ecco il mio posto!

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ecco il mio posto!
ECCO IL MIO POSTO!
Riflessioni personali, ma non solo
Sperimento che il "posto" in cui mi trovo meglio, il mio posto di parroco, è la presidenza
dell'Eucaristia.
Vorrei rifletterci. Ho chiesto lumi a qualche riflessione fatta da esperti, ma non mi trovo bene.
Lascio da parte i libri, leggo la mia esperienza, o meglio parto dalla mia esperienza. Compio
volentieri questa fatica per ribadire quanto di buono già avviene in me, per ricercare quanto manca,
per correggere ciò che è errato.
L'interessato di questa riflessione sono io e l'obiettivo dello sforzo che sto per compiere è
comprendere sempre meglio la fortuna che mi é data con l'ordinazione sacerdotale e con il mandato
di parroco, per non sciuparla con superficialità e banalità.
Il sacerdote è tramite dell'incontro con l'Invisibile
Senza prete, la messa non si comincia.
Quando fummo ordinati sacerdoti il caldo era opprimente. La notte precedente non chiusi quasi
occhio, perché la cameretta del Collegio degli Oblati di Rho era un forno, non circolava aria. Forse
per questo il giorno dopo ero intontito. O forse no. Ricordo qualcosa di quella giornata, come
spezzoni di sogno. Tornato al mio paese, volli salire all'altare. Da pochi mesi era stato collocato un
bell'altare di legno, provvisorio (c'é ancora!), rivolto verso l'assemblea. Al vecchio altare il
sacerdote saliva, dopo le preghiere penitenziali dell'inizio, rivolto sempre verso Dio con il popolo
alle spalle. Lo vedevi collocato tra te e l'Invisibile, in alto, a colloquio con Dio, isolato da tutti. Il
nuovo altare rivolto verso il popolo fu una conseguenza del Concilio che si stava per concludere:
evidenziava di più il rapporto con l'assemblea. La chiesa a quell'ora era vuota, solo panche. Ma
quella posizione mi dava il capogiro e mi intimidiva. Mi sembrava di essere esposto a sguardi
indiscreti, sentivo il bisogno di coprirmi e nascondermi. Vorrei riprovare un po' di quello
smarrimento.
Quando inizio la celebrazione tutti mi guardano. Ma non è alla mia persona che dovrebbero
porre attenzione. Non è il prete che dà coesione alla comunità o ne costituisce il centro. Tramite il
prete è Dio stesso. Lui ci convoca in assemblea. Senza Dio ognuno seguirebbe le sue vie o si
cercherebbe il suo divo o la sua diva.
La presenza di Dio non è però un dato di fatto evidente, non sa coglierlo l'occhio del corpo né
sentirlo l'orecchio. Quando inizio la celebrazione, ogni fedele si cerca il proprio posto (interessante
constatare che di norma ciascuno si colloca alla stessa panca), saluta gli amici, scambia le ultime
novità... La campanella che annuncia il sacerdote, mette silenzio e segna l'inizio del canto. Intanto, e
il particolare non è indifferente, le porte continuano ad aprirsi e a chiudersi e i ritardatari ad
arrivare. Occorre "creare l'atmosfera". Mi piacerebbe che la mia persona che sta al centro e le mie
parole che introducono la celebrazione contribuiscano a collocare tutti nella certezza della presenza
di Dio che ci ha convocati, come un papà i suoi figli.
Gli inizi sono fondamentali, per tutto, soprattutto quando si prega. Vorrei sì scomparire, ma per
lasciare il posto al Protagonista. L'emozione della prima volta, quando contemplai da prete la chiesa
dall'altare, non dovrebbe abbandonarmi, ma continuare. L'abitudine te la fa dimenticare, con il
rischio di dare avvio in maniera superficiale alla celebrazione senza che neanche tu, che presiedi,
sia consapevole della realtà misteriosa e grande che stai iniziando.
Non sono esente dal rischio. Mi sono abituato a ogni tipo di assemblea, non temo lo sguardo di
nessuno, spesso i miei occhi cercano la tal persona o la tal altra, mi fioriscono in cuore
apprezzamenti e osservazioni. Corro il pericolo di dimenticare quanto forse era spontaneo ai vecchi
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sacerdoti che, dopo l'atto penitenziale, salivano all'altare di Dio: di guardare in Alto, al cospetto di
Colui che ci ha convocati. Sono certo che l'atteggiamento del sacerdote segna l'assemblea, quasi
quasi anche la condiziona.
Il senso di Dio e della sua vicinanza non si improvvisa. Sono importanti i minuti che precedono
la celebrazione (devo rimproverarmi senz'altro la mancanza di preparazione immediata adeguata),
ma il fattore decisivo è che la vita sia sorretta e animata dal desiderio di Dio, e non invece distratta
dalle mille cose da fare e da mille inutili voglie.
Una realtà non più di moda ma tremenda
Il sacerdote, che si preoccupa della propria vita spirituale e di quella della comunità che gli è stata
affidata, assomiglia al medico, attento a ogni assalto della malattia, pronto a indicarne i rimedi,
prodigo di consigli, ammonimenti, e, se necessario, rimproveri. La malattia da combattere è il
peccato. Difficile da diagnosticare e da ammettere.
Occorre però che cominci da se stesso: diagnosticare il peccato in sé e combatterlo. Se non lo
facesse, i suoi ammonimenti sarebbero molto meno efficaci.
Mi fa dunque riflettere l'atto iniziale che la Liturgia mi fa compiere nella celebrazione eucaristica
subito dopo il saluto. "Riconosciamo i nostri peccati", ordino. Come se dicessi: “Siamo davanti alla
luce. La luce che attraversa il vetro ne evidenzia tutte le impurità, senza la luce tutto parrebbe
falsamente pulito. Se la luce di Dio ci attraversa, appaiono le nostre sporcizie e le macchie
evidenziate ci darebbero fastidio”.
Solo se prendiamo consapevolezza, come il figlio della famosa parabola, della nostra
dabbenaggine, se non addirittura della nostra cattiveria, legata al fatto di esserci allontanati da
"casa" nell'illusione di trovare la realizzazione della vita altrove, e di conseguenza solo se siamo
consapevoli che proprio a quella casa occorre ritornare e che ad attenderci c'è un Padre con le
braccia spalancate, si crea l'atmosfera esatta per un incontro autentico nella celebrazione eucaristica.
Il peccato infatti è esattamente il contrario dell'evento della celebrazione: il peccato è fuga da Dio,
la celebrazione ritorno a lui.
Devo dire che il compito che mi è affidato dalla Liturgia in quel momento è difficilissimo. Fatico
io a convincermene, come posso convincere altri? Ricordo un'usanza dei tempi della giovinezza,
quella di dire qualche Ave Maria per i "poveri peccatori" (così ci si diceva). Una cosa buona
senz'altro, ma che a poco a poco ha creato la convinzione che "poveri peccatori" siano gli altri.
L’estrema difficoltà di riconoscerci peccatori, anzi questa impossibilità da tempo ritengo molto
dannosa. Così non gustiamo l'amore di Dio neanche noi, abituali frequentatori dell'Eucaristia,
perché assomigliamo troppo al fratello maggiore, sempre di quella parabola. La "familiarità" con
Dio ha generato superficialità. Abituati ad avere tutto, siamo incapaci di gustarne l'amore come se
tutto ci sia dovuto di diritto. "Non mi hai dato neanche un capretto per far festa con gli amici!":
ecco la pretesa, che è per natura cieca. "L'altro sbaglia, non io. Lui è l'intruso. Io qui sono di casa a
pieno diritto".
Senza aggiungere che nel vocabolario di oggi é stata cancellata perfino la parola peccato. Già Pio
XII diceva che il grande peccato dei tempi moderni è aver perso il senso del peccato.
Insomma, in sintesi, la mia esperienza di parroco mi sta convincendo (cosa allarmante) che
nessuno, o quasi, quando dice: "Confesso... che ho molto peccato", è consapevolmente convinto che
l'affermazione che pronuncia è vera per lui. Ora, io so per certo dalla Bibbia che Gesù è l'unico
Salvatore degli uomini, che viene per liberare dal peccato, e che solo chi si riconosce peccatore, lo
accoglie per davvero. Non posso accettare che Gesù non sia accolto proprio da coloro che si
ritengono “suoi”. Il Battista prepara la strada a Gesù che sta per venire, invitando alla penitenza,
anche con metodi piuttosto "violenti". Qui si misura l'efficacia della mia azione pastorale: il
sacerdote è anch’egli un “precursore”, come il Battista.
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Possa io vivere per lodarti, Signore!
"Gloria a Dio nell'alto dei cieli... Noi ti lodiamo, ti benediciamo, ti adoriamo, ti rendiamo
grazie": dopo l'invito a batterci il petto per aprirci all'amore misericordioso del Padre, intono il
canto di lode a Dio, Padre, Figlio e Spirito. E subito dopo, do un ordine, o, se si vuole, un
avvertimento importante: Preghiamo!
Passi decisivi per vivere la messa come incontro. Temo le parole vuote, cioè la lingua che dice
automaticamente parole imparate a memoria senza che le tengano dietro l'attenzione e il cuore.
Ogni preghiera autentica è incontro. In particolare la messa. Per seguire bene la messa, occorre aver
imparato a pregare da soli. Se desidero messe partecipate, devo farle precedere da "scuole di
preghiera", diffondere il "gusto della preghiera", rendere affascinante l’incontro con Dio, come
affascinante è l’incontro tra innamorati.
Mi è spontaneo presentare così la preghiera durante i funerali, qualche volta in maniera anche
brusca: "Noi siamo qui nella casa di Dio per pregare. Vedo che troppi di voi non pregano adesso
perché non lo fanno mai. Male! E non pregano perché sono spiritualmente ciechi, non vedono cioè
al loro fianco Dio che li ha voluti, li ha plasmati e li ama come capolavoro delle sue mani e come
figli. Se lo vedessero, senz'altro scambierebbero con lui qualche battuta, lo ascolterebbero, si
lascerebbero guidare da lui...: questo colloquio d'amore a tu per tu è preghiera".
Dio da noi è stato messo a tacere. Sul palcoscenico della vita gli è stata tolta la parola e lui stesso
relegato tra le quinte. La mentalità di oggi lo considera al più un optional, del quale si può
benissimo fare a meno. Il rifiuto di Dio è chiamato libertà, e non invece, come sarebbe più giusto,
cecità e ignoranza.
Alcune volte sono stato colpito dal senso della presenza di Dio che si respira nelle città
musulmane, anche per via degli inviti alla preghiera del muezzin dal minareto nel corso della
giornata, seguiti dal comportamento di tanti che, dovunque si trovano, si prostrano in preghiera in
direzione della Mecca. Le campane dettavano il ritmo della vita del mio paesino, un tempo. Poi le
sirene delle fabbriche. Adesso il caos frenetico.
Invitando alla lode di Dio e a collocarci in preghiera davanti a lui, faccio ancora mio il desiderio
di Gesù, cioè l'"ansia" della sua azione pastorale: che Dio sia rimesso al centro, protagonista delle
varie avventure della vita. “Sia santificato il tuo nome!”.
Il rischio di ripetere parole vuote è anche mio. Ma mi piace essere sollecitato dal rito a
riconfermarmi nell'intento profondo della mia azione sacerdotale, come e con Gesù: quello di
cercare e dare gloria a Dio, innalzando a lui l'attenzione di tutti, con quel "Gloria a Dio..." e
"Pregate".
La passione di trasmettere la Parola
Anche la prima parte della celebrazione eucaristica è chiamata "mensa": mensa della Parola.
Il salmista immagina che ogni creatura sia rivolta a Dio in attesa del cibo: Dio, come un papà,
nutre ogni vivente. Senza cibo non si vive. L'uomo però non ha soltanto uno stomaco da riempire,
ha infatti bisogno di un nutrimento spirituale, anela alla verità, davanti a Dio assomiglia al bambino
che al papà e alla mamma chiede sempre di ogni cosa, a volte in maniera ossessiva: "Perché?".
A ogni celebrazione, Dio ha un messaggio speciale per la comunità e per ciascuno, una sua
risposta da dare.
Qual è il mio compito di sacerdote? Dovrei preoccuparmi di tutti i particolari, come il ristoratore
si accerta che le tovaglie siano pulite, che la tavola sia apparecchiata..., che i camerieri servano con
puntualità e precisione. Non sempre i lettori sanno leggere, non sempre si inseriscono pause
necessarie per la riflessione, non sempre (anzi quasi mai) il salmo è vissuto e gustato come
preghiera di risposta a Dio che si comunica. Forse non tutti sanno, ma ho speso non pochi soldi
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personali per rifare l’impianto audio: il cibo deve anche essere presentato bene! Da allora, io, che ho
le corde vocali allentate, faccio meno fatica a dire, spero che tutti altrettanto a sentire.
L'impegno fondamentale però del sacerdote è la predica. Le disposizioni liturgiche esigono che
l'assemblea ascolti perché il sacerdote è "speciale", ha un compito tutto suo.
Mi capita spesso (vorrei sempre) di innalzare nel mio cuore una preghiera allo Spirito santo
mentre mi accosto all'ambone, perché sia lui a parlare con la mia bocca, lui a scuotere nell'intimo
chi ascolta. Il riferimento allo Spirito mi pare determinante. Gesù lo promette ai suoi
nell'imminenza della passione. Lo Spirito santo consacra Cristo per l'annuncio. Lo stesso Spirito ha
consacrato me per l'annuncio. "Lo Spirito santo mediante l'unzione sacramentale dell'Ordine
configura i ministri ordinati ad un titolo nuovo e specifico, a Gesù Cristo Capo e Pastore, li
conforma ed anima con la sua carità pastorale e li pone nella Chiesa nella condizione di servi
dell'annuncio del vangelo a ogni creatura..." (Pastores dabo vobis n.15). "I presbiteri esistono e
agiscono per l'annuncio del Vangelo al mondo" (id).
Ecco, il vero gestore della mensa della Parola è lo Spirito santo. S.Agostino parla di un maestro
interiore che parla al cuore di ciascuno, magari servendosi della mia voce. Per questo raccomando
spesso la devozione allo Spirito santo: per aprire le orecchie del cuore all'ascolto attento e fruttuoso
di Lui.
Se le cose stanno così, devo riconoscere almeno due cose: che è sciocchezza infantile pretendere
di stupire cercando il plauso di chi ascolta, e che le mie parole hanno un peso "relativo". M'è
capitato più di una volta di autocompiacermi inutilmente per certe riflessioni, e di constatare come
altre, ritenute da me ovvie se non addirittura banali, siano state efficaci colpendo "al cuore" qualche
ascoltatore.
Tutto questo però non mi esonera dall'essere io il primo discepolo della Parola, con lo studio e
con la preghiera. Mi hanno colpito, ormai una trentina d'anni fa, due imperativi rivolti ai giovani
dall'altro "giovane" Cardinale di Milano Martini: Gusta il silenzio! Gusta la Parola! Quel verbo:
gusta! Certo, sarà pur necessario prendere in mano qualche commento scientifico, ma la predica non
può ridursi a lezione dotta che risponda a curiosità intellettuali, deve essere invece comunicazione
appassionata di una verità gustata nell'intimo, soprattutto di un amore sperimentato e appunto
goduto, quello per Gesù.
Dovrei forse aggiungere anche un'ultima annotazione: la meditazione gustata delle pagine della
Bibbia è preceduta dal desiderio di Dio. "Mostrami il tuo volto!", supplicava Mosè sul Sinai. "Il tuo
volto, Signore, io cerco, non nascondermi il tuo volto!", è invece la supplica del salmista.
Alimentando questo desiderio, accresco in me il fascino della lettura della Bibbia. Fascino che
aumenta quando prendo consapevolezza che il volto di Dio che cerco è quello di Gesù: Gesù è lo
specchio di Dio, la via, lo splendore della sua gloria, l'impronta della sua sostanza. Vorrei quindi
che la mia predicazione possa moltiplicare la sete, il desiderio e la conoscenza di Dio nel Figlio di
Maria.
L'amore s'ha da vedere!
Contemplazione e compassione sono le due facce di un'unica medaglia: sono i due atteggiamenti
di fondo di una personalità cristiana. San Luca li riassume accostando una parabola e un episodio: la
parabola del buon Samaritano (compassione) e l'episodio di Marta e Maria (contemplazione) (cfr
Lc 10,25-42). Quando il cristiano si pone in ascolto attento della Parola, quando si colloca ai piedi
di Gesù, è Maria, la quale lascia da parte le tante incombenze per farsi discepola: è la
contemplazione. Questo succede in particolare nella prima parte della messa. Quando invece
accosta il fratello, deve esercitarsi nella "compassione". Questo succede nella vita. Ma tutto parte
dalla messa.
Non è facile identificare un solo momento della messa che educa all'attenzione all'altro e al dono
di sé. Senz'altro momento fondamentale è l'unione personale alla rinnovazione del dono completo di
sé che Cristo compie nel momento della consacrazione: il suo esempio trascina. Ma il sacerdote
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spinge ad alzare lo sguardo ai fratelli in altri momenti. Per esempio, quando, dopo l'ascolto della
Parola, introduce la cosiddetta "preghiera dei fedeli".
Purtroppo di solito i formulari sono già confezionati e sono poco coinvolgenti. La ripetizione
meccanica di "ascoltaci, o Signore" non accende in cuore la compassione.
Mi è più facile essere incisivo quando presiedo una messa di gruppo. Invito allora a identificare
alcune categorie di persone bisognose o che si affidano alle nostre preghiere, e a rivolgere per esse
richieste precise suggerite dalla Parola ascoltata.
Avviene allora un principio di conversione interiore: ci si accorge infatti che la preghiera di
intercessione non delega tutto a Dio, ma coinvolge personalmente. Se chiedo per esempio che le
persone anziane non siano abbandonate alla loro solitudine ma confortate dalla presenza di Dio, mi
accorgo che Dio interpella me perché vuol servirsi oggi di me per manifestare la sua attenzione
verso di esse. Pregare per l'altro allarga così gli orizzonti dell'attenzione e soprattutto dilata le
energie del cuore.
Come sacerdote indubbiamente ho il compito di promuovere la fraternità. Ed è certissimo che
esso non si esaurisce nell'esortazione con la quale introduco la preghiera dei fedeli. Devo però
partire anch'io da lì per imparare a guardare con compassione tutte le persone che mi sono affidate e
a desiderare per esse ogni bene dal Signore, magari dandomi da fare per procurarglielo. Un prete
egoista, chiuso nei suoi problemi, indubbiamente paralizza l'amore e la compassione della sua
comunità.
Non è difficile immaginare l'urgenza della cosa, anche dal punto di vista missionario. Oggi, forse
anche ieri, l'uomo non è molto attento alle parole pur belle che si dicono; viene invece scosso dalla
testimonianza di amore gratuito. Ha bisogno di vedere l'Amore più che di sentir parlare di Dio
amore.
Un ordine, un impegno
A un certo punto, la celebrazione della messa compie una accelerazione fondamentale. Ripeto il
saluto iniziale a cui aggiungo due ordini perentori: "In alto i nostri cuori!"; "Rendiamo grazie al
Signore nostro Dio!". In essi è la sintesi della celebrazione: ci troviamo al cospetto di Dio per
ringraziarlo. Il prefazio che segue ribadisce, qualora non fosse stato notato, il dovere di ringraziare e
la fecondità spirituale di questa preghiera. E poi ne aggiunge qualche motivazione, proponendo per
il nostro ringraziamento soprattutto eventi specifici della storia sacra. Chi ringrazia, s'accorge d'aver
ricevuto un dono, lo guarda, ne riconosce la preziosità.
La nostra vita è tutta un dono. La storia che ci ha preceduto e quella che ci vede attori è il
palcoscenico sul quale Dio entra da protagonista, arricchendola di benefici imprevedibili e
grandiosi. Il più importante è Gesù e la sua Pasqua, che per noi è la vittoria sul male e sulla morte. E
che di più?
Io invito a ringraziare perché i nostri occhi contemplino e il cuore si commuova. Ringraziando
per i grandi eventi della storia della salvezza, mi alleno anche a scoprire la presenza di Dio nella
mia piccola vicenda giornaliera e nella vita della comunità.
Il cristiano è l'uomo del ringraziamento. Purtroppo, se è giusta questa definizione che viene da
Giovanni Paolo II, di cristiani così ce ne sono pochi. Infatti la pratica del lamento, diffusissima
oggi per tutto e contro tutti, inquina anche noi cristiani.
Voglio ringraziare per insegnare a ringraziare. Me lo impongono gli ordini che "grido" nel cuore
della celebrazione della messa perché non rimangano parole rivolte al vento.
L'imposizione delle mani
Mi è capitato di imporre le mani su un gruppo di ragazzi e di ragazze della parrocchia di San
Domenico Savio per conferire loro il sacramento della cresima. Trepidazione e gioia. Mai l'avrei
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immaginato possibile. Altre poche volte, ma senz'altro con meno emozione, a qualche adulto nella
notte pasquale conferendo i sacramenti dell'iniziazione cristiana.
Queste occasioni mi hanno fatto scoprire un'altra imposizione delle mani, un'altra epiclesi
piuttosto trascurata o sottovalutata, eppure fondamentale: quella sul pane e sul vino. Per essa, pane e
vino diventano corpo e sangue di Cristo.
A questa "epiclesi", se ne aggiunge una seconda dopo la consacrazione, per la quale si chiede che
lo Spirito scenda sui tanti che partecipano all'Eucaristia e li riunifichi nell'unico corpo della Chiesa.
Gesti semplicissimi e poveri, ma con effetti grandiosi.
Come individuo, sono un nulla. Come strumento dello Spirito opero meraviglie che mi
sorpassano da ogni parte. Attraverso le mie mani passa un torrente di grazia. Non certo per merito
mio personale!
Questa considerazione è il vero antidoto contro la superbia. Maria riconosce la sua piccolezza e
nel contempo si vede, con infinito stupore, strumento di meraviglie nelle mani di Dio. E la sua
bocca prorompe nel canto del ringraziamento e dell'esultanza. Guardo a lei come alla maestra.
Vorrei offrirmi come lei docile strumento all'azione di Dio.
San Francesco venerava ogni sacerdote, anche il più indegno, perché Dio stesso gli "ubbidiva".
Non so se capita soltanto a me, ma credo che ci si soffermi troppo a considerarsi più dal versante
delle proprie debolezze e dei propri limiti che non dal versante della grazia del Sacramento
dell'Ordine che ci ha trasformati. Probabilmente è importante che il sacerdote si autostimi nella
maniera giusta e giunga a stupirsi dell'azione di Dio che in lui agisce rendendolo strumento di
grazia.
I gesti che preferisco, il ritratto del sacerdote
Sono affascinanti certe fotografie poste sulla tomba: normalmente si tratta di foto-tessera, niente
di particolare (chissà, mi chiedo, se nel momento in cui quell'uomo o quella donna sorridevano
davanti al fotografo pensavano anche all'uso finale di quell'istantanea?). Altre volte no, si tratta di
una foto che identifica il tipo, e il senso di una vita. Sulla mia tomba penso che mi piacerebbe una
foto della consacrazione, quando presento l'ostia o il calice, oppure dell'inizio della comunione,
quando presento l'Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo, o quando lo distribuisco subito
dopo ai fedeli.
Mi piacerebbe che quella foto sia vera, riassuma in verità cioè lo scopo ultimo della mia
esistenza. Voglio nella vita innalzare davanti agli occhi di tutti Gesù. Presentare quel corpo offerto
in sacrificio, il gesto dell'amore più incredibile. Lì è iniziata la vera rivoluzione del mondo, ancora
in atto, ancora lontana dal suo compimento, la rivoluzione dell'Amore. Oppure innalzare il calice
della nuova ed eterna Alleanza per richiamare a ogni uomo il patto d'amore con Dio: sei legato a
Dio con un patto di sangue, l'iniziativa è sua, ma non puoi rimanere insensibile e distratto, anche
perché solo lui ti può dare la gioia che ricerchi, solo lui è l'oggetto più vero del tuo amore. Oppure
offrire infine quel corpo come cibo che sostiene e dà forza sul cammino della vita.
Non ho altra ambizione più seria di questa. Mi piace moltissimo il Battista che si ritiene tutto
relativo a Gesù, al Messia, allo Sposo, e che non coltiva altro desiderio all'in fuori "che Lui cresca,
io invece diminuisca". Nella catena della storia, nella staffetta della storia, vorrei consegnare alle
nuove generazioni il testimone che ho ricevuto, perché altri continuino ad appassionarsi di Gesù
così tanto da diffonderne il "contagio".
L'atto riassuntivo
Una volta lo facevamo soltanto noi, della diocesi di Milano: allargare le braccia innalzandole al
cielo per dire tutti insieme il Padre nostro. Capivi subito, celebrando l'Eucaristia in altra diocesi, per
esempio in località di villeggiatura, chi proveniva da Milano proprio da questo gesto. Adesso l'uso
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si è diffuso. È una grazia simpatica godere della fraternità universale in Dio Padre guardando in
faccia alle persone che ti trovi di fronte, dal più piccolo al più anziano: "Tu sei la mia sorellina, tu
sei il mio fratello...". Da tempo fisso lo sguardo sull'Ostia consacrata che mi sta dinanzi: il primo
che innalza le braccia al cielo è lui, Gesù, che prega insieme a noi valorizzando la nostra supplica.
Tutte le genti, così belle, così colorate, così diverse, così preziose..., sono l’unica stupenda famiglia
di Dio.
Compito fondamentale del sacerdote è far amare e diffondere, con il suo stile di vita e con
esortazioni opportune, queste certezze derivanti dalla fede, anticipando qui sulla terra l'atmosfera di
gioia, di pace, di serenità, di beatitudine che caratterizzerà la vita beata del cielo.
Una visione delle cose e uno stile di vita che dalla celebrazione si devono poi diffondere nel
quartiere. L'"Andiamo in pace!" non è soltanto invito a uscire perché la celebrazione è conclusa, ma
anche invio per la missione sulle strade della vita. L'amore che hai conosciuto e goduto è per tutti,
non per te soltanto. Anche a te che ho incontrato il compito di tradurlo in scelte di vita. Anche a te
la missione di fare dell'umanità l'unica grande famiglia di Dio.
don Gregorio
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