donne chiesa mondo - L`Osservatore Romano

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donne chiesa mondo - L`Osservatore Romano
donne chiesa mondo
Sua madre confrontava
tutte queste cose nel suo cuore
L’OSSERVATORE ROMANO gennaio 2015 numero 31
Alfonso De Lara Gallardo,
«Donne in cammino» (1970)
In cammino
Formano quasi un’unica figura le due donne in
cammino verso Betlemme ritratte — in questo
delicato acquarello e tempera su carta —
dall’artista spagnolo Alfonso De Lara Gallardo.
Le braccia parrebbero disegnare una stella, raggi
di fuoco che lambiscono il cielo ma che sono, al
contempo, proiettati verso la terra. È il nostro
saluto al nuovo anno, nel passo — lieve ma ben
radicato — di un confronto che prosegue,
facendosi sempre più denso. Un cammino che
vorrebbe scandire il dialogo come una preghiera
che domanda, loda, esige e ringrazia. Un
cammino in cui, come ha scritto Adriana Zarri,
«il senso felice dell’arrivo non si oppone al
senso del cammino perché ogni arrivo è una
tappa di un’ulteriore progressione, ma anche
ogni tappa è un arrivo nel già raggiunto
infinito. Allora il protendersi non è più
insofferenza — fuga da — ma speranza: corsa
verso. E l’indugiare non è un perditempo, una
pigrizia, una pantofola calda: è il riposare nel
nido di Dio». Purché il cammino sia insieme.
Nel racconto pubblicato in queste pagine, suor
Megumi, missionaria saveriana giapponese che
ha vissuto per decenni in Brasile prima di
tornare nel suo Paese natale, ci fa sapere che
ogni anno in Giappone si suicidano quasi
ventottomila persone. Una cifra spaventosa che
rivela la tragedia di una crisi profonda, figlia
della disperazione per la mancanza di veri
legami. Inizia un nuovo anno dunque, nella
speranza che il cammino insieme — nel dialogo
e nel dibattito — ci trovi ben consapevoli di
ogni passo. Un cammino che da questo numero
— e per tutto il 2015 — sarà scandito da una
nuova pagina teologica dedicata alla famiglia,
realtà così centrale e così misteriosa, «un
bellissimo azzardo» come la definisce
monsignor Vincenzo Paglia, il presidente del
Pontificio Consiglio per la famiglia, che avvia la
riflessione. «Gli affari — ricorda un personaggio
di Philip Roth — andavano a rotoli, ma la
famiglia no». Siamo pronte a fornirgli elementi
che lo suffraghino. (g.g.)
aveva persuaso gli Stati Uniti a unirsi alla
guerra contro Hitler. Erano una delle poche coppie non ebree sulla lista di quanti
dovevano essere immediatamente uccisi se
ci fosse stata un’invasione da parte della
Germania. Nel 1940, caduta la Francia,
tutti credevano che l’invasione sarebbe avvenuta al massimo entro tre mesi. I miei
genitori volevano rimanere in Gran Bretagna, ma volevano anche proteggere i loro
figli. Così mio fratello, che aveva dodici
anni, e io, che ne avevo nove, fummo
mandati presso alcuni loro amici nel Minnesota, dove rimanemmo per tre anni. Per
tornare a casa, presi una nave neutrale che
subì gravi danni durante una tempesta,
così approdammo in Portogallo. L’aereo
che avrebbe dovuto portarci a casa aveva
a bordo il famoso attore Leslie Howard.
Venne abbattuto e tutti morirono. Fummo
quindi detenuti per due mesi in Portogallo.
Fu allora che comprese che il mondo non era
del tutto bello?
Storia di miracoli
A colloquio con Shirley Williams, una dei politici più amati in Gran Bretagna
di LUCETTE VERBOVEN
Pur essendo baronessa e avendo diritto a
essere chiamata Lady, non ama i titoli:
«Faccio parte della Camera dei Lord per
svolgere un lavoro, non per l’onore».
Inoltre è cattolica in un Paese anglicano e
non ha paura di dirlo: «Vado a messa
ogni domenica perché credo negli obiettivi del cristianesimo. L’opera di Cristo è
diventata sempre più importante nella mia
vita».
La politica dovrebbe essere
la messa in atto
di alcuni precetti del cristianesimo
Se credo nell’uguaglianza assoluta delle razze
è grazie alla visione cristiana
Suo padre le leggeva brani della «Summa
theologica» di Tommaso d’Aquino quando era
solo una bambina di otto anni. Come vede
oggi la sua educazione?
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Ero una bambina vivace. Mi arrampicavo su tutto ciò su cui ci si poteva arrampicare, dagli scaffali con i libri di mio padre
alle tende o ai ponti! Non ho mai accettato di essere seconda a mio fratello. E nella
mia famiglia non si è mai pensato che lui
avrebbe frequentato una scuola migliore
rispetto a me, o che io dovessi dedicarmi
a lavori manuali. Prima dei tredici anni
non mi ero mai resa conto che la maggior
parte delle persone riteneva che le donne
fossero meno intelligenti, meno coraggiose, meno capaci degli uomini. Mi piacevano molto i dibattiti a casa, dove si riuniva-
no tanti ospiti internazionali. Sin da giovane ho provato interesse per la politica.
Si potrebbe dire che mia madre ha fatto
di me una cristiana, mio padre una cattolica. Era un uomo molto intellettuale, un
professore di scienze politiche. Divenne
cattolico da giovane perché convinto
dall’opera di John Henry Newman.
Perché è diventata cattolica e non anglicana
come sua madre?
Per via di mio padre. Era convinto che
la sola Chiesa che potesse giustificare il
suo essere una fonte permanente di pensiero e di dogma cristiano fosse quella cattolica. Inoltre era internazionale, mentre
una Chiesa meramente nazionale, quale
era inizialmente la Chiesa d’Inghilterra,
era contraria alla missione della Chiesa.
Questo non significa che mio padre non
fosse critico. Discuteva a lungo con me di
teologia e sono diventata cattolica a diciott’anni. Parlandomi di san Tommaso,
egli metteva insieme la sua religione e la
sua politica.
Qual è la combinazione tra le due?
La politica dovrebbe essere la messa in
atto di alcuni precetti del cristianesimo.
Questioni come l’educazione dei bambini
provenienti da famiglie disagiate o le buone relazioni tra le diverse razze scaturiscono da principi cristiani. Ma questi non si
attivano se non si trova un modo per trasformarli in legge. Se credo nell’uguaglianza assoluta delle razze è grazie alla
visione cristiana che ogni essere umano,
uomo o donna, nero o bianco, ha nel proprio cuore la divinità di Dio. Sono tutti
creazioni divine. La politica mette in pratica la teoria; senza di essa il cristianesimo
diventa ipocrita.
La sua consapevolezza politica è stata influenzata dal cattolicesimo. E la sua consapevolezza sociale?
L’elemento del cattolicesimo che mi ha
sempre molto attratta è la dottrina sociale
della Chiesa. Negli anni Settanta dello
scorso secolo sono stata in America latina:
pensai che la teologia della liberazione
fosse il cristianesimo messo in pratica. La
cosa triste della teologia della liberazione
è che in alcuni casi si è inclinata verso il
marxismo, che ha sfornato una propria
nuova élite. Poi ho compreso il pericolo
della teologia della liberazione: il singolo
essere umano ha perso la sua divinità, la
qualità infinita di essere creato da Dio. A
ogni modo, alcuni dei leader politici recenti più interessanti sono venuti
dall’America latina: Lula da Silva in Brasile o Michelle Bachelet in Cile. Sono impegnati nella guerra contro la povertà, talvolta correndo loro stessi grandi rischi. Si
identificano con la gente semplice, i lavoratori comuni. E da questo emerge una
forma più ricca di cattolicesimo, che non
dipende dal potere. È incoraggiante per la
Chiesa che il Papa sembri andare al cuore
stesso della struttura del Vaticano e porre
domande difficili sulla Chiesa: riguarda il
potere o riguarda l’amore?
La Chiesa deve essere coinvolta nella politica?
È assolutamente necessario, ma nel senso di perseguire i principi secondo i quali
i cristiani dovrebbero vivere. Per fare un
esempio: l’arcivescovo di Canterbury, Justin Welby, ha insistito sul fatto di far parte del comitato parlamentare per le banche, dove pone domande fondamentali
sulla bussola morale del settore bancario.
Così, di fatto, un’importante figura ecclesiastica porta le regole e i principi propri
Shirley Williams
(Londra, 1930) è tra i
politici più popolari del
Regno Unito. Tra le
prime donne a diventare
ministro nel Governo
laburista del 1974, nella
autobiografia Climbing
the Bookshelves (2009) e
in God and Caesar (2003)
racconta la fondazione di
un nuovo partito
politico, i Democratici
Liberali. Professore
emerito della Kennedy
School of Government
dell’università di
Harvard, è membro
attivo della Camera dei
Lord del Parlamento del
Regno Unito.
Per molto tempo pensai semplicemente
che era terribilmente bello. Avevo sempre
pensato che la creazione fosse una cosa
stupenda. Dopo la guerra, il governo laburista britannico di allora mandò diversi
giovani in Germania per vedere se potevano costruire una nuova relazione per il
mondo post-bellico. Fui una di loro e attraversai in macchina tutta la Germania in
macerie per recarmi alla prima conferenza
socialdemocratica della Germania post-bellica, nel 1948,
fino alla città di Hof, che si
trovava nel settore americano del Paese. Fu la prima
volta che vidi la rovina totale della Germania, persone
che vivevano in buche, chiese e abitazioni in rovina. Iniziai a sentire che il primo
obiettivo deve sempre essere
la fine della guerra. Non sono una pacifista, ma credo
molto nella riconciliazione.
Può fare qualche esempio?
Mia madre che era anglicana
ha fatto di me una cristiana
Mio padre invece
mi ha resa una cattolica
delle Chiese cristiane nel mondo della politica e dice: «Dovete vivere anche secondo standard morali!».
Nella mia vita ho visto
quattro miracoli politici fondamentali. Il primo è stato
Gorbaciov, che permise il
crollo dell’Unione Sovietica
senza che nessuno venisse
ucciso. Poi c’è stato l’abbattimento del muro di Berlino.
Quindi il sorprendente rilascio di Nelson Mandela in
Sud Africa e, più di recente,
le misure per permettere agli
europei dell’Est di entrare a
far parte dell’Unione europea. E, fino al dramma
dell’Ucraina, tutto è avvenuto in un contesto completamente pacifico. Lo dico perché le persone sono molto
ciniche riguardo alla politica, ma di fatto nella politica
c’è una straordinaria storia di miracoli che
si susseguono.
Chi è Dio per lei?
Quali sono i racconti della Bibbia che preferisce?
Stranamente i racconti della Bibbia non
mi attirano tanto, ma ciò che ha avuto un
forte impatto su di me è stato un libro sul
Dio appassionato che mi ha dato un amico. La tesi di questo libro fa riferimento ai
racconti biblici del Nuovo Testamento che
coinvolgono le donne, dove gli apostoli
dicono a Cristo: «Perché perdi il tuo tempo a parlare con quella donna?». Vediamo
ripetutamente Cristo trattare uomini e
donne con pari dignità. Una volta che ci
si allontana dal cammino di Cristo, si osserva che le donne vengono spinte in secondo piano. E questo è vero oggi: nella
stessa Chiesa le donne non sono rappresentate nelle posizioni importanti.
Fondamentalmente vedo Dio in termini
di creatore, come nel dipinto di Michelangelo nella Cappella Sistina: il tocco che
dà la vita agli esseri umani. Vedo anche
Dio come strettamente collegato alle immense forze della natura. In termini più
personali, la vita di Cristo è per me il
cammino verso una qualche comprensione
di Dio. Penso che la Chiesa in qualche
modo sia stata una delusione — troppo
materialista, troppo consapevole del potere — ma la vita di Cristo è il centro persistente della mia fede religiosa. Spero che
la Chiesa istituzionale si avvicini di più alla vita di Cristo e ponga al centro non il
potere ma l’amore, e ritengo che ci sono
segnali che ciò sta iniziando ad accadere
adesso.
Nella sua autobiografia, lei racconta la sua
esperienza durante la guerra. È stata dura!
È tra i politici più amati nel suo Paese: quale il suo segreto?
Fui mandata in America perché i miei
genitori erano entrambi sulla lista nera
della Gestapo. Mia madre, Vera Brittain,
era una scrittrice famosa, ma anche una
pacifista. Il presidente americano Franklin
Roosevelt e sua moglie erano suoi grandi
amici. Mio padre era un accademico che
Una delle cose che bisogna imparare
come politico è l’umiltà quando si ascoltano le storie di tante persone comuni. Non
ho un segreto. La cosa importante da fare
è ascoltare e non respingere gli altri esseri
umani, poiché Cristo può abitare in ciascuno di loro.
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La candela di suor Megumi
L’annuncio del Vangelo in Giappone dopo lo tsunami della globalizzazione
di TERESA CAFFI
egumi Kawano Maria Maddalena è una missionaria saveriana giapponese. Dopo alcuni
anni di servizio missionario in
Brasile, vive oggi nel suo Paese. «Anticamente — dice Megumi parlando
del profondo senso religioso del Giappone —
il nostro popolo aveva una forte spiritualità,
che si esprimeva nell’arte dei fiori, nella ceri-
M
monia del tè, nello sport tradizionale. Non
erano solo arti o discipline sportive: chi li praticava acquisiva anche una spiritualità che aiutava a ben vivere. Il contatto con la natura era
meditativo e, nel mondo shintoista, si percepiva la presenza del soprannaturale. Questa spiritualità sosteneva la nostra vita, ci dava gioia
e senso, anche se questo senso non era ancora
giunto a pienezza».
Con la globalizzazione — prosegue — «queste arti si sono svuotate progressivamente della
loro anima, rimanendo pure arti. I giovani
non vi danno importanza, interessano più gli
stranieri. Nella frenesia della società moderna
non c’è più tempo di fermarsi a contemplare
la natura, mentre la competizione si acuisce,
creando, in tutti gli ambiti, l’arrivismo perfino
fra i bambini. La carenza di spiritualità ha come conseguenza un cambiamento anche nel
carattere delle persone: c’è più nervosismo e
chi non è fra i primi soffre terribilmente».
Non solo la globalizzazione: anche l’impatto delle catastrofi ambientali di questi ultimi
anni ha destabilizzato la vita di tante persone.
«Con il terremoto — continua suor Megumi —
e il conseguente tsunami di quattro anni fa,
molti hanno perso in un momento tutto ciò
che pensavano sostenesse la loro vita. Questo
ha portato non poche persone a interrogarsi.
Dando e ricevendo solidarietà, hanno cominciato a riscoprire l’importanza delle relazioni
personali, l’importanza della vita».
Giappone terra di missione, dunque?
«Spesso si fa consistere la missione nell’aiuto
ai poveri. Questo è un aspetto importante e il
cristiano lo vive come espressione della sua fede in Gesù e con il desiderio di farlo conoscere. Anche i buddhisti, gli shintoisti e gli atei
aiutano i poveri, in nome dell’umana solidarietà. Quando però una persona perde il senso
della vita, sente il vuoto di una perdita di
spiritualità e soffre di una solitudine angosciosa. È una grande povertà, anche
se non materiale: sta a noi cristiani
condividere con queste persone la
speranza e la luce che ci fa vivere. È il nostro specifico di cristiani e di missionari: far risuonare la parola di Dio, parlare della sua presenza di padre, far sentire che siamo
amati. Quando sono povero,
se ho la fede, posso vivere e
conoscere la gioia. Quando,
poco dopo essere stata battezzata, sono andata nelle Filippine per partecipare alla Giornata
mondiale della gioventù, ho incontrato un popolo molto povero, con molti bambini. Ho visto che i loro occhi brillavano, sprizzavano vita,
cosa che non posso vedere in Giappone. La
stessa cosa ho sentito
negli anni di missione in Brasile: ci sono
poveri che vivono in
strada, che vengono a
chiedere da mangiare,
che sanno cogliere la
presenza di Dio, di Gesù nella loro situazione.
“Dio c’è perché ascolta la
mia voce”, mi diceva uno di
loro. In Giappone c’è tutto
ma manca la cosa più importante. Ogni anno si
suicidano quasi ventottomila persone».
Dio però già lavora nel
cuore di ciascuno. «Quanti ancora non conoscono Cristo — continua
suor Megumi — non sono lontani da lui, perché dalla nascita c’è nel loro cuore una semente divina, perché noi crediamo che tutti gli esseri umani sono creati dallo stesso Dio. Penso
però che per accogliere in pieno questo valore,
per conoscere il volto di questa presenza, occorre un aiuto: per noi missionari, il primo
servizio al Regno è offrire questo aiuto ai nostri fratelli e sorelle. Così ha fatto Filippo con
l’eunuco, che viaggiava leggendo una parola
che non comprendeva (cfr. Atti degli apostoli,
8, 26-40); così ha fatto Paolo quando ha annunciato agli Ateniesi il nome del “Dio ignoto” che onoravano (cfr. Atti degli apostoli, 17,
22-34)».
C’è una profonda differenza tra le fedi tradizionali giapponesi e l’aderire a Gesù e al
suo Vangelo, che non può essere ignorata.
«La cultura di noi giapponesi — spiega suor
Megumi Kawano — è basata sullo shintoismo
e sul buddhismo. Per il buddhismo giapponese, Dio non c’è; per lo shintoismo, ci sono
tanti dei: il dio della montagna, il dio delle
acque e così via. Rispettiamo, invochiamo,
preghiamo questi dei ma sono lontani da noi.
Il Dio di Gesù viene da noi, abita dentro di
noi, cammina con noi, conosce la nostra vita,
la nostra sofferenza, perché in Gesù ne ha fatto esperienza. Incontrando il messaggio cristiano, ho capito che Dio è venuto da noi.
Nella sua onnipotenza non aveva bisogno di
ricevere aiuto, ma è diventato un bambino, si
è lasciato aiutare da noi esseri umani che abbiamo così tanti limiti. Questa è stata per me
una grande scoperta».
E prosegue: «Quando arriva un momento
difficile nella vita, la solitudine, crediamo a
questa presenza e non siamo mai veramente
soli. Vedendo la sofferenza di Gesù, possiamo
capire anche la sofferenza di cui non facciamo
esperienza, possiamo comprendere la sofferenza degli altri e come possiamo aiutarli».
Forse per chi è cristiano da sempre, ed è
stato battezzato dalla nascita, non è facile
comprendere la differenza. «È vero. Chi nasce
in una famiglia cristiana, difficilmente può immaginare come vive chi non conosce la presenza di Dio perché non ne suppone neanche
l’esistenza, quale solitudine, sofferenza, difficoltà incontri. Se credi alla presenza di Gesù
al tuo fianco, anche se nessuno ti capisce, tu
sai che lui sa tutto e puoi sempre avere una
speranza, una luce che illumina il buio della
tua vita. Immaginiamo un luogo tenebroso in
cui non ci sia neanche una candela accesa:
non ci è possibile accenderne una. Però, se c’è
anche solo una piccola candela, con quella
In Giappone, ai funerali cristiani partecipano
tante persone che non sono mai entrate in
chiesa e nell’omelia si può annunciare loro il
senso cristiano della morte e della risurrezione».
Non dev’essere facile annunciare il Vangelo
in un Paese come il Giappone. «Il cammino
del Vangelo qui è molto lento, è silenzioso, a
volte invisibile all’esterno. Il popolo giapponese guarda alla vita quotidiana dei cristiani.
Quando un cristiano vive nella gioia e nella
speranza anche nelle difficoltà, il suo modo di
vivere interroga: “Che cosa c’è? Perché è così?”. Questo è già il primo passo per l’incontro con il Vangelo. Da lì può cominciare un
cammino che può prendere anche molto tempo e richiede pazienza. La persona stessa si
mette in ricerca, a volte spinta dalla sofferenza
che sta vivendo e comincia un dialogo, in cui
si possono proporre frasi o episodi del Vangelo adatti alla sua situazione, che possano darle
speranza».
Un esempio? «Una delle nostre comunità
era composta di sorelle giapponesi, messicane
e italiane. La nostra vicina ci sentiva ridere fra
noi e, dopo tanto tempo, venne a dirci: “Che
«Ciliegio in fiore» (paravento a due ante, fine
fiamma può accendersi un’altra candela e poi
un’altra. E così le candele accese possono diventare tantissime! Per questo dico che ci vogliono ancora missionari e missionarie che accendano nel cuore delle persone una candela
che non è mai stata accesa. Ricordiamo il gesto della liturgia pasquale, quando accendiamo la nostra candela all’unica candela accesa
che simboleggia Gesù. Senza Gesù non c’è
speranza di risorgere dalla morte: si pensa che
la vita finisca con la morte. La risurrezione è
ben diversa dall’idea buddhista della rinascita.
XVII
secolo, Giappone)
cosa c’è in casa vostra? Sento che c’è sempre
allegria!”. Da lì è cominciato un dialogo. Non
è detto che la persona arrivi a ricevere il battesimo, però può vivere dei cambiamenti importanti nella sua vita. Nella nostra scuola materna la quasi totalità dei bambini è di famiglia
non cristiana. Attraverso la maestra dell’asilo,
imparano a conoscere Gesù. Forse non arriveranno mai al battesimo, ma quando in futuro
manderanno i loro figli alla scuola materna
cattolica, a quel punto qualche mamma sentirà
la voglia di studiare la Bibbia. Talvolta si se-
Il romanzo
Il viaggiatore notturno
In un momento storico in cui i conflitti
endemici tra popoli, religioni ed etnie si
stanno nuovamente incarnando nella
ripetuta violenza sui corpi delle donne
come forma di punizione, umiliazione e
sottomissione, a dieci anni dall’uscita, ci
torna in mente quella misteriosa figura
femminile che attraversa il romanzo di
Maurizio Maggiani, Il viaggiatore notturno
(Feltrinelli, 2005). È «la Perfetta», la
ragazza che dal Caucaso si dirige a piedi
verso occidente, con una sporta di plastica
in mano. Attraversata mezza Europa,
arriverà alle porte di Tuzla dove
incontrerà — in una situazione drammatica
— il protagonista, specialista di migrazioni
animali. Cammina sul ciglio «la Perfetta»,
donna raminga, violentata e seviziata in
quanto femmina straniera, che ha in sé la
forza di resistere a ciò che gli uomini le
impongono. Ripetendo una frase
misteriosa — che il protagonista interpreta
come un «non mi toccare», simile a
quello che Charles de Foucauld scrisse
riferendosi alla morte vedendola
all’orizzonte — la donna scandisce il suo
«no». In apparenza inutile, nella sostanza
così sostanziale. (@GiuliGaleotti)
mina in una generazione e i germogli possono
spuntare nella successiva. Così, la mia testimonianza di Gesù può non portare frutti visibili,
ma forse — a distanza di molti anni — qualcosa fiorirà. È la speranza».
Come ha incontrato Gesù, Megumi Kawano? «La mia famiglia era buddhista ma non
molto praticante: solo in qualche anniversario
di morte con la mia famiglia andavamo al
La mia famiglia mi lasciò libera
di chiedere il battesimo
Ero diventata più serena e gioiosa
Ma mia madre mi disse:
«Però non diventare suora!»
tempo dove ascoltavamo l’omelia del bonzo.
Avevo otto anni quando passai il mio primo
Natale cristiano, presso una mia amica, figlia
di un pastore. Leggendo la preghiera del Padre nostro su un cartoncino che m’avevano
dato, mi chiedevo chi fosse quel padre nostro
che sta nei cieli. Sempre mi ponevo domande
sulla vita: vivere o morire, mi dicevo, non siamo noi a deciderlo. Durante un mio ricovero
in ospedale mi colpì il fatto che una signora
della mia stanza, che non sembrava grave,
s’aggravò e una notte morì, mentre un’altra,
che era molto grave, guarì. Mi chiedevo: perché esisto? Perché ho ricevuto questa vita?
Uscita dall’ospedale, cercai una chiesa cattolica e cominciai a frequentarla. Non conoscevo
quasi nulla della fede cristiana, avevo soltanto
un libretto sull’Antico Testamento, comprato
per curiosità. Da bambina avevo sentito raccontare le storie di Adamo ed Eva e della torre di Babele, ma non sapevo che si trovassero
nella Bibbia. Nel mio ambiente quotidiano
non trovavo le risposte che cercavo: le trovai
nel cristianesimo, grazie a un missionario. A
ventidue anni ricevetti il battesimo».
Come è arrivata la decisione di consacrarsi
per la missione? «Scoprendo la presenza di
Gesù, la sua parola, ho trovato la speranza ed
è stato normale pensare a quanti non l’avevano ancora incontrato. In Giappone quando
uno diventa cristiano non è raro che sul lavoro, a scuola o in casa sia l’unico a credere in
Gesù. Il cristiano è anche missionario, testimoniando la differenza della vita cristiana.
Quando avevo ventisei anni mio padre morì:
davanti alla sua bara percepii in modo più
forte la grazia di credere in Gesù, che ci apre
alla speranza della vita eterna. Capii di più la
sofferenza di quanti non conoscono Gesù e
sentii la chiamata a spendere tutta la mia vita
per annunciare lui e il suo Vangelo. È una
grazia del Signore: da sola non avrei avuto il
coraggio di lasciare la mia casa e il mio mondo».
Ha incontrato difficoltà in questa scelta?
«La mia famiglia mi lasciò libera di chiedere il
battesimo, forse anche perché notava che ero
diventata più serena, gioiosa e positiva. Fu in
quell’occasione che scoprii che anche mio padre aveva frequentato la scuola materna cristiana. Mia madre mi disse: “Però non diventare suora!”. Soffrì perciò tanto quando scelsi
di entrare in una famiglia religiosa e per me le
sue lacrime e la sua sofferenza furono una
grande difficoltà. Ci vollero dieci anni perché
riuscisse a rasserenarsi, e ad accettare la mia
scelta: ha anche partecipato alla mia professione perpetua. Penso che lo Spirito Santo stia
lavorando nel suo cuore. Altre difficoltà sono
le mie fragilità e limiti, ma — passando il tempo — m’accorgo sempre più che diventano occasioni per conoscere meglio la grandezza
dell’amore di Dio. Mi basterà l’eternità per
dirgli grazie?».
di CRISTIAN MARTINI GRIMALDI
quasi duemila metri sul livello
del mare, Nuwara Eliya è la città
più elevata dello Sri Lanka. Fu
fondata dai britannici nell’O ttocento e oggi a rievocare quel passato vittoriano resta un campo da golf, un
grazioso laghetto per le gite in barca e degli
splendidi hotel. È proprio in questa cittadina
che un gruppo di suore ha da poco avviato
un laboratorio dove si fabbricano borse di
diverse taglie e stili. Il tessuto che utilizzano
è la juta. Vi lavorano sedici giovani ragazze.
Dietro il progetto non c’è solo una ragione
ecologista — eradicare nel loro piccolo le irriciclabili borse di plastica — ma soprattutto
occupazionale: «Se non lavorassi qui non saprei cos’altro fare!», esclama una delle giovani madri impiegate. Siamo all’interno del
grande convento costruito più di cento anni
fa dalle suore del Buon Pastore, che comprende anche una scuola, un dormitorio e
una mensa.
A guidarmi è la superiora suor John, una
donna dalla corporatura robusta, lunghi capelli grigi e, dietro un paio di solidi occhiali
da vista, uno sguardo autorevole. L’idea di
un centro per il cucito è venuta a lei. Ma
l’officina delle borse di juta è solo uno dei
progetti della congregazione che vanno nella
direzione di favorire lo sviluppo della comunità locale. Il più ambizioso è quello di realizzare case per i poveri.
«Dopo aver visitato i poveri nella periferia
di Nuwara Eliya, ho capito che molti dei
problemi psico-sociali che affliggono tante
famiglie indigenti sono associati proprio al
fatto di vivere in alloggi inadeguati» racconta
suor John, mentre tira fuori da una scatola di
cartone delle fotografie di qualche anno fa.
Mi mostra i siti su cui hanno lavorato: l’idea
da cui il progetto è partito era quella di riconvertire in vere e proprie abitazioni quegli
alloggi improvvisati, che poi altro non sono
che quattro tavole di legno tenute assieme da
chiodi battuti di traverso. Questi alloggi costituiscono una buona parte delle dimore alla
periferia di Nuwara Eliya.
«ll padre di una sorella della nostra congregazione è venuto a parlarmi di Habitat
Humanity, organizzazione che lavora per costruire case per i poveri. Mi disse, perché
non li inviti a darti una mano? E io seguii il
consiglio. Vennero e ci spiegarono nei dettagli il piano di lavoro. Ero soddisfatta. Così
abbiamo cominciato subito» dice suor John,
che all’inizio aveva provato da sola a costruire una casa con dei fondi messi assieme dalla
sorella in Germania. Ma ben presto in quella
A
Costruire case per i poveri
Dallo Sri Lanka in attesa di Papa Francesco
nuova abitazione cominciò a pioverci dentro:
suor John comprese che da sola non ce
l’avrebbe mai fatta. Bisognava inventarsi
qualcosa. Così è partito l’housing project.
«I risultati sono stati straordinari.
Centosessanta case in soli cinque anni» afferma la religiosa, mentre punta il dito con fierezza sulle foto che ritraggono le nuove abitazioni.
Se a finanziare l’opera era la ong, è stato
però introdotto un sistema per coinvolgere le
famiglie direttamente. Sono stati creati dei
gruppi composti da dodici nuclei familiari.
Ogni gruppo doveva risparmiare una cifra
prestabilita ogni mese per contribuire con
Ogni famiglia
partecipa attivamente alla costruzione
I risultati sono stati straordinari
con centosessanta abitazioni
in soli cinque anni
quella alla costruzione di una casa fino al
completamento delle dodici abitazioni.
«Noi diciamo sempre: lavora duro per la
tua casa e sarai sempre orgoglioso di averla
costruita con i tuoi sforzi e il tuo sudore. Per
questo è importante che le famiglie partecipino alla costruzione. Abbiamo iniziato con le
case che si trovavano nello stato peggiore. La
prima fase riguardava la costruzione di due
camere; finite queste, le strutture erano già
abitabili, e solo poi si costruivano le ultime
due camere, in modo da consentire a tutti di
avere un primo alloggio essenziale nel minor
tempo possibile».
Suor John fa l’esempio della casa costruita
per Rita, trent’anni e tre figlie. Il marito lavora in una fabbrica di riparazioni di elettrodomestici mentre lei tiene la cassa per l’officina delle borse di juta. Prima dell’intervento
di re-styling sulla sua dimora, Rita con la sua
famiglia viveva in una baracca di fortuna,
con un telo di plastica per tetto; durante la
stagione delle piogge si trasformava in una
pozza invivibile di acqua e fango. Ora abitano in una casa vera, fatta di mattoni e di un
solido tetto di tegola. L’acqua non penetra
più e Maria può sognare all’asciutto.
Ma ci sono famiglie in condizioni peggiori. Come quella di Riccardo, che non può
più lavorare perché per anni ha fatto il facchino — o meglio lo scaricatore, un lavoro
molto comune da queste parti — portando
enormi pesi sulle spalle e ora si ritrova con le
ginocchia distrutte. La moglie lavorava saltuariamente come babysitter e prima di incontrare suor John vivevano in un tugurio di
legno, sempre fradicio. «Qui piove metà
giorni dell’anno» sottolinea la suora. Adesso
Riccardo e la famiglia vivono in una casa
modesta ma confortevole e in più grazie a un
sistema di prestiti agevolati, sempre organizzati dalla congregazione del Buon Pastore,
possono coltivare ortaggi nel proprio giardino che soddisfano gran parte del loro fabbisogno alimentare giornaliero.
«È un’esperienza che cambia la vita quella
di abitare in una casa nuova dopo che per
anni si è vissuto in un tugurio» commenta
suor John che ha inaugurato lei stessa l’inizio
del progetto innalzando, spatola alla mano,
la prima fila di mattoni. «Una volta terminata la costruzione vengono celebrati dei riti locali, riso e cocco vengono sparsi sul terreno
come da tradizione. Ma per i cattolici ci sono io che porto l’acqua benedetta» mi dice
la sorella che però ci tiene ad aggiungere che
il progetto non è orientato ai soli nuclei cattolici.
Sono curioso di visitare una di queste nuove abitazioni. Fuori piove a dirotto. Saliamo
su un furgoncino. Risaliamo un terreno ripido e strettissimo mentre l’acqua scorre in
pendenza prendendo la consistenza di un
piccolo torrente. Alla nostra sinistra compare
la bella e nuova abitazione. Entriamo in casa
«Una volta terminati i lavori
— racconta suor John —
riso e cocco vengono sparsi sul terreno
come da tradizione
Ai cattolici però
io porto l’acqua benedetta»
e noto immediatamente che dal soffitto pende un piccolo vaso. Mi spiegano che si tratta
di un simbolo di prosperità: il vaso è riempito di riso, curry e altre spezie: ogni famiglia
ne appende uno simile nel soggiorno. Per
questa gente, al limite della povertà assoluta,
possedere una casa è sempre stato un lusso,
ma che non manchi il cibo è una preoccupazione costante. Non è un caso che le famiglie
a cui il progetto housing è dedicato non abbiano mai avuto la proprietà della terra sulla
quale hanno risieduto per tanti anni.
«Solo ora abbiamo avuto la garanzia dal
sindaco che quelle terre non verranno richieste indietro dal comune» mi dice suor John,
che aggiunge: «È una grande vittoria. Ora
potremo costruire su quei terreni senza la
paura che un giorno chi andrà a viverci verrà
sfrattato».
Il saggio
Carmina
Il genio poetico e musicale di Ildegarda
di Bingen, autentica magistra della
comunità femminile di Disibodenberg, è
pari alla sua speculazione teologica e alla
sua intensa esperienza mistica. I 77
componimenti — Carmina. Symphonia
armonie celestium revelationum (Gabrielli
Editore, 2014) — sono l’eco delle musiche
celesti che Ildegarda udì, e del canto
stesso degli angeli. La monaca non
trattiene per sé il dono ma lo rende tale
porgendolo a tutti perché tutti possano
percepire l’armonia del firmamento, e la
stessa Trinità. L’amore percorre tutti i
canti come un filo che unisce, collega e
sospinge a guardare Maria. L’armonia
diventa la cifra con cui leggere la viva
esperienza della monaca che vuole
contagiare e unificare Dio e l’uomo, il
corpo e l’anima, la natura e l’umanità. Nei
carmina si gioca sempre su corde diverse
che vibrano e richiamano voci che si
congiungono, sollecitando quel fondo di
nostalgia che dimora nell’animo di ogni
persona, commossa nel ricordo e
nell’anelito del paradiso. La persona inizia
a sentirsi affine all’angelo e si allieta,
perché scopre la via che la conduce verso
la Trinità. La densità del pensiero sotteso
si esprime nella pienezza del canto, nella
sua fluidità: il Verbo che diviene carne si
espande con piena fioritura di linguaggio
e di slancio musicale, perché l’atto
d’amore divino è grande e dona la vita
vera. (cristiana dobner)
Il film
Marsella
Due madri — una biologica, Sara, e l’altra
affidataria, Virginia — per Claire, una
bimba di nove anni. I problemi di alcol e
droga avevano tolto a Sara la figlia
quando la piccola
aveva solo quattro
anni, ma ora —
disintossicata e con
un lavoro stabile —
il giudice la ritiene
di nuovo in grado
di prendersi cura
della bambina. Per
Claire il passaggio
dalla vita borghese
e benestante con la
coppia affidataria al
quotidiano un po’
squinternato di
Sara, non è per
nulla facile, ma
riavvicinarsi alla madre naturale significa
l’avverarsi di un sogno: le due, infatti,
partono alla volta di Marsiglia, dove vive
il padre che la piccola non ha mai
conosciuto. A sorpresa, il viaggio vedrà,
però, anche la partecipazione di Virginia.
Non mancano i colpi di scena, e scene di
delicata poesia, in Marsella, film
spagnolo di Belén Macías (2014), che ha
al centro la complessa crescita,
innanzitutto emotiva, di una bambina.
Niente retorica nella pellicola, ma solo
adulti capaci — anche nella sofferenza —
di imparare il segreto per essere davvero
genitori: porre al centro delle scelte non il
proprio ego, ma il futuro dei figli.
(@GiuliGaleotti)
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A CALCUTTA
SUORE NEI POSTRIBOLI
PER SALVARE LE PROSTITUTE SCHIAVE
Non solo un forte ritorno alla dimensione contemplativa,
ma anche un rinnovato impegno all’azione: è questo per
le religiose indiane il senso dell’Anno della vita
consacrata. Esattamente con questa consapevolezza, di
notte a Calcutta quattro suore della Congregazione di
Maria Immacolata, lasciati i loro abiti consueti, si recano
nei postriboli della città, dove molte ragazze sono
costrette alla prostituzione o sono ridotte in schiavitù da
trafficanti senza scrupoli. La loro opera ha permesso di
salvare numerose donne. Questo impegno a favore delle
donne sfruttate e indifese — ha spiegato suor Sharmi
Souza — «è anche una risposta positiva al messaggio di
Papa Francesco per la prossima Giornata mondiale della
pace, che esorta a combattere le moderne forme di
schiavitù». In una sola notte, prosegue, «abbiamo salvato
trentasette ragazze, dieci delle quali minorenni». Le suore
offrono sostegno e assistenza alle giovani donne, che poi
forniscono informazioni utili alla polizia per fermare i
trafficanti. Non che sia sempre facile: a volte gli agenti si
rifiutano di recarsi nei postriboli, perché anch’essi sono
stati corrotti dai trafficanti, e allora le religiose passano
oltre e si rivolgono direttamente ai loro superiori.
Secondo dati del Governo indiano, nel 2007 oltre tre
milioni di donne lavoravano nel mercato del sesso, il 35,47
per cento di queste sotto i diciotto anni. L’ong Human
Rights Watch fa rientrare nella categoria di prostituta
almeno venti milioni di persone in India, con la
metropoli di Mumbai che, da sola, contiene oltre
duecentomila prostitute. Vincendo così il triste primato di
più grande centro dell’industria del sesso di tutta l’Asia.
CORSO
DI TRUCCO PER D ONNE NON VEDENTI
Colori dal buio. Grazie a un corso organizzato
dall’Unione italiana ciechi e ipovedenti di Torino, le
donne non vedenti imparano l’arte del trucco. L’idea è
venuta a Nunziata Panzarea, responsabile del comitato
per le pari opportunità dell’associazione: pur essendo
cieca dalla nascita, la donna riesce a truccarsi
contrassegnando i cosmetici con etichette in braille per
distinguere i colori. Spesso — ha spiegato — le persone
non vedenti tendono a trascurare il proprio aspetto
esteriore, eppure il modo in cui ci presentiamo è il
fondamentale biglietto da visita nella vita di relazione. Il
punto di partenza per il rispetto di sé, e degli altri.
LA
VOLONTARIA DELL’ANNO
La Focsiv (Federazione organismi cristiani servizio
internazionale volontario) ha premiato Maria Luisa
Cortinovis per il suo impegno con i bambini
dell’Ecuador. Grazie alla fondazione del Colegio San
Gabriel a La Troncal, aperto con il marito oltre
quarant’anni fa, Cortinovis segue la formazione scolastica
ed educativa dei giovani, provenienti soprattutto da
famiglie povere e indigenti. «Con il suo collegio
scommette sui giovani, attraverso la formazione integrale
della persona: essi sono il futuro di un popolo e anche la
speranza di una società più fraterna e più giusta», si
legge nella motivazione del premio. Per Cortinovis,
settantaquattrenne originaria di Bergamo, istruzione e
formazione servono per «rompere con quella dipendenza
che ci fa abbassare la testa. Dobbiamo dare a chi non ha
le opportunità, la possibilità di guardare negli occhi le
persone per far le scelte coerenti, giuste, individuali, e
non quelle degli altri». Il progetto formativo Colegio San
Gabriel è composto da una scuola primaria e da una
tecnica con diverse specializzazioni in campo artigianale e
industriale. Alla scuola sono annessi un convitto e
un’unità produttiva, il cui fine è quello di procurare
risorse economiche per la scuola con la collaborazione di
insegnanti e studenti. Un contributo alla giustizia e alla
pace sociale, in un Paese che non è ancora uscito del
tutto dalla logica della separazione di classe. «Il
riconoscimento non è mio — ha precisato — ma di tanti:
volontari, persone che camminano per costruire un
mondo migliore, che vivono e danno un senso alla loro
vita per la solidarietà e soprattutto per tutte le persone
che sono rimaste in Ecuador. La nostra comunità
educativa è fatta di bambini, ragazzi, giovani, insegnanti
e genitori che camminiamo insieme per creare una visione
diversa dei paesi in via di sviluppo».
Una ragazza kenyota
si oppone
al matrimonio combinato
per lei dalla sua famiglia
(foto Reuters)
CARMEN IGLESIAS
L’OSSERVATORE ROMANO gennaio 2015 numero 31
Inserto mensile a cura di RITANNA ARMENI e LUCETTA SCARAFFIA, in redazione GIULIA GALEOTTI
www.osservatoreromano.va - per abbonamenti: [email protected]
E L’ACCADEMIA
La Real Academia de la Historia di Spagna,
prestigiosissima istituzione incaricata dello studio della
storia — politica, religiosa, militare, scientifica, letteraria,
artistica e culturale — spagnola, per la prima volta nei
suoi 278 anni di vita sarà diretta da una donna. Eletta
con quasi l’ottanta per cento dei voti (23 favorevoli su 30
votanti), infatti, Carmen Iglesias (Madrid, 1942),
modernista che insegna Storia delle idee morali e
politiche all’università Juan Carlos I, sarà per quattro
anni, a partire da marzo, a capo dell’istituzione.
UN’ATTRICE
DIVERSA
Il mese scorso è morta a Roma Virna Lisi, attrice molto
amata dal pubblico, anche per le sue scelte per nulla
scontate. Dopo aver firmato un contratto di sette anni
con la Paramount, decise di pagare una penale e lasciare
il cinema americano che voleva piegarla a un’immagine
che non sentiva sua. È stata una di quelle attrici che
hanno imparato il mestiere con l’esperienza: se è pur vero
che all’inizio della sua lunga carriera era la straordinaria
bellezza a prevalere sul talento, poi nel tempo Virna Lisi
ha dato prova di una naturale autorevolezza. Una delle
poche italiane a non essere quasi mai doppiata, fin da
subito ricoprì ruoli piuttosto importanti, ottenendo
diversi premi. Intervistata da Oriana Fallaci nel giugno
del 1964, al culmine del suo splendore, alla giornalista che
le chiedeva se fosse contenta di essere così bella, rispose:
«Attendo con impazienza le rughe, la vecchiaia: la gente
mi prenderà più sul serio». Ed è stata di parola: caso
assolutamente eccezionale nel mondo dello spettacolo di
oggi, infatti, non ha avuto paura degli anni, lasciando che
il suo viso raccontasse la sua età. Anche per questo, è
morta a 78 anni senza aver smesso di lavorare. E di essere
meravigliosa.
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Catturasti anche me
Marcella, santa del mese, raccontata da Sandra Isetta
Della celebre corrispondenza tra Girolamo e
Marcella sono conservate importanti lettere
del primo all’autorevole discepola, talora raccontata come maestra e con insolita soggezione. Qui è immaginato un testo del padre della Chiesa in morte della sua interlocutrice.
Le infermiere
Quella tripla dose
di antibiotico
di SILVIA GUIDI
ensiamo alle suore che vivono negli ospedali: loro vivono nelle frontiere» ha detto Papa Francesco nell’intervista a «La Civiltà Cattolica» nel 2013: «Io sono vivo grazie a una di loro. Quando ho avuto il problema al polmone in ospedale, il medico mi diede penicillina e strectomicina in
certe dosi. La suora che stava in corsia le triplicò perché aveva
fiuto, sapeva cosa fare perché stava con i malati tutto il giorno.
Il medico, che era davvero bravo, viveva nel suo laboratorio, la
suora viveva nella frontiera e dialogava con la frontiera tutti i
giorni. Addomesticare le frontiere significa limitarsi a parlare da
una posizione distante, chiudersi nei laboratori. Sono cose utili
ma la riflessione per noi deve sempre partire dall’esperienza».
Papa Bergoglio ha riassunto con un aneddoto personale — e
con la consueta, efficace sintesi — quella che per Cecilia Sironi,
presidente della Consociazione italiana delle Associazioni infermiere/i è stata e continua a essere la battaglia di una vita: far capire l’importanza di un lavoro troppo spesso sottovalutato o addirittura ignorato quando si tratta di prendere decisioni che riguardano i sistemi sanitari nazionali.
«L’idea di studiare per tanti anni, minimo sei, a cui sommare
una specialità medica e di vedere dopo troppo tempo i malati —
racconta Sironi — mi portò a informarmi sulla scuola per infermieri. Negli anni successivi più volte ho pensato a quell’inizio,
ho avuto tanti momenti in cui mi sono detta: “Ma chi te l’ha fatto fare? Hai scelto un lavoro faticoso, che chiede davvero tutto,
un lavoro che non è né stimato né retribuito adeguatamente”».
La tentazione di fare marcia indietro c’è stata, ammette: «Sinceramente ho pensato diverse volte di lasciare tutto, ma non perché pensassi di aver sbagliato strada. Il motivo è sempre stato
l’opposto: per un eccesso di passione. Mi domandavo: perché
una professione così bella, così importante per la vita degli altri
deve portare chi ne è innamorata a non essere messa nelle condizioni di esercitarla come vorrebbe e dovrebbe? Una donna può
dare davvero molto come infermiera. E non lo dico per nostalgia
romantica, ma perché collaboro alla formazione dal 1983. In percentuale, le infermiere sono più brave, anche se, quando si trovano ragazzi tagliati per questa professione, sono davvero estremamente capaci. Proprio per questo grande amore alla professione
ho scelto di dedicarmi alla formazione dei futuri infermieri. Sarò
soddisfatta quando — spero accadrà prima che io vada in pensione — la professione dell’infermiere sarà vissuta e percepita dalla
gente con pari dignità a quella del medico o del fisioterapista».
Ma sembra un traguardo ancora lontano. «Raggiunto da tempo in Paesi con problemi igienico sanitari enormi, non ancora in
Italia — continua Cecilia Sironi — gli infermieri possono salvare
la vita di intere popolazioni a costi contenuti. In gran parte dei
servizi sanitari e assistenziali di tutto il mondo si può fare spesso
a meno del medico, ma non dell’infermiere, la cui preparazione è
ampia, abbraccia tutti gli aspetti clinici e assistenziali, include la
famiglia, tiene presente il contesto e considera la persona con
tutte le sue componenti, non solo gli aspetti bio-fisiologici».
E prosegue: «Ciò che mi colpì iniziando a lavorare in un ospedale londinese nel lontano 1980 fu la presenza di una chiara gerarchia infermieristica. Chi mi fece il colloquio per l’assunzione
era una capo infermiera (senior nursing officer) dalla quale dipendeva direttamente tutto il personale infermieristico e di assistenza. Il fondamentale assunto che un numero adeguato d’infermieri
per ciascun malato porta a un concreto risparmio, oltre a una
qualità dell’assistenza non solo percepita dai malati ma oggettivamente valutabile, è qualcosa di ancora poco noto. Autorevoli
enti (si pensi all’Institute of Medicine) hanno ben compreso questo e si stanno muovendo di conseguenza, utilizzando i risultati
dei numerosi studi, svolti anche in Europa, fra cui quelli di Linda Aiken».
E i libri di Jean Watson, che dagli anni Ottanta a oggi restano
un classico delle scienze infermieristiche. Un anno fa Cecilia Sironi ha curato la traduzione italiana di Philosophy and Science of
Caring (Assistenza infermieristica. Filosofia e scienza del caring, Milano, Casa Editrice Ambrosiana, 2013). «Della Watson — prosegue Sironi — mi ha sempre colpito il fatto che sia una donna alla
ricerca di senso. Del senso della sua vita, di come viverla in modo profondo e di come aiutare ciascuno ad andare al fondo di
quel che vive nell’esperienza di sofferenza, malattia e dolore. La
sua sincerità l’ha portata a condividere il suo cammino personale
con altri e a usare quanto appreso personalmente per aiutare altri
a guarire. Non proviene da una tradizione cristiana, ma ha fatto,
per esempio, il camino di Compostela. Ho visto nella sua elaborazione filosofica, mediata dalla sua grande umanità, un modo
per recuperare quei valori che abbiamo perso o stiamo perdendo.
Dopo aver gettato via tutto quello che era legato alla Chiesa,
all’imponente opera di monaci, religiosi e congregazioni femminili dei secoli scorsi, dove un giovane può recuperare le energie
per scegliere e rimanere in una professione così faticosa? L’amore
all’uomo, alla propria e altrui umanità non può che avere una
sorgente». Ecco — conclude Cecilia Sironi — «penso che Jean
Watson possa accompagnare in questo cammino di ricerca tanti
infermieri».
«P
o, imbarazzato, evitavo gli sguardi
di quelle nobili donne, ma tu ci sapesti così fare — opportune importune come dice l’apostolo — da vincere, con la tua abilità, il mio ritegno. Sì, proprio io, l’altezzoso Girolamo,
mi son trovato a mal partito quando ti ho
conosciuto, Marcella.
Come ricordi, giunsi a Roma nel 382 e
venni nella tua sontuosa domus sull’Aventino. Qui, tempo addietro, erano stati tuoi
ospiti i vescovi di Alessandria, il grande
Atanasio e Pietro, rifugiati a Roma per
sfuggire la persecuzione dell’eresia ariana.
Dalla viva voce di questi due vescovi tu
hai appreso la vita del beato Antonio, allora ancora in vita, l’esistenza dei monasteri di Pacomio nella Tebaide, e la regola
delle vergini e delle vedove. Il monachesimo era un fenomeno del tutto nuovo: tu
non ti sei vergognata di professarlo perché
sapevi che era gradito a Cristo. Quel giorno, ebbi la sorpresa di scoprire come la
tua casa fosse trasformata in una sorta di
comunità di vergini e vedove, che liberamente seguivano Dio. Avevi dato vita a
un circolo di donne, frequentato da alcune
nobili romane — ma anche da uomini, preti e monaci — che si riunivano per leggere
e commentare la Bibbia. Tutto mi sarei
aspettato, ma non che una donna facesse
ruotare intorno a sé una simile cerchia di
santità! Alla fine, con il tuo stile intelligente e discreto, catturasti anche me.
Mi convinsero la serietà della tua preparazione — conoscevi perfettamente il greco
e l’ebraico — e l’acume delle tue interpretazioni bibliche. Allora godevo d’una certa
reputazione come esegeta della Scrittura e
tu non venivi mai da me senza interrogarmi su qualche passo scritturistico, mi ponevi sempre nuove questioni, non per il
gusto di discutere ma per imparare proprio attraverso le domande. Ho capito in
seguito, quando iniziò la nostra corrispondenza dopo che mi trasferii a Betlemme,
che il tuo era un modo per stimolarmi, eri
tu a insegnare a me.
Quando ti ho conosciuto eri vedova da
molto tempo. Discendevi dalla insigne fa-
I
Una volta mi sentii in dovere
di giustificarmi con te
se il mio latino era un po’ arrugginito
Io, Girolamo, autore della Vulgata!
miglia dei Marcelli, ma non voglio ricordarti per il nobile casato, ti ricorderò per
doti ben più grandi, per la povertà e
l’umiltà con cui hai manifestato al mondo
il valore della vedovanza cristiana. Eri ancora tanto giovane, di una bellezza fuori
dal comune e per giunta di purezza di costumi. Come prevedibile, si fecero avanti
pretendenti, che tu rifiutasti.
Certo, il tuo era un carattere risoluto.
Non riuscivi mai a tacere il tuo disappunto, anche perché ti si leggeva in viso, in
quel tuo tenero vezzo di corrugare la fronte. Anche da Betlemme ti immaginavo
corrucciata nell’atto di scuotere la testa,
mentre leggevi le mie polemiche, forse un
po’ troppo veementi, contro chi mi accusava di avere modificato i vangeli! Ti scrivevo: «Sono certo che mentre leggi queste
cose corrughi la fronte in segno di disapprovazione: temi che questa franchezza sia
motivo di nuove dispute, è vero? E so che,
se fossi qui, mi metteresti le dita sulle labbra per farmi chiudere la bocca e non farmi dire queste cose». Eh sì! Mettevi soggezione, Marcella!
Occupato com’ero nelle letture delle
opere ebraiche, una volta mi sentii in dovere di giustificarmi con te se il mio latino
era un po’ arrugginito, io, che lo conoscevo bene, se ho tradotto la Scrittura! D’altronde, dopo la mia partenza da Roma, se
sorgeva qualche disputa a proposito di un
passo biblico, si ricorreva al tuo giudizio,
tanto tu ti eri impadronita, quasi abbeverandoti, di tutto quel sapere che ho potuto accumulare e che ho trasformato quasi
in una seconda natura grazie a una incessante meditazione.
Hai scelto la castità. Più tardi molte altre hanno imitato il tuo stile di vita. Della
tua amicizia ha beneficiato la venerabile
Paola e nella tua stanza è stata allevata
Eustochio, gemma delle vergini: è facile
giudicare le qualità della maestra, quando
tali sono le discepole! Praticavi l’ascesi,
ma con equilibrio, una delle tue doti che
più ho amato. Di rado uscivi in pubblico
e comunque cercavi di evitare le case delle
nobili romane, per non ritrovarti nella vita
che avevi disprezzato. Le tue mete preferite erano le basiliche degli apostoli e dei
martiri, dove pregavi in segreto, lo so, lontano dalla gente. Avresti voluto donare i
tuoi beni ai poveri, che amavi, ma per
non scontentare tua madre Albina, lasciasti che fossero trasferiti ai figli di tuo fratello.
Eri molto prudente, attenta a quello che
i filosofi chiamano tò prépon, ossia la convenienza delle azioni. Ti ho ancora davanti agli occhi: mentre venivi interrogata rispondevi in modo da non presentare una
tua opinione come personale, ma come
mia o di qualcun altro, per professarti discepola anche mentre insegnavi. Conoscevi bene le parole dell’apostolo: «Alle donne non permetto d’insegnare», e non volevi dare l’impressione di umiliare gli uomini — talvolta anche i sacerdoti — che t’interpellavano su punti oscuri e ambigui.
Hai trascorso gli ultimi anni nel tuo podere, alla periferia di Roma, dove vivevi
come in un monastero, o in un deserto,
con la giovane vergine Principia. Fino a
quando il vincitore assetato di sangue ha
invaso il tuo palazzo. Non sei crollata di
fronte alle aggressioni, non hai tremato.
Ti hanno percossa, Marcella, ti hanno fustigata, tu volevi proteggere Principia e il
Signore ha esaudito la sua serva, suscitando la pietà nell’animo dei barbari. Eravate
in salvo, alla basilica dell’apostolo Paolo.
Dopo pochi mesi ti sei addormentata nel
Signore.
Francisco de Zurbarán, «Paola con la figlia Eustochio a colloquio con Girolamo»
(XVII secolo)
Sandra Isetta insegna letteratura cristiana antica all’università
di Genova. Autrice di molti studi, tra cui Il mito delle origini
in La grande meretrice. Un decalogo di luoghi comuni sulla storia
della Chiesa (2013), ha curato di recente L’eleganza delle donne
(2010) di Tertulliano e per «donne chiesa mondo»
ha scritto santa Clotilde (giugno 2013).
Ben Crowder, «Family art» (2012)
di VINCENZO PAGLIA
donne chiesa mondo
gennaio 2015
Un bellissimo azzardo
necessaria per un nuovo slancio di
evangelizzazione e di azione pastorale. La
parola del Signore è chiara e ci sostiene: «Per
questo, ogni scriba divenuto discepolo del
regno dei cieli è simile a un padrone di casa
che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose
antiche» (Matteo, 13, 52). L’urgenza è dunque
obiettiva, non ideologica: rispetto alle epoche
precedenti, il fatto nuovo è che la famiglia
non va più da sé. La cultura del mondo non
le è favorevole. Nello stesso tempo, con ogni
evidenza, l’assetto della condizione familiare
appare come il punto di snodo cruciale per
gli assetti futuri della stessa società umana.
Tralasciando di ripetere gli elementi
fondamentali della dottrina cristiana del
sacramento, mi fermo solamente a esporre
alcuni nuclei di elaborazione della sua
originalità antropologica strettamente connessi
alla forma cristiana. È ovvio che si tratterà
poi di approfondire ed esplicitare tutte le
necessarie implicazioni, di fatto molto
trascurate, di questo rapporto —
assolutamente tradizionale, nella dottrina —
fra l’aspetto creaturale del legame e quello
cristiano del sacramento. Una certa
separazione dei registri in cui la Chiesa stessa
ha operato discernimenti e precisazioni
(teologia, canonistica, pastorale), chiede di
essere, come minimo, organicamente chiarita e
ricomposta. In quanto destinatario ed erede
dell’alleanza creaturale di Dio, il legame
coniugale e generativo dell’uomo e della
donna è confermato nel suo rigore, e
riconsegnato nella sua purezza da un’esplicita
parola del Signore. «L’uomo non separi ciò
che Dio ha unito» (Matteo, 19, 6 e paralleli).
Nella consegna di questa parola ai discepoli,
il vincolo dell’alleanza coniugale-generativa è
per ciò stesso assunto nell’economia
evangelica-cristologica definitiva dell’alleanza
creaturale dell’uomo e della donna con Dio.
La compiuta esplicitazione di questa potenza
di purificazione e di riscatto appare nella
celebre formula di Efesini, 5, 32, che enfatizza
la rilevanza di questo mistero creaturale
dell’uomo e della donna «per riguardo a
Cristo e alla Chiesa». La tradizione apostolica
ha pienamente riconosciuto la portata
antignostica — antropologica e teologica — di
questo pronunciamento, che apre la strada
alla sua interpretazione e attuazione come
vero sacramento ecclesiale della grazia, e non
come semplice premessa naturale o simbolo
esteriore della nuova alleanza. Questo legame,
dunque, è sacro fin dalla sua origine
creaturale: ed è ciò che Gesù stesso ribadisce
autorevolmente. In più, la dottrina della
creazione è in grado di illustrare, con tutta la
precisione e l’ampiezza desiderabili, che la
coppia umana dell’uomo e della donna è il
principio di ogni umanesimo della storia e di
ogni umanizzazione del mondo. Dunque, il
suo riconoscimento e la sua protezione, in
ogni popolo e tribù, in ogni nazione e
religione, è un compito sacrosanto. La fede
cristiana in questa alleanza primordiale (e
fondante) deve sentirsi impegnata nella
riabilitazione intelligente del suo umanesimo
e della sua benedizione. Essa non è ancora il
sacramento della testimonianza ecclesiale della
fede, ma è certamente una testimonianza
essenziale del bene che in quel sacramento è
custodito. La storia del mondo, e la storia
della sua salvezza, camminano sulle gambe di
questa alleanza di Dio con l’uomo e la donna.
Dove essa è attiva e feconda, l’umanesimo
cresce e la promessa custodita dalla fede viene
sostenuta e onorata. Dove quell’alleanza si
sfalda, l’umanesimo si arresta, e la promessa
della fede viene mortificata. La consegna
dell’amore umano dell’uomo e della donna
alla fede nel Figlio redentore e nello Spirito
dell’agape di Dio che rinnova tutte le cose,
attesta il carattere irrevocabile dell’alleanza
creaturale. E la rende capace di irradiare la
concreta evidenza della grazia che ci salva:
anche quando ci scopriamo deboli e
l’autore
L
del sinodo sulla
famiglia è un’opportunità
straordinaria per approfondire la
recezione della rivelazione e
arricchire la trasmissione della
dottrina. Non potremo farlo,
però, con la cura che ci è
richiesta, senza porci una
domanda di fondo: la nostra
comprensione delle trasformazioni
culturali avvenute, nel campo
della cultura della sessualità e
della famiglia è realmente
all’altezza del discernimento
richiesto della sapienza cristiana che la Chiesa
può e deve offrire? Molti credenti lamentano
di non sentirsi compresi, essi stessi, nelle
parole e nei toni della predicazione cristiana.
Molti lamentano un difetto di comprensione,
e quasi una mancanza di amore, per la
comune condizione umana. L’immagine
evangelica dell’insegnamento e l’azione del
Signore, che pure hanno conosciuto attraverso
la Chiesa, appare oscurata. Questa percezione
di lontananza va seriamente analizzata, con
l’intelligenza e l’affetto del buon pastore,
capace di ascoltare e di comprendere, per farsi
ascoltare e seguire l’indicazione evangelica.
C’è bisogno di trovare parole e azioni che
portino la verità del vangelo nella condizione
umana di questo tempo. Parole e azioni che
siano all’altezza delle forme effettive della vita
e dell’esperienza in cui gli uomini e le donne
del nostro tempo si trovano a fare le loro
scelte, nell’ambito degli affetti, dei legami,
della famiglia. Lo scarto, infatti, ha qualcosa
di paradossale. Nella sua realtà vissuta e
condivisa la Chiesa non è certo estranea
all’esperienza umana più comune. Potremmo
anzi dire che la sua prossimità alla condizione
familiare degli affetti e dei legami è oggi
pressoché unica, fra le istituzioni di
riferimento per le comunità umane. Si tratta
del resto di una realtà riconosciuta: che
appare ancora più diffusamente percepita in
questo momento di crisi. È vero però che il
linguaggio ecclesiastico corrente appare talora
troppo schematico e comunque insufficiente a
dare il senso del suo rapporto con la realtà.
La Chiesa, in altri termini, sul piano dei
fondamentali della vita comune, fa di più e di
meglio di quanto le sue stesse parole e
formule non sappiano attualmente
comunicare. Mettiamo pure in conto le
deformazioni dei media e i pregiudizi
dell’opinione secolarizzata, che non aiutano la
trasparenza della recezione. La necessità di
sviluppare un’intelligenza più ampia della
parola di Dio sulla vita dell’uomo, però,
rimane fuori discussione. Ed è preciso
compito nostro non accontentarci della pigra
ripetizione di formule teologiche
convenzionali e astratte, che incoraggia poi
l’arbitrio di soluzioni pastorali improvvisate e
arbitrarie. L’elaborazione della dottrina e
della prassi va condotta nel solco della loro
limpida armonizzazione. Il kairos attuale
stimola a porre deciso rimedio a questo
scarto, nella convinzione che nella Chiesa non
manchino né la sapienza né la generosità
A CELEBRAZIONE
L’arcivescovo Vincenzo Paglia
(1945) è presidente del Pontificio Consiglio per la famiglia.
Laureato in teologia e in pedagogia, ordinato sacerdote il 15
marzo 1970, nel 2002 è stato
nominato dalla Santa Sede
presidente della Federazione biblica cattolica internazionale.
Primo prete ad aver avuto il
permesso di entrare in Albania
prima ancora delle prime elezioni libere del marzo 1991, è
postulatore della causa di beatificazione dell'arcivescovo di
San Salvador Óscar Arnulfo
Romero. Il suo libro più recente è «Storia della povertà».
vulnerabili, peccatori e incapaci, sopraffatti
dalla nostra debolezza e traditi dalla nostra
stessa infedeltà. La dottrina rivelata della
creazione non è dunque una semplice
deduzione razionale, che attiene alla natura
umana così come la concepiscono le scienze
biologiche o l’astrazione filosofica, nella
cornice di una pregiudiziale separazione della
verità della creazione dall’economia della
grazia (difetto dal quale, del resto, neppure la
teologia è rimasta sempre immune). Una più
approfondita teologia del matrimonio, in
questa luce, dovrebbe riconoscere più
chiaramente che l’unione coniugale-generativa
dell’uomo e della donna entra comunque
nella sfera dell’originaria benedizione di Dio.
In altri termini, questa benedizione creaturale
non è in se stessa estranea, né tanto meno
alternativa, rispetto alla grazia della (sua)
radicale redenzione cristologica e della (sua)
compiuta integrazione ecclesiale. La serietà di
questa obiettiva approssimazione al
sacramento andrebbe forse più coerentemente
riconosciuta. Ma al tempo stesso, non
dovrebbe neppure essere astrattamente iscritta
in una sorta di automatismo giuridico del
sacramento. L’alleanza creaturale dell’uomo e
della donna, nella serietà del suo impegno
generativo e familiare, non ha motivo di
essere cristianamente disprezzata e ripudiata:
anche là dove essa rimanga soggettivamente
e/o congiunturalmente in una condizione di
distanza temporale, o in uno stato di virtuale
approssimazione, rispetto alla celebrazione
cristiana del sacramento. In tale prospettiva si
muove la relazione finale del sinodo
straordinario. Si potrebbe dire che Dio non fa
eccezione di famiglia: lo Spirito raccoglie i
vagiti della creatura e la Chiesa deve essere
generosa nel confermare la grazia ricevuta e la
salvezza destinata, pur annunciando l’appello
alla fede che deve indirizzarla al suo
compimento nella riconoscenza e nella
testimonianza della fede. La garanzia
istituzionale di una seria forma civile, o di
una collaudata forma consuetudinaria,
dovrebbe poter essere apprezzata come
oggettivamente convergente con la bontà del
sacramento primordiale consegnato con la
creazione (e confermato anche nella
condizione decaduta). Oggi poi, nel momento
in cui la coppia uomo-donna configura una
vera e propria questione antropologica,
sembra profilarsi una specifica opportunità di
riconoscere e sostenere comunque la bontà
della forma coniugale-familiare dell’uomo e
della donna, quando essa sia orientata
secondo il comandamento di Dio. Nel
momento in cui l’uomo e la donna volessero
riscoprire la loro fede personale, e fossero
pronti a farlo, la Chiesa ha naturalmente la
facoltà e l’obbligo di accertarne le condizioni
e di sostenerne il compimento. Non c’è
dubbio che una migliore trasparenza di
questa articolazione fra alleanza creaturale e
sacramento ecclesiale, sarebbe in grado di
dissolvere molti pregiudizi e molti ostacoli
che oscurano l’appello alla qualità della fede
cristiana, che chiama al pieno compimento e
alla generosa testimonianza del sacramento
ecclesiale. Si deve pur comprendere che la
decisione personale e di coppia, circa il grado
di coinvolgimento testimoniale-ecclesiale con
la fede cristiana, è tema più profondo e più
ampio, che non si può risolvere con pochi
incontri prematrimoniali, magari stipati di
istruzioni sulla regolazione delle nascite e di
commenti poetici al Cantico dei cantici.
Proviamo ad allargare l’orizzonte, dunque. E
facciamo qualche esempio. «Il seme di lei ti
schiaccerà il capo» (Genesi, 3, 15). Pensiamo
però a quale bellezza e a quale forza potrebbe
arrivare, nel frattempo, una parola cristiana
della fede che rilanciasse il nesso fra l’alleanza
creaturale di Dio e il mistero del seme, della
donna, della generazione, della trasmissione
dell’umano e del senso del divino che sono
iscritti nell’universale esperienza dell’essere
figlio. Questo tema è stato molto esplorato
riguardo all’eredità del peccato, ma
totalmente disatteso riguardo all’eredità della
salvezza. Incominciando proprio da quel nato
«da donna» ridotto alla nascita «nel
peccato», invece che predicato come il modo
in cui Dio ha deciso di «dare la vita» umana
al Figlio che vince il male per «ogni uomo
che viene in questo mondo». Se dovessimo
svolgere questa implicazione dovremmo
incominciare proprio di qui: dalla rivelazione
del maltrattato capitolo 3 del libro della
Genesi. La grazia e la salvezza passano di lì,
dal grembo della donna. Abbiamo una
teologia e un’antropologia della grazia
all’altezza di questa rivelazione? Se
l’avessimo, un grosso e bellissimo capitolo di
teologia del matrimonio, dove il nesso della
salvezza e del nascere da donna sarebbero
centrali, sarebbe a disposizione. Ma a questo
punto, non sarebbe più soltanto una teologia
del matrimonio: sarebbe anche una cristologia
e un’ecclesiologia, in cui il grembo della
donna — tanto per cominciare — sarebbe un
luogo teologico. E ancora. «Non separare ciò
che Dio ha unito». La parola del Signore si
riferisce direttamente al vincolo dell’uomo e
della donna, nel contesto di una discussione
sull’interpretazione della tradizione a
proposito del ripudio. Nondimeno,
soprattutto se si tiene conto del contesto della
rivelazione genesiaca evocata da Gesù
(«all’inizio»), non sembra affatto improprio
estendere e approfondire la pertinenza di
questa parola nei confronti dell’intera trama
dei rapporti implicati nell’atto creatore di
Dio. Non solo uomo e donna non vanno
separati, ma anche differenza sessuale e
socializzazione umana, unione familiare e
lavoro della vita, governo del mondo e
custodia del creato. Dio ha pensato questi
elementi nella bellezza della loro unione, e li
ha affidati all’alleanza dell’uomo e della
donna. Dove l’intima profondità di questi
nessi — che sono biologici e psichici, come
anche spirituali e sociali — si perde o viene
violata, l’intera ricchezza dell’atto di «dare la
vita», nell’armonia delle sue molte
componenti, è destinata a vanificarsi nella
coscienza collettiva. E come potremo
sostenere l’intero ordine degli affetti umani,
che proprio dalla potenza di questa alleanza
generativa trae forme e forze, linguaggi e
conoscenza? L’unione dell’uomo e della
donna è una grammatica elementare
dell’umano, la cui decifrazione è alla portata
di tutti. Ma è anche sintassi complessa, piena
di incanti e di enigmi che ci superano, e che
vanno esplorati e riconosciuti con delicatezza
e rispetto. Il richiamo al rigore dell’impianto
personalistico, che chiede unicità e fedeltà del
rapporto, insieme con la sua irrevocabilità di
evento che cambia la vita per sempre, ha
impressionato gli stessi discepoli di Gesù.
«Siate fecondi
e
moltiplicatevi,
riempite la
terra» (Genesi,
1, 28).
L’alleanza
coniugale e
generativa —
fisica e
spirituale —
andrà
restituita alla
sua alta
vocazione,
non
surrogabile da
nessun’altra
alleanza
d’amore, della
quale una
nuova cultura
dovrà
sviluppare la
potenza e la
Henry Moore, «Family Group» (1949)
fecondità. La
nostra infatti è
diventata sterile, non per caso, sui due fronti
del legame sociale: quello generativo e quello
simbolico. La complicità di uomo e donna è
discriminante per la riuscita dell’intera storia
del legame umano con il mondo creato: la
signoria delle cose, lo sviluppo del sapere, la
cultura del lavoro, l’istituzione della giustizia,
la riparazione della terra, l’armonia
dell’habitat, dipendono dalla loro complicità.
L’uomo viene a sapere troppo poco
dell’umano, senza la donna. E la donna viene
a sapere troppo poco dell’umano, senza
l’uomo. Il mistero dell’umano si trasmette
solo nell’alleanza dei due. È in questo
orizzonte che si gioca la nuova vocazione e
missione della famiglia, oggi: sia nella Chiesa,
sia nel mondo. Come la fede, il sacramento
non è cosa che si possa imporre. Il
comandamento divino dell’amore, infatti, è
altra cosa: è l’autorizzazione di un azzardo,
del quale nessuno si sentirebbe all’altezza,
confidando solo nelle sue forze. La grazia del
sacramento non è una benedizione
ornamentale, è una forza efficace. L’uomo e la
donna che si dispongono ad accogliere la
sfida di una durevole alleanza coniugale e
familiare sono perciò degni di ogni
ammirazione e di ogni onore. La stessa
Chiesa, come del resto l’intera comunità
civile, dovranno restituire molto di più, per
quello che ogni giorno, da sempre, ne
ricevono.