1 Ivan Nicoletto Nel tentativo che segue, di coniugare fra di

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1 Ivan Nicoletto Nel tentativo che segue, di coniugare fra di
PRESENTI AL PRESENTE.
INTRECCI FRA CULTURA CONTEMPORANEA E MONACHESIMO
Ivan Nicoletto
Io temo tanto la parola degli uomini.
Dicono tutto sempre così chiaro:
questo si chiama cane e quello casa,
e qui è l’inizio e là è la fine.
E mi spaura il modo, lo schernire per gioco,
che sappian tutto ciò che fu e sarà;
non c’è montagna che li meravigli;
le loro terre e giardini confinano con Dio.
Vorrei ammonirli, fermarli: state lontani.
A me piace sentire le cose cantare.
Voi le toccate: diventano rigide e mute.
Voi mi uccidete le cose.
R.M. Rilke, Le poesie giovanili.
Nel tentativo che segue, di coniugare fra di loro fenomeni quanto mai irriducibili quali il
monachesimo e la cultura contemporanea, risuona augurale la voce del poeta che ci avverte del
pericolo, connaturato al parlante, di pietrificare il flusso, vivo e inesauribile, della realtà, di
attribuire autoritariamente all'esperienza significati definitivi. Non è un caso che uno dei mutamenti
più profondi in atto nella percezione umana riguardi la crisi dell'illusione di controllo sul mondo da
parte di individui o collettività, e il sorgere dello stupore per l'incommensurabilità della vita che
accade, alla quale gli schemi consolidatisi nel tempo e nelle strutture della psiche non
corrispondono più.
Provare a scorgere possibili interfacce fra istanze della cultura attuale e dello spirito
monastico, con ospitalità ed empatia, mi pare si intoni con l'invito rivoltoci di sentire le cose
cantare. Appello che suscita un'apertura continua degli orizzonti, una ricerca che mai si accontenta,
spazi di risonanza a favore di un Dio che si rivela spiraglio e crepa nel tessuto dei linguaggi umani,
scintilla che nell'attimo si produce, un'altra sponda che si apre in questa.
Nell'esplorazione che propongo, tra i paesaggi suggestivi, impervi e inafferrabili del presente,
vorrei tentare un interloquio a quattro voci che si dispiega nel modo seguente: la trama ecologica
della realtà; una conoscenza sensibile; l'approccio interculturale; sui confini.
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1. La trama ecologica della realtà
Oggi non è più pensabile una totalità
che non sia potenziale, congetturale, plurima.
Italo Calvino
Crederti è accogliere la Tua misura.
Davide Maria Turoldo
Uno degli aspetti che più contraddistinguono la coscienza contemporanea riguarda la visione
ecologica della realtà. Dagli ambiti più diversi della conoscenza umana sta affiorando una nuova
prospettiva della vita in cui si dissolve la riduzione del mondo a meccanismo, operata dalla scienza
cartesiano-newtoniana e va dischiudendosi una concezione olistica, che pone al proprio centro la
complessità delle espressioni vitali. Mentre finora ha prevalso un approccio settoriale, oggettivo e
univoco nell'accostarsi ai fenomeni, l'ambito nascente considera ogni essere vivente attivamente
coinvolto in una danza di relazioni interdipendenti fra eventi biologici e psicologici, culturali,
sociali e simbolici, in cui la mente non è più separata dal corpo o dal contesto in cui vive.
Scopriamo con stupore un primato della connessione sulla separazione: ogni forma e funzione
biologica, dalla cellula fino alle dimensioni complesse della coscienza e della cultura umana non
sono determinate soltanto da una struttura organizzativa di autogenerazione chiusa e autarchica.
Esse sono invece attraversate da un flusso di materia e di energia che le relaziona permanentemente
con l'ambiente esterno, provocando incessanti scambi e cambiamenti strutturali, sviluppando di
conseguenza realtà sempre nuove e imprevedibili. Tale coniugazione di ogni sistema vivente con il
proprio habitat ci induce a percepire l'esistenza di un'intelligenza creatrice che non concerne tanto
un singolo individuo, quanto pervade lo sviluppo della vita, l'intera biosfera. Un'attività senziente e
cognitiva immanente alla materia, a tutti i livelli in cui essa si manifesta, dai microrganismi fino alle
creazioni poetiche, simboliche e immaginative della mente e dei linguaggi umani.
Dalla percezione della natura e del mondo come organismo vivente e non più come
meccanismo, nasce una nuova relazione fra l’umano, la terra e il cosmo che fa esplodere la pretesa
umanistica di considerare l'uomo come centro dell’universo e misura di tutte le cose, impermeabile
alla contaminazione esterna, isolato dal paesaggio animale e strumentale che lo circonda. Sta
affiorando un'altra percezione, che contesta quel rapporto prometeico di padronanza e di dominio
utilitaristico nei confronti delle alterità non umane, tanto da attentare a tutte le altre forme di vita del
pianeta e rischiare la nostra stessa distruzione.
L’epistemologia e le scienze umane contemporanee ci insegnano che la sfera antropologica
non sussiste mai come un universo chiuso in un'insularità essenziale, compiuta e perfetta. Si fa
invece strada l'idea di un uomo in fieri e in costante rapporto all’altro da sé -animale, strumento o
ambiente- che lo altera e lo mantiene in un non-equilibrio creativo, dando origine a sempre nuove
funzioni e a bisogni che non ci saremmo mai potuti immaginare. Il percorso culturale dell'uomo lo
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rende sempre più partecipe e coinvolto nell'universo, in un rapporto che è frutto di processi di
coniugazione, di reciproca infiltrazione con la realtà esterna. Tale apertura del sistema uomo crea
l'instabilità dell'essere umano e la capacità d'inaugurare nuove mete che inevitabilmente si
trasformano in ulteriori aspettative a loro volta mai esaudibili, innescando un fattore dinamico di
instabilità e di evoluzione incessante e creativa.
Avvertiamo l’umano come una compagine aperta e inquieta, dinamica e immatura,
consistente in un processo inconcluso di meticciamento con il mondo, che iscrive nella carne umana
un significato sempre nuovamente da scoprire e da interpretare. Possiamo così immaginare l’uomo
come un bacino di virtualità che si attualizzano attraverso un commercio con i propri simili e con
l’alterità non-umana, tecnologica o animale, biologica o spirituale, il cui scambio modifica, attiva e
arricchisce incessantemente la dotazione umana e inaugura nuovi percorsi evolutivi, che accolgono
l’instabilità e l'incompletezza come elementi potenziali di senso.
La specie uomo non si caratterizza più, secondo questa prospettiva, come un'identità
autoriferita, sostanza o subiectum, ma secondo il rapporto alterante con l'altro, grazie alla
declinazione con il diverso da sé da cui possono emergere le più autentiche prestazioni espressive
della persona. Da questo punto di vista la storia della nostra specie appare come un processo
immane di scambi, mutazioni, arricchimenti, senza un piano prestabilito, in una partita fra
invenzione, azzardo e libertà…
E’ entusiasmante scoprire che nella singolarità di ciascuno di noi sono iscritti i mutamenti e le
prestazioni sensoriali avvenuti nel corso dell’immersione avventurosa della nostra specie nel tempo.
Siamo segnati dai codici emotivi e cognitivi nati dall’incontro del corpo con le alterità del mondo.
Nella nostra carne sensibile echeggiano i milioni di istanze puntiformi che sono le pressioni
selettive, gli esperimenti ibridativi dei nostri progenitori, la rilevanza delle loro scoperte come
scacco o come successo, i legami che li hanno uniti o opposti fra loro, le connessioni con gli
animali e gli strumenti, le loro teorie e i sogni, i loro miti e le loro paure, le cose che li circondavano
e che sono risuonate nella loro anima, il loro odorare, ascoltare, vedere, pregare, estasiarsi:
“Noi esseri umani abbiamo esplorato l’universo delle piante e degli insetti.
Abbiamo fatto abbondare i mondi degli dei e delle parole; i mondi dei
sapori e dei profumi; il mondo delle forme astratte delle matematiche e
quello dei giochi… Abbiamo immaginato gli universi in espansione della
danza e della musica. Abbiamo ingrandito il cosmo fisico, esplorato dalle
scienze, nel tempo, nello spazio e nella complessità. Abbiamo creato gli
inferni della follia, della tortura e della guerra. Abbiamo scavato fino
all’infinito del cuore i mondi interiori della spiritualità. Abbiamo elaborato
le sfere mitiche, rituali e morali delle religioni favolosamente
diversificate… Gli spazi delle profondità labirintiche o celesti del sogno, e
della poesia… fino agli attuali mondi virtuali che non sono che gli ultimi
nati, fra i mille mondi inventati dalla cultura. Abbiamo inventato tutta
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questa profusione di ricchezze! Non avevamo “bisogno” di tutto questo.
Ma l’essere umano non può impedirsi d’inventare, d’immaginare, di
partecipare alla creazione di un universo di forme in espansione.” (Pierre
Levy)
Ognuno di noi è partecipe di questa creazione in atto, di questo immenso corpo sensibile e
senziente, ciascuno è segnato da questa sovrabbondanza di possibilità, consegnato alla
responsabilità di corrispondervi creativamente e appassionatamente, scorgendo nel tessuto esile ed
esaltante del corporeo l’intreccio dell’umano fare con quello divino. Alcuni teologi, Jürgen
Moltmann ad esempio, riconoscono che questa prospettiva si avvicina ad una visione sacramentale
del mondo, come abitazione di Dio stesso, dove il termine stesso di ecumene, che deriva dalla
tradizione giudaico-cristiana, designa l’intera terra abitata, il mondo come dimora degli umani e
come casa comune di tutti i viventi della terra, inclusa l’immensa varietà di esperienze che ci offre
questo pianeta. Essere ecumenici ci invita a scoprire come la nostra specie umana è correlata
all’intero sistema della vita.
Questa emergente percezione informa anche la stesura della Carta della terra (2OOO) che
nell'intenzione dei responsabili, rappresentanti dei cinque continenti, vorrebbe costituire una sorta
di patto tra i popoli. Invitando alla lettura della stessa Carta, vorrei riportare alcuni passaggi tratti
dalla premessa.
“Cominciamo a riconoscere l’arroganza del nostro punto di vista sul
pianeta, considerato principalmente una risorsa naturale da utilizzare,
anziché una presenza intima capace di evocare quella meraviglia e quella
bellezza, quella guarigione e quell’ispirazione, che è il soddisfacimento del
nostro mondo interiore…”.
“Anche la profonda sofferenza, che dipende dalle disuguaglianze sociali,
può trovare conforto nella riscoperta della radice comune di tutte le forme
di esistenza naturale. La terra fertile costituisce l’unica sorgente per il
nostro nutrimento; l’atmosfera che avvolge il pianeta è la sola riserva di
ossigeno; l’acqua, che scorre nei ruscelli e nei fiumi, che nasce dalle
sorgenti, che si deposita in profondità nelle falde acquifere, rappresenta
l’unica inestimabile fonte di sostentamento per l’uomo. E’ così anche per il
mondo interno della mente, dell’immaginazione e delle emozioni. Queste
attività possono essere attivate soltanto attraverso le meraviglie che noi
osserviamo con i nostri sensi.”
“Conservare questo pianeta nella sua imponente maestà permette al nostro
piccolo sé di appagarsi pienamente nel Grande Sé, il pianeta Terra e, al di
là, nell’Universo, che si rivela a noi in tutta la sua grandezza, oltre gli
oscuri cieli della notte”.
Proviamo ad intrecciare i paesaggi emersi con quelli offertici dal monaco Bede Griffiths. Egli
intravede, in molte delle tradizioni spirituali dell'umanità, un'intuizione che attesta l'unità
fondamentale e l'interazione reciproca fra tutte le cose, una comprensione del mondo materiale
come percorso da una realtà trascendente ed esplicazione di un'intelligenza che pervade il cosmo:
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“Tale realtà trascendente era conosciuta in Cina come Tao, nel Buddismo Mahayana come
Vuoto/sunyata, nell’Induismo come Brahman, nell’Islam come al Haqq/la realtà. Nella tradizione
cristiana è espressa come Deità/Essere supremo (in Dionigi, Tommaso o Eckhart)”. Anche l'io
umano in questa prospettiva non è riducibile al piccolo ego conscio che edifica il mondo
certificabile, ma affonda in vaste regioni che abbracciano tutto lo sviluppo della creazione: "Io non
sono limitato all’esperienza del mio corpo e dei miei sentimenti, sono fisicamente e
psicologicamente connesso con tutto il mondo attorno a me. La mente è un insondabile mistero che
riflette il mondo intero e fa di me un centro di coscienza fra innumerevoli altri centri, ognuno
riflesso dell’intero”. In questa espansione, la coscienza si apre alla dimensione del mistico, fioritura
di quell'intuizione nascosta nella materia, che eccede gli spazi fisici e psichici sporgendo sull'ambito
trascendente, transpersonale o spirituale.
Viene spontanea l'associazione tra queste percezioni e la scena narrata nel capitolo 35 del
secondo libro dei Dialoghi di S. Gregorio Magno. Si racconta che, in un momento particolarmente
intenso di preghiera, il monaco Benedetto fa un'esperienza dello Spirito grazie alla quale vede il
mondo intero raccolto virtualmente in un raggio di luce. Pur non cessando di essere localizzato
nella torre del monastero, si sciolgono le barriere limitative in cui si esprime la vita creaturale e la
percezione della realtà si amplifica in modo così incontenibile che il mondo non appare più nella
sua utilizzabilità e nella sua chiusura intrascendibile. Come un corpo teletrasportato in un film di
fantascienza, egli avverte la realtà a partire da un'improvvisa esperienza partecipativa che è evento
di morte dell'io attaccato a se stesso, sospensione del dominio, dimissione della propria centralità
volitiva che fa la storia, per scoprirsi vivente e agente nell'incomprensibile mistero di Dio. Risveglio
alla luce che consente ad ogni vivente di essere e manifestarsi, secondo un ritmo che sa di grazia e
di gratuità. Liturgia cosmica di un corpo immenso che non affonda nell'indistinto, ma la cui
complessità si offre a partire da uno sguardo e una luce sottratti, in cui contemporaneamente si è
visti e si vede, ed è fonte di gioia.
I paesaggi che si sono dischiusi grazie a queste considerazioni possono offrirci alcuni spunti
riguardanti il monachesimo.
Anzitutto la capacità di lasciarci stupire dall'avventura cosmica e storica del mondo e
dell'umanità, avvertendone le ricchezze, i rischi, la complessità immensa e vertiginosa. Nella luce
dello stupore ci scopriamo immersi nel travaglio del mondo che è in atto e al quale partecipiamo,
intrecciati con i destini, i drammi e le gioie di tutte le creature umane e non-umane. Questo sguardo
ci munisce di occhi e sensi dilatati per interpretare la nostra vicenda personale e comunitaria non
come un mondo autonomo e autarchico, ma in una inesauribile interazione con le peripezie della
vita altrui, alla quale non siamo mai estranei. Ciascun monaco, fin nel nucleo intimo della sua
singolarità porta traccia e fa segno ad altro, è un coro polifonico di voci che si intrecciano
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provocando ed evocando la melodia frastagliata della vita.
La visione ecologica della realtà non celebra mai un raggiungimento definitivo di qualcosa,
non considera gli eventi in vista di una perfezione o di uno stato finale, ma esprime un processo
ininterrotto di relazioni e modulazioni, di approssimazione alle cose e al loro significato, nella
provvisorietà e precarietà inconclusa di una creazione in fieri. Le nostre tradizioni rispecchiano
spesso un cosmo strutturato o uniformemente determinato, che lascia poco spazio all'incompletezza
e all'imperfezione, alla pluralità delle declinazioni di una vocazione. Lo stile che ispira una
comunità monastica potrebbe imparare a compiacersi delle alterità, delle pluralità espressive, non
pretendendo di esercitare un pensiero unico, ma promuovendo la trama delle differenze e delle
sperimentazioni in una relazione sempre più grande, capace di accogliere anche le conflittualità e i
punti di vista divergenti come espressione di un di più mai catturabile.
Infine, questo trapasso da un uni-verso statico e gerarchico al multi-verso delle interferenze e
delle reciprocità si riverbera anche sulla concezione di Dio, sulla relazione dell'umano con Dio e
nella relazione fra (dis)simili. Sembra dissolversi l'immagine di un Dio unico, monolito solido e
sovrano, creatore di un'unità e di un ordine incontestabile, che a propria immagine produce identità
chiuse ed esclusivismi o dualismi di tanti tipi, ed emerge invece un essere-ad-immagine che
riproduce la vitalità creatrice divina che continua ad animare la materia e la storia. Affiora la
percezione di un Dio ec-centrico, coesistenza plurale di poli in sinergia fra di loro, nella libertà e
amorosa corrispondenza. Questa insorgenza ci induce a riconoscere che Dio e uomo sono passaggio
e specchio l'uno per l'altro, si comprendono storicamente solo in un processo patito di proiezione e
differenziazione, in cui entrambi muoiono e risorgono l'uno all'altro.
2. Verso la conoscenza sensibile
Su, lasciati essere il cuore pensante di questa baracca.
Etty Hillesum
Poté di più colei che amò di più.
Gregorio Magno
Conosciamo dall'esperienza storica la dialettica tragica dell'Illuminismo. L'esordio felice e
promettente della ragione umana che si accende a favore della liberazione da ogni asservimento di
vincoli, dominî, oscurantismi e schiavitù, che guadagna spazi di libertà e coscienza, di
rischiaramento e di azione a favore dell'umano, e che drammaticamente si capovolge in ideologica
pretesa di dominio e di soluzione univoca e omologante del mondo: un progressivo establishment
dell'impero mondiale.
Secondo Aldo G. Gargani, alla fine del secolo appena trascorso il dibattito culturale europeo e
americano è stato attraversato da un processo di revisione della concezione tradizionale della
razionalità scientifica e filosofica che ha determinato un mutamento del processo conoscitivo. Nel
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precedente paradigma il soggetto compiva lo sforzo di strappare veli alla realtà per afferrarla così
come essa sarebbe in sé, come attestazione di fatti certi e univoci, di verità definitive. Attraverso
tutta una serie di definizioni e di regole, d'inferenze e di nessi causali sottratti alle contingenze del
caso, alle intemperie del tempo, dello spazio e della storia, egli si proponeva di giungere alla
quintessenza del mondo obiettivo, incontaminato e neutrale, rispecchiato dai codici del nostro
linguaggio.
L'uomo contemporaneo ha invece incontrato faticosamente e dolorosamente il mondo nella
sua contingenza e finitudine, ha imparato ad abitare le proprie zone d'ombra, il proprio destino
iscritto nella carne del mondo e nella prossimità con l'inesprimibile. Ha scoperto soprattutto che la
cosiddetta realtà non si risolve in una presa completa e trasparente dell'oggetto, ma è sospesa fra
scoperta e invenzione attraverso il filtro creativo del linguaggio, le pratiche sociali, le abilità
tecnologiche. L'umano apprende così l'inesauribilità delle prospettive che scaturiscono dall'incontro
di sé con il mondo, secondo i modi delle nostre apprensioni; avverte il carattere costruttivo, in fieri,
e storico-temporale della conoscenza, che implica il proprio coinvolgimento nelle descrizioni della
realtà di cui entra ad essere parte attiva.
Partecipiamo al passaggio da un atteggiamento di controllo concettuale e strategico dell'io che
fronteggia e obiettiva il mondo al gioco interattivo con esso, alla percezione che esso mi circonda,
vi sono profondamente immerso, esposto, coinvolto: appartengo carnalmente al cuore di ciò che
vado esplorando e del quale sono parte.
Pensare, in questo contesto, non è più l'operazione autoriflessiva di un osservatore oggettivo e
distanziato, ma l'accadere di uno sviluppo di sé che accoglie la discontinuità dell'esperienza, si
mette in ascolto delle intermittenze del proprio cuore e del mondo e le elabora costruttivamente.
Non si tratta dunque affatto di opporre in modo deleterio ragione a cuore o sentimento, quanto
casomai, come consigliava Nietzsche, di "fare della conoscenza la più forte delle passioni", di
lasciare affiorare una sensibilità affettiva o una ragione sensibile che sia fonte di evidenza, di
pathos, di intersoggettività. "Il sentimento, da vago sentimento dell'anima, si rivela uno strumento
conoscitivo, una conoscenza non concettuale ma densa di motivi e funzioni spirituali che non è né
intimistica né oggettiva ma è apertura alla realtà delle cose, si accosta e si immerge nella verità
multiforme, intrisa di insostenibile leggerezza in cui si esercita la saggezza dell'incertezza".
Il corpo è il teatro dei nostri sentimenti, delle sensazioni multiple e differenti, della pluralità di
voci e istanze che ci inabitano e cercano vie di affioramento. La sensibilità corporea è sorgente
originaria di ogni formazione di senso di cui sono pregni i fenomeni umani e attestano il lato
contingente e vulnerabile della vita.
Nel tempo vissuto noi patiamo la destabilizzazione che è la capacità di essere incontrati e di
incontrare, l'attitudine ricettiva, il nostro essere affetti, l'avvertire come nostro l'impulso, il bisogno,
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il desiderio, la gioia e il dolore non possedendoli mai, ma essendone attraversati e visitati, oscillanti
nell'andirivieni della gioia della presenza e del dolore dell'assenza. Tali affetti vanno ad informare e
segnare la nostra mente, provocando in essa dei veri e propri sommovimenti geologici da cui
fioriscono immagini e sentimenti, parole e forme. In questo mio accadere sensibile scopro che il
mondo non è affatto una piatta e incolore uniformità, ma un paesaggio pieno di rilievi e di dislivelli:
sono le scosse che cose ed eventi provocano quando ci investono, grazie alle quali realizziamo
quanto e come le persone o i fatti contano e incidono in noi. Di più, avvertiamo che zone assopite
dell'anima possono risvegliarsi, passare dallo stato di latenza ad un maggiore sentire, ad un
allargamento della sfera della sensibilità, verso una interminabile in-carnazione.
Questo sentire che patisce non si separa o allontana, astraendosi dalla vita, ma la assume, vi si
immerge, è "un sapere erotico che ama il mondo che descrive", sa cogliere la singolarità, sa stare in
presenza di altro, ospita il brusio infinito, le voci molteplici dell'esistenza, le falde sconosciute ,
l'alea, il disordine e l'effervescenza, tutto quello che noi stessi siamo di non-pensiero e di
paradossalità, di indecifrabile e di incontrollabile. Accoglie quelle infinite emozioni e sottili
variazioni espressive che danno senso alla vita, quelle cose che ci ospitano e sconfinano non
sappiamo dove, quei paesaggi oscuri e sterminati dell'animo in cui si nascondono cose ignote e
patite, taciute e mute, impensabili, che si estendono fuori ed eccedono il mondo dei segni e delle
luci. E' una conoscenza connotata da intuizione ed empatia, dalla cura e dall'apprezzamento,
dall'attenzione accogliente per l'unicità e lo splendore che brilla in ogni cosa singolare, per la
polisemia del mondo. La conoscenza sensibile disegna una cartografia della reciprocità, promuove
la coltivazione di socialità, intensifica e dilata la percezione della realtà, produce sentimenti che
accomunano, è il suolo nutritivo di ogni condivisione. Una com-passione coinvolgente segna la
paticità dell'incontro, la fragilità dell'umana felicità.
Un ulteriore aspetto connota questa conoscenza, ed è lo stupore come l'emozione più
profonda dell'uomo di fronte ad una realtà di cui non sa per intero, in cui la verità che in ogni cosa
brilla indica l'altra faccia della presenza, di ciò che appare nel gioco fra superficie e invisibilità.
Esistono frangenti e istanze che superano i confini anche del mio comprendere e delle evidenze,
aperture ad un'ulteriorità che è mistero come quella verità toccante di cui non possiamo mai
tracciare contorni netti e della quale allo stesso tempo non possiamo fare a meno.
C'è una capacità cognitiva dell'amore che evade ogni controllo fiscale, possesso, garanzia o
necessità; che può accadere e imprevedibilmente accade, facendo breccia nell'ordine del mondo.
Qualcosa senza nome e senza perché si fa sentire, un buco in cui si inciampa. E' un'intelligenza che
si apprende nella perdita della padronanza, nel disfarsi delle proprie tessiture o nelle rovine del
sapere, del volere, del potere. Una conoscenza ricevuta grazie alla risposta dell'Altro che scompiglia
le nostre rappresentazioni e sospende le nostre previsioni e cognizioni, una ignoranza dotta del suo
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non-sapere: per giungere a ciò che non sai, devi passare per dove non sai (Giovanni della Croce).
Un tale amore non colma ma scava, apre il passaggio ad un di più inesauribile, come Grazia
eveniente e improvvisa che non è mai rassicurante ma imprevedibile, non rappresentabile in
un'ottica prospettica o canonica, restando fuori della portata di presa o di sguardo; allarga il deserto
della sproporzione fra l'essere e ogni cosa che è, è esperienza di una presenza che brucia al cuore
della mancanza, la trasmutazione della privazione in un passaggio, in una relazione-con, entrata
nella divina relazionalità che ci rende tramite di vita.
Quale contatto fecondo può stabilirsi fra questa conoscenza sensibile e il monachesimo?
Vorrei di nuovo evocare una scena del secondo libro dei Dialoghi di San Gregorio Magno, al
capitolo 33. Si narra del convenire del monaco Benedetto e della sorella monaca Scolastica che
accadeva una volta l'anno non lontano dal Monastero di lui. Quella volta memorabile, dopo aver
trascorso l'intera giornata nella comunicazione del loro cammino spirituale, per il grande desiderio
di prolungare l'intrattenimento fino al mattino la sorella supplica il fratello di restare con lei.
Benedetto, richiamandosi al dettato della regola monastica, risponde che non può assolutamente
farlo. In seguito al perentorio diniego, Scolastica intreccia le mani e abbassa il capo
accompagnando la sua preghiera al Dio che è amore con una tale esondazione di lacrime da far
scatenare simultaneamente una pioggia torrenziale ed impedire così a Benedetto qualunque
possibilità di mettere piede fuori casa. A quel punto, scherzosamente, incita il fratello a tornarsene
al monastero se davvero non può farne a meno. Il racconto termina con l'elogio della preghiera
scaturita dal cuore della donna: "Poté di più chi amò di più".
Scolastica coglie l'occasione di crisi, d'impossibilità, di blocco comunicativo, per attivare la
relazione con Colui che ne è la sorgente, infrangendo la norma prescrittiva a favore di uno stile che
promuove il primato dell'affetto, dell'ospitalità, della cortesia, dell'apprezzamento dell'altro:
un'inondazione d'acqua è concomitante all'esondazione dell'amore. E il fratello è come costretto ad
interpretare la violazione flagrante di lei al precetto come una visita inaudita, un passaggio di Dio
stesso nella contingenza di un incontro.
Il racconto ci invita a fare ritorno al cuore dell'evento cristiano per una rinnovata attitudine ad
abitare la sfera delle nostre emozioni e dei nostri sensi. Dall'interno della nostra tradizione
monastica c'è un vettore di forze che si affanna ad estirpare, a rimuovere, a addomesticare e a
contenere le passioni, ingenerando un'inclinazione ad osservare a distanza, a farsi imperturbabili,
impassibili, ad evitare qualsiasi contagio con le zone di turbolenza del corporeo. Ma anche
nell'epoca che viviamo siamo avviluppati da un'anestetica pervasiva, da una immunizzazione del
sentire che fa evaporare la sensibilità emotiva e il tono spirituale delle persone, dissolve il senso
della solidarietà e della partecipazione di fronte alle molteplici forme dell'umano soffrire.
L'invito che la conoscenza sensibile ci rivolge è quello di apprezzare l'evento cristico come
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estetica, ossia secondo la sensibilità evangelica che fa fiorire l'umano attraverso il tocco, il versare
lacrime, il visitare, l'ascoltare, l'attendere, il condividere, l'avere riguardo, l'attraversare sapidamente
passioni e sentimenti, l'abitare le sfere dell'affetto e dell'interiorità, nonché della compassione, l'arte
della relazione con il Padre e con il prossimo. E' l'appello a far valere il cuore dell'esperienza
monastica quale risuona nel suo centro propulsivo: non anteporre nulla all'amore di Cristo, alla sua
relazione con il Padre nello Spirito, che alimenta e qualifica tutte le altre relazioni, ma anche le
estende in modo incontenibile da alcuna misura umana, in una intensità e qualità del sentire che
mette a repentaglio ogni protezione di sé.
Tale connessione con l'origine gratuita e affettuosa della propria chiamata non potrebbe valere
come forza di scioglimento dei compartimenti stagni o dei comportamenti ossificati a cui possono
dare luogo le nostre regole e i nostri canoni, le nostre osservanze e obbedienze?
Forse, un ritorno al cuore, al privilegium amoris, ci permette di alleggerirci dei pesi dei nostri
averi, delle sicurezze dateci da tradizioni consolidate che allo stesso tempo ci pietrificano, della
frenesia della religione burocratica o dell'ansia febbrile dell'amministrare e del costruire, fuori da
difese e tutele inespugnabili, o dal gergo religioso della autoreferenzialità, per esporci alla
contingenza e al mutamento, alla vulnerabilità grazie alla quale il Signore ci converte e ci trasfigura.
La lettura della Bibbia, che ci conduce al mistero del cuore di Dio, può aiutarci a tessere i fili
d'amore e i legami umani ancora e sempre da intrecciare nelle lacerazioni del nostro tempo, in noi,
nelle nostre comunità, nei territori in cui viviamo, nelle iniziative che promuoviamo, ci rende
ancora capaci di stupirci della bellezza del mondo senza lasciarci andare alla fatalità.
Nel contesto di un mondo in cui, spesso, domina incontrastata la razionalità calcolante,
quantitativa e indifferente, retta dalle regole del mercato, non potrebbe l'atto inoperoso della
preghiera (G. Bonaccorso) costituire l'interruzione della logica stessa della produzione e del
calcolo, creando spazi di inutilità e di gratuità? Non provoca una sospensione della ragione per una
logica dello stupore, per l'evento dell'impensato, per il tempo smisurato della grazia?
3. L'approccio interculturale
Per parecchio tempo ho studiato il pensiero orientale
non per suggerire all'Occidente: "Dovresti convertirti
ai concetti dell'Oriente", ma piuttosto per dire:
"Non riuscirai a capire le tesi di base della tua civiltà,
se la tua civiltà è l'unica che conosci."
Alan Watts
Si preparano, forse sono già venuti,
tempi in cui sarà richiesto agli uomini di essere altri
da come noi siamo stati. Come?
Mario Luzi
Il tempo che viviamo è attraversato, come ogni epoca dell'umanità, da una miriade di conflitti
che contrappongono le une alle altre civiltà e culture, religioni e interessi. Agli aspetti positivi che
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l'occidente ha vissuto, quali la fine della guerra fredda e dei blocchi contrapposti, la caduta del muro
di Berlino e il processo di faticoso allargamento verso un'agognata Unione Europea, per non parlare
dell'idea stessa di un organismo sopranazionale quale le Nazioni Unite, se ne accompagnano altri
che contraddicono tragicamente questi orientamenti. Sembra che le condizioni di vita del sistemamondo non mutino con il puro e semplice cadere di una barriera, occorre che muti la qualità
dell'abitare e dell'agire, altrimenti altri muri continuano a essere elevati, altri fondamentalismi
rinvigoriscono, altri conflitti sono alimentati dal combustibile degli interessi di dominio. Cresce
soprattutto la sofferenza, l'ingiustizia, la capacità distruttiva, la cultura dell'aggressione e
dell'intolleranza se non, addirittura, l'attacco ad ogni forma di cultura.
Congiunto all'avvampare di forze contrappositive, partecipiamo al processo di contattazione,
divenuto possibile e praticabile, fra mondi, territori, identità differenti grazie ad una disponibilità di
mezzi comunicativi e di maturazione della coscienza che rendono porose le barriere, favoriscono gli
scambi, le conoscenze, le pratiche, le comparazioni: abitiamo lo spazio plurale delle sapienze e
delle pratiche che inducono ad una coscienza con-viviale. La realtà del mondo attuale e a venire
sembra infatti richiedere con sempre maggiore urgenza una prassi di vita e contributi di pensiero
rivolti alla scoperta di nuovi modi di convivenza e di sopravvivenza che implicano la connessione,
la transitività delle culture, la socialità delle comunità umane, come tante piccole albe che fanno
accadere una realtà inusitata.
Come la vita, nelle sue strutture biologiche più microscopiche è costituita da
un'organizzazione interna e allo stesso tempo dall'interazione con l'esterno, in un gioco permanente
di autopoiesi e di eteroreferenza che crea la complessità; come ciascuno di noi nel proprio nucleo
interiore è costituito non da una sostanza autosufficiente, ma da un intreccio di relazioni in continua
trasformazione, così la storia delle civiltà testimonia che ogni cultura si è costruita una propria
identità solo in quanto inter-cultura ossia in quanto risultante di scambi culturali diversi da sé. Le
singole identità culturali non sono affatto nuclei fissi di forme di vita intangibili, ma producono la
loro diversità nel tempo mediante un confronto, talvolta anche conflittuale, con altre culture,
esponendosi all'alterità e mettendo a repentaglio la propria identità. Così le sapienze delle differenti
civiltà testimoniano la pratica di un'identità, sia essa soggettiva o culturale, di tipo relazionale,
senza arrogarsi il diritto di una superiorità qualitativa né di imporsi per la loro forza maggiore.
Se consideriamo ad esempio il tema dell'identità che supporta ogni altro discorso fondativo
della verità e della realtà ci accorgiamo, a partire da diverse angolature culturali, orientali e
occidentali, quanto questa figura sia friabile e relativa. Avventurandoci nei territori della cultura
orientale, si scopre come ogni io si rende comprensibile in rapporto ad altri da sé.
Per Confucio un individuo riesce ad essere se stesso in base alle azioni corrette e ai
comportamenti adeguati che lo costituiscono. Condotte che si specificano solo in rapporto con altri
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esseri umani, nella relazione interpersonale. Ugualmente nella visione taoista, l'identità si
costituisce nella dialettica fra essere e non-essere, nella nascita dell'io a partire dal rapporto con un
altro io: l'io è anche l'altro e l'altro è anche io. Nelle Upanisad vediche si narra che il Brahman,
l'Assoluto, non rimane chiuso nella propria indeterminata identità, ma si determina e si rivela in
infiniti modi ed esseri. Dalla parte dell'umano, ugualmente, l'individuo che resta chiuso nella
propria autoidentità non giunge ad alcuna conoscenza di sé se non esce nell'universo per ritrovarsi
in esso come parte dell'anima universale o Atman.
La prospettiva relazionale, dal punto di vista antropologico e filosofico, costituisce una ricca
memoria d'esercizio e di teorizzazione anche negli sviluppi del pensiero occidentale. E' importante
ricordare come da Platone, Aristotele, Plotino e Tommaso fino alla riflessione dialogica del '900 si
contesta ogni forma di ego-centrismo, considerando il valore e il senso dell'individuo in rapporto ad
una realtà più ampia che anima ogni singolarità. Lungamente e faticosamente è stata spodestata la
teoria della verità imperniata sulla centralità dell'io come asse di riferimento centrale del mondo,
che è invece solo una delle istanze della nostra vita, e nella quale la realtà non si esaurisce per
intero. Questo mutamento ci pone in un'attitudine di ascolto rispetto a ciò che è altro da noi, con cui
entrare in relazione. Così Martin Heidegger: " L'uomo si inganna sull'autenticità dell'essenza delle
sue misure. Sbaglia misura, quanto più esclusivamente assume se stesso in quanto soggetto come
misura di tutti gli enti. Lo smisurato oblio dell'umanità insiste nell'assicurare se stessa con quel
praticabile che di volta in volta le è accessibile… Nel suo prendere misure l'umanità è distolta dal
mistero".
Da questo breve esercizio di attraversamento culturale s'intuisce come in tempi e prospettive
diverse il pensiero umano ha spesso sostenuto una teoria dell'identità relazionale, intessuta in ogni
istante della sua vita di alterità.
Il passaggio ad una nuova epoca mondiale e all'approccio interculturale è segnato anche dalla
presenza e dal confronto fra le religioni, apportatrici di sapienze o di narrazioni della vita che
esprimono e articolano le interrogazioni e le aspirazioni, le angosce e le speranze più profonde del
cuore umano. Grazie ad esse affiorano le dimensioni del mistero affascinante e tremendo
dell'esistenza, l'umano viene a contatto con il volto infigurabile del divino che si rivela e si
nasconde, e tracce di eternità aprono il tempo a impensabili latitudini. Ciascuna di esse offre una
diversa e irriducibile spiegazione della globalità del mondo e dell'esistenza, e cerca di comunicare a
cosa debba assomigliare una vita piena di significato, testimone della verità sorgiva che conduce
alla felicità, e come la relazione a questa realtà santa si concretizzi nella pratica quotidiana.
La molteplicità delle espressioni religiose e dei loro stili di vita costituiscono per l'umanità
delle ricchezze di senso, ma sperimentiamo come esse racchiudano anche enormi riserve di
aggressività e violenza, potenziate dalla pretesa di essere fedeli interpreti dell'Assoluto o piegate ad
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altri interessi e scopi orientati al dominio. Tali situazioni ci invitano e ci urgono a cercare insieme il
significato della profonda trasformazione culturale e spirituale in atto, quale senso "la pluralità delle
fedi viventi e delle tradizioni religiose da cui siamo circondati riveste all'interno del disegno di Dio
per l'umanità" (J. Dupuis).
Siamo cioè invitati, in questo frangente planetario dell'umanità e del pluralismo religioso, a
sorprenderci e a considerare con sim-patia come lo Spirito di Dio sia all'opera nella storia umana
attraverso la moltitudine dei popoli, delle società, delle culture e delle religioni. Questo
allargamento di prospettiva potrebbe suscitare un atteggiamento di empatia che cerca di avvicinarsi
agli altri come essi stessi si comprendono, e non come noi li definiamo. E' spesso l'incontro con
l'alterità che ci libera dalla pretesa di essere l'unico punto assoluto di verità sul mondo, dove
parlando di Dio si vuol avere la parola definitiva dall'alto della quale giudicare ogni altra esperienza
religiosa o ritenerla scorretta, incompleta o peggiore della propria.
In questi spazi più vasti dell'incontro delle differenze ci accorgiamo che si aprono tante
possibilità per diverse costruzioni e configurazioni di senso, senza doverle mai risolvere in una
sintesi definitiva, ma come occasioni di spinta e rilancio creativo che ci tengono aperti gli uni agli
altri, per rinvenire in ciascuno tracce per un comune ethos dell'umanità: "Non c'è pace tra le nazioni
senza pace tra le religioni. Non c'è pace tra le religioni senza dialogo tra le religioni. Non c'è
dialogo tra le religioni senza criteri etici globali. Non c'è sopravvivenza del nostro globo senza un
ethos globale, senza un'etica mondiale" (H. Küng). Forse, in questa prassi quotidiana
dell'accoglienza reciproca e del dialogo, scopriamo che la realtà del Regno è già inaugurata e
condivisa, ci scopriamo ciascuno a suo modo con-creatori, in Dio, di nuova umanità.
Nei processi in atto e negli stili di incontro con l'altro, la stessa fede cristiana ci ispira motivi e
modalità trasformativi. Tutta la parabola di vita di Gesù si condensa nel lieto annuncio che ogni
uomo e ogni donna è amato/a da Dio e animato/a dal suo Spirito, come un sole che splende
indiscriminatamente su tutti. La forma stessa della vita di Gesù è spesa nella dedizione di sé, nella
liberazione da ogni male fisico, animico o istituzionale che deturpa e menoma la vita e le relazioni
umane. Il crocifisso e risorto fa risplendere nella carne umana la relazione di affidamento assoluto
all'Altro (il Padre) e di consegna di sé all'umanità per una circolazione gratuita e inesauribile
d'amore (lo Spirito).
L'evento fondante della fede si deve ad un atto di kenosi, di umiltà e di autonascondimento, si
manifesta nell'assunzione del dramma o della tragedia umana, nell'accoglienza della conflittualità e
dello scacco, del rifiuto opposto all'esercizio del dialogo. La sensibilità per il dolore degli altri, per i
minacciati e le vittime di ogni potere contrassegna il nuovo stile di vita di Gesù come espressione di
quell'amore che deriva dalla indivisibile comunanza dell'amore di Dio e del prossimo. L'amore
nuovo che Egli fa deflagrare è teologale e perciò multiversale, non confinato ad un popolo, una
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patria, un ideale, non circoscritto ad un determinato ambiente o classe, ma sconfinato, e interamente
oblativo di sé.
Questa verità epifanica del Verbo ci induce ad una capacità di ascolto e di accoglienza che sa
spogliarsi delle proprie spiegazioni ideologiche possessive ed escludenti, per accogliere nella
reciprocità lo Spirito che si increspa in ogni vicenda umana.
Forse che l'impossibilità di definire univocamente Dio in un'unica prospettiva ci conduce a
celebrarlo come esperienza di una realtà più grande di ogni sua storica manifestazione? Non
potremmo considerarLo il Mendicante che bussa alla porta di tutti i tempi, le persone e le religioni
per fiorire, per rivelarsi? E ogni tradizione sapienziale e religiosa non si offre come un percorso o
traccia singolare, scoprendo in sé la luce e l'ombra, l'inadeguatezza e la sproporzione del Mistero
evocato, riconoscendolo incatturabile, libero e sorgente di inaudita libertà?
C'è da stupirsi se questa sensibilità dialogica e ospitale si sia sviluppata e abbia trovato un
humus favorevole soprattutto nell'ambito dell'esperienza monastica, e che proprio i monaci siano
stati promotori e pionieri nel dialogo interreligioso? E' interessante scoprire come il fenomeno
monastico è una corrente carsica che attraversa tutte le religioni, tanto che si è evocato un archetipo
universale del monaco come tensione che vige in ogni persona (R. Panikkar), o il polo orientale
dell'esperienza interiore (Bede Griffiths).
Esiste un'esperienza fondamentale che accomuna monachesimo e mistica, e consiste nel
progressivo scioglimento dei contenitori razionali e linguistici, culturali e religiosi dell'io. In questo
processo accade un superamento, una rottura dell'ego come centro determinato che vuole, ha e
discorre, e si nasce assieme alla percezione di Altro che ci apre a Sé. Presenza non localizzabile né
identificabile: Spirito. E tuttavia quest'evento non induce a fuga o a separazione sacrale, ma è
l'Aperto che accade in noi, e che favorisce ogni apertura. Ai monaci infatti, che corrono sulla via
della dilatazione del cuore, S. Benedetto rivolge l'invito ad accogliere ogni ospite come fosse Cristo
stesso che sopraggiunge, appello da estendere a ogni evento che bussa alle porte della coscienza
umana e chiede di trovare spazio e voce, anche se queste irruzioni possono scardinare i nostri ordini
e territori o tradizioni consolidate.
Dalla immersione in questo battesimo dello Spirito può nascere ogni tipo di creatività, di
generazione del Verbo (Meister Eckhart): insorgenza di tante forme possibili di espressività
liturgica e orante tra culti diversi; promozioni di incontro fra territori e culture lontane o addirittura
contrapposte, apprezzamenti delle luci che brillano in ogni ricerca, ambito, cuore e parola; spazi di
attesa trepidante di cose che ancora non si vedono, che ci fanno desiderare a vuoto, ci sospendono
ad Altro...
In tutto questo possiamo considerare Dio come salvaguardia e garante della differenza, poiché
"se l'universale porta all'identità di un concetto, il singolare espone alla differenza dell'altro".
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Volgendo lo sguardo a Dio, a partire dall'umile condizione mondana, il monaco coglie la differenza
come eccedenza, a fondamento dell'esistere. Fondamento che non è ciò che è compreso, ma
l'incomprensibile mistero di Dio dal quale farci ospitare.
4. Sui confini
E' profeta il cuore, come ciò che essendo centro
si trova su un confine, sempre in procinto di
spingersi più in là di dove si è già spinto.
Maria Zambrano
Finché il cielo del tuo cuore non si sia squarciato
con il lampo del Sinai,
con l'uragano di Pentecoste,
niente di Dio conosci,
chiami Dio questo firmamento,
confine al tuo pensare.
Henri Le Saux
Sembra che la vita, l'impulso a rimanere vivi, in tutte le sue modulazioni, si svolga all'interno
di un confine che definisce un corpo e lo connette con l'ambiente esterno: la vita è una variazione
continua, una configurazione vulnerabile contenuta entro dei limiti.
Mancare di una frontiera, di un orizzonte, di confini è impossibile, significa votarsi
all'indeterminatezza, perdersi nel nulla di uno spazio illimitato: noi diventiamo mentre costruiamo
ed evadiamo i confini, mentre separiamo una cosa dall'altra introducendo una discontinuità che è
l'atto generatore della realtà. Permanentemente abitiamo la nostra esperienza attraverso la tessitura
di linguaggi, di emozioni, di teorie esplicative, di lanci interpretativi o po(i)etici azzardati, di
costruzioni sociali e architettoniche, di rituali della vita; codici che sono modalità per essere e per
muoversi nel mondo, per riconoscersi e per essere riconosciuti dagli altri.
Il linguaggio e la creatività costituiscono le vie attraverso le quali gli umani interpretano il
flusso cangiante dell'esperienza in cui sono corporalmente immersi, imprimendo a quel flusso
sensoriale una figurazione, un orientamento, un senso, nell'interazione con il mondo. Ciascuno di
noi nel corso della sua vita è continuamente esposto all'irruzione di eventi che mutano i confini
percettivi, disfano le sue identificazioni proiettive, gli abiti consuetudinari secondo i quali si
costruisce la sua immagine esterna, consegnandolo a nuove parole, immagini, incarnazioni
dell'esistenza. Nella rottura dei confini di volta in volta stabiliti qualcosa di nuovo e impensato entra
in noi e ci trasforma, nel mentre avviene un disfacimento anche doloroso del già acquisito e
conosciuto: le costruzioni e le descrizioni fatte dagli altri, siano esse autorità famigliari, sociali o
religiose. Diventare se stessi non significa mai indossare un abito su misura già predisposto, ma
apertura innovatrice rispetto a quello che eravamo, scoperta di sé attraverso lo sconosciuto che si
affaccia e che attraversandoci trasforma, disfa e allarga il nostro sentire.
Il confine che abitiamo è dunque uno spazio, in rapporto ad altro, che accetta di essere
modificato, ha a che fare con le trasmutazioni del nostro paesaggio, con le linee che segnano e
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danno forma ai nostri orizzonti, alle nostre identità mentali e sociali, alle cartografie della nostra
psiche e alle strategie della politica e del sapere. Ma il confine non è soltanto rapporto e zona
sensibile al mutamento ma può spesso mutarsi in barriera che una cultura, una società o un ego
impone, sbarramento che blocca la nostra esperienza fissandola normativamente. C'è una tensione
mortale, nel grembo della vita, ad assicurarsi un fondamento certo e inconcusso, in-alterabile, che
spesso converge nelle invenzioni di un Dio Garante, Ordinatore o Tappabuchi, o di chi ne fa le veci.
La spinta creatrice della vita, dall'altro lato, attraverso le scoperte dei nostri corpi, provoca
un'alterazione percettiva sulle mappe dell'ordine e del discorso stabilito, un sovvertimento
geologico del continuum della percezione e della coscienza, o delle forme che governano il sentire
della vita quotidiana, suscitando nuovi punti di senso e di vibrazione.
Abitare i confini significa farsi vigili sulle barriere e sugli abiti culturali che ci impediscono di
includere nell'esperienza quotidiana ogni altra fonte di vita e di significazione che contesta o non si
attaglia a questa costruzione storica o normativa. "Difficile, lacerante, doloroso è il legame tra chi
abita il mondo e chi, gettato in esso, viene identificato nel non avere l'abito sociale richiesto per
abitare con pieno diritto lo stesso luogo e quindi lo stesso ordine del discorso, lo stesso insieme di
linguaggi, le medesime rappresentazioni: il bambino, l'anziano, il povero, il demente, il diversabile;
oppure la donna, l'omosessuale, il malato; l'extra-comunitario oppure l'ignorante, il barbaro" (A.
Abruzzese).
Questo comporta un mutamento fin dentro la nostra corteccia antropologica che sono i corpi, i
sentimenti, le passioni, la disponibilità di compiere un'esperienza di apprendimento oltre le
abitudini, aldilà delle convenzioni e preconcetti che albergano in ciascuno. Significa abitare il fra
del confine, nella tensione irrisolta che non diserta il mondo con la fuga, lasciandolo a se stesso, e
contemporaneamente non si lascia assorbire dal suo sistema chiuso e omologante, ma sostiene il
difficile e arrischiato compito degli sconfinamenti dei codici stabiliti, l'accoglienza dello
sconosciuto che ti deterritorializza e l'invenzione del quotidiano.
Non occorre un acume particolare per avvertire come l'annuncio lieto da parte di Gesù di
Nazareth, il suo stile di vita abbia agito a favore di questa mutazione del codice, di un allargamento
del sentire. In un mondo che tende ad imporre codici prescrittivi e globali alla realtà, ad istaurare il
proprio ordine sovrano, non potremmo considerare Gesù come il prototipo dello hacker
contemporaneo? Come sappiamo, l’hacker non attiva un’etica solo sabotatoria distruttiva ma anche
inventiva e liberatoria. E’ un ingegnere/tecnico creativo, sull’esempio di Neo nel film Matrix, che
agisce politicamente sul dispositivo della rete, contro il monopolio dei server e dei sistemi di
accesso, permettendo a tutti di fruire liberamente e gratuitamente della rete delle informazioni. Egli
lotta per negoziare i significati nel nuovo mondo, entra nel gioco della comunicazione per
trasformare una schiavitù in una nuova opportunità comunicativa…
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Gesù ha liberato il tempio e fatto miracoli di sabato, ha permesso alle donne di seguirlo e di
esprimersi, non ha applicato la legge con l’adultera, ovvero ha usato a suo modo le leggi di
comportamento religioso del suo ambiente ribaltandole e permettendo delle liberazioni, risultando
così l’interfaccia di Dio nel mondo degli umani (l’avatar). Di più, ogni discepolo e ogni persona
incontrata per via è chiamata ad accogliere, interpretare, veicolare, manipolare gli eventi le
relazioni, i conflitti, le istanze intersoggettive in modo personale, a dare risposte esistenziali
creative.
Potremmo anche dire che il cristianesimo inizia disfacendo: "Comincia con uno che,
rivolgendosi all'altro, amico o nemico, straniero o fratello, donna o uomo, non metteva di mezzo il
peso di cose già decise o rifiutate, di questioni già formulate, di scelte già giudicate, di regole
assolute, e a tutto guardava per quello che di nuovo, umano, possibilmente felice, lì, in quel
contesto, poteva darsi. Comincia, insomma, arrestando la macchina della ripetizione perché altro
possa avere luogo".
"Che altro possa avere luogo": il Figlio dell'uomo è invito e provocazione a spezzare i nostri
orizzonti bloccati o congelati per sprigionare altre possibilità di mondo, secondo l'immaginario
onirico, creativo o delirante di Dio. Possibilità che premono in ciascuno e chiedono di uscire,
sepolte nel corpo del quotidiano come desiderio di felicità e libertà, di dignità e giustizia. Egli
fuoriesce dalle pressioni omologanti, dalle strettoie di una mentalità chiusa per iscrivere nel codice
genetico dell'umano comportamenti autonomamente creativi in coloro ai quali si rivolge, senza
imposizioni preordinate di percorso, senza garanzia di una forma in cui riconoscersi o essere
riconosciuto. L'esperienza immersiva nella folla, l'altro da sé per eccellenza, fa del passaggio, della
relazione, dell'incontro di Gesù con l'alterità una messa in gioco di sé che attiva una capacità di
ibridarsi senza protezioni e giunge a consegnarsi totalmente al mondo, fino a perdere l'identità
riconosciuta, fino al cancellamento, alla consumazione di sé che è la passione.
Un tempo, una chiesa organizzava un suolo, ossia una terra costituita: al suo interno si aveva
la garanzia sociale e culturale di abitare il campo della verità. Al presente il corpo cristiano non
possiede più un territorio definito e riconosciuto che non sia quello della quotidianità, della platea
dei popoli, abita un non-luogo quale spazio testimoniale, spossessata del corpo sociale e
istituzionale che gli è servito per secoli di supporto e di terreno. Invece di essere una globalità che
ingloba tutto, il cristianesimo si fa cifra di un incompiuto, fa segno a ciò che manca, a ciò che esso
non è: non senza te.
Queste mancanze di luogo sollecitano ogni credente come anche il monachesimo a vivere
l'irriducibilità e la permanente apertura alla domanda su- di- verso Dio.
Configurano percorsi credenti inediti, affidandosi alla disponibilità soggettiva a mettersi intersoggettivamente in gioco, a lasciarsi trasformare, ad accogliere l'ibridazione con gli eventi
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quotidiani da cui scaturiscono nuovi sensi, sempre rinvianti ad altro da sé, e sempre corporalmente
coinvolgenti.
Spronano a favorire le pratiche delle piccole incursioni, degli approcci deboli, le tattiche del
quotidiano senza strategie ben definite e totalizzanti, curando la qualità di ogni tipo di intervento e
relazione, di iniziativa anche occasionale, valorizzando l'approccio più insignificante e infimo quale
corrispondenza allo Spirito.
Ci sono, nelle pratiche monastiche, dei non-luoghi o delle eterotopie, ossia luoghi
localizzabili e tuttavia fuori da tutti i luoghi, siti insituabili dove appare ciò che deborda, orizzonti
che per il loro carattere qualitativo sono eccedenti?
Vorrei qui accennare alla reclusione, all'erranza e ai voti.
Nell'invito che risuona nella così detta piccola regola di Romualdo: "Siedi nella tua cella
come in paradiso", riecheggiano una miriade di apoftegmi dei padri e delle madri del monachesimo
di tutti i tempi. La clausura o l'abitazione di una cella effettua la decisione di situarsi in modo
estremo in un luogo, accogliendo la legge comune agli umani di avere una dimora. Tuttavia, con
una certa dose d'ironia, proprio acconsentendo ad avere un'abitazione, e accogliendone in modo
radicale le costrizioni perfino murarie, il recluso scardina la logica dell'habitus disabitandosi,
mettendosi in presenza dell'Assoluto non è né straniero né a casa sua, il suo luogo è un non-luogo.
Nell'istallarsi in regioni marginali, al confine fra abitabilità e deserto, e nell'esistere in condizioni
minimali, prende una distanza sovvertitrice rispetto alla terra. Arrischiandosi oltre i confini del
luogo disegna un'esistenza corporea di fronte a Dio. Una libertà di trasfigurare precariamente la
logica dell'essere nel mondo per anticipare un evento trasfigurativo.
L'erranza, stranierità o xenitèia, attua lo stesso dispositivo in una prospettiva opposta che è
quella del perpetuo peregrinare che non vuole essere né di qua né di là, non pianta la sua tenda in
nessun luogo o regione o patria. "Rifiutandosi di entrare nella logica del costruire e dell'abitare, il
monaco itinerante mostra la contraddizione che intende introdurre nelle determinazioni storiche del
suo essere". Così, l'itinerario cristiano parte per altrove verso paesi, linguaggi e culture in cui Dio
parla una lingua non ancora decodificata e registrata, destinandosi alla sorpresa di spazi sconosciuti,
di un altrove che qui affiora.
Un ulteriore, confliggente paradosso: come tradurre l'impermanente creatività dello Spirito in
un voto a vita? Salto mortale e vitale? Forse, scoprire la logica dei voti non mai come punti di
arrivo ma spunti di avvio, soglie ardenti e tensionali del votarsi a, dell'offrirsi a. Desiderio, acceso
dalla speranza, che Lui avvenga. De-locazioni che suscitano lo sconfinamento dall'io, dalla
tendenza a fare corpo su se stessi, entrando inuna dinamica di affidamento, in un allargamento o
intensificazione del sentire. Accoglienza che si fa corpo.
Castità come attesa, inconsumabile e incolmabile, del Veniente. Tenere aperta la porta del
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proprio corpo per il Suo eventuale passaggio. Richiamo dell'esistenza di altro che apre i sensi e le
maglie delle relazioni, immergendole nell'incondizionato, gratuito Amore. Amore di niente di
quanto abbiamo e possediamo. Il farsi posto, il farsi liberi, nella non possessività, per tante possibili
relazioni ad altri che sono in cammino, in ricerca.
Povertà come accoglienza delle precarietà, della relatività del presente, senza ricchezze che ci
assicurano e ci esauriscono. Accogliere la discreazione, il dissolvimento dei paradigmi egocentrici e
illusori di riferimento, quelle costruzioni che ereditiamo dalle nostre tradizioni culturali e religiose,
quelle del già visto, saputo e avuto. Movimento di distacco e di disarmo dalle sempre insorgenti
fissazioni di costruirci e progettarci da noi un suolo assicurato e rassicurante. Attitudine a farsi
materia iniziale, stupore che consente di ricominciare sempre di nuovo, di essere a partire dall'Altro
che va agendo in noi: "Ecco, io faccio nuove tutte le cose" (Ap 21,5).
Obbedienza come fedeltà alle spirazioni dello Spirito, all'energia creatrice e amante di Dio
che ci rende sentinelle e scolte di territori sconosciuti, ci rende partecipi al creare di Dio.
Concreazione che è anche com-passione, un patire le resistenze che si oppongono al Suo avvento e
che chiamiamo male. Ascolto attento di quanto ci viene incontro (ob-audire) nel volto degli altri e
degli eventi, per decifrarlo e scoprirlo quale gestazione in atto del Vivente, possibilità di far fiorire
nuove forme di vita. Immersione auscultante di quanto sembra estraneo, lontano, contrario a Dio:
spesso, infatti, il divino ama nascondersi nel suo opposto. Così la sapienza umana può apparire
follia davanti a Dio (1Cor 3,19), mentre la follia umana può essere l'accesso mistico della libertà
(Michel Foucault)…
Non è l’amore ad abitarci, siamo noi che abitiamo l’amore.
Come potremmo contenerlo? Esso invece ci contiene
nel suo grande regno. Come fanciulli vaghiamo
nelle sale dei suoi meravigliosi palazzi,
scoprendo ad ogni passo nuovi tesori…
Ci spingiamo anche più lontano, fino ai lidi accarezzati dal mare:
i suoi confini, e tuttavia non veramente confini,
poiché udiamo in ogni onda una voce che ci reca un messaggio
d’altre sponde, che sono anch’esse tutti regni d’amore.
Margherita Guidacci
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