Reportage da Cuba

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Reportage da Cuba
LA SICILIA
MARTEDÌ 15 AGOSTO 2006
[ REPORTAGE. LE CONTRADDIZIONI AI CARAIBI ]
10.
Cuba, quale futuro in ballo?
LA STORIA
Meta di turisti occidentali che cercano solo
mare, sesso e danze, l’isola è sempre più
povera. La parte vecchia dell’Avana cade a
pezzi, la gente chiede abiti, sapone e persino
caramelle. E il dopo-Castro è un grande rebus
TRA SCUOLA&SANITÀ
SOGNANDO IL CALCIO
ANDREA LODATO
C
hissà, magari se arrivassero qui un po’ meno distratti, un po’ meno
eccitati, un po’ meno invasati e un poco di più disposti a capire, vedere, studiare, magari i cari turisti occidentali, italiani in testa, che
atterrano a Cuba ogni giorno, porterebbero a casa qualcosa che appartiene alla storia, all’anima, al cuore. Perché la Cuba che in queste settimane
vive l’improvvisa malattia del suo "comandante en jefe", Fidel Castro, non
riuscendo a capire che cosa sta succedendo davvero e, soprattutto, che cosa potrà accadere domani, è un’isola che soffre. Con grande dignità, s’affrettano a spiegare gli esperti, con coerenza e conservando persino buon
umore, voglia di ballare, di bere. Soprattutto quest’ultima, anzi.
Perchè la capitale, l’Avana, la parte storica, la parte "veja", la parte vera, la prima che spunta arrivando dall’aeroporto, è un susseguirsi di palazzine in stile coloniale ormai sventrate dal tempo, dall’abbandono, divorate dalla sporcizia. Dentro, però, ci vivono intere famiglie, i bambini,
in pantaloncini e a piedi scalzi, s’aggirano tra le macerie, davanti a cui ci
trovi, ogni dieci metri, qualcuno che con l’ultimo grammo di dignità, di
coerenza e di disperazione s’è scolato un’altra bottiglia del peggior Ron cubano. Pensi che sarà un’area della città. No. Tutta l’Habana veja è così. Ma
i turisti mica lo sanno, no. Perché la maggior parte da qui ci passa rapido,
alloggia in uno degli hotel a 5 stelle, prende un mojto al Floridita, il locale dove viveva full time Hemingway, mangia in qualche ristorante che ha
assortimento occidentale. Poi saluta, lascia generoso la mancia, passa davanti al Museo della Rivoluzione (e a qualcuno scappa una lacrima), prima di correre verso le spiagge di Varadero, o in quelle di Trinidad o, meglio ancora, in qualche isola tipo Cajo Largo. Un paradiso.
Dell’inferno rare tracce. Sì, si sa. Per strada i turisti vengono riconosciuti, avvicinati. Furbi cubani vogliono venderti di contrabbando i famosi sigari. Lacrimose signore chiedono sapone,
Mentre i
qualsiasi indumento tu possa regalare, magari anche una stilo, una penna. E i ninos, che approfittano delle puntuali
visitatori
piogge del pomeriggio per scivolare a piedi nudi sull’asfalinvadono
to come avessero gli sci, loro si accontenterebbero anche di
una caramella. Certo, c’è la zona nuova, a Vedado, con qualalberghi a 5
che centro commerciale grande e semivuoto, qualche palazstelle per i
zo rimesso su che fa meno impressione delle case fatiscene sul mare di Malecon spunta persino qualche villa. E qua
cubani cresce ti,
c’è pure l’albergo Nacional, quello dove si sistemano politilo stato di
ci occidentali di provata fede rivoluzionaria (politici occidenrivoluzionari, ma siamo sicuri?) che, perduti nel verde
precarietà. E tali
del parco, nelle stanze belle, linde, nel bar che ha luci soffuper il dopose, vedono l’isola che non c’è. Per i cubani. Raccontano qui
che, puntualmente, Mercedes nere come quelle che usa il
regime si
comandante Castro, prendono gli ospiti, li portano alla corteme già una te del presidente, e li riportano dentro il parco. Mah. Così capisci tante cose, il panorama si fa chiaro all’improvviso, e la
grande fuga
capitale caraibica del divertimento, della salsa, del rum,
dei sederi rotondi di ragazze sorridenti, diventa la tua tristezza, la tua angoscia, la tua ferita aperta.
Già, le ragazze cubane. Diciamo anche le ragazzine. Stanno quasi nei depliant turistici, ormai il turismo sessuale ha superato il turismo marino e
quello ideologico. Siccome qui tutto è fermo, immobile, siccome qui ti
sembra d’essere negli Anni ’50 quando guardi le vecchie Chevrolet o le Cadillac lasciate dagli americani scappati in fretta e furia dopo che Castro
sconfisse il dittatore Batista, allora accosti la foto e il destino di queste cubane a quello delle ragazze dell’Est europeo prima della caduta del Muro, dei Ceaucescu vari. Calze di nylon, scarpe, accessori trend più o meno,
per non dire di qualche bagnadero, cioé qualche costume. E poi i quattrini, certo. Dollari. Euro. Oppure pesos convertible, cioé il peso che vale
quanto il dollaro. Oh le cubanite. Secondo chi sa fare in conti in tasca al regime portano valuta fresca all’isola più loro che alcuni tradizionali settori in crisi da anni.
Forse, però, c’è un’altra industria che tira altrettanto e che provoca
uguale tristezza perché è un’altra mancanza di rispetto per un essere
umano. E’ la commercializzazione del Che. Ernesto Che Guevara, l’eroe di
Santa Clara, quello che ad Occidente sta nelle magliette, nei poster, nelle
bandane, qui nell’isola comunista sta lì, sta là, sta altrove. Per farla breve
basti solo pensare che all’aeroporto ti vendono anche gli orologi Swatch
con la faccia del Che. Ti spieghi, allora, perché il dott. Guevara, fatto il suo
per Cuba e i cubani, levò le tende e se ne andò a morire altrove, inseguendo la sua eterna idea rivoluzionaria presa terribilmente sul serio: patria
o muerte. Così mentre ti vendono il Che in tutte le salse, capisci anche che
l’apostolo vero della rivoluzione è il poeta Jose Martì, cui hanno intitolato l’aeroporto, che ha il busto rispettosamente collocato davanti a scuole e luoghi di lavoro. Scorre il tempo in questa capitale, lento, caldo ed appiccicoso. A guardare la gente in giro non si direbbe che aspetti la morte
del Jefe, no. Ma se la riguardi capisci perché anche l’amministrazione Bush non è poi così ansiosa di vedere celebrati i funerali del dittatore comunista più longevo di sempre. Perchè quando avverrà e il regime si sgretolerà, è presumibile che anziché attendere quei dieci, quindici anni che ci
vorranno per rimettere in piedi Cuba, molti proveranno ad emigrare verso l’occidente corrotto, banale, consumistico e violento che la cocciuta e
dannosa coerenza di Castro, aiutato in questo dallo stupido e disumano
embargo americano, ha trasformato ogni giorno di più nell’Eldorado che
non è. Ma a questi che stanno qui chi glielo spiega?
Le condizioni di Cuba e quelle di Castro
Nelle foto in alto una vecchia auto americana nelle strade dell’Avana, uno spaccio popolare protetto da un’inferriata e l’incontro
avvenuto ieri in ospedale tra Fidel Castro e il presidente venezuelano Chavez. Le condizioni di Castro sarebbero, secondo fonti
governative, già migliorate. Sopra due bambini affacciati al balcone di un palazzo fatiscente nel centro della capitale
Niños e pelota
Sulla spiaggia di
Trinidad del Mar
bambini cubani
giocano per ore
con una piccola
palla. Per i
ragazzini il calcio
è un sogno,
anche se a Cuba
sono molto più
diffusi sport
come il baseball
(ereditato dagli
americani) la
pallavolo e la
pallacanestro
TRINIDAD. Tre fratellini e un loro
cuginetto biondi da far invidia ad uno
svedese. Felici e bruciacchiati nel mare
di Trinidad, mentre il papà e la mamma
non li perdono di vista un attimo, ci
giocano, preparano loro da mangiare.
Josè, il padre, pescatore di Castilda, una
frazione dell’incantevole Trinidad, ci
spiega: «E’ vero che voi siete ricchi, che i
vostri figli hanno tutto e che i nostri
devono accontentarsi di giocare con
quella palletta verde o usare un pezzo di
sughero facendo finta sia una tavoletta
per stare a galla nel mare. E’ vero, ma
loro vivono liberi, i vostri sono
attanagliati dalle paure e dall’ansia di
avere sempre qualcos’altro, oltre ciò
che hanno già».
Josè è un gran lavoratore, la moglie
appartiene ad un’altra famiglia di
pescatori dello stesso paese. Qui siamo
lontanissimi dalle tristezze dell’Avana e
la distanza ci aiuta a capire un altro
aspetto di Cuba. Capirlo oltre la
propaganda che la tv di stato fa
continuamente, parlando di sanità e
scuola, scuola e sanità.
«Sì, non ci sono medicine nelle farmacie
- dice ancora Josè - ma se ci succede
qualcosa possiamo andare direttamente
negli ospedali pubblici per essere
curati».
La questione è controversa tra chi non
vive qui, ma arriva, vede, giudica e se ne
va. C’è chi dice che gli ospedali pubblici
non funzionano granché e che le
specializzazioni di cui Castro si vanta
sono solo beneficio di chi ha pesos e di
chi rientra nei piani speciali di assistenza,
come quello denominato Operacìon
Milagro, che garantirà cure oftalmiche
per i prossimi dieci anni a cittadini
latinoamericani a Cuba e in Venezuale.
Josè dice che va come dice il lìder: «Negli
ospedali l’assistenza c’è». E c’è la
scuola. Dieci mesi l’anno circa, con un
impegno che Castro ha sempre ritenuto
prioritario: «Educar es crear», recitano
grandi poster sulle strade di Cuba. I
quattro bambini biondissimi anche loro
confermano: la scuola, lo studio sono la
loro principale occupazione per quasi
tutto l’anno. Ma, come tutti i bambini, i
tre ragazzini sognano anche di diventare
bravi calciatori, anche se qui vanno per
la maggiore il baseball e il volley.
«Los ninos so encantati da la camiseta»,
dice la mamma, indicando la maglietta
che indossiamo. Sarà per affinità
cromatica: bianca con le righe rosse e
azzurre, quasi come la bandera cubana.
A. LOD.
La mafia, tra ricordi e pregiudizi
Siciliani «spetti». Anche a Cuba quando sentono parlare della Sicilia pensano subito a Cosa Nostra
NOSTRO INVIATO
L’AVANA. Segni particolari? Campeon do mundo. Il turista italiano a Cuba lo riconoscono a cento metri di
distanza. Raramente sbagliano, magari ti confondono
con uno spagnolo, ma solo per un attimo. Poi attaccano la tiritera: «Vuoi sigari Cohiba? I migliori, tirati fuori dalla fabbrica di Stato. Ti ci mettiamo su anche i
timbri per sdoganarli senza problemi».
Si parte sempre da ’sti sigari cubani, ma gli italiani
incuriosiscono, perché sanno fare i turisti light, leggeri leggeri, meglio di tutti gli altri. In riva al mare, nei
mercatini, nei bar, in albergo. Ovviamente anche ai
cubani non è sfuggito che la nazionale italiana ha vinto i Mondiali di calcio. Ed è un buon modo di approccio, di attracco per passare dopo Del Piero ai sigari.
E, comunque, pure se non compri, loro parlano,
parlano, chiedono. Sono curiosi, ti scrutano dalla testa ai piedi, incantati, spesso, dal poco che indossi.
Perché, diffidenti e scottati dal vivere nell’occidente
ricco di roba e terrore, i turisti italiani vanno in giro
con poco. Che è già abbastanza per i cubani. Divertente ma non troppo è il secondo approccio, quando superata la fase calcio, sigari, scarpe e jeans, ti chiedono se sei di Roma o di Milan. «No Roma, no Milano. Sicilia. Sugnu siciliano».
Per nulla divertente, anzi. Perché appena sentono
che sei siciliano, istintivamente si allontanano, diventano quasi seri, fanno con la mano nel viso il segno
inequivocabile della faccia tagghiata e sussurrano:
«Sisiliano ah, mafioso».
Accostamento automatico, che diventa anche imbarazzante quando capisci che è una costante, una fissazione. Aggiungono i cubani: «Qui non mafia, qui todo es controlado. Policia, policia, policia». Bastasse
quello, pensiamo. Il fatto è che l’isola e la rivoluzione
di Castro sono strettamente collegate alla questione
della mafia italo-americana che durante la dittatura
di Batista aveva trovato in Cuba un’altra Las Vegas dove investire e fare ricchi «bisinissi», affari va.
Lo ha racconta al cinema, come al solito in maniera straordinaria e documentata, Francis Ford Coppola con il suo Padrino 1 e 2, con la saga della famiglia
Corleone che, spiegava Mario Puzo nel suo romanzo,
proprio all’Avana stava stringendo accordi importanti con la mala locale, mentre Castro lanciava la sua
offensiva a Batista, rovesciando il regime e prendendo il potere.
Tra quel film e gli altri sceneggiati sul tema, è chiaro che di mafia si parla spesso. Anzi ogni giorno, di
questi tempi. Perché i nemici della rivoluzione, annuncia la tv ufficiale cubana, sono, con Bush, los mafioso-terrostistas de Miami, i cubani scappati negli
States e che sono pure scesi in piazza alla notizia
della malattia di Castro. Per augurargli, addirittura, un
pronto decesso.
A. LOD.