reso in maniera
esemplare dalla testimonianza seguente, legata a un caso di fortissima motivazione
identitaria (il paziente che parla si è sottoposto a un lungo calvario chirurgico per il
cambiamento di sesso, da donna a uomo):
“La demolizione [degli organi sessuali femminili] è un fase di dolore allucinante.
La “totale” più la demolizione degli organi è una cosa che non puoi augurare a
nessuno... […] Ogni volta [che mi operavo per il cambiamento di sesso] era un
passo che mi avvicinava. Sorriso all’entrata e sorriso all’uscita, anche se c’era
[molto dolore…] Ricordo un chirurgo di Genova che disse: «Hanno una forza visto che ero il terzo [che cambiava sesso] -, hanno una forza allucinante, perché
non dicono una parola, con tutto il male che hanno addosso non dicono neanche ‘beh’». […] Sei talmente contento che ogni “obbligatorio”, lo sopporti.” (
44 anni, protesi genitale)
Abbiamo già insistito sul fatto che la malattia non è un fatto riducibile alla mera
dimensione organica e che essa investe a fondo la sfera relazionale del paziente: al
centro dell’esperienza ospedaliera vi sono le figure dei medici e degli infermieri, con
ruoli e funzioni diversi, su cui l’ammalato investe ogni aspettativa. È perciò scontato
che nelle interviste uno spazio immenso sia riservato proprio a discutere delle mansioni, dell’atteggiamento, dei saperi, delle azioni, dei poteri di entrambe le categorie. Ed
è altrettanto evidente come, vivendo la propria malattia in termini inevitabilmente
olistici, e dunque con tutta la densità esperienziale del proprio vissuto cognitivo, emozionale e sociale, i pazienti diano assoluto rilievo alla relazione terapeutica. Proprio il
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2. La malattia e il suo orizzonte culturale e sociale
rapporto con il personale sanitario determina la valutazione complessiva che gli utenti
danno delle cure ricevute, che inevitabilmente esorbita dalla semplice dimensione tecnica della prestazione in termini clinici. Di qui il bisogno costantemente ribadito di una
presenza assidua, rispettosa e partecipe, nonché di una comunicazione chiara, esauriente, bidirezionale, capace di rispondere in qualche modo alle mille domande che la
malattia solleva e di trasmettere speranza e conforto, fornendo una guida nelle scelte
che proprio la condizione di menomazione, di sofferenza e d’inferiorità rende più
difficili, ma da cui i pazienti e i familiari non possono e spesso non vogliono essere
esclusi.
“I medici sembra che quando prendono la laurea – la maggior parte, ringraziando
Dio non tutti… Però molti, co’ la laurea glie danno il fatto che l’umanità la devono
cancella’, che devono sape’ scrive male su ‘e cartelle per non fa’ legge bene, e
basta. […] Invece sembra che nel momento in cui uno si mette il camice uno è
autorizzato a… a non filasse ‘e persone.” ( 33 anni, cefalea)
Proprio in base alla diversa capacità relazionale, alla propensione a farsi carico in
termini complessivi delle aspettative dei pazienti, questi elaborano delle proprie
suggestive classificazioni delle tipologie di medici con cui hanno a che fare:
“I medici sono proprio bravi, ti stanno ad ascoltare, ti confortano e non ti curano
e basta. Sono partecipativi, non guardano solo alla malattia. Non sono mica come
i “dottori”! Sono medici nel vero senso della parola. […] Il medico è quello che
‘cura’ veramente la persona nella sua interezza, il dottore è quello che si sofferma
solo sul corpo. Invece il malato sente il bisogno di partecipare alla cura. Io qui ho
un buon rapporto col personale: sia i medici che gli infermieri sono proprio ‘curativi’.” ( 78 anni, tumore al polmone, corsivo nostro)
Non sorprende dunque che, in ragione della frequenza dei rapporti, della loro
natura meno gerarchica, della maggior prossimità e familiarità che nei reparti si
instaurano col personale infermieristico, il suo apprezzamento sia spesso decisamente superiore a quello della classe medica:
“No, con gl’infermieri ce se ragiona un po’ de ppiù, perché so’ più alla mano,
più… Se sentono ar paro tuo, mentre invece loro [i medici] se sentono tutti
padreterni.” ( 65 anni, flebite)
“Dal punto di vista, così, medico, non posso dire niente, anzi, fossero tutti così, gli
infermieri… Sì, perché con un tipo di malattia come questa [il tumore] sarebbe
l’ideale, perché non ti senti un numero, ti senti un po’ aiutato. Così io quando
arrivo, loro mi vedono, mi dicono: «Allora a Treviso nevica? come va?…». Non ti
vedono come l’ammalato. [Interviene la moglie:] Le doti umane emergono sem-
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Medico o dottore? Ti racconto la mia malattia
pre… […] E poi o ce l’hai o sennò… puoi fare convegni finché vuoi, non imparerai mai [ride].” ( 65 anni, chemioterapia per metastasi)
Tra i molti fattori che entrano in gioco nel determinare la valutazione complessiva della relazione terapeutica – e nel determinarne la stessa efficacia (v. Lupo
1999) – un grandissimo peso viene dato alla qualità della comunicazione, la cui funzione terapeutica è assai sovente sottostimata dal personale sanitario:
“Per dire una cosa, qui se si chiedono spiegazioni, i medici sono molto lapidari, come
se considerassero il malato uno stupido. […] Io sono qua da quasi una settimana e
ancora non ho ricevuto una diagnosi precisa, ma la cosa che mi dà fastidio è che
non mi si diano spiegazioni per questo fatto. […] Questa insicurezza mi provoca
ansia. Preferirei la verità, anche brutta, così potrei elaborarla e in un certo senso
digerirla. Così invece mi costringono a non poter fare niente [tono arrabbiato].
Come faccio a dare un senso al mio stare qua?” ( 67 anni, difficoltà respiratorie)
“[Il rapporto coi medici è] praticamente inesistente, perché non ti danno informazioni, passano frettolosamente, ti guardano eccetera, poi parlano con l’infermiera:
«Dare questo, fare questo!» E non si capisce se la terapia riguarda te o l’altro caso
che sta là dentro. E dopo un quarto d’ora, neanche venti minuti, sono fuori […]
Manca il rapporto col paziente. [… ] Un minimo di informazione. Bastano tre
minuti per dire: «L’operazione è andata bene». Basta.” ( 71 anni, ernia inguinale)
“Adesso c’è una nuova legge e molti medici sono molto schietti, alcuni pure troppo
violenti nel comunicare le diagnosi. Dovrebbero dirlo, ma in una certa maniera. Dipende anche dai parenti, ma la legge è chiara: bisogna parlare. Certo però che ci
stanno certi bruti! Tipo l’urologo del XX, quel grande luminare! [ironica] Ce lo aveva
consigliato un amico di famiglia. Il medico non ha neanche visitato mio marito, ha solo
guardato le radiografie e la TAC e ha detto: «Lo sai che non c’è più niente da fare?»
Proprio così! [sdegno] Che frase è? Una cosa allucinante!” ( 61 anni, pancreatite)
D’altronde sono gli stessi pazienti a sostenere che la qualità della relazione e
della comunicazione incidono sul loro stato generale:
“Io sono convinta che trattare i malati con umanità significa non solo farli sentire
più compresi, ma vuol dire anche farli guarire prima in modo più dolce e meno
faticoso per sé e per gli altri. […] Noi siamo composti da corpo, mente e cuore. In
ospedale invece si considera solo il fisico, non quello che c’è dietro. Secondo me è
un problema di prospettiva più generale, perché i medici sono come addestrati a
guardare al corpo sul modello di una macchina e non considerano i sentimenti e le
sensazioni che ci fanno agire come esseri umani. […] Bisogna capire che io non
sono un malato, sono una persona che ha bisogno in questo momento di cure e
che perciò già vive la degenza in modo traumatico. […] Bisogna fare in modo che
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2. La malattia e il suo orizzonte culturale e sociale
il malato sia partecipe della cura, che capisca le proprie condizioni, non agire come
se ci si trovasse davanti a un bambino cretino a cui bisogna sorridere e scherzare
perché non può capire. C’è la tendenza a trattare il malato come un oggetto. Il
parlare sulla testa della gente è una vergogna e qui si fa. Se il medico dice qualcosa
sulla mia vita, io ho il diritto di sapere. Mentendo non si rende la vita più semplice,
ma solo più insicura. Ecco cosa si deve cambiare: queste semplici cose. Non cercare sempre di migliorare le medicine.” ( 67 anni, difficoltà respiratorie)
“Se questo [l’ospedale] fosse una cosa commerciale e si dice che «il cliente ha
sempre ragione», si dovrebbe poter dire che anche «il paziente ha sempre ragione». Se io ti chiamo, prova almeno ad ascoltarmi, ‘almeno’, perché se tu nemmeno mi ascolti, c’è già una barriera che non so come mi puoi aiutare; questo vale
per i medici come per gli infermieri. Vale in generale: è un problema di relazione.
[…] Ne sopportiamo tante durante il giorno, è per questo che ci chiamano
‘pazienti’; ma se loro fossero pazienti con noi, anche noi lo saremmo di più con
loro.” ( 54 anni, trombosi)
Soprattutto quando la natura cronica dei mali che affliggono i pazienti spunta
le armi della scienza, precludendo la possibilità di una completa guarigione, è proprio la relazione terapeutica a offrire a chi soffre quelle risposte e quelle attenzioni di cui avverte il fondamentale bisogno:
“Io fino a che non ho trovato loro [i medici di questo reparto] ero diventata una
pazza davvero, poi ho trovato loro che mi hanno dato una tranquillità, mi sento
davvero in buone mani, infatti quello che mi dicono di fare, faccio sempre. […]
Qui sono molto umani, e quello è tanto importante. Anche quando ti fanno la
visita, ti mettono una mano sulla testa, una mano sulla spalla, una mano su una
mano, gli infermieri stessi non ti chiamano mai… - sai spesso quando vengono la
mattina a fare il prelievo, aprono le porte, entrano, ti prendono il braccio… loro invece ci svegliano con una mano sulla spalla per nome, neanche per cognome, e ti dicono: «S., mi dài il braccio, così facciamo il prelievo?» Sono brave
persone, probabilmente è proprio il reparto tutto. […] sono persone molto,
molto umane, ed è importante per questa malattia, perché se non vedi empatia,
comprensione, è tutto più difficile.” ( 35 anni, Morbo di Crohn)
Quanto pesino nella valutazione dell’agire terapeutico anche gli aspetti meno tecnici lo rivela l’insistenza con cui tantissimi pazienti si dichiarano insoddisfatti di un tipo
di visita che non preveda una qualche forma di contatto fisico; e non certo per ciò che
esso può rivelare sul piano diagnostico, ma proprio per le implicazioni simboliche e le
conseguenze sul piano affettivo che questo tipo di interazione comporta:
“[Le visite] avvengono di mattina e durano una decina di minuti. Che poi non è
una vera e propria visita perché i medici non ti toccano mica. Si basano sull’esito
75
Medico o dottore? Ti racconto la mia malattia
degli esami, sulla cartella clinica. […] Niente visita fisica, capito?” (
tumore al polmone)
61 anni,
“Sono tre giorni che ho un po’ di bronchite. All’inizio ho preso delle medicine da
sola, poi ho telefonato al mio medico di famiglia che mi ha dato un farmaco senza
farmi una visita di controllo. Come fa a prescrivere l’areosol per telefono, senza
neanche toccarmi? Se fai il medico, il malato lo devi seguire! Allora che ci sta a fare
il dottore? [tono alterato] La visita al malato è un dovere del medico.” ( 74 anni,
controllo mammografico)
“Qui invece ci sono medici ‘curativi’. Perché al contrario i dottori prescrivono le
medicine e basta, non ti guardano proprio in faccia. Se io mi sento male e vado dal
dottore, quello non ti visita proprio, guarda i documenti e neppure ti tocca! Ma se
non ti tocca, che dottore è? [tono sdegnato]. Allora posso fare pure io il dottore,
scusa: sto seduto e scrivo!” ( 78 anni, tumore al polmone)
Non ci si deve sorprendere se la scarsa cura prestata agli aspetti relazionali,
dovuta alla deriva sempre più parcellizzata e specialistica della medicina, produce
un parallelo deficit di compliance da parte dei pazienti: il più delle volte, ciò si deve
assai più alla mancata instaurazione del vincolo di complicità tra malato e terapeuta
che non alla semplicistica spiegazione dell’esistenza di un divario di conoscenze tra
specialisti e profani o dell’imperfetta comprensione da parte di questi delle prescrizioni (v. Taussig 2006). Le parole di una paziente oncologica, pienamente consapevole della serietà delle sue condizioni, mostrano con drammatica chiarezza come
a volte la scarsa qualità del rapporto col medico – specie se viziato da un atteggiamento autoritario – possa avere esiti altamente rischiosi:
“Io lo dicevo a mia sorella quando andava a cercare il dottore, che mi serve a me
uno che collabori con me, perché se mi dici: «Fai questo, fa’ quello!»… Io c’ho
bisogno di questo, perché io lo so come sono fatta: io mi giro il tacco e me ne
rivado, e poi aspetto altri tre anni, se sopravvivo.” ( 40 anni, serba, TAC per
metastasi polmonari)
In questo senso, effetti senz’altro controproducenti ha la forte connotazione
gerarchica intrinseca ad ogni rapporto terapeutico e che il contesto ospedaliero
non fa che enfatizzare ulteriormente:
“Il problema più grosso ce l’hanno i medici, che se pensano de sta’ un palmo
sopra gli altri! È quello che non riesco a capi’! Per quale motivazione? Cioè, non è
che la laurea ce l’hanno solo loro!” ( 45 anni, frattura di tibia e perone)
“A me la gente che ti aggredisce mi dà fastidio, ‘sta gente che ti parla con un
tono un po’ così, altezzoso. E poi figurati: tu già stai steso, quella ti parla dall’alto,
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2. La malattia e il suo orizzonte culturale e sociale
e tu ti devi giustificare stando stesa, ma insomma… Intanto parlami con un tono
più gentile e soprattutto alla stessa altezza. E poi, ma se lo vedi, lo vedi! No tutte
quelle domande: «Chi je ‘a messo, chi non je ‘a messo?» Scusa, ma se io te porto
tutta la documentazione, allora, tu prima de farmi le analisi, perché non te leggi
tutto? Te guardi tutto prima, e poi me fai le analisi!” ( 55 anni, tumore al colon,
metastasi polmonari)
Come corollario dell’atteggiamento gerarchico (top-down) che talora caratterizza i rapporti, vi è da parte di molti pazienti la sensazione di non esser trattati
come delle persone, ma come oggetti, corpi, esseri incompleti (cfr. Taussig 2006);
cosa che fisicamente i malati senz’altro sono, sul piano fisiologico, ma senza che ciò
ne attenui le facoltà percettive, la capacità di volizione e la sete di rispetto e autonomia. Anzi, non di rado la condizione di sofferenza ha l’effetto di acuirle:
“Le emozioni fanno molto. Qui in ospedale invece si è estremamente attenti unicamente al lato corporeo della malattia, ma non a quello interiore. Io non sono un
organo malato, invece qua il paziente diventa un oggetto, spostato e toccato a
piacimento, specialmente in questo reparto. […] È più un modo di vedere il malato,
che è comune a tutto il personale. Io non mi aspetto di essere coccolata, ma rispettata per quello che sono, cioè una persona che soffre [tono stizzito]. La malattia non
si può eliminare dalla vita, è connaturata ad essa, va accettata: se c’è un inizio, c’è
anche una fine. Ma la dignità permane.” ( 67 anni, difficoltà respiratorie)
“Non lasciarli con la libertà di usare un potere che non gli compete. Qui bisognerebbe stare continuamente a lottare. Una volta facevo sempre le battaglie, mo’ non
mi va più, volevo sta’ tranquillo, e invece! [sorride]” ( 54 anni, trombosi)
“Spesso il malato è portato qui di notte, quando è tutto buio, e questo sviluppa un
senso di panico. Si avrebbe bisogno di un parente vicino o di un infermiere che
abbia tempo e pazienza. Qui invece sembra che dettino ordini: ci vorrebbe qualcuno che rassicuri il malato, che gli stia vicino insomma. Ma il parlare richiede
tempo, pazienza, voglia e disponibilità.” ( 67 anni, difficoltà respiratorie)
Al di là del dolore e della presa di coscienza della propria caducità, una delle
menomazioni che più pesano ai pazienti è quella di ciò che con un brutto neologismo
viene chiamato “agentività” (dall’inglese agency), ovvero la capacità di conoscere,
decidere, agire in maniera autonoma e responsabile, che spesso chi è ammalato
perde per la sua condizione, ma che in aggiunta si vede anche sottrarre da terzi
(medici, infermieri, familiari…), con un aggravio di sofferenza che accresce la sua
frustrazione:
“Me pare che so’ ‘ncatenato. Non puoi anna’ a puli’, non poi annatte a pia’ un caffè.
Nun poi scenne. Nun poi fa’ questo, nun poi fa’ quell’artro. Quindi adesso co’ ‘a
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Medico o dottore? Ti racconto la mia malattia
trasfusione nun posso fa’ niente, nun posso magna’, ecco.” ( 65 anni, flebite)
“Un giorno fai il ribelle, il giorno dopo ti adegui. Alla fine tutto è organizzato
secondo le esigenze dell’ospedale, non del malato. […] Anche perché tante volte
uno col tumore non sta male all’esterno, può condurre una vita diciamo regolare,
certo nel limite delle forze. A me non mancano le forze, ma la possibilità di fare
qualcosa.” ( 61 anni, tumore al polmone)
“Dipendere totalmente dagli altri è la condanna più terribile: il non saper gestire il
proprio corpo.” ( 67 anni, difficoltà respiratorie)
Tanto più apprezzato sarà, per converso, quel tipo di rapporto che, impostato in
termini paritetici, pur nella chiarezza dei ruoli e delle rispettive competenze, mette
il paziente in grado di sapere e decidere consapevolmente sul percorso da seguire:
“[Dom.: Com’è la comunicazione tra lei e il medico?] Ottima. Il medico dà informazioni chiare e precise e io posso liberamente esporre le mie esigenze e le
difficoltà. Il percorso di cura viene deciso in modo compartecipativo.” ( 50
anni, problemi dietologici)
Prevedibilmente, per la maggior parte dei pazienti l’efficacia delle terapie cui
vengono sottoposti dipende in grande misura anche dalla capacità che il personale
sanitario dimostra nel saper infondere fiducia e speranza. Come s’è già visto in
precedenza, anche quando una effettiva soluzione dei problemi clinici non è
realisticamente accessibile, non è detto che siano precluse altre forme d’aiuto capaci di dare un senso alla stessa esperienza di malattia, di riorientare l’atteggiamento
nei confronti della sofferenza e della finitudine umane, di lasciare la via aperta a
forme di una “guarigione” altrimenti intesa. È quanto rivelano le parole di una paziente afflitta da una grave quanto dolorosa malattia cronica, che sulla base delle
proprie radicate convinzioni religiose formula una netta distinzione proprio tra
“cura” e “guarigione”:
“Il processo della fede è un processo lungo; cioè Dio non è un mago, che magari tu
dici: «Signore, io ho bisogno di questo» e lui c’ha la bacchetta magica. No, è un
processo di fede, è un cammino, che ti cambia dentro, che ti cambia in tante cose,
poi alla fine tu ottieni quella benedizione. Ma prima di ottenere quella benedizione
naturale e fisica, ne ottieni tante a livello spirituale. Quindi questa è la mia forza. […]
Questa è la mia terapia alternativa: la fede, io credo nella fede, e attraverso l’esercizio
della fede… La parola di Dio si realizza nella mia vita attraverso l’esercizio della fede,
è questa la mia terapia alternativa. […] Non pretendo molto da loro, dai medici
intendo, il medico ti può curare, ma non guarire. A quello ci pensa Dio. Quindi non
mi aspetto chi sa cosa - capisci che intendo? - io aspetto la benedizione di Dio, e se
guarirò sarà merito suo, e basta.” ( incinta, 24 anni, Rettocolite ulcerosa)
Ma anche senza sconfinare nel ricorso al trascendente, i pazienti hanno chiara la
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2. La malattia e il suo orizzonte culturale e sociale
percezione di quanto pesi – nel cercare la soluzione dei propri problemi – la minuta
conoscenza delle idiosicratiche peculiarità del proprio organismo e la fiducia nelle
sue capacità di reazione, così come una disposizione d’animo positiva.
“Tutto è soggettivo: la sintomatologia è diversa nelle persone, non si sa mai. Io per
esempio mi curo con il pane quando sto male, perché il pezzo di pane mi attenua
le ulcere, e infatti quando ho l’ulcera allo stomaco metto in bocca il pane e mi
passa il dolore. E poi se è qui [si tocca la testa] o se è qui [ si tocca la pancia] che
va meglio, non fa niente, cioè se la terapia o quello che io faccio mi fa bene perché
mi fa bene alla testa o all’intestino, non mi interessa.” ( 35 anni, Morbo di Chron)
Quanto più la presa in carico di un paziente sarà rivolta alla “persona”, a suo
modo unica, anziché al corpo, eguale a infiniti altri, tanto più egli sarà incoraggiato ad
accettare di buon grado – ed a render così maggiormente efficaci – le cure ricevute.
È l’argomento espresso con incisiva immediatezza dalla metafora gastronomica di
uno degli intervistati:
“La terapia agisce meglio se lo spirito è sollevato, almeno credo. Se tu vuoi che una
cosa ti faccia bene, quella cosa ti fa bene. L’umore predispone il fisico ad accettare
i farmaci, ecco. Se invece si ritiene la terapia un suicidio, quella non funziona. Vale
come per il vino: se mi piace, digerisco meglio. Ma se sa di tappo, non digerisco.”
( 61 anni, tumore al polmone)
In questa sezione, presentiamo l’analisi statistica dei dati testuali raccolti nell’ambito del progetto “Ti racconto la mia malattia”. L’uso d’interviste etnografiche per la
raccolta del materiale testuale era funzionale agli obiettivi della ricerca e si collocava
all’interno di un quadro teorico-metodologico ben definito. La successiva analisi sul
materiale raccolto, discussa in questa sezione, è stata condotta a partire da ulteriori
obiettivi identificati dalla committenza; in particolare è stato rilevato l’interesse dell’Azienda, e dell’UOC URP in quanto diretto promotore dell’iniziativa, ad individuare e
pianificare interventi migliorativi della qualità organizzativa e relazionale dei servizi offerti. Le informazioni raccolte attraverso le interviste, per il loro elevato grado di flessibilità
e per la centralità riservata all’intervistato, apparivano particolarmente utili alla messa in
atto di percorsi di valutazione della qualità delle cure in grado di superare la semplice
dichiarazione di “soddisfazione/insoddisfazione” ottenuta mediante indicatori statici. Come
sottolinea Mori (2003) “fare della soddisfazione delle cure un oggetto di indagine, non
significa individuare semplicemente efficaci strategie di rilevazione, ma elaborare un frame interpretativo a cui ricondurre i dati raccolti. Questa posizione, oltre a garantire
maggiore affidabilità dei dati d’atteggiamento, aiuta a comprendere meglio i meccanismi
organizzativi del servizio, meccanismi che ne influenzano i processi di percezione di
qualità”. Attraverso le interviste, nel progetto è stato possibile “comprendere” il vissuto del cittadino indagando l’impatto della pratica clinica sull’esperienza emotivoaffettiva e valutando le aspettative nei confronti del sistema delle cure.
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Medico o dottore? Ti racconto la mia malattia
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3. Le parole della malattia: analisi statistica dei dati testuali raccolti attraverso le interviste etnografiche
3. Le parole della malattia:
analisi statistica dei dati
testuali raccolti attraverso
le interviste etnografiche
3.1 Costrutti teorici di riferimento:
narrazione, testo e contesto
L’uso di interviste e più in generale di dati di tipo qualitativo per lo studio della
“esperienza di malattia” si iscrive all’interno della cornice teorica della Medicina
Basata sulle Narrazioni (Narrative-Based Medicine) (Elwyn & Gwyn, 1999); questa
nasce negli USA ad opera della Harvard Medical School e costituisce lo sviluppo
operativo di alcune acquisizioni teoriche della Sociologia della Salute e dell’Antropologia medica di orientamento ermeneutico (Kleinman, 1973). Attraverso la narrazione, la persona che racconta produce una costruzione di senso e descrive un’esperienza riportando le emozioni ad essa correlate con riferimento ad un determinato
contesto relazionale e culturale. A partire dalle narrazioni di malattia e dalla
valorizzazione della percezione soggettiva che l’individuo ha della malattia (intesa
come illness) è possibile quindi, individuare le componenti sociali e culturali della
medicina. Un ulteriore utilizzo delle informazioni raccolte è quello legato alla
individuazione, pianificazione e realizzazione di interventi di miglioramento continuo della qualità delle cure a livello tecnico-organizzativo e relazionale; esperienze
significative a riguardo sono state promosse in Italia dalla Società Italiana di Sociologia
Sanitaria (SISS) di Bologna che, dagli anni ’90, porta avanti iniziative tese a sottolineare l’importanza delle narrazioni e dei testi raccolti da cittadini, operatori e caregivers
nel dare forma e nel valutare la qualità delle cure sanitarie (Giarelli e al, 2005).
Per quanto riguarda invece le operazioni di interpretazione dei risultati e il loro
utilizzo, queste sono state effettuate entro uno stretto riferimento tanto agli obiettivi
della committenza quanto al quadro teorico-metodologico dell’Analisi Emozionale
del Testo (AET) (Carli & Paniccia, 2002). L’AET è un metodo di ricerca intervento,
finalizzato alla conoscenza e allo sviluppo delle relazioni individuo-contesto e trova
applicazione in diversi campi tra cui quello sanitario. Il termine “contesto” non è
utilizzato come sinonimo di ambiente, non indica le condizioni materiali, il luogo, nel
nostro caso l’Ospedale dove si svolge il ricovero, ma fa riferimento all’insieme delle
relazioni che si istaurano ed entro le quali ciascuno vive la propria esperienza: il
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Medico o dottore? Ti racconto la mia malattia
contesto in quanto tale influenzerà attivamente il vissuto di tutti coloro che condividono un’esperienza. Nel nostro caso, indagare la relazione tra individuo e contesto equivale a prendere in considerazione il contenuto emozionale che l’esperienza
del ricovero ospedaliero ha assunto per ogni soggetto. Partendo dalle produzioni
narrative di più persone che hanno in comune il contesto è stato possibile indagare,
leggendole su un piano “emozionale”, le rappresentazioni dell’esperienza di ricovero condivise dal gruppo di soggetti coinvolti nella ricerca. Il risultato conoscitivo
dell’AET è la “cultura locale” definita come l’insieme delle rappresentazioni dell’esperienza di ricovero; essa si articola al proprio interno in “sottoculture” che
chiamiamo “repertori culturali” e che corrispondono alle classi di parole individuate
nell’analisi. Le parole sono state considerate singolarmente non tenendo conto del
sistema di relazioni che le univa entro il “significato” e selezionando le parole “dense” che rimangono dopo l’eliminazione delle parole strumentali, necessarie alla sintassi. Le parole dense sono quelle che più di altre veicolano le componenti emozionali del testo e che, a differenza di altre, hanno meno bisogno del contesto linguistico per avere come risultato l’istituzione di una relazione. Esse rinviano ad un contenuto e all’interno di una frase, contribuiscono significativamente all’interpretazione
del testo. Nell’analisi sono definite parole “vuote” (es. il, e, che, di, etc…) le parole
presenti in una frase in rapporto con altre parole che non possono essere sostituite
con parole equivalenti; non esprimono un contenuto interessante ai fini dell’analisi e
spesso hanno un significato esclusivamente grammaticale che può essere stabilito
solo in relazione con altre parole.
Si tratta di una distinzione strumentale ai fini dell’indagine che consente di mettere in rilievo quelle espressioni o termini significativi (le parole dense) che, in base
al modello interpretativo utilizzato (Carli e Paniccia, 2002), sono impiegate per
confrontare le esperienze e i “punti di vista” degli intervistati. Nel nostro caso,
esempi di parole dense sono state: ‘medico’, ‘dolore’, ‘madre’, ‘terapie’, ‘malattia’ che
sono appunto in grado di veicolare emozioni anche senza che siano inserite all’interno di un contesto linguistico. La parola ‘andare’ di per sé invece ha bisogno di un
contesto linguistico, cioè di un’altra parola per significarci qualcosa di emozionale;
questa parola può essere ‘via’ allora ‘andare via’ diventa un’espressione che descrive
il vissuto collegato ad un’esperienza reale, qual è quella del ricovero. Per il processo
interpretativo è necessario considerare l’insieme delle parole dense e non le parole
prese isolatamente. Tutto il processo interpretativo si svolge inoltre prestando una
forte attenzione alla relazione tra chi produce quel dato (nel nostro caso le persone ricoverate in Ospedale) e chi ha un potenziale interesse ad utilizzarlo: la
committenza (la Direzione, l’UOC URP e/o le diverse articolazioni organizzative
dell’Azienda stessa). Questa attenzione agli obiettivi della committenza rimanda alle
finalità più generali del contesto sanitario che, nel progetto “Ti racconto la mia
malattia” è descritto, con ricchezza di particolari, a partire dal punto di vista del
cittadino.
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3. Le parole della malattia: analisi statistica dei dati testuali raccolti attraverso le interviste etnografiche
3.2 Definizioni, concetti generali e strumenti
dell’analisi statistico-testuale
Nel progetto “Ti racconto la mia malattia” si è partiti da una scansione automatica dei testi raccolti mediante le interviste etnografiche e con l’aiuto del computer
si è proceduto quindi allo studio del lessico su base statistica. Negli ultimi anni, le
potenzialità del computer e, in generale, degli strumenti di information retrieval
hanno favorito lo sviluppo delle tecniche quantitative di dati qualitativi tra cui l’analisi statistico-testuale (Bolasco, 2002). Questa consente di studiare le varietà sociolinguistiche di una popolazione attraverso il confronto di differenti profili di frequenze lessicali: quanto quella parola è usata da quella categoria di soggetti. La conoscenza approfondita della popolazione in studio, può favorire l’individuazione e
l’implementazione di interventi organizzativi, evidenziando quei fattori che, a livello
della “cultura locale”, possono influenzarne l’esito.
Il tessuto linguistico del discorso è suddiviso o costituito da frasi che esprimono
pensieri come enunciati completi. Le frasi messe in sequenza costituiscono un discorso o un testo quando il discorso è trascritto. Un testo può essere costituito da
una sola frase e permette di restituire il significato delle parole anche quando queste prese isolatamente sono ambigue (es: legge come sostantivo o voce del verbo
leggere). L’insieme dei testi sui quali si effettua l’analisi si definisce “corpus”. Il corpus
è come un database ed è “sfogliabile” in differenti modi a seconda dell’obiettivo di
analisi. Lo studio del corpus è volto ad un’ analisi del contenuto (incentrata su cosa
è presente in un testo, i tratti semantici) o ad un’analisi del lessico (Bolasco, 2002).
Il lessico è quell’insieme virtuale e astratto di segni linguistici, esistenti nella memoria collettiva di una comunità o in quella di un individuo, da cui possono essere
estratte tutte le parole di un potenziale discorso. Il lessico di un individuo è un
riflesso delle sue origini, dell’esperienza, della cultura acquisita, in sostanza delle sue
appartenenze socio-antropologiche (Laudanna & Burani, 1993).
Nel progetto, il corpus era costituito dall’insieme delle trascrizioni delle interviste
etnografiche, che rappresentavano quindi i nostri testi. Unità di analisi era la parola
scritta che nell’analisi statistico-testuale è rappresentata da ogni sequenza di caratteri
(forma grafica) delimitata da separatori che appare o ricorre in un testo. Più precisamente, la parola come forma grafica è convenzionalmente definita come sequenza di
caratteri di un alfabeto predefinito, delimitata da due separatori (definiti in quanto
caratteri non appartenenti all’alfabeto, es.: <blank> . , ; : ? !, le virgolette, i trattini ma
anche ogni carattere speciale @ & $). È evidente che una catena di caratteri non è
necessariamente una parola di senso (es <carta> e <catra> che è un errore ortografico). La parola scritta o forma grafica è detta “occorrenza”. Questa ha tante repliche
diverse che possono derivare da significati diversi (polisemia). Ci possono essere significati che hanno una stessa forma grafica ma che appartengono a due parole diverse
(omonimia): es. legge; oppure si possono trovare due forme grafiche diverse che
esprimono lo stesso significato (sinonimia): es. stato e condizione. Alcune parole ac-
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Medico o dottore? Ti racconto la mia malattia
quistano un significato specifico in unione con altre parole: es. terapia e terapia intensiva; famiglia e medico di famiglia. Per limitare tutte le ambiguità legate alla parola
scritta sono state effettuate sul corpus delle operazioni di “pre-trattamento” attraverso l’uso di un software dedicato. Nell’analisi ci siamo avvalsi di software, indispensabili per lo studio di testi di grandi dimensioni quali quelli raccolti nel corso del progetto. L’uso di tali software è strettamente legato al progressivo diffondersi di tecniche di
indagine non standard (interviste, focus group) in ambito psicologico e sociologico. In
passato l’operazione di classificazione di un testo da analizzare richiedeva il ricorso a
evidenziatori, fotocopie, forbici e schedari. L’avvento e la diffusione del computer ha
certamente semplificato questa fase preliminare dell’analisi, e nel 1988 Morgan consigliava di ricorrere a un qualsiasi word processor per la codifica, il recupero e l’organizzazione del testo. Già alcuni anni dopo (1994) Miles e Huberman proponevano una
classificazione di 22 software utili per l’analisi dei testi; i diversi pacchetti si distinguevano per le possibilità offerte all’analista: codifica, ricerca e recupero delle informazioni,
registrazione delle note a latere, connessione dei dati, presentazione dei network,
costruzione di matrici, rappresentazione di reti concettuali. La dizione utilizzata genericamente per questi pacchetti informatici è CAQDAS (Computer Aided Qualitative
Data Analysis). Nel progetto si è scelto di utilizzare i programmi Taltac e Spad-T® che
“lavorano” sul corpus con strumenti statistici.
TALTAC (Trattamento Automatico Lessico-Testuale per l’Analisi del Contenuto)
è un software per l’analisi del contenuto nato negli anni Novanta dai risultati di
ricerche svolte presso le Università degli studi di Salerno e Roma “La Sapienza” che
consente il trattamento automatico di dati linguistici secondo i principi della “statistica testuale” in funzione di un’analisi del contenuto.
Lo Spad-T® è un software di origine francese orientato all’analisi statistica di un
testo secondo un approccio lessicometrico.
Le tappe seguite nell’analisi statistico-testuale sono quelle suggerite in letteratura (Francesca della Ratta 2000; 2001) e che riporteremo brevemente di seguito.
Una prima fase ha comportato la preparazione dei testi e il pre-trattamento del
corpus. Le interviste etnografiche realizzate dagli studenti erano state dapprima
registrate integralmente mediante un registratore e, in un secondo momento trascritte. Le ricercatrici che hanno ricevuto questo vasto materiale hanno costruito
un proprio sistema di codifica, rinominando ed organizzando i testi in modo da
assegnare a ciascun file (che conteneva il testo di una singola intervista) una numerazione progressiva. Successivamente si è proceduto a “pulire il testo” ovvero ad
eliminare tutti gli interventi e le note dell’intervistatore e a tradurre espressioni
tipiche del gergo e le parole dialettali. Le interviste sono state quindi analizzate con
il software TALTAC per la fase di pre-trattamento. Obiettivo del pre-trattamento
dei testi è quello di ridurre le eventuali ambiguità individuando le parole che caratterizzano il più possibile il discorso oggetto di studio. Nell’analisi testuale, le parole
o meglio, le forme grafiche sono considerate singolarmente non tenendo conto del
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3. Le parole della malattia: analisi statistica dei dati testuali raccolti attraverso le interviste etnografiche
contesto linguistico entro cui sono inserite e dei sistemi di relazione che le uniscono tra di loro. Ciò può portare allo stravolgimento del significato della parola o alla
sua non esatta collocazione all’interno del contesto di ricerca a causa dei fenomeni
di polisemia, omonimia e sinonimia. Per evitare questi inconvenienti, le forme grafiche vengono ricondotte a lessie . In questo modo le unità minimali di senso (singola
parola ma anche espressione idiomatica) sono collegate ad una sola occorrenza di
senso compiuto, ad esempio il termine “terapia” ed “intensiva” saranno considerati,
nel nostro caso, come un unico blocco “terapia_intensiva”.
Quelli appena descritti sono i primi passi del trattamento preliminare di un testo
che costituisce una parte importante del processo di analisi condotto con TALTAC
finalizzato alla scelta, nel sottoinsieme di parole selezionate per l’analisi, di quelle su
cui intervenire per accrescerne il livello informativo. In sintesi, nel trattamento del
dato testuale viene ridotta l’ambiguità (disambiguazione) e migliorata la monosemia
(univocità dei significati), cercando, nel contempo, di lasciare intatto il contenuto del
testo con il suo sistema di variabilità dei significati. Tra altri interventi effettuati sul
testo nella fase di pre-trattamento citiamo la normalizzazione e la lemmatizzazione:
la prima è un processo che prevede il riconoscimento di quelle forme grafiche che
nel discorso costituiscono unità di senso (es. <chirurgia_d’urgenza>). Nella
lemmatizzazione invece tutte le forme grafiche (comprese quelle non disambiguate)
vengono classificate (fuse) nel lemma corrispondente: es. laddove possibile tutte le
coniugazioni del verbo <essere> sono state ricondotte al lemma corrispondente.
Una volta raggiunto un buon livello del dato linguistico come dato statistico si
procede alla valutazione del vocabolario con l’uso di misure lessicometriche; queste
indicano, ad esempio, il totale delle occorrenze o dimensione del corpus, ossia il totale
delle forme grafiche intese come unità di conto e il totale delle forme grafiche o
ampiezza del vocabolario corrispondente al totale delle forma grafiche distinte. Nel
nostro caso la “matrice di dati” ottenuta dopo il trattamento automatico del testo
(effettuato con il software Taltac) era costituita da 223.226 parole: si trattava quindi di
un corpus di grandi dimensioni (Giuliano, 2004). Il vocabolario era costituito da 15.212
forme grafiche; queste non corrispondono esattamente al numero di parole in quanto, a seguito delle operazioni di pre-trattamento effettuate sul corpus (normalizzazione,
lemmatizzazione etc..), sono state individuate quelle forme grafiche (es.
terapia_d’urgenza) che devono essere considerate come un’unica occorrenza. Nella
fase successiva vengono effettuate analisi statistiche dei dati testuali. Nel nostro caso,
durante il pre-trattamento, erano state calcolate le sub-occorrenze che consentono
di valutare la frequenza d’uso di una parola rispetto ad alcune variabili quali ad esempio, il genere, la classe di età, il reparto di ricovero. Per l’analisi la matrice di dati era
costituita quindi dalle forme grafiche selezionate, che si trovavano in riga, mentre in
colonna vi era una serie di variabili elaborate in Taltac (occorrenze totali, categoria
grammaticale, scarto sulle occorrenze). Sono state applicate tecniche tecniche statistiche multidimensionali che consentono di studiare la co-occorrenze delle parole a
85
Medico o dottore? Ti racconto la mia malattia
partire dalla loro vicinanza nei piani cartesiani. In pratica le singole parole rappresentano gli indizi da cui procedere per ricostruire vere e proprie mappe del contenuto
del testo, che forniscono spesso una rappresentazione globale del senso sottostante il
discorso. A tal fine la matrice dei dati ottenuta utilizzando il software Taltac è stata
importata in Spad-T® dove sono state eseguite gradualmente buona parte delle fasi
della procedura di analisi multidimensionale, nel nostro caso analisi delle corrispondenze semplici. Questa analisi ha consentito di descrivere come le parole si associano
alle categorie di pazienti intervistati. Nel nostro caso l’obiettivo era quello di individuare poche dimensioni (chiamate fattori) in grado di riprodurre la maggior parte
dell’associazione presente fra le parole. Le variabili/modalità associate alle interviste
(es. sesso, classi di età, reparto di ricovero) sono state distinte in variabili attive (che
concorrono direttamente alla formazione degli assi fattoriali) e illustrative che non
contribuiscono alla formazione dei fattori ma sono utilizzate attraverso la loro collocazione sugli assi fattoriali, per interpretare i fattori e studiare eventuali legami di
interdipendenza con questi. Nel nostro caso le discriminanti per spiegare il modello
delle corrispondenze semplici sono state le parole selezionate dopo il pre-trattamento del corpus (frequenze attive) e le variabili socio-demografiche e il tipo di reparto
(variabili illustrative o identificatori). Per l’interpretazione dei risultati dell’analisi delle
corrispondenze semplici si è scelto un approccio cosiddetto “fattorialista” che si concentra sulla individuazione e definizione dei singoli fattori valutando soprattutto i contributi più rilevanti delle variabili attive. Sono stati scelti i primi tre fattori che spiegavano il 62,8% di inerzia del set di variabili e presentano il margine più ampio. Una volta
individuati i fattori si possono rappresentare le variabili modalità e/o i casi sotto forma
di una nuvola di punti (vedi figura 1) In generale si può ritenere che più un punto è
lontano dall’origine, maggiore è il suo contributo alla formazione dell’asse stesso. I
punti sono proiettati su un piano fattoriale utilizzando le coordinate prodotte sulla
base di associazioni tra le variabili/modalità e i fattori. Si analizza la forma della nuvola
di punti e la distanza tra questi (valutando il valore dei coseni quadrati elevati): in
questo modo si può desumere la struttura della relazione tra le variabili e fra queste
e i fattori. Nel caso del progetto di ricerca “Ti racconto la mia malattia”, tale metodologia
di analisi dei dati ha consentito di evidenziare le specificità di linguaggio legate al vissuto
di malattia e di cura dei pazienti intervistati a partire dai modelli interpretativi utilizzati
per l’Analisi Emozionale del Testo (Carli & Paniccia, 2002).
Risultati
L’insieme di testi o corpus da cui si è partititi per l’analisi era costituito da 85 file di
testo corrispondenti alle 85 delle 86 interviste ai pazienti. I testi sono stati classificati
in base ad alcune variabili quali il genere dell’intervistato, la classe di età, lo stato civile,
la condizione lavorativa, la provenienza e il “setting dell’intervista” ovvero il tipo reparto o ambulatorio, la data e ora dell’intervista, la disponibilità all’intervista. Nella
tabella 1 sono presentate le principali caratteristiche del campione in studio.
86
3. Le parole della malattia: analisi statistica dei dati testuali raccolti attraverso le interviste etnografiche
Tabella 1. Principali caratteristiche del campione di soggetti intervistati (N=85)
Nel campione di intervistati si è rilevata una leggera prevalenza di donne (56,5%
vs. 43,5) e di soggetti con età “50+” (58,8%). La distribuzione per età è legata alla
strategia adottata in fase di campionamento e non rispecchia quella della popolazione di riferimento (gli utenti dell’Ospedale) che, come risulta dai dati del sistema
informativo ospedaliero, presenta una distribuzione per età spostata verso le classi
più elevate. La maggior parte dei soggetti intervistati ha dichiarato di essere “coniugato/a” (56,5%) mentre la condizione lavorativa più frequentemente indicata è stata
“lavoro a tempo pieno” seguita da “pensionato/a” e “casalinga” (rispettivamente
23,5% e 17,6%). Per quanto riguarda la provenienza, i tre quarti dei soggetti intervistati proviene dalla città di Roma. Particolarmente rilevante la quota di soggetti
provenienti da altre regioni che, nel nostro campione era pari al 15,3%; questo
ultimo dato è da mettere in relazione alla presenza presso l’Azienda Ospedaliera
San Camillo-Forlanini di centri d’eccellenza in alcune specialità che favoriscono la
provenienza di cittadini da tutta Italia. La quota di soggetti provenienti dall’estero
appare anch’essa piuttosto elevata, pur essendo ben di sotto della prevalenza di
stranieri nella città di Roma che, secondo le stime più recenti, si aggira intorno al
10% (Osservatorio Romano sulle Migrazioni, 2006). Ciò è dovuto ad un minor ricorso ai servizi sanitari da parte di stranieri (Materia et al., 1999) ed alla selezione
per l’indagine di soggetti che avessero una buona capacità di espressione orale nella
lingua italiana.
87
Medico o dottore? Ti racconto la mia malattia
Nella figura 1 sono presentati i primi due assi fattoriali e alcune delle forme
grafiche che hanno contribuito ad individuarli. Nella lettura della figura 1 che mostra
le proiezioni dei semipiani positivi e negativi individuati dal primo e del secondo
fattore occorre tener conto della disposizione nello spazio dei punti. Secondo una
logica interpretativa di tipo “geometrico strutturale” il piano individua aree ben
distinte, che ricostruiscono profili tipici dei soggetti coinvolti, discussi ampiamente
nel paragrafo successivo.
Nella tabella 2 sono indicati per i primi 3 assi fattoriali, i contributi delle principali
parole. Ad esempio la parola <dolore> contribuisce all’individuazione dell’asse 1, mentre
l’asse 2 è individuato in modo <moglie> che fornisce il più elevato contributo relativo.
La tabella 3 mostra i contributi degli individui alla individuazione degli assi.
Figura 1 – Proiezione dei primi due assi fattoriali, sub-occorrenze e traiettorie dei punti
3.3 Le relazioni in primo piano
Analizzando complessivamente il materiale testuale raccolto attraverso le interviste etnografiche, emerge una base interpretativa composta da due assi principali: il
primo che ruota intorno alla rete di relazioni familiari, affettive, istituzionali che
entrano a far parte inevitabilmente dell’esperienza di malattia e la strutturano, il
secondo che invece riguarda espressamente il percorso di malattia e cura che ogni
individuo affronta in maniera personale all’interno dell’ospedale.
Per quanto riguarda il primo asse: le relazioni, è bene precisare che esiste una
polarità piuttosto accentuata tra relazioni e cure “familiari” e tra relazioni e cure
“ospedaliere”.
88
3. Le parole della malattia: analisi statistica dei dati testuali raccolti attraverso le interviste etnografiche
Tabella 2 - Contributi delle forme grafiche parole sui primi 3 assi fattoriali
Tabella 3 - Contributi degli individui sui primi 3 assi fattoriali
89
Medico o dottore? Ti racconto la mia malattia
Esiste infatti una distinzione tra coloro che vivono la patologia non solo come
esperienza “fisiologica e psicologica” personale ma la condividono, la comunicano e
talvolta riescono ad affrontarla solo grazie alla presenza forte e costante di un contesto familiare da cui ricavano conforto e protezione e coloro che prendono atto
del problema, in genere le persone più giovani e con un grado di istruzione medio alto, in cui è più evidente una spinta al cambiamento, alla forza propulsiva intrinseca
nei soggetti che concepiscono l’istituzione ospedaliera come un luogo in cui si agisce
concretamente <intervento>, <farmaci>, <terapia>, <da sola> per migliorare le proprie condizioni fisiche.
Nel primo caso, la presenza ed il ruolo dei principali caregivers <marito>, <figlio>, <moglie> diventa, particolarmente importante per le persone anziane e con
basso livello di istruzione culturale che “subiscono” o accettano passivamente la
malattia, la cura e l’organizzazione sanitaria e che sentono troppo distanti le figure
di riferimento quali medici, operatori etc., il loro livello di interazione con queste
figure è infatti quasi sempre “mediato” dai caregivers.
Per questa categoria di soggetti appare necessario rafforzare il legame tra la
rete familiare e quella istituzionale per concepire ed offrire occasioni e momenti di
incontro finalizzati a migliorare la qualità della vita dei pazienti, offrire servizi più
adeguati, interagire in modo efficiente per favorire l’efficacia delle terapie.
Il secondo asse interpretativo fa riferimento, invece, ai temi centrali della narrazione/ percezione del percorso di malattia e cura che si divide in base alla scelta
fatta dai ricercatori di predisporre tracce di intervista diverse per i pazienti ricoverati in reparti di degenza e quelli che entrano in contatto con l’ospedale per un lasso
di tempo limitato - non degenza.
Come è evidente, nelle interviste rivolte a pazienti degenti nei reparti, gran
parte delle narrazioni, dei racconti di malattia sono stati dedicati a elementi che
abbiamo ricondotto al tentativo di riflettere e comprendere ciò che sta accadendo
al proprio corpo <da solo>, <ricoverata>, <tranquilla>; nelle interviste effettuate
con pazienti di strutture ambulatoriali, invece, emergevano più frequentemente
tematiche specifiche quali l’organizzazione dei servizi sanitari, il lavoro degli operatori (medici, infermieri, tecnici), che nell’insieme compongono un’area che abbiamo
denominato ‘sistema di ricovero e cura’ con il ricorso frequente a termini quali
<intervento>, <TAC>, <pronto soccorso>.
Entrambi gli assi sono attraversati dal “vissuto”: le esperienze e il background
familiare e culturale dei soggetti intervistati sono un filtro costante nella loro percezione e descrizione degli eventi. Il “vissuto” emerge in modo evidente nell’analisi
con Taltac: i segmenti ripetuti <adesso>, <penso che>, <parlare>, <ieri>, <mi ricordo> connotano l’espressione di opinioni personali ancorate all’esperienza.
Due elementi particolarmente significativi sono sembrati, inoltre:
• la costante attenzione dei pazienti per la dimensione temporale che caratterizza
in maniera evidente tutti i semipiani (figura 1), scandisce la vita di reparto <minu-
90
3. Le parole della malattia: analisi statistica dei dati testuali raccolti attraverso le interviste etnografiche
ti>, <ieri>, <giorni>, <mesi> e condiziona in maniera evidente la narrazione del
decorso di malattia e la strutturazione del ricordo, della memoria;
• la difficoltà nell’accettare la condizione di immobilità fisica e mentale e il senso di
esclusione/ distanza dalla vita quotidiana cui sono costretti i pazienti che spesso
usano verbi come <riuscire>, <camminare>, <funzionare>, <uscire>.
L’analisi statistico-testuale ha messo in luce aspettative ed emozioni, che, pur non
essendo mai in primo piano, hanno rappresentato un elemento costante della
“scenografia” di ricerca e ha evidenziato l’“effetto alone” (Montesperelli, 1998) –
ovvero la tendenza a estendere, a tutto il gruppo o all’intera serie di interviste,
interpretazioni basate sulle dichiarazioni di un singolo partecipante. Si può quindi
dire che nella ricerca della conformità fra ciò che è stato espresso dal gruppo e
l’interpretazione del ricercatore, l’uso di strumenti informatici ha fornito alcuni utili
indizi permettendo anche di superare il rischio di trascurare alcuni importanti elementi disseminati all’interno del testo e ha costituto un valido aiuto in un’analisi che
procede sempre cercando indizi, spunti di interpretazione, elementi inattesi.
Il ricorso ad una metodologia di ricerca basata su tecniche di rilevazione di tipo
qualitativo ha consentito alle ricercatrici di porre a confronto i diversi punti di vista
e far scaturire una sorta di dialogo a distanza tra tutti gli attori coinvolti a vario
livello, in grado di:
• comprendere le esperienze di malattia attraverso l’acquisizione del punto di
vista del paziente/ cittadino;
• stimolare un confronto e una riflessione circa le aspettative e i bisogni degli
assistiti anche in merito alle relazioni con i medici, gli operatori riguardo agli
aspetti organizzativi interni e alle relazioni interne intra ed interprofessionali
e ai rapporti con le istituzioni sanitarie (dai medici di Medicina Generale all’ospedale);
• fornire indicazioni utili, nella pratica clinica, a partire dalle informazioni sulla soddisfazione di pazienti rispetto alle cure e all’assistenza ricevute;
• coinvolgere attivamente la persona sofferente e la rete di supporto familiare e
curativo – assistenziale in un eventuale progetto di ricerca integrato;
• sperimentare, per la valutazione della qualità percepita, tecniche di ricerca
qualitative (focus group, interviste, diari di malattia) che risultano più adeguate al
contesto di intervento.
Interrogarsi su come vengano fornite le cure, individuare diversi momenti significativi o critici, focalizzare l’attenzione su possibili indicatori di processo, può
accrescere la comprensione dei fenomeni in cui si è coinvolti e che si contribuisce
a realizzare giornalmente.
La valutazione della soddisfazione del paziente e dei caregivers diviene così un
mezzo che consente di cogliere la complessità dell’incontro clinico. Ecco perché,
91
Medico o dottore? Ti racconto la mia malattia
ad esempio, risulta fondamentale nella fase di presentazione dei risultati tentare
di coinvolgere direttamente tutti gli operatori dei servizi (medici, infermieri, operatori) e gli utenti (pazienti e caregivers) per favorire la condivisione delle valutazioni e dell’individuazione di possibili percorsi di miglioramento, oltre che per
creare una progressiva cultura della misurazione e della qualità.
L’apertura di canali di ascolto e di comunicazione circa i bisogni, le attese, le
segnalazioni, i reclami, le proposte di miglioramento sono, infatti, parte integrante
del sistema di customer satisfaction.
Valutare la qualità percepita dei fruitori di determinati servizi (pazienti e caregiver),
interrogarsi circa la soddisfazione per le cure ricevute e l’organizzazione del sistema assistenziale, vuole dire valorizzare la soggettività degli attori coinvolti.
Significa, inoltre, porre le basi per costruire un incontro dialogico tra tutti gli
attori coinvolti (pazienti, caregiver, operatori, medici).
Solo in questo modo sarà possibile realizzare una mappatura strategica delle
competenze e delle azioni da sviluppare per ottimizzare i processi all’interno dell’Azienda Ospedaliera.
92
Medico o dottore? Ti racconto la mia malattia
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Finito di stampare nel mese di maggio 2008
dalla Tipografia Ricciggraf - Roma
Cristina Astolfi
Esperta in Metodologia e ricerca sociale
Lilia Biscaglia
Assistente di ricerca presso
l’Area Prevenzione e tutela della salute di Laziosanità,
Agenzia di Sanità Pubblica
Anna Iuso
Professore associato di Antropologia culturale
presso la Facoltà di Lettere e Filosofia,
La Sapienza Università di Roma
Alessandro Lupo
Professore associato di Etnologia presso
la Facoltà di Lettere e Filosofia,
La Sapienza Università di Roma.
Collaboratore scientifico all’indagine etnografica sui vissuti di malattia
Giovanna Natalucci
Direttore UOC URP presso
l’Azienda Ospedaliera San Camillo Forlanini di Roma.
Direttore scientifico del progetto di ricerca sui vissuti di malattia