ecco il mio posto!
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ecco il mio posto!
ECCO IL MIO POSTO! Riflessioni personali, ma non solo Sperimento che il "posto" in cui mi trovo meglio, il mio posto di parroco, è la presidenza dell'Eucaristia. Vorrei rifletterci. Ho chiesto lumi a qualche riflessione fatta da esperti, ma non mi trovo bene. Lascio da parte i libri, leggo la mia esperienza, o meglio parto dalla mia esperienza. Compio volentieri questa fatica per ribadire quanto di buono già avviene in me, per ricercare quanto manca, per correggere ciò che è errato. L'interessato di questa riflessione sono io e l'obiettivo dello sforzo che sto per compiere è comprendere sempre meglio la fortuna che mi é data con l'ordinazione sacerdotale e con il mandato di parroco, per non sciuparla con superficialità e banalità. Il sacerdote è tramite dell'incontro con l'Invisibile Senza prete, la messa non si comincia. Quando fummo ordinati sacerdoti il caldo era opprimente. La notte precedente non chiusi quasi occhio, perché la cameretta del Collegio degli Oblati di Rho era un forno, non circolava aria. Forse per questo il giorno dopo ero intontito. O forse no. Ricordo qualcosa di quella giornata, come spezzoni di sogno. Tornato al mio paese, volli salire all'altare. Da pochi mesi era stato collocato un bell'altare di legno, provvisorio (c'é ancora!), rivolto verso l'assemblea. Al vecchio altare il sacerdote saliva, dopo le preghiere penitenziali dell'inizio, rivolto sempre verso Dio con il popolo alle spalle. Lo vedevi collocato tra te e l'Invisibile, in alto, a colloquio con Dio, isolato da tutti. Il nuovo altare rivolto verso il popolo fu una conseguenza del Concilio che si stava per concludere: evidenziava di più il rapporto con l'assemblea. La chiesa a quell'ora era vuota, solo panche. Ma quella posizione mi dava il capogiro e mi intimidiva. Mi sembrava di essere esposto a sguardi indiscreti, sentivo il bisogno di coprirmi e nascondermi. Vorrei riprovare un po' di quello smarrimento. Quando inizio la celebrazione tutti mi guardano. Ma non è alla mia persona che dovrebbero porre attenzione. Non è il prete che dà coesione alla comunità o ne costituisce il centro. Tramite il prete è Dio stesso. Lui ci convoca in assemblea. Senza Dio ognuno seguirebbe le sue vie o si cercherebbe il suo divo o la sua diva. La presenza di Dio non è però un dato di fatto evidente, non sa coglierlo l'occhio del corpo né sentirlo l'orecchio. Quando inizio la celebrazione, ogni fedele si cerca il proprio posto (interessante constatare che di norma ciascuno si colloca alla stessa panca), saluta gli amici, scambia le ultime novità... La campanella che annuncia il sacerdote, mette silenzio e segna l'inizio del canto. Intanto, e il particolare non è indifferente, le porte continuano ad aprirsi e a chiudersi e i ritardatari ad arrivare. Occorre "creare l'atmosfera". Mi piacerebbe che la mia persona che sta al centro e le mie parole che introducono la celebrazione contribuiscano a collocare tutti nella certezza della presenza di Dio che ci ha convocati, come un papà i suoi figli. Gli inizi sono fondamentali, per tutto, soprattutto quando si prega. Vorrei sì scomparire, ma per lasciare il posto al Protagonista. L'emozione della prima volta, quando contemplai da prete la chiesa dall'altare, non dovrebbe abbandonarmi, ma continuare. L'abitudine te la fa dimenticare, con il rischio di dare avvio in maniera superficiale alla celebrazione senza che neanche tu, che presiedi, sia consapevole della realtà misteriosa e grande che stai iniziando. Non sono esente dal rischio. Mi sono abituato a ogni tipo di assemblea, non temo lo sguardo di nessuno, spesso i miei occhi cercano la tal persona o la tal altra, mi fioriscono in cuore apprezzamenti e osservazioni. Corro il pericolo di dimenticare quanto forse era spontaneo ai vecchi 1 sacerdoti che, dopo l'atto penitenziale, salivano all'altare di Dio: di guardare in Alto, al cospetto di Colui che ci ha convocati. Sono certo che l'atteggiamento del sacerdote segna l'assemblea, quasi quasi anche la condiziona. Il senso di Dio e della sua vicinanza non si improvvisa. Sono importanti i minuti che precedono la celebrazione (devo rimproverarmi senz'altro la mancanza di preparazione immediata adeguata), ma il fattore decisivo è che la vita sia sorretta e animata dal desiderio di Dio, e non invece distratta dalle mille cose da fare e da mille inutili voglie. Una realtà non più di moda ma tremenda Il sacerdote, che si preoccupa della propria vita spirituale e di quella della comunità che gli è stata affidata, assomiglia al medico, attento a ogni assalto della malattia, pronto a indicarne i rimedi, prodigo di consigli, ammonimenti, e, se necessario, rimproveri. La malattia da combattere è il peccato. Difficile da diagnosticare e da ammettere. Occorre però che cominci da se stesso: diagnosticare il peccato in sé e combatterlo. Se non lo facesse, i suoi ammonimenti sarebbero molto meno efficaci. Mi fa dunque riflettere l'atto iniziale che la Liturgia mi fa compiere nella celebrazione eucaristica subito dopo il saluto. "Riconosciamo i nostri peccati", ordino. Come se dicessi: “Siamo davanti alla luce. La luce che attraversa il vetro ne evidenzia tutte le impurità, senza la luce tutto parrebbe falsamente pulito. Se la luce di Dio ci attraversa, appaiono le nostre sporcizie e le macchie evidenziate ci darebbero fastidio”. Solo se prendiamo consapevolezza, come il figlio della famosa parabola, della nostra dabbenaggine, se non addirittura della nostra cattiveria, legata al fatto di esserci allontanati da "casa" nell'illusione di trovare la realizzazione della vita altrove, e di conseguenza solo se siamo consapevoli che proprio a quella casa occorre ritornare e che ad attenderci c'è un Padre con le braccia spalancate, si crea l'atmosfera esatta per un incontro autentico nella celebrazione eucaristica. Il peccato infatti è esattamente il contrario dell'evento della celebrazione: il peccato è fuga da Dio, la celebrazione ritorno a lui. Devo dire che il compito che mi è affidato dalla Liturgia in quel momento è difficilissimo. Fatico io a convincermene, come posso convincere altri? Ricordo un'usanza dei tempi della giovinezza, quella di dire qualche Ave Maria per i "poveri peccatori" (così ci si diceva). Una cosa buona senz'altro, ma che a poco a poco ha creato la convinzione che "poveri peccatori" siano gli altri. L’estrema difficoltà di riconoscerci peccatori, anzi questa impossibilità da tempo ritengo molto dannosa. Così non gustiamo l'amore di Dio neanche noi, abituali frequentatori dell'Eucaristia, perché assomigliamo troppo al fratello maggiore, sempre di quella parabola. La "familiarità" con Dio ha generato superficialità. Abituati ad avere tutto, siamo incapaci di gustarne l'amore come se tutto ci sia dovuto di diritto. "Non mi hai dato neanche un capretto per far festa con gli amici!": ecco la pretesa, che è per natura cieca. "L'altro sbaglia, non io. Lui è l'intruso. Io qui sono di casa a pieno diritto". Senza aggiungere che nel vocabolario di oggi é stata cancellata perfino la parola peccato. Già Pio XII diceva che il grande peccato dei tempi moderni è aver perso il senso del peccato. Insomma, in sintesi, la mia esperienza di parroco mi sta convincendo (cosa allarmante) che nessuno, o quasi, quando dice: "Confesso... che ho molto peccato", è consapevolmente convinto che l'affermazione che pronuncia è vera per lui. Ora, io so per certo dalla Bibbia che Gesù è l'unico Salvatore degli uomini, che viene per liberare dal peccato, e che solo chi si riconosce peccatore, lo accoglie per davvero. Non posso accettare che Gesù non sia accolto proprio da coloro che si ritengono “suoi”. Il Battista prepara la strada a Gesù che sta per venire, invitando alla penitenza, anche con metodi piuttosto "violenti". Qui si misura l'efficacia della mia azione pastorale: il sacerdote è anch’egli un “precursore”, come il Battista. 2 Possa io vivere per lodarti, Signore! "Gloria a Dio nell'alto dei cieli... Noi ti lodiamo, ti benediciamo, ti adoriamo, ti rendiamo grazie": dopo l'invito a batterci il petto per aprirci all'amore misericordioso del Padre, intono il canto di lode a Dio, Padre, Figlio e Spirito. E subito dopo, do un ordine, o, se si vuole, un avvertimento importante: Preghiamo! Passi decisivi per vivere la messa come incontro. Temo le parole vuote, cioè la lingua che dice automaticamente parole imparate a memoria senza che le tengano dietro l'attenzione e il cuore. Ogni preghiera autentica è incontro. In particolare la messa. Per seguire bene la messa, occorre aver imparato a pregare da soli. Se desidero messe partecipate, devo farle precedere da "scuole di preghiera", diffondere il "gusto della preghiera", rendere affascinante l’incontro con Dio, come affascinante è l’incontro tra innamorati. Mi è spontaneo presentare così la preghiera durante i funerali, qualche volta in maniera anche brusca: "Noi siamo qui nella casa di Dio per pregare. Vedo che troppi di voi non pregano adesso perché non lo fanno mai. Male! E non pregano perché sono spiritualmente ciechi, non vedono cioè al loro fianco Dio che li ha voluti, li ha plasmati e li ama come capolavoro delle sue mani e come figli. Se lo vedessero, senz'altro scambierebbero con lui qualche battuta, lo ascolterebbero, si lascerebbero guidare da lui...: questo colloquio d'amore a tu per tu è preghiera". Dio da noi è stato messo a tacere. Sul palcoscenico della vita gli è stata tolta la parola e lui stesso relegato tra le quinte. La mentalità di oggi lo considera al più un optional, del quale si può benissimo fare a meno. Il rifiuto di Dio è chiamato libertà, e non invece, come sarebbe più giusto, cecità e ignoranza. Alcune volte sono stato colpito dal senso della presenza di Dio che si respira nelle città musulmane, anche per via degli inviti alla preghiera del muezzin dal minareto nel corso della giornata, seguiti dal comportamento di tanti che, dovunque si trovano, si prostrano in preghiera in direzione della Mecca. Le campane dettavano il ritmo della vita del mio paesino, un tempo. Poi le sirene delle fabbriche. Adesso il caos frenetico. Invitando alla lode di Dio e a collocarci in preghiera davanti a lui, faccio ancora mio il desiderio di Gesù, cioè l'"ansia" della sua azione pastorale: che Dio sia rimesso al centro, protagonista delle varie avventure della vita. “Sia santificato il tuo nome!”. Il rischio di ripetere parole vuote è anche mio. Ma mi piace essere sollecitato dal rito a riconfermarmi nell'intento profondo della mia azione sacerdotale, come e con Gesù: quello di cercare e dare gloria a Dio, innalzando a lui l'attenzione di tutti, con quel "Gloria a Dio..." e "Pregate". La passione di trasmettere la Parola Anche la prima parte della celebrazione eucaristica è chiamata "mensa": mensa della Parola. Il salmista immagina che ogni creatura sia rivolta a Dio in attesa del cibo: Dio, come un papà, nutre ogni vivente. Senza cibo non si vive. L'uomo però non ha soltanto uno stomaco da riempire, ha infatti bisogno di un nutrimento spirituale, anela alla verità, davanti a Dio assomiglia al bambino che al papà e alla mamma chiede sempre di ogni cosa, a volte in maniera ossessiva: "Perché?". A ogni celebrazione, Dio ha un messaggio speciale per la comunità e per ciascuno, una sua risposta da dare. Qual è il mio compito di sacerdote? Dovrei preoccuparmi di tutti i particolari, come il ristoratore si accerta che le tovaglie siano pulite, che la tavola sia apparecchiata..., che i camerieri servano con puntualità e precisione. Non sempre i lettori sanno leggere, non sempre si inseriscono pause necessarie per la riflessione, non sempre (anzi quasi mai) il salmo è vissuto e gustato come preghiera di risposta a Dio che si comunica. Forse non tutti sanno, ma ho speso non pochi soldi 3 personali per rifare l’impianto audio: il cibo deve anche essere presentato bene! Da allora, io, che ho le corde vocali allentate, faccio meno fatica a dire, spero che tutti altrettanto a sentire. L'impegno fondamentale però del sacerdote è la predica. Le disposizioni liturgiche esigono che l'assemblea ascolti perché il sacerdote è "speciale", ha un compito tutto suo. Mi capita spesso (vorrei sempre) di innalzare nel mio cuore una preghiera allo Spirito santo mentre mi accosto all'ambone, perché sia lui a parlare con la mia bocca, lui a scuotere nell'intimo chi ascolta. Il riferimento allo Spirito mi pare determinante. Gesù lo promette ai suoi nell'imminenza della passione. Lo Spirito santo consacra Cristo per l'annuncio. Lo stesso Spirito ha consacrato me per l'annuncio. "Lo Spirito santo mediante l'unzione sacramentale dell'Ordine configura i ministri ordinati ad un titolo nuovo e specifico, a Gesù Cristo Capo e Pastore, li conforma ed anima con la sua carità pastorale e li pone nella Chiesa nella condizione di servi dell'annuncio del vangelo a ogni creatura..." (Pastores dabo vobis n.15). "I presbiteri esistono e agiscono per l'annuncio del Vangelo al mondo" (id). Ecco, il vero gestore della mensa della Parola è lo Spirito santo. S.Agostino parla di un maestro interiore che parla al cuore di ciascuno, magari servendosi della mia voce. Per questo raccomando spesso la devozione allo Spirito santo: per aprire le orecchie del cuore all'ascolto attento e fruttuoso di Lui. Se le cose stanno così, devo riconoscere almeno due cose: che è sciocchezza infantile pretendere di stupire cercando il plauso di chi ascolta, e che le mie parole hanno un peso "relativo". M'è capitato più di una volta di autocompiacermi inutilmente per certe riflessioni, e di constatare come altre, ritenute da me ovvie se non addirittura banali, siano state efficaci colpendo "al cuore" qualche ascoltatore. Tutto questo però non mi esonera dall'essere io il primo discepolo della Parola, con lo studio e con la preghiera. Mi hanno colpito, ormai una trentina d'anni fa, due imperativi rivolti ai giovani dall'altro "giovane" Cardinale di Milano Martini: Gusta il silenzio! Gusta la Parola! Quel verbo: gusta! Certo, sarà pur necessario prendere in mano qualche commento scientifico, ma la predica non può ridursi a lezione dotta che risponda a curiosità intellettuali, deve essere invece comunicazione appassionata di una verità gustata nell'intimo, soprattutto di un amore sperimentato e appunto goduto, quello per Gesù. Dovrei forse aggiungere anche un'ultima annotazione: la meditazione gustata delle pagine della Bibbia è preceduta dal desiderio di Dio. "Mostrami il tuo volto!", supplicava Mosè sul Sinai. "Il tuo volto, Signore, io cerco, non nascondermi il tuo volto!", è invece la supplica del salmista. Alimentando questo desiderio, accresco in me il fascino della lettura della Bibbia. Fascino che aumenta quando prendo consapevolezza che il volto di Dio che cerco è quello di Gesù: Gesù è lo specchio di Dio, la via, lo splendore della sua gloria, l'impronta della sua sostanza. Vorrei quindi che la mia predicazione possa moltiplicare la sete, il desiderio e la conoscenza di Dio nel Figlio di Maria. L'amore s'ha da vedere! Contemplazione e compassione sono le due facce di un'unica medaglia: sono i due atteggiamenti di fondo di una personalità cristiana. San Luca li riassume accostando una parabola e un episodio: la parabola del buon Samaritano (compassione) e l'episodio di Marta e Maria (contemplazione) (cfr Lc 10,25-42). Quando il cristiano si pone in ascolto attento della Parola, quando si colloca ai piedi di Gesù, è Maria, la quale lascia da parte le tante incombenze per farsi discepola: è la contemplazione. Questo succede in particolare nella prima parte della messa. Quando invece accosta il fratello, deve esercitarsi nella "compassione". Questo succede nella vita. Ma tutto parte dalla messa. Non è facile identificare un solo momento della messa che educa all'attenzione all'altro e al dono di sé. Senz'altro momento fondamentale è l'unione personale alla rinnovazione del dono completo di sé che Cristo compie nel momento della consacrazione: il suo esempio trascina. Ma il sacerdote 4 spinge ad alzare lo sguardo ai fratelli in altri momenti. Per esempio, quando, dopo l'ascolto della Parola, introduce la cosiddetta "preghiera dei fedeli". Purtroppo di solito i formulari sono già confezionati e sono poco coinvolgenti. La ripetizione meccanica di "ascoltaci, o Signore" non accende in cuore la compassione. Mi è più facile essere incisivo quando presiedo una messa di gruppo. Invito allora a identificare alcune categorie di persone bisognose o che si affidano alle nostre preghiere, e a rivolgere per esse richieste precise suggerite dalla Parola ascoltata. Avviene allora un principio di conversione interiore: ci si accorge infatti che la preghiera di intercessione non delega tutto a Dio, ma coinvolge personalmente. Se chiedo per esempio che le persone anziane non siano abbandonate alla loro solitudine ma confortate dalla presenza di Dio, mi accorgo che Dio interpella me perché vuol servirsi oggi di me per manifestare la sua attenzione verso di esse. Pregare per l'altro allarga così gli orizzonti dell'attenzione e soprattutto dilata le energie del cuore. Come sacerdote indubbiamente ho il compito di promuovere la fraternità. Ed è certissimo che esso non si esaurisce nell'esortazione con la quale introduco la preghiera dei fedeli. Devo però partire anch'io da lì per imparare a guardare con compassione tutte le persone che mi sono affidate e a desiderare per esse ogni bene dal Signore, magari dandomi da fare per procurarglielo. Un prete egoista, chiuso nei suoi problemi, indubbiamente paralizza l'amore e la compassione della sua comunità. Non è difficile immaginare l'urgenza della cosa, anche dal punto di vista missionario. Oggi, forse anche ieri, l'uomo non è molto attento alle parole pur belle che si dicono; viene invece scosso dalla testimonianza di amore gratuito. Ha bisogno di vedere l'Amore più che di sentir parlare di Dio amore. Un ordine, un impegno A un certo punto, la celebrazione della messa compie una accelerazione fondamentale. Ripeto il saluto iniziale a cui aggiungo due ordini perentori: "In alto i nostri cuori!"; "Rendiamo grazie al Signore nostro Dio!". In essi è la sintesi della celebrazione: ci troviamo al cospetto di Dio per ringraziarlo. Il prefazio che segue ribadisce, qualora non fosse stato notato, il dovere di ringraziare e la fecondità spirituale di questa preghiera. E poi ne aggiunge qualche motivazione, proponendo per il nostro ringraziamento soprattutto eventi specifici della storia sacra. Chi ringrazia, s'accorge d'aver ricevuto un dono, lo guarda, ne riconosce la preziosità. La nostra vita è tutta un dono. La storia che ci ha preceduto e quella che ci vede attori è il palcoscenico sul quale Dio entra da protagonista, arricchendola di benefici imprevedibili e grandiosi. Il più importante è Gesù e la sua Pasqua, che per noi è la vittoria sul male e sulla morte. E che di più? Io invito a ringraziare perché i nostri occhi contemplino e il cuore si commuova. Ringraziando per i grandi eventi della storia della salvezza, mi alleno anche a scoprire la presenza di Dio nella mia piccola vicenda giornaliera e nella vita della comunità. Il cristiano è l'uomo del ringraziamento. Purtroppo, se è giusta questa definizione che viene da Giovanni Paolo II, di cristiani così ce ne sono pochi. Infatti la pratica del lamento, diffusissima oggi per tutto e contro tutti, inquina anche noi cristiani. Voglio ringraziare per insegnare a ringraziare. Me lo impongono gli ordini che "grido" nel cuore della celebrazione della messa perché non rimangano parole rivolte al vento. L'imposizione delle mani Mi è capitato di imporre le mani su un gruppo di ragazzi e di ragazze della parrocchia di San Domenico Savio per conferire loro il sacramento della cresima. Trepidazione e gioia. Mai l'avrei 5 immaginato possibile. Altre poche volte, ma senz'altro con meno emozione, a qualche adulto nella notte pasquale conferendo i sacramenti dell'iniziazione cristiana. Queste occasioni mi hanno fatto scoprire un'altra imposizione delle mani, un'altra epiclesi piuttosto trascurata o sottovalutata, eppure fondamentale: quella sul pane e sul vino. Per essa, pane e vino diventano corpo e sangue di Cristo. A questa "epiclesi", se ne aggiunge una seconda dopo la consacrazione, per la quale si chiede che lo Spirito scenda sui tanti che partecipano all'Eucaristia e li riunifichi nell'unico corpo della Chiesa. Gesti semplicissimi e poveri, ma con effetti grandiosi. Come individuo, sono un nulla. Come strumento dello Spirito opero meraviglie che mi sorpassano da ogni parte. Attraverso le mie mani passa un torrente di grazia. Non certo per merito mio personale! Questa considerazione è il vero antidoto contro la superbia. Maria riconosce la sua piccolezza e nel contempo si vede, con infinito stupore, strumento di meraviglie nelle mani di Dio. E la sua bocca prorompe nel canto del ringraziamento e dell'esultanza. Guardo a lei come alla maestra. Vorrei offrirmi come lei docile strumento all'azione di Dio. San Francesco venerava ogni sacerdote, anche il più indegno, perché Dio stesso gli "ubbidiva". Non so se capita soltanto a me, ma credo che ci si soffermi troppo a considerarsi più dal versante delle proprie debolezze e dei propri limiti che non dal versante della grazia del Sacramento dell'Ordine che ci ha trasformati. Probabilmente è importante che il sacerdote si autostimi nella maniera giusta e giunga a stupirsi dell'azione di Dio che in lui agisce rendendolo strumento di grazia. I gesti che preferisco, il ritratto del sacerdote Sono affascinanti certe fotografie poste sulla tomba: normalmente si tratta di foto-tessera, niente di particolare (chissà, mi chiedo, se nel momento in cui quell'uomo o quella donna sorridevano davanti al fotografo pensavano anche all'uso finale di quell'istantanea?). Altre volte no, si tratta di una foto che identifica il tipo, e il senso di una vita. Sulla mia tomba penso che mi piacerebbe una foto della consacrazione, quando presento l'ostia o il calice, oppure dell'inizio della comunione, quando presento l'Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo, o quando lo distribuisco subito dopo ai fedeli. Mi piacerebbe che quella foto sia vera, riassuma in verità cioè lo scopo ultimo della mia esistenza. Voglio nella vita innalzare davanti agli occhi di tutti Gesù. Presentare quel corpo offerto in sacrificio, il gesto dell'amore più incredibile. Lì è iniziata la vera rivoluzione del mondo, ancora in atto, ancora lontana dal suo compimento, la rivoluzione dell'Amore. Oppure innalzare il calice della nuova ed eterna Alleanza per richiamare a ogni uomo il patto d'amore con Dio: sei legato a Dio con un patto di sangue, l'iniziativa è sua, ma non puoi rimanere insensibile e distratto, anche perché solo lui ti può dare la gioia che ricerchi, solo lui è l'oggetto più vero del tuo amore. Oppure offrire infine quel corpo come cibo che sostiene e dà forza sul cammino della vita. Non ho altra ambizione più seria di questa. Mi piace moltissimo il Battista che si ritiene tutto relativo a Gesù, al Messia, allo Sposo, e che non coltiva altro desiderio all'in fuori "che Lui cresca, io invece diminuisca". Nella catena della storia, nella staffetta della storia, vorrei consegnare alle nuove generazioni il testimone che ho ricevuto, perché altri continuino ad appassionarsi di Gesù così tanto da diffonderne il "contagio". L'atto riassuntivo Una volta lo facevamo soltanto noi, della diocesi di Milano: allargare le braccia innalzandole al cielo per dire tutti insieme il Padre nostro. Capivi subito, celebrando l'Eucaristia in altra diocesi, per esempio in località di villeggiatura, chi proveniva da Milano proprio da questo gesto. Adesso l'uso 6 si è diffuso. È una grazia simpatica godere della fraternità universale in Dio Padre guardando in faccia alle persone che ti trovi di fronte, dal più piccolo al più anziano: "Tu sei la mia sorellina, tu sei il mio fratello...". Da tempo fisso lo sguardo sull'Ostia consacrata che mi sta dinanzi: il primo che innalza le braccia al cielo è lui, Gesù, che prega insieme a noi valorizzando la nostra supplica. Tutte le genti, così belle, così colorate, così diverse, così preziose..., sono l’unica stupenda famiglia di Dio. Compito fondamentale del sacerdote è far amare e diffondere, con il suo stile di vita e con esortazioni opportune, queste certezze derivanti dalla fede, anticipando qui sulla terra l'atmosfera di gioia, di pace, di serenità, di beatitudine che caratterizzerà la vita beata del cielo. Una visione delle cose e uno stile di vita che dalla celebrazione si devono poi diffondere nel quartiere. L'"Andiamo in pace!" non è soltanto invito a uscire perché la celebrazione è conclusa, ma anche invio per la missione sulle strade della vita. L'amore che hai conosciuto e goduto è per tutti, non per te soltanto. Anche a te che ho incontrato il compito di tradurlo in scelte di vita. Anche a te la missione di fare dell'umanità l'unica grande famiglia di Dio. don Gregorio 7