principi e obiettivi da tradurre in azione politica e istituzionale

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principi e obiettivi da tradurre in azione politica e istituzionale
UN NUOVO MODELLO
DI SVILUPPO E DI
GOVERNO DEL TERRITORIO
PER USCIRE DALLA CRISI
Proposte di Laboratorio Urbano
per l’incontro seminariale di
Bologna, 13 gennaio 2012
LABORATORIO URBANO, Centro di documentazione, ricerca e proposta sulle città
www.laboratoriourbano.info
Premessa
Laboratorio Urbano lavora da più di un anno sui temi della città, del governo
del territorio e di un nuovo modello di sviluppo attraverso attività di approfondimento,
incontri con specialisti, seminari, elaborazione di documenti - pubblicati in
www.laboratoriourbano.info.
Con il seminario di Bologna del 13 gennaio 2012 Laboratorio Urbano lancia una
serie di proposte su cui ha invitato esperte/i, studiose/i e organizzazioni di nota
autorevolezza culturale con il cui confronto possano maturare una serie di principi e
obiettivi da tradurre in azione politica ed istituzionale nella speranza che i prossimi
mesi risultino decisivi per il tentativo di risposta alla crisi.
Per avviare la riflessione presenta questo documento di analisi e di proposte
per affrontare la crisi dal versante del governo del territorio e di un nuovo modello di
sviluppo. Molti dei fattori della crisi attuale derivano da un’interpretazione errata delle
modalità di sviluppo e di organizzazione della città e del territorio. L’aver puntato in
modo quasi univoco sulla crescita edilizia ha innescato un dilagante processo di
urbanizzazione e degrado del territorio che si è tradotto in costi crescenti per
l’amministrazione pubblica. Sulle casse pubbliche pesano infatti sia le spese erogate a
posteriori di emergenze calamitose generate da incuria o da occupazione di suoli non
idonei alle costruzioni, sia quelle connesse all’incremento degli impegni derivati dalle
nuove edificazioni non più coperti, nel medio-lungo periodo, dagli iniziali oneri di
urbanizzazione e di cui le amministrazioni debbono farsi carico il più delle volte
attraverso disavanzo.
Una dinamica che ha prodotto risultati opposti a quelli immaginati e va
ripensata al più presto in direzione di forme di sviluppo durevoli, ispirate da
preoccupazioni sociali e ambientali. Nella consapevolezza che il futuro nostro e delle
prossime generazioni è determinato dalle scelte di oggi. Che debbono orientarsi alla
qualità del vivere e dell’abitare attraverso politiche coordinate tese alla
riqualificazione, riorganizzazione, riconversione dei patrimoni urbani e territoriali.
Obiettivi urgenti i cui presupposti di giustizia sociale sono interrelati a una ineludibile
svolta economica orientata alla sostenibilità. Le carte dello sviluppo si giocano
insomma sui sistemi territoriali, correggendo le distorsioni, le irrazionalità e gli sprechi
del passato.
Traguardo politico dei prossimi mesi è l’inserimento della limitazione di
consumo di suolo nel Programma Nazionale di Riforma che, compreso tra gli
adempimenti annuali del Patto per l’Euro, verrà consegnato all’Unione Europea ad
aprile 2012.
Proponiamo inoltre si avvii una puntuale ricognizione ufficiale sul consumo di
suolo, che assumiamo come indicatore sintetico dell’insieme delle dinamiche e delle
contraddizioni che caratterizzano il modello economico della crescita quantitativa,
della cementificazione degli spazi, del degrado delle campagne; in Italia non esiste
infatti una ricognizione nazionale in merito.
Prospettiva di più ampio orizzonte è avviare una campagna di sensibilizzazione
e pressione sul governo affinché proceda ad una complessiva e ineludibile riforma dei
principi, degli apparati e degli strumenti di governo del territorio.
Il nostro paese non ha mai avuto e non ha una politica per il territorio e per le
città e sinora non ha dimostrato di possedere gli strumenti adatti, a livello politico ed
istituzionale, per formularla e perseguirla. La stessa cultura urbanistica, che pure ha
avuto nel nostro Paese un ruolo importante, è confinata da tempo nell’angolo,
incapace di suggerire stimoli innovativi e di assumere toni autorevoli nel dibattito
nazionale.
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Eppure la crisi nasce proprio sul terreno del governo delle trasformazioni
territoriali e del ciclo edilizio. Dalla seconda metà degli anni Novanta ai primi anni
Duemila abbiamo assistito al più straordinario incremento di capitale fisso edilizio della
storia del pianeta e la bolla immobiliare si è accompagnata a devastanti processi di
finanziarizzazione dell’economia. Proprio la bolla immobiliare, presupposto di pratiche
finanziarie ad alto rischio, è stata all’origine della più grande crisi di debito della storia.
L’Italia si dimostra anello debole del sistema europeo, priva, a differenza di
altri paesi, di un efficiente sistema territoriale e per aver reagito negli anni del
progressivo disavanzo decentrando il debito e il peso della crisi con una feroce
penalizzazione dei trasferimenti destinati agli enti locali. La medicina è così stata
peggiore del male: l’ulteriore crescita edilizia è divenuta la strategia principale ed
obbligata degli enti locali nel tentativo, nel tempo controproducente, di pareggiare i
bilanci.
L'orientamento che lo Stato ha seguito è stato quello di agganciare al
territorio, alle sue dimensioni costruite e urbanizzate, una parte progressivamente
sempre più importante del gettito tributario locale. I pesanti tagli alle risorse messe a
disposizione degli enti locali, uniti all’attuazione sommaria e contraddittoria del
federalismo fiscale, stanno delegando ai comuni la responsabilità di "costruire nuova
base imponibile", nel tentativo effimero di non ridurre il livello di servizi offerto alle
comunità e alle imprese. In questo modo la ricerca di vantaggi economici che le nuove
espansioni urbane possono produrre si tramuta nel lungo periodo in maggiori costi per
le amministrazioni e, generando effetti concorrenziali per l’accaparramento delle
funzioni più redditizie, è spesso alla base di scelte localizzative che generano
diseconomie, inefficienze e danni ambientali. Un meccanismo che genera maggiori
costi e l’aggravarsi del debito. L'impatto più evidente di questa condizione è leggibile
nella contrapposizione tra urbanizzazione del territorio e interesse pubblico. Si tratta
di un conflitto nel quale l'interesse pubblico rimane schiacciato e profondamente leso.
L’efficienza del sistema territoriale, il governo delle trasformazioni
nell’interesse pubblico, la cura del patrimonio agricolo e paesaggistico e la
salvaguardia dell’ambiente sembrano perciò tra le principali strategie per uscire dalla
crisi e per contrastare l’azione della speculazione finanziaria e immobiliare. Pare così
utile ragionare sui grandi temi della condizione contemporanea, a partire dalle
modificazioni che hanno mutato il contesto fino al punto di generare le condizioni di
difficoltà dell’economia e della cosa pubblica a cui assistiamo.
Conseguentemente intendiamo affrontare quattro questioni che riteniamo centrali:
1. Il tema del complessivo riordino delle competenze delle autonomie locali e del
riordino della fiscalità e della finanza locale per contrastare il peso che grava sul
territorio in conseguenza delle crescenti ristrettezze delle risorse locali.
2. Il tema della qualità della vita nelle città e nelle aree di dilatazione
dell’urbanizzazione, della mobilità che ne è conseguita e di scelte infrastrutturali
coerenti e funzionali alle effettive esigenze.
3. Il tema del welfare, nella sua proiezione territoriale, e quello dell’edilizia sociale,
come
risposta
alle
crescenti
pressioni
derivanti
dalle
migrazioni,
dall’impoverimento delle giovani generazioni e dalla necessità di assistenza alle
generazioni anziane.
4. Il tema del consumo, dell’artificializzazione e della mancata manutenzione del
territorio, della difesa dei suoli, dei paesaggi e della disciplina della produzione
agricola come contrasto alla dilagante incuria del patrimonio naturale e
culturale.
Per ciascuno di questi temi, si accennano obiettivi e possibili strumenti di azione.
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1.
Sul tema della riforma istituzionale e dell’equità fiscale
L’urgenza di una sostanziale riorganizzazione della forma dello Stato e di una
più equa distribuzione del contributo fiscale di ognuno al suo funzionamento è
avvertita ormai da decenni, ma i diversi tentativi compiuti in questo senso sono finora
naufragati nel degrado del confronto politico. I mutamenti sociali e territoriali che
giustificano questa urgenza sono noti e l’inefficienza dei meccanismi di decisione e di
governo ne acuiscono l’evidenza. La drammaticità della crisi ripropone il tema come
presupposto per uscire dalle difficoltà, cosicché è decisivo riflettere sulla direzione di
marcia.
Quale il modello istituzionale e fiscale di riferimento per attribuire al sistema
territoriale italiano efficienza e nuova qualità?
Argomenti obbligati di riflessione sono il Federalismo Fiscale e la Carta delle
Autonomie, sinora impantanati nella paralisi della contrapposizione politica, ma
entrambi decisivi per portare ordine nelle competenze e nei conflitti istituzionali e per
attribuire efficacia all’azione del governo del territorio alle diverse scale di
competenza. Manca una riflessione sulla visione prospettica da attribuire a queste
riforme, che sappia connettere gli obiettivi alla situazione di contesto, alla specificità
del territorio e della sua storia, che sappia leggere con chiarezza le ragioni delle
difficoltà e del ritardo e in questa luce cercare correttivi.
A partire dall’Unità l’anomalia italiana è rappresentata da un sistema a centro
debole e a forti e differenziati sistemi locali a cui, nel tentativo di dominare questa
diversità, ha corrisposto una rigida centralizzazione normativa, con relativa uniformità
e persistente centralizzazione amministrativa. Così non esistono le città, ma solo i
Comuni, per i quali valgono gli stessi obblighi, sia che vi abitino poche centinaia di
cittadini, sia che concentrino milioni di abitanti. Analogamente non esistono i vasti
territori dominati dalle emergenze naturali ed idrogeologiche, ma persistono
dimensioni di governo territoriale improprie, come quelle provinciali, nate per il
controllo politico e sociale delle popolazioni.
L’istituzione delle Regioni e due generazioni di leggi urbanistiche regionali non
hanno risolto questa avversione postunitaria per le diversità delle combinazioni
territoriali e la stessa Costituzione non ha saputo (o potuto) adeguarsi ai grandi
cambiamenti che nel tempo si sono verificati.
Si pongono dunque tre obiettivi:
a) adeguare dimensioni e competenze degli Enti preposti al governo dei fenomeni
territoriali, di cui vanno riconosciute le nuove caratteristiche;
b) rendere la finanza comunale meno dipendente dall’attività edilizia;
c) dare pieno riconoscimento alle differenze territoriali ed articolare di
conseguenza le politiche.
A cui possono corrispondere altrettante ipotesi operative:
a) fare pressione affinché nella nuova Carta delle Autonomie siano chiare le
competenze da attribuire, in tema di pianificazione territoriale, alle Città
Metropolitane e alle Unioni di Comuni, operando concretamente perché
l’attribuzione delle competenze urbanistiche ai Comuni sia stabilita soltanto in
assenza di scarse relazioni territoriali con i Comuni confinanti; operare perché le
leggi regionali di adeguamento ai recenti provvedimenti di soppressione delle
Province rafforzino i compiti di coordinamento da affidare alle Regioni;
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b) alleggerire il peso fiscale che ricade sulla casa e sull’attività edilizia, spostando il
prelievo sui patrimoni e sulla proprietà delle aree e introducendo tasse di scopo;
introdurre meccanismi di alleggerimento fiscale sulle opere di recupero e di
ammodernamento energetico;
c) riconoscere le differenze territoriali ed articolare le politiche puntando sulla
pianificazione piuttosto che su una nuova generazione legislativa regionale;
premere conseguentemente per il finanziamento di una nuova stagione di piani
(delle Unioni dei Comuni), da connettere con la graduale attuazione dei
provvedimenti federalistici di prelievo fiscale e con la sistematica applicazione di
criteri di compensazione territoriale finalizzati a distribuire equamente le
esternalità positive o negative.
2.
Sulla qualità della vita nelle città e nelle aree di urbanizzazione,
sulla mobilità e scelte infrastrutturali coerenti
I grandi mutamenti sociali avvenuti nell’ultimo trentennio hanno reso
problematica la situazione della gran parte delle maggiori città italiane, situazione che
assume proporzioni critiche nel caso delle città metropolitane. Per diverse ragioni
(scala dei problemi, accumulo di questioni non trattate tempestivamente, carenza di
risorse da malgoverno, feudalizzazione dei mercati e della sfera pubblica) esse
mostrano un carico di problemi spesso grave. Ciò riverbera sulla vivibilità urbana,
infatti proprio in queste città maggiori, maggiore è anche lo scontento dei cittadini,
che inutilmente premono per ottenere ambienti e servizi migliori (trasporto pubblico,
housing sociale, politiche sociali, manutenzione ordinaria della città).
Le grandi città italiane presentano caratteri qualitativi di gran lunga inferiori a
quelli delle corrispondenti città europee. Ciò è grave, tanto più tenendo conto che in
queste aree si concentra tanta parte della popolazione, delle attività produttive, delle
funzioni direzionali, dei potenziali di futuro in termini di società della conoscenza.
All’interno di queste città proprio le sedi delle principali funzioni pubbliche, a
cominciare da ospedali, scuole e università, sono prossime alla fatiscenza. Di
conseguenza nelle aree urbane a carattere metropolitano, assieme ai più elevati
redditi familiari, si concentra la maggior parte del malessere urbano, dei problemi
sociali non trattati e in generale della penuria di vivibilità, con gravi perdite anche in
termini di potenzialità e opportunità.
Una delle principali cause del malessere risiede nel mancato governo dei flussi: i
servizi pubblici nell’area urbanizzata, il conflitto permanente tra uso del mezzo privato
e qualità dell’aria, il clima acustico e l’agibilità degli spostamenti e delle soste
(parcheggi, tempi di percorrenza, ecc) e più in generale le carenze e scarso
coordinamento di reti di trasporto e di comunicazione (autostrade, alta velocità,
telecomunicazione, reti di energia).
In questo campo è venuta affermandosi, in particolare negli ultimi venti anni,
una concezione dell’infrastruttura che esalta, fino a rendere prevalente se non
esclusivo, il suo aspetto di “opera pubblica”, a prescindere dalla concreta utilità e dalla
coerenza con il contesto insediativo a cui viene incardinata. Una distribuzione delle reti
infrastrutturali e di trasporto che denuncia il disallineamento tra progettazione del
territorio e politiche per la mobilità, con effetti spesso conflittuali e inefficaci, oltre che
un orientamento che privilegia la mobilità individuale su quella collettiva.
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Si pongono, a questo proposito, due principali obiettivi:
a) contrastare, nell’attività legislativa regionale e in quella di pianificazione delle
Unioni, lo sprawl e il progressivo consumo di suolo;
b) allineare le attività di pianificazione delle reti con quella di pianificazione degli
insediamenti, sia nella fase progettuale che in quella della realizzazione e
gestione.
A cui possono corrispondere altrettante ipotesi operative:
a) introdurre nelle leggi regionali e nei piani criteri “interdittivi” (limite fisico o
quantitativo) temporalizzate o “condizionali” (reciproche relazioni di causa ed
effetto; ipotesi insediative condizionate dal raggiungimento di determinati
obiettivi nei servizi, nella mobilità o nella difesa dell’ambiente, ecc.),
generalizzando in ogni caso all’area vasta le soluzioni cooperative e di equa
distribuzione delle esternalità, sia quelle positive che, quando non contrastabili,
quelle negative;
b) allineare la pianificazione e l’attuazione delle infrastrutture di mobilità con la
pianificazione degli insediamenti e delle più generali attrezzature urbane,
attraverso obblighi procedurali (approvazione congiunta dei diversi piani di
settore; interdizione reciproca di previsioni contrastanti; inoperatività di
finanziamenti non coerenti, ecc.).
3.
Sul tema del welfare e dell’abitare
I mutamenti delle condizioni sociali di vita prodotti dalla globalizzazione sono
noti. La fine del lavoro fordista e del contesto sociale connesso, la crescita vertiginosa
delle tecnologie informatiche e degli strumenti di comunicazione, le ondate delle
migrazioni e la conseguente mutazione della distribuzione del lavoro sono tra i
fenomeni più evidenti.
Contemporaneamente, e in conseguenza di questi mutamenti, sembra
determinarsi nella generalità della popolazione la domanda di un diverso modello di
vita: domanda di verde, di sicurezza, di mobilità sostenibile, di cultura accessibile, di
abitazioni a prezzi abbordabili. Attualmente l’equilibrio tra queste aspirazioni private e
il benessere pubblico sembra parzialmente raggiungibile solo nei centri minori o medi,
come ci segnalano tutte le statistiche in proposito. Altrimenti le aspirazioni sono
costrette a prendere la strada illusoria e insostenibile delle “villettòpoli” e dello sprawl.
I principali elementi di sofferenza si manifestano nelle condizioni estreme, da
un lato dove continua a progredire l’abbandono (con disastrose conseguenze
ambientali) e dall’altro dove aumentano la concentrazione e il processo di
urbanizzazione, complicato dalle caratteristiche multietniche. Gli sforzi del welfare
dovrebbero dunque riorganizzarsi rispetto a questa nuova distribuzione dei bisogni
sociali e rivolgersi da una parte alle aree a bassa densità abitativa della collina e della
montagna, e dall’altra alle aree a forte concentrazione funzionale e metropolitana. In
questa nuova geografia umana vanno individuate e soddisfatte le specifiche esigenze
di welfare e benessere, da un lato contro l’ulteriore abbandono e dall’altro contro il
diffondersi dello sprawl.
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Per quanto riguarda l’abitare, due aspetti concorrono a determinare l’attuale
grave sofferenza, in particolare nelle aree metropolitane: da un lato la debolezza e la
scarsa efficacia delle politiche nazionali in materia di sostegno alla casa, dotate di
risorse progressivamente calanti fino al loro pratico azzeramento; dall’altro la
condizione di disagio che si allarga – testimoniata anche dall’ultimo rapporto della
Fondazione Zancan/Caritas italiana – e che va riferita non solo alla povertà materiale,
ma anche all’azzeramento delle prospettive di futuro per i giovani, alla scarsa mobilità
sociale e territoriale delle generazioni e infine alla crescente difficoltà, per le
generazioni anziane, a mantenere i precedenti livelli e abitudini di vita. Difficoltà a cui
si aggiunge il crescente flusso di migrazione con scarsa solvibilità che va ad ingrossare
la domanda di abitazione.
Il problema abitativo è dunque componente fondamentale di un più generale
disagio sociale. Ne consegue che non esistono risposte al problema della casa se non
integrando le politiche abitative con quelle dell’inclusione sociale.
Per queste ragioni è necessario trattare l’abitazione sociale come un naturale
corollario del più generale tema dei servizi e concepire la dotazione di una quota
significativa di abitazioni a prezzo calmierato come necessaria integrazione delle
politiche del welfare e della dotazione di “standard” pubblici.
Al contrario le scelte operate in tema di abitare hanno dichiarato la resa
azzerando i trasferimenti agli enti locali, sostenendo implicitamente che l’abitare non
fa più parte delle politiche di coesione nazionale e va sganciato dagli ammortizzatori
sociali e reddituali. Si è così accreditata la convinzione che contrastare un mercato
dell’abitazione rigido e inaccessibile, oltre che inaffidabile per la scarsa qualità dei
servizi offerti, rappresenti un freno per l’economia e la produzione. Si è smentito in
questo modo il principio radicato e ragionevole che un moderno ed efficiente “sistema
dell’abitare” sia parte strategica del sistema locale dell’impresa e del lavoro.
Negli ultimi vent’anni il mercato abitativo ha goduto di rendimenti sbalorditivi,
producendo volumi di offerta straordinari, ma non in linea con la solvibilità della
domanda corrente. Oggi è lo stesso mercato a trovarsi in difficoltà, con imprese e
lavoratori a subire gli effetti di una crisi senza precedenti. Crediamo sia opportuno
tornare a coinvolgere il mondo dell’impresa nella soluzione del problema abitativo,
attraverso provvedimenti che incentivino il contributo privato all’edilizia sociale, anche
operando con rigore nella riappropriazione pubblica di parte della rendita.
Negli stessi anni abbiamo assistito a dolorosi paradossi: il capitale sociale
accumulato per i servizi abitativi è stato progressivamente svenduto e quel che è
rimasto ha alimentato disuguaglianze straordinarie: più di metà dei residenti nel
patrimonio pubblico paga un affitto mensile irrisorio, frutto di una rigidità gestionale e
di una inefficienza burocratica che, in una situazione di grave disagio abitativo, rende
stridente l’esistenza di vere e proprie sacche di privilegio.
Si pongono, anche in questo caso, tre principali obiettivi:
a) riaffermare che l’edilizia sociale è una componente essenziale dell’equilibrio
economico e sociale del paese;
b) recuperare parte della rendita conseguente alle trasformazioni territoriali per
dedicarla allo sviluppo dell’housing sociale;
c) contrastare la prospettiva di svendita del patrimonio pubblico e promuovere
una radicale riforma dei criteri di gestione del patrimonio.
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A cui corrispondono altrettanti indirizzi operativi:
a) reintrodurre nella legislazione nazionale e regionale una quota minima di
housing sociale connesso alle trasformazioni territoriali, trattando l’abitazione
sociale come un naturale corollario del più generale tema dei servizi e
concependo la dotazione di una quota significativa di abitazioni a prezzo
calmierato come necessaria integrazione delle politiche del welfare e della
dotazione di “standard” pubblici;
b) coinvolgere il mondo dell’impresa nella soluzione del problema abitativo,
attraverso provvedimenti che incentivino il contributo privato all’edilizia sociale
e operando con rigore nella riappropriazione pubblica di parte della rendita;
c) promuovere ricerche conoscitive in grado di monitorare e fornire realistiche e
aggiornate valutazioni dei prezzi dei suoli e degli immobili appartenenti al
patrimonio pubblico; sollecitare gli uffici di Comuni e Unioni ad attrezzarsi per
tale attività di valutazione, che va connessa agli strumenti di pianificazione,
per garantire alle alienazioni procedure di assoluta trasparenza.
4.
Sul consumo, l’artificializzazione, la mancata manutenzione del
territorio, la difesa dei suoli, dei paesaggi e dell’agricoltura
Nell’assicurare qualità, efficienza e coesione al sistema territoriale non si
possono separare le politiche per le città da quelle per lo sviluppo delle risorse
agricole, naturali e paesaggistiche del territorio rurale.
E’ convinzione di molti che nei prossimi anni, in corrispondenza dell’incremento
dei consumi alimentari nei grandi paesi emergenti si registrerà una enorme domanda
aggiuntiva di produzione agro alimentare, mentre i cambiamenti climatici
impatteranno sempre più spesso in maniera drammatica sul territorio rurale, agricolo
e naturale e sulla risorsa suolo. Il rischio infatti non è esclusivamente riconducibile ai
processi di cementificazione e di urbanizzazione, ma anche alla progressiva
diminuzione della quota di territorio rurale (agricolo e naturale) sottoposta a pratiche
di “manutenzione”, pratiche in passato garantite dalla diffusa presenza di agricoltori.
Un bosco non utilizzato e manutenuto costituisce un aumento di “naturalità” dai
risvolti nefasti, rappresenta elemento di rischio e causa di gravissimi danni per le
attività antropiche, come confermano i frequenti eventi calamitosi.
Dunque da un lato si rende necessaria una strategia nazionale di
mantenimento del tessuto territoriale dedicato alla produzione agricola per il
conseguimento dei nuovi obiettivi di politica comunitaria nella prospettiva 2020, da
incentrare su un concetto integrato di sicurezza alimentare (disponibilità quantitativa
di prodotti alimentari a prezzi adeguati e loro qualità intrinseca e sanitaria); dall’altro
si pone l’esigenza di strategie di gestione sostenibile dei diversi sistemi montani
italiani, a ribadire l’importanza delle risorse forestali e del territorio rurale non agricolo
ai fini di contrasto al cambiamento climatico e al degrado dei suoli, per promuovere la
produzione e la regolazione idrica, il mantenimento della biodiversità, la produzione di
biomasse, la cura dei paesaggi, la difesa del suolo e la riduzione dei rischi
idrogeologici.
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La sfida più complessa deriva dalla necessità di individuare soluzioni per la
gestione della porzione crescente di territorio rurale non più agricolo, cioè gestito da
altre forme di titolarità fondiaria non facenti capo ad una azienda produttiva, come
quelle acquisite a fini residenziali da cittadini in fuga dalla città.
Può dunque essere assunto l’obiettivo, per la pianificazione dei territori rurali e
delle aree di abbandono a dimostrata fragilità, di promuovere l’assunzione di
responsabilità da parte dei nuovi proprietari e il ripristino graduale di pratiche di difesa
attiva e puntuale dei suoli, costituita più di buona manutenzione ordinaria e diffusa
che di tamponamenti emergenziali.
Obiettivo che va affiancato a quello prioritario della riqualificazione del quadro
paesaggistico ed ambientale identitario dell’assetto rurale, in particolare per i territori
che nella ricchezza ambientale e nel paesaggio esprimono le principali chances di
sviluppo locale.
Il raggiungimento di questi obiettivi può essere fondato anche su politiche di
compensazione connesse al recupero del patrimonio edilizio rurale, assegnando
compiti, doveri ed oneri in modo continuativo a tutti i soggetti che nel territorio rurale
risiedono. E’ possibile ipotizzare anche regolamenti di gestione sostenibile dei suoli,
prescrivere il ripristino del reticolo idraulico minore e la promozione, tramite
convenzionamento, di una collaborazione attiva e perdurante nel tempo tra detentori
di suoli rurali ex agricoli e agricoltori disponibili alla fornitura di servizi di
manutenzione territoriale, ambientale e paesaggistica. Vanno inoltre favorite le colture
biologiche di prossimità, incentivando i gruppi di giovani che desiderano dedicarsi
all’agricoltura ma non riescono ad accedere alla campagna a causa dei costi.
Si pongono, in questo caso, due principali obiettivi:
a) riaffermare il principio della centralità della manutenzione ordinaria del
territorio, fermando per quanto possibile l’ulteriore esodo dalle aree disagiate
e responsabilizzando a questo compito i ceti sociali che vivono nell’area vasta;
b) promuovere azione di contrasto a politiche agricole irrispettose delle
caratteristiche dei luoghi, anche favorendo nuove forme di agricoltura
biologica di prossimità.
A cui possono corrispondere altrettanti indirizzi operativi:
a) promuovere la generale revisione dei regolamenti di gestione delle aree
forestali e naturali e il ripristino graduale di pratiche di difesa attiva e puntuale
dei suoli, anche imputando responsabilità ai nuovi proprietari; nell’attività di
pianificazione connettere queste nuove attribuzioni con i processi di recupero
del patrimonio abitativo sparso, prevedendo a questo scopo un contributo,
anche finanziario, tra le dotazioni di servizi atti a mantenere in loco la
popolazione rurale;
b) stabilire forti connessioni, tramite la legislazione regionale, tra produzione
agricola sovvenzionata e criteri di rispetto del patrimonio naturale e
paesaggistico, anche fissando consistenti contributi finanziari compensativi a
carico delle grandi opere infrastrutturali che attraversano i territori agricoli, sia
nella fase di realizzazione che in quella di manutenzione.
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➢ Il contenimento del consumo di suolo fulcro della proposta
di Laboratorio Urbano
I quattro nodi problematici che sin qui abbiamo illustrato convergono in una
matrice comune che possiamo condensare nel termine “consumo di suolo”. Un indice
sintetico in grado di documentare il livello di artificializzazione e immobiliarizzazione
del territorio. Un dato che abbiamo deciso di utilizzare come misura dell’insieme delle
dinamiche e delle contraddizioni che hanno caratterizzato il modello economico della
crescita quantitativa edilizia, della cementificazione degli spazi, dell’urbanizzazione
delle campagne, della mancata manutenzione, dello spreco di qualità e di risorse
economiche e ambientali.
In Italia non esiste una ricognizione statistica ufficiale in merito, ma solo studi
parziali di scarsa confrontabilità scientifica. Laboratorio Urbano si è fatto promotore,
presso l’Istat e gli organismi governativi che decidono in materia, di un’istanza di
indagine nazionale sul fenomeno.
La puntuale quantificazione potrà infatti consentire l’avvio di politiche di
contenimento di cui Laboratorio Urbano intende farsi portavoce presso il governo
italiano, per sollecitarlo a includere la limitazione del consumo di suolo tra gli obiettivi
del Programma Nazionale di Riforma che, compreso tra gli adempimenti del Patto per
l’Euro, verrà consegnato all’UE ad aprile 2012. Un tassello emblematico della nostra
riflessione che consente di prefigurare il superamento della cieca immobiliarizzazione
operata in questi anni e nuove direzioni dello sviluppo rispettose dell’ambiente e della
territorialità.
Il monitoraggio, svolto con regolare periodicità dall’Istituto centrale di
statistica, o comunque da questo coordinato e validato sotto il profilo scientifico
affidando semmai il compito della rilevazione ai Comuni, potrà consentire il controllo
dell’artificializzazione dei suoli e l’avvio di politiche di limitazione. Che proponiamo
debbano subordinare nuove occupazioni al riuso di volumi preesistenti e alla loro
riqualificazione in senso energetico, di dotazioni di servizi e di fruizione da parte di
categorie disagiate di popolazione. Il settore edilizio, anch’esso fortemente penalizzato
dalla crisi con perdite importanti di forza-lavoro occupata, dovrà riconvertirsi al campo
della riqualificazione, non solo dei nuovi edifici, ma del patrimonio edilizio preesistente
che, per epoca di costruzione, condizione manutentiva, mancanza di opportuni
accorgimenti per non disperdere il calore, è grande dissipatore di energia. In questa
direzione andranno pensate opportune forme di incentivazione o disincentivazione atte
a favorire il risparmio energetico e attività di controllo e certificazione basate su criteri
nitidi scientificamente fondati.
L’analisi ufficiale del consumo di suolo è opportuno avvenga sulla base delle
diverse tipologie di uso dei suoli per poter mettere in relazione i dati con le qualità
ambientali e storiche intrinseche delle diverse porzioni di territorio, in modo da
consentire non una quantificazione generica ma una valutazione nel merito.
Monitorando dunque non solo l’occupazione ma anche, ad esempio, l’abbandono,
fenomeno altrettanto allarmante per gli equilibri territoriali. Due fenomeni
apparentemente opposti che stanno alle estremità di una gamma molto ampia di
casistiche diversificate. Categorie che dovranno entrare, e rivestire un peso diverso,
tra i parametri di pianificazione.
In merito alla fissazione di limiti all’occupazione di suolo, un esempio
interessante per il contesto da cui emerge, è la Repubblica Federale Tedesca che ha
cominciato a discutere di invertire la rotta rispetto al consumo di suolo già a metà
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degli anni ’80, fissando una serie di indirizzi regolamentari oltre che metodi e
strumenti di monitoraggio e valutazione. Una sensibilità ai temi ecologici e territoriali
che rientra nel patrimonio culturale ambientalistico condiviso dagli schieramenti
politici e dunque ha potuto tradursi in un quadro di orientamenti che negli anni si è
andato consolidando fino al varo nel ’98 di direttive per la tutela dei suoli che si fonda
sul proposito di slegare in modo duraturo lo sviluppo economico dall’occupazione di
suolo. Benché anche in Germania i risultati operativi non siano raggiunti e l’obiettivo
di abbassare il consumo di suolo a 30 ettari al giorno, rispetto ai 129 iniziali, da
raggiungere entro il 2020, tappa intermedia per la crescita zero entro il 2050, sia lungi
dall’essere raggiunto, si è almeno avviato un processo di responsabilizzazione e
controllo.
Un’indicazione che va contestualizzata nell’ambito della svolta ambientalista
compiuta dalla Germania negli ultimi decenni, sia in tema di politiche urbane
(riqualificazione energetica e trasporti in particolare) che di economia verde a
supporto di questi indirizzi. Basti pensare che, mentre in tutti i paesi europei
aumentavano a dismisura gli investimenti in costruzioni (Irlanda +82,2%, Spagna
+73,4%, Grecia +69,9%, paesi oggi nel ciclone della crisi), nella fase della bolla
immobiliare la Germania è stata l’unica nazione con un calo degli investimenti nel
settore (-12,8% nel medesimo arco di tempo 1998-2007). Ne dobbiamo conseguire
che la scelta di sganciare lo sviluppo dal consumo di suolo, e più in generale dal
modello della crescita immobiliare e dell’urbanizzazione senza criterio, ha dato frutti
eccellenti all’economia trainante dell’Unione Europea.
In Italia l’esplosione della bolla immobiliare non ha prodotto gli effetti di
deprezzamento dei valori, anche catastrofici, che si sono verificati nel resto del mondo
(Cresme indica un deprezzamento medio nazionale del -17,2%). Le famiglie italiane,
quelle con buone dotazioni economiche, stanno arginando la frana, attendono a
vendere pur di non abbassare i prezzi, le transazioni infatti sono in stasi. Ma è in forte
sofferenza chi si è esposto in mutui: tra 2008 e 2010 i pignoramenti per mancato
pagamento dei ratei sono aumentati del 70%, al punto che Adusbef valuta 150.000 le
abitazioni in liquidazione, una città di medie dimensioni.
Una crisi che colpisce anche il versante imprenditoriale: il settore dell’edilizia
residenziale ha perso il 38% del fatturato tra 2007 e 2010, con una diminuzione di
250.000 posti di lavoro. La sovrapproduzione degli anni del boom ha inoltre
disseminato il territorio di edifici invenduti, un fenomeno di difficile quantificazione ma
di cui gli operatori del settore sono ben consapevoli, al punto da invocare il
cambiamento degli indirizzi della politica economica nazionale - sinora invano, i Piani
casa, ad esempio, sono successivi all’esplosione della bolla, per fortuna sono stati un
fallimento, gli italiani sono stati più accorti di chi li governava.
L’Italia è vittima di una concezione distorta di crescita associata al “mattone” e
con il rigetto della regolazione pianificata del territorio ha abbandonato anche l’idea di
governare lo sviluppo. Mentre proprio dal modello di sviluppo economico, a partire da
quello locale e dal ruolo che i sistemi urbani esercitano nell’organizzazione dei fattori
economici e sociali, deve partire la riflessione sulla riforma delle politiche di governo
del territorio.
In questo quadro l’adozione di indici quantitativi di contenimento del consumo
di suolo può diventare un efficace mediatore comunicativo per promuovere una
cultura del territorio più consapevole e orientata a obiettivi di qualità.
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In Emilia-Romagna, benché gli indici di consumo di suolo nell’ultimo
quinquennio si siano abbassati, il cambiamento pare più legato alla stasi del settore
che a precise scelte. Se guardiamo infatti i Piani Strutturali approvati di recente
troviamo previsioni urbanistiche sovradimensionate a una domanda statica, a una
dinamica di popolazione che non giustifica espansioni di tale portata e a una
ingombrante presenza di invenduto. Anche in Emilia, nonostante normative regionali e
indicazioni contenute negli strumenti urbanistici di area vasta, non si è ancora
accreditata al livello della pianificazione effettiva, la consapevolezza delle implicazioni
dalla logica edificatoria e si continua a puntare in maniera miope sugli oneri di
urbanizzazione, senza valutarne le conseguenze nel tempo. Riteniamo però che nella
nostra regione esistano le sensibilità per proporsi come campo di sperimentazione di
nuove pratiche virtuose e la rinascita di una cultura del progetto territoriale.
La regione Emilia-Romagna, in applicazione alle proprie leggi e alla luce degli
indirizzi contenuti nel PTR, dovrebbe promuovere e anticipare il processo nazionale
attraverso un “Patto per il risparmio delle aree", concordato tra regione, province,
comuni e associazioni, come ad esempio è stato fatto qualche anno fa in alcuni lander
tedeschi come la Baviera. Analoga iniziativa dovrebbe essere assunta dalla Provincia
e dalla Conferenza metropolitana dei sindaci di Bologna, in coerenza con il PTCP, che
potrebbero assumere impegni quantitativi per il contenimento del consumo di suolo
coerenti con il patto regionale.
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