Non credere alla finzione

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Non credere alla finzione
Non credere alla finzione
Selviero
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INDICE:
Prefazione (pag. 5)
Parte I – Piste d’argilla
Capitolo 1 – Angela (pag. 7)
Capitolo 2 – Alessandro (pag. 12)
Capitolo 3 – Festa (pag. 18)
Capitolo 4 – Il Gioco delle Confessioni Imbarazzanti (pag. 26)
Capitolo 5 – Al telefono (pag. 32)
Capitolo 6 – Il casolare (pag. 34)
Capitolo 7 – Disinteresse (pag. 37)
Parte II – Esperimenti
Capitolo 8 – Fantawriters (pag. 39)
Capitolo 9 – Jonathan e Lily (pag. 42)
Capitolo 10 – Tranquillità (pag. 46)
Capitolo 11 – La corte dei miracoli (pag. 49)
Capitolo 12 – Le avventure di Tommaso Mirano (pag. 53)
Capitolo 13 – Prima di andare a dormire (pag. 58)
Capitolo 14 – L’ispezione (pag. 60)
Capitolo 15 – A lezione da Alessandro (pag. 63)
Capitolo 16 – Il battipanni (pag. 65)
Capitolo 17 – Vero amore (pag. 68)
Capitolo 18 – Mike e Sayu (pag. 71)
Capitolo 19 – Vertigine e estasi (pag. 74)
Capitolo 20 – Primo appuntamento (pag. 76)
Capitolo 21 – Tutta se stessa (pag. 79)
Capitolo 22 – Giusto e sbagliato (pag. 81)
Capitolo 23 – Dovere e potere (pag. 84)
Parte III –Tragedia
Capitolo 24 – Fine dei giochi (pag. 87)
Capitolo 25 – Prenderle da adulta (pag. 94)
Capitolo 26 – Il patto (pag. 97)
Capitolo 27 – Il leone, il serpente e il mulo (pag. 98)
Capitolo 28 – Vittoria (pag. 104)
Capitolo 29 – Dormire (pag. 106)
Capitolo 30 – Il nulla (pag. 107)
Epilogo (pag. 111)
Ringraziamenti (pag. 113)
Copertina (pag. 114)
Licenza (pag. 115)
Note (pag. 116)
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A William e Dalila,
senza il cui aiuto non sarei mai stata capace
di scrivere questa storia.
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Prefazione
Lo dico chiaro e tondo anche alle persone che in un modo o nell’altro non mi conoscono: questa
non è una storia inventata. È accaduta sul serio tre anni fa, e io c’ero per vederla accadere.
Non mi è stato possibile frenare il corso degli eventi, né impedire quella che considero a tutti gli
effetti una tragedia. Adesso, però, mi è possibile raccontare i fatti ad altri, tentare di far cascare
qualche fetta di salame dagli occhi e sperare che una cosa del genere non si ripeta mai più.
Una mera illusione? Forse. Ma questo non mi farà smettere di provare.
Per amore di onestà, devo confessare che il linguaggio utilizzato nei dialoghi non corrisponde in
tutto e per tutto a quello reale, perché ho realizzato che pochi (e io intendo raggiungere il pubblico
più vasto possibile) avrebbero compreso il dialetto di Acquarara, il paese da dove vengo. Di
conseguenza, i personaggi tenderanno a parlare in italiano e non ci sarà grande sfasatura tra la
maniera di esprimersi dei protagonisti e quella degli altri.
Anche se questa non è la versione dei fatti privata, ingarbugliata e incompleta che ho presentato al
mio avvocato tre anni fa, non solo ho lasciato invariato l’Epilogo, in modo che possiate
comprendere il mio stato psicofisico dell’epoca, ma non ho neppure intenzione di alterare di una
virgola le vicende a cui ho preso parte, né userò dei nomi di fantasia per le persone coinvolte. È una
scelta rischiosa ma necessaria, per la quale mi assumerò tutte le responsabilità del caso.
Per le parti in cui io nello specifico non ero presente, ho ripreso le notizie che sono trapelate sui
giornali, le testimonianze in televisione, la confessione di Gerardo De Gregorio in tribunale il 16
agosto 2012 e quello che, per forza di cose, ho potuto immaginare con molta precisione. Avendo
voluto scrivere una denuncia sottoforma di romanzo, perché mi è più congeniale e trovo procuri
maggior coinvolgimento, è stato indispensabile entrare nelle teste di tutti i personaggi.
Un avvertimento finale: se cercate qualcosa di allegro, qualcosa da leggere comodi in poltrona…
be’, abbandonate questo racconto. Il mio intento è di farvi riflettere, scandalizzare, commuovere a
Dio piacendo, mentre l’ultima cosa che ho voglia di fare è quella di rilassarvi con una favola della
buonanotte. Si è già scatenato un pandemonio ad Acquarara per quello che è successo, nulla mi
vieta che non si scatenerà altrove.
Perché il tema di questa storia non è facile. È poco trattato, è considerato scabroso. Riguarda molto
il dolore. La maggior parte della gente vuole sfuggirgli, lo evita come la peste, ma c’è una piccola
percentuale che invece desidera sperimentare la vita in ogni sfaccettatura, accettando con
gratitudine anche il dolore, e sa discernere tra un dolore negativo e uno positivo. Non pretendo che i
lettori di questa storia si convertano a questa ideologia, mi piacerebbe solo che la rispettassero.
Non ho altro da dire, lascio chi ha deciso di continuare alla prima pagina.
Questa è la mia storia.
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PARTE PRIMA
Piste d’argilla
“Nulla brama più della natura cose simili a sé e a sé le rapisce.”
(Cicerone, De Amicitia)
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I.
Angela
A metà strada tra i Golfi di Napoli e Salerno, di fronte a Capri e agli isolotti Li Galli, sorge
Acquarara, la più grande delle frazioni di Massa Lubrense, lesse Angela Vittoriano, la fronte
corrugata e gli occhi strizzati per via del sole che picchiava anche all’interno dell’automobile. La
sua straordinaria posizione, il clima mite e le affascinanti leggende greche ed etrusche hanno fatto
sì che fosse meta turistica, soprattutto di inglesi e tedeschi, sin dalla seconda metà dell’Ottocento.
A nord del paese, in un luogo lussureggiante impropriamente denominato Deserto, si trova un
antico monastero benedettino dalla cui sommità è possibile godere della vista dei due Golfi.
Secondo il censimento del 2005, Acquarara conta attualmente 2384 abitanti, ma…
La ragazza scorse celermente la pagina stampata per arrivare alle “Curiosità”. Dopo un paio di
secondi i suoi occhi lampeggiarono, si districò dalle due valigie ai suoi lati e si sporse in avanti,
verso il conducente.
“Papà!” esclamò. “Lo sapevi che Acquara e Acquarara sono in lotta fin dall’antichità perché erano
indicate pressappoco con lo stesso nome dai romani? E che ognuna rivendica il proprio nome come
quello originale? E che il Deserto si chiama così perché c’era un eremo dei Carmelitani scalzi? E
che i greci credevano che sugli isolotti Li Galli abitassero le sirene?”
“Solo tu sei capace di leggere senza che ti venga il mal d’auto”, borbottò suo padre, Giuseppe
Vittoriano, senza staccare la vista dalla strada.
“Sì, vabbé… lo sapevi?” incalzò la figlia.
“No, non lo sapevo”, ammise lui mentre imboccava via Rivezzoli. “Ma la cosa non mi interessa, se
proprio vuoi saperlo.”
“Ma Acquarara era casa tua”, disse Angela sbattendo le palpebre. “Ci hai vissuto per quasi tutta la
tua vita, no?”
“Sì, e poi ci siamo trasferiti a Sorrento e io ho trovato un lavoro decente”, rispose il padre stizzito.
“Finché non l’ho perso, ricordi? Certo che te lo ricordi.”
Lei abbassò la testa, un po’ mortificata.
“Sì, papà. Scusa.”
Giuseppe fece per dire qualcosa; si interruppe, la guardò e infine proseguì irrefrenabile:
“Smettila di leggere in macchina, fa male alla vista. E sta’ attenta alla valigia grande quando torni a
sederti.”
“Sì, papà.”
Angela si accasciò sul sedile posteriore e appoggiò il fascicolo di pagine web sul trolley alla sua
sinistra. Osservò il profilo di suo padre, il naso lungo, gli occhi azzurri identici ai suoi, le orecchie a
sventola, la curva sottile delle labbra. Sapeva che questa prova era stata difficile per lui. Quando
Angela aveva dieci anni, suo padre era riuscito ad ottenere un impiego “nel laboratorio di oreficeria
migliore di Sorrento”, come amava definirlo. Il che aveva significato una bella casa, una cameriera
ad ore, un posto in cui vivere intrinsecamente migliore. Poi, qualche mese fa, erano cominciate
quelle che suo padre definiva “beghe coi colleghi.” Angela non sapeva altro, tranne che queste
cosiddette beghe si erano concluse con il suo licenziamento. Con una stretta allo stomaco, ripensò al
giorno in cui suo padre le aveva dato la notizia, l’espressione più stanca, più spenta che lei gli
avesse mai scorto in viso.
Avrebbero dovuto rinunciare a un sacco di cose, se zia Amalia, la sorella di Giuseppe, non avesse
telefonato qualche settimana prima. Gli aveva detto senza mezzi termini che potevano stare a casa
sua per tutto il tempo necessario. Lei li avrebbe aiutati economicamente, Angela sarebbe andata
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nella sua solita scuola con il pullman e suo padre si sarebbe trovato un nuovo lavoro, lì da lei, ad
Acquarara.
In uno dei loro momenti padre-figlia, lui le aveva confessato che la disponibilità di sua sorella lo
aveva sorpreso non poco. Dopotutto quei due litigavano di continuo, anche per stupidaggini, e si
andavano a trovare assai di rado. Adesso zia Amalia voleva riallacciare i ponti, voleva star loro
vicina.
E visto che sarebbe andata ad abitare in un posto nuovo, Angela aveva voluto documentarsi a
fondo, dato che i suoi ricordi di Acquarara erano molto confusi. Eppure ora come ora intuiva che
non avrebbe dovuto mostrarsi così entusiasta con suo padre. Intuiva – perché lui non glielo aveva
mai detto apertamente – che per suo padre il trasferimento a Sorrento era stato una fuga, e che
adesso stava tornando in gabbia.
Già, ma perché ‘in gabbia’? Sarà così terribile questa Acquarara?
La giovane sospirò e allargò le braccia quel tanto che il poco spazio a disposizione le consentiva.
Urtò qualcosa con il gomito; si volse e riconobbe il proprio i-Pod. Fece un sorriso abbozzato: una
full immersion nel mondo degli ABBA, dei Bee Gees e dei Jackson 5ive, ecco quello che le ci
voleva. Così lo accese, si sistemò le cuffie sulle orecchie e si appoggiò allo schienale, sgombrando
la mente da qualsiasi preoccupazione per tutto il resto del viaggio.
Quando furono vicini al paese, davanti a loro comparve il Golfo di Salerno. Angela si sporse dal
finestrino per guardarlo meglio, e rimase lì col vento che le scompigliava i capelli e la sciarpa al
collo che sbatacchiava finché suo padre non le intimò di ficcare la testa dentro, o avrebbe preso il
raffreddore. Constatò che il mare non era poi tanto diverso da quello che aveva osservato tutti i
giorni a Sorrento. Sì, dài, stessa schiuma, stessi scogli, stessi gabbiani, stessi riflessi iridescenti…
che ti aspettavi, scema, un mare alieno?, ridacchiò tra sé e sé.
Ben presto al mare si alternarono gallerie e boschetti di ulivi, poi sentì le proprie orecchie otturarsi
e capì di essere vicina alla meta.
Non appena Stayin’ Alive finì e attaccò ABC, Giuseppe le fece segno di mettere via l’i-Pod.
“Questa è via Roma. Laggiù c’è casa di zia Amalia.”
La ragazza fece sparire i fogli con le informazioni su Acquarara nel trolley e fissò fuori. Non
dovette aspettare molto prima di scorgere la sorella di suo padre, ritta davanti alla porta della
propria abitazione con uno scialle beige a fasciarle il petto.
Zia Amalia era l’unica donna che Angela conoscesse a fumare la pipa. Diceva di aver preso il
vizio – o meglio, la “virtù” – da suo padre. Alta, longilinea, con le sopracciglia dure e il mento
stretto, aveva un caschetto quasi nero e una voce roca, quasi maschile. Sì, c’era qualcosa di virile
nella sua femminilità.
Era proprietaria di un negozio di antiquariato che Giuseppe alle sue spalle definiva “lo spaccio dei
beni di famiglia.” Quando Angela era piccola e andava a trovarla, si stupiva sempre della quantità di
tempo che sua zia trascorreva lì dentro. Le aveva dato l’impressione di essere tutta lì, fiera e rigida
nel suo piccolo mondo fatto di pendole ticchettanti, di lampade a olio, di teiere di ceramica, di foto
color seppia. Sembrava che non avesse bisogno di nessuno e non volesse nessuno.
Suo padre parcheggiò. Si volse verso la figlia.
“Mi raccomando, educata con zia Amalia”, disse a denti stretti.
“Sì, papà, certo”, rispose timidamente lei. Si chiese, con una certa perspicacia, se il padre si stesse
rivolgendo a lei o a se stesso.
Lui annuì appena e aprì lo sportello. Angela si fece strada tra il trolley e la valigia grande, si infilò
l’i-Pod in tasca e scese insieme a lui.
Zia Amalia era rimasta ad osservarli sull’uscio con un sorrisetto compito. Appena il fratello la
raggiunse ci fu un attimo di silenzio imbarazzato, dopodiché lui le porse la mano.
“Ciao, Amalia.”
La donna la strinse.
“È bello rivedervi.”
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“Ciao, zia”, mormorò la nipote col suo miglior sorriso.
“Non ti dirò che sei cresciuta parecchio dall’ultima volta che ti ho vista, Angela”, sentenziò la
donna. “Anche perché non è vero, sei solo leggermente più alta.”
“Ah.” Lei non sapeva se prenderlo per un complimento oppure no. Optò per il sì e aggiunse:
“Grazie.”
“Be’, vogliamo scaricare i bagagli oppure restiamo qui a fissarci negli occhi?” domandò l’altra.
Entrarono in casa, Giuseppe con due valigie, Amalia con quella più grande e Angela con il trolley.
Anche la casa di zia è come un negozio d’antiquariato, rifletté la ragazza dando un’occhiata in
giro. La carta da parati in stile ottocentesco, il candelabro al centro del corridoio, gli specchi con le
cornici d’oro. Su una cassettiera in legno vide anche un calamaio vero, un carillon e degli elefantini
in legno con la proboscide all’insù. Cominciava a ricordare della volta in cui aveva corso nel
corridoio rovesciando una bottiglia di Coca Cola sul tappeto, della volta in cui aveva liberato il
canarino facendo credere a tutti che fosse scappato da solo, della volta in cui lei e i bambini del
vicinato avevano giocato a palla avvelenata nel giardino sul retro, quello circondato dalla siepe, e
lei aveva vinto.
Di colpo si riscosse e prestò attenzione a quello che facevano suo padre e sua zia. Avevano appena
posato le valigie di lui nella stanza degli ospiti e si scambiavano i convenevoli più impacciati del
pianeta. O almeno, impacciati per suo padre.
“… E tra due giorni la signora Salti darà una festa. Ci andremo, naturalmente. Se la cosa può farvi
piacere.”
“Senz’altro. Mi… mi fa molto piacere che tu ci abbia invitati qui, Amalia. Qualunque cosa sia
successa prima… be’…” lui distolse lo sguardo per un attimo.
“È acqua passata”, tagliò corto la sorella maggiore. “Semplicemente acqua passata.”
Con somma sorpresa di Angela, zia Amalia guardò proprio lei un istante più tardi.
“Ora ti faccio vedere la tua stanza.”
“Non sapevo avessi una camera degli ospiti in più”, disse la nipote meravigliata.
“Infatti non ce l’ho. Dormirai nel divano-letto in soggiorno. Seguimi.”
“D’accordo.”
La zia aprì la porta di un piccolo soggiorno luminoso. C’era un lungo tavolo in legno a sinistra,
sedie in legno tutto attorno, un centrotavola in pizzo, una televisione seminascosta sulla parete dove
c’era la porta e…
Ah. Il letto è al centro della stanza.
“Be’, comincia a metterti a tuo agio. Dopotutto dovrai vivere qui.”
Dopo una rapida rinfrescata in bagno (sbagliò strada per due volte, ma alla terza si ricordò
dov’era), Angela decise di esplorare il giardino. Vi si accedeva direttamente dalla sua nuova stanza.
Fu accolta da un profumo discreto di gelsomini, perché alla sua sinistra ne aveva un pergolato
ricoperto. Sotto il pergolato, un tavolino in legno chiaro.
È qui che potrò studiare.
Soddisfatta, ci trascinò il fidato trolley, si sedette, recuperò il suo album da disegno e decise di
inaugurare la sua vita ad Acquarara con uno schizzo del giardino.
Mentre tracciava delle linee leggere, le congiungeva e sfumava con la matita – alle medie la prof
di educazione artistica le diceva sempre che aveva il tratto molto pulito, il vero problema era la
simmetria discontinua – pensò che non avrebbe colorato il suo disegno. No. I colori li avrebbe
aggiunti in seguito, quando si sarebbe ambientata. Avrebbe potuto riprodurre quello che vedeva o
usare diverse sfumature di viola, tanto per essere originali. Oppure… a ben pensarci aveva troppi
disegni viola, meglio usare diverse sfumature di blu. O meglio ancora non fare programmi: sarebbe
dipeso dal suo umore e dai suoi desideri.
Ad un certo punto la nuca iniziò a pizzicarle come se la stessero osservando. Si voltò e riconobbe
suo padre. Lui esitò per un attimo, quindi chiese:
“Posso sedermi?”
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Angela fece segno di sì con la testa e lui sedette.
“Tua zia ci sta preparando una merenda a base di frutta. È strano che sia così gentile, davvero
strano. Ovviamente non dirle che te l’ho detto.” Le rivolse un’occhiata obliqua.
“No, papà. Certo che no.”
Oltre la siepe, giù per la strada, si sentiva un vociare indistinto e il rombo lontano di qualche rada
automobile. Un grande cambiamento rispetto a Sorrento, dove di sicuro l’atmosfera era più vivace.
“Papà?”
“Mmh?”
“Come ti senti? Voglio dire… Acquarara è come te la ricordavi?”
Il genitore attese un po’ prima di rispondere.
“Non lo so. È presto per stabilirlo. Naturalmente appena sapranno che sono tornato verranno tutti a
cercarmi, da bravi pettegoli.”
“Magari saranno contenti di vederti, siete cresciuti insieme.”
“Naah!” Giuseppe fece un movimento del capo come per scacciare una mosca molesta. “Imparalo
adesso e imparalo bene, Angela: quando la gente vuole sapere i fatti tuoi ha sempre un secondo
fine. Non fidarti mai di nessuno. Puoi fidarti solo di tuo padre.”
Non sono d’accordo, papà. O meglio, di sicuro è così la maggior parte delle volte… però qualche
rara perla ci deve essere.
“Non fidarti mai, Angela. Sei anche una… una ragazzina, in fondo, è facile per te fare errori di
valutazione. Cosa è meglio, cosa è sbagliato, quella roba lì. Insomma. Ci siamo capiti. Ricordalo.”
“Ho capito”, bofonchiò lei guardandosi le mani.
Una pausa. Dopodiché suo padre borbottò: “Meglio che mi presenti direttamente io in paese, così
eviterò un sacco di visite inutili. Scommetto quello che vuoi che mi terranno occupato fino a sera.
Tu non sei obbligata a venire, continua a disegnare.” Si sollevò dalla sedia attorno al tavolino e si
sistemò la giacca, che non si era tolto dal suo arrivo. “Mi raccomando, aspetta tua zia per
organizzarti il letto e l’armadio”, le intimò.
“Sì, ok.”
*
Angela trascorse il pomeriggio a disegnare, leggere un fumetto chiamato Unwanted Journeys più
qualche altra pagina su Acquarara che in macchina aveva trascurato e ascoltare musica. Il suo
umore non si guastò nemmeno quando le arrivò una delle solite, stupide telefonate anonime da parte
delle sue compagne di classe (era abbastanza convinta che si trattasse di Giusy Capuozzo la
maggior parte delle volte, ma non si poteva sapere con certezza).
Non si guastò neppure quando si accorse che era ferma al sesto capitolo della sua storia da una
settimana e che la connessione ad Internet, qui, avrebbe dovuto farsela nuova. Le ricerche per il suo
ultimo racconto erano estenuanti ma necessarie, e per quanto si documentasse non le pareva mai
abbastanza. Il racconto parlava di Angelo, un italiano sempliciotto che si trasferiva in Inghilterra per
sfuggire alle grinfie dei suoi genitori e andava ad abitare con un suo coetaneo taciturno e
stravagante, che una volta al mese spariva per poi ricomparire all’alba del giorno successivo coperto
di tagli. Dopo un litigio abbastanza banale il coinquilino, Jonathan, perdeva le staffe e svelava di
essere un licantropo, trasformando anche Angelo. Così il protagonista si ritrovava fregato con le sue
stesse mani e costretto ad apprendere quanto più possibile da Jonathan per sopravvivere. Il che dava
origine a una serie di avventure tragicomiche al termine delle quali Angelo doveva accettare l’idea
che Jonathan fosse completamente pazzo e scegliere se appoggiarlo nelle sue follie o provare a
conquistarsi una nuova libertà, per quanto labile.
Il vero guaio fu la sera, quando iniziò a chiedersi come mai la zia non fosse ancora venuta a
cercarla per disfare le valigie. Chiuse l’album, il libro e l’i-Pod, rimise tutto a posto nel trolley e
tornò dentro. Si stupì nel trovare sua zia che apparecchiava la tavola proprio in quel momento.
“Ah, sei qui”, disse la donna senza alzare gli occhi.
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“Già.”
“Tuo padre dice che non tornerà prima delle nove, lo hanno bloccato da Sale & Pepe e gli stanno
facendo il terzo grado sulla sua vita a Sorrento.”
“Che cos’è Sale & Pepe?”
Amalia alzò un sopracciglio.
“Non lo sai? È l’unico ristorante decente che Acquarara possa vantare.”
“Capisco.”
Nuovo silenzio.
“Ehm, senti, zia… mi chiedevo quando ti andava… insomma, quando avevi tempo… di aiutarmi
con la valigia e soprattutto con il letto”, mormorò la nipote, accennando con lo sguardo alle
lenzuola ammonticchiate sul divano-letto.
Zia Amalia si decise a ricambiare l’occhiata.
“Alla tua età non sai farlo da sola?”
“No. Sono… ehm… cresciuta tra mia madre e la mia cameriera, nessuno mi ha insegnato come si
fa”, confessò la ragazza, sentendo il calore diffondersi sulla faccia.
“Be’, non ci vuole una laurea. Dovrai arrangiarti, perché io debbo cucinare adesso.”
Angela si morse il labbro mentre sua zia si dirigeva fuori dal soggiorno. Iniziò dalla valigia. Si
organizzò i vestiti alla bell’e meglio – grazie al cielo li sapeva piegare – sistemando quelli più
leggeri a portata di mano e quelli più pesanti sul fondo.
Il divano-letto fu tutta un’altra storia. Impiegò quasi dieci minuti buoni a capire come spingerlo
giù e aprirlo. Quando ci riuscì, dovette togliere la copertura e cercare un posto dove metterla senza
rovinare la tavola apparecchiata o la disposizione di oggettini nella stanza. Si guardò attorno
speranzosa, alla ricerca di una poltrona o roba del genere, ma non ne trovò. Alla fine la piegò – con
grande sforzo, era più pesante del lino e più lunga di lei – e la mise su un tavolino che avrebbe
potuto fungerle da comò. Quindi prese le lenzuola e iniziò a spanderle come poteva.
Quante pieghe… diamine, appena ne liscio qualcuna ne compaiono altre…
Come faceva mamma? E la cameriera?
E se avessi sbagliato fin dall’inizio? Ma no, sto andando bene... no, è tutto strano da un lato!
Meglio cominciare dai bordi…
… ma così ci metto un’eternità…
Vada per l’eternità se il lavoro è ben fatto, no?
Come non detto, è un disastro…
Forse basta solo aggiustare qui, devo tirare più forte…
Ci siamo quasi…
Uno, due e…
E non appena vide il risultato finale, si sforzò con tutta se stessa di non sentirsi un’incapace.
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II.
Alessandro
Quando si svegliò, quella mattina, Alessandro Salti poté onestamente dire di essere di buonumore.
Cosa che, per capitare a settembre, era un evento straordinario. Rimase a letto a poltrire per un po’
di tempo, finché non udì i passi di quella che doveva essere sua madre lungo il corridoio. Calciò via
le coperte e fece per mettersi in piedi, ma inciampò in una scarpa e ruzzolò sul pavimento.
“Oh, cazzo…”
Per un po’ non fece altro che fissare il punto del muro in cui c’era il suo diploma di terza media,
massaggiandosi il ginocchio; poi si girò verso la porta quando questa si aprì con uno scatto.
Riconobbe le gambe robuste, la vita stretta e i capelli ricci di sua sorella Irene. Non appena lei lo
vide a terra a contorcersi, alzò un sopracciglio e gli chiese:
“Cos’è, stavi facendo ginnastica?”
“Molto spiritosa”, bofonchiò lui mentre si tirava giù la maglietta del pigiama, si rizzava a sedere e
metteva la scarpa il più lontano possibile da sé.
“Solo tu ci potevi inciampare con tutta questa luce”, gli fece notare lei, una mano sul fianco e l’altra
che accennava all’interruttore.
“Che sei venuta a dirmi?”
“Comunicazione di servizio da parte di mamma: oggi devi studiare, pulire la tua stanza e rimettere a
nuovo il salotto. Così dice.”
“Mmh… capito.”
Quindi sua madre non sarebbe venuta di persona. Aveva mandato Irene ad informarlo. Fino a
quella sera poteva considerarsi salvo.
“E mi raccomando, non sfasciare la libreria quando cerchi di pulirla, d’accordo?” lo ammonì la
sorella in tono sconsolato, intanto che si allontanava verso la porta.
“Certo, certo.” Il ragazzo controllò che se ne fosse andata e soprattutto che avesse richiuso la porta;
dopodiché si alzò a prendere un pennarello nero dalla scrivania, si sporse dal letto e mise un segno
sul numero diciassette del calendario appeso alla parete. Era il suo rituale segreto. Ogni volta che
faceva un’assenza a scuola se lo segnava, per poi ricordarselo nei momenti di depressione.
Ricordare le circostanze in cui l’aveva scampata. In cui non era stato costretto a vedere quelle facce.
Gli pesava troppo il culo per andare già a prepararsi, così arrancò verso la propria libreria, indugiò
un attimo e poi scelse Il Ritratto di Dorian Gray. Sorrise. Proprio quello che gli ci voleva: doppiare
personaggi di Oscar Wilde era una sfida. Si schiarì la voce e selezionò le sue pagine preferite.
Meglio cominciare dalle frasi singole e poi passare ai dialoghi.
“Oh, se potesse avvenire il contrario!” E la voce rimaneva molto simile alla sua abituale: Dorian
all’inizio del libro, quando ancora non si era corrotto, era una partenza tranquilla.
“Sento di aver ceduto la mia anima a qualcuno che la tratta come un fiore da mettere all’occhiello,
una piccola decorazione per compiacere la sua vanità, l’ornamento di un giorno d’estate.”
Alessandro scelse un tono che voleva sembrare galante, ma lasciò percepire un’ombra di ansietà.
“Il mondo è cambiato perché tu sei fatto d’avorio e d’oro.” Stephen Fry una volta aveva detto che
per interpretare le donne lui abbassava la voce, la rendeva più grave… e la cosa funzionava alla
grande, Alessandro sembrava proprio una ragazza!
“Sempre! Che parola tremenda! Mi mette i brividi ogni volta che la sento!” Ahia… Henry era il suo
tallone d’Achille. Alessandro provò vari toni, finché non scelse la modalità di un uomo adulto
scherzosamente spaventato.
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“Raccomandate l’anima a Dio, perché morirete.” Stavolta ebbe bisogno di un grande sforzo per
rendere un potenziale assassino; le prime cinque volte andò uno schifo, perciò ripeté l’esercizio
ancora e ancora, e alla dodicesima prova le cose iniziarono a migliorare.
Proseguì passeggiando per la stanza con il libro tra le mani; si allenò e si allenò, e immaginò di
farlo sul serio, per lavoro, in qualche studio di doppiaggio. Quel passatempo lo gasava, gli faceva
venire le guance rosse e la gola gli doleva per lo sforzo, ma andava avanti finché non era soddisfatto
della sua parte.
Sai quante idee per i tuoi romanzi puoi raccogliere con una carriera nel mondo del doppiaggio? È
come recitare senza essere mai visti in faccia!
Proprio quando era passato ad un dialogo tra Henry e Dorian, Irene cacciò la testa dentro la stanza
ed esclamò:
“Ciao, io vado al lavoro! E smettila di parlare da solo, sei inquietante!”
“Non stavo parlando da solo!” protestò lui, ma la ragazza aveva già richiuso l’uscio.
Alessandro sbuffò, rimise il romanzo al suo posto – aveva perso l’ispirazione ormai – e avanzò
verso l’armadio. Scelse i primi vestiti che gli capitarono sottomano e si diresse verso il bagno, senza
smettere di pensare al doppiaggio, ai libri, alle sue storie.
Alle undici del mattino decise di uscire a fare un giro in cerca dell’ispirazione. Magari ci sarebbe
scappato anche un po’ di studio. Così si ritrovò a percorrere le vie del paesino, la borsa coi libri che
sbatacchiava a ogni passo.
Signore e signori, benvenuti ad Acquarara. Alla vostra destra potete ammirare la panetteria di
Don Tommaso, alla vostra sinistra la macelleria di Don Gioacchino. Come avrete senz’altro
notato, non ci sono cinema né librerie, non ci sono fumetterie né negozi di dischi, non ci sono
neppure negozi di DVD. In compenso abbiamo strade costellate da buche, piccioni, automobili con
a bordo anziani, qualche sporadica bicicletta con a bordo anziani e carri con a bordo anziani.
Lui tentava spesso di vedere il proprio paesino con gli occhi di un esterno. A volte usciva dal
proprio corpo, si estraniava, e tentava di guardare anche se stesso e la propria vita da un’altra
prospettiva. Come se lui fosse l’unico protagonista di un film durato diciassette anni.
È un modo come un altro per dimenticare che questo film fa schifo.
Distratto, si fermò sulle scale che conducevano a un portone con la vernice verde scrostata e franò
sull’ultimo gradino. Poi tirò fuori dalla borsa Le leggi della fisica e cominciò a leggere il terzo
capitolo. Ogni tanto sollevava lo sguardo per intercettare quello di qualche passante curioso, ma
nessuno gli disse nulla. Meglio così.
Faceva talmente caldo che l’aria tremolava. Ben presto il sudore iniziò a inumidirgli i capelli sulla
nuca, a scendere in rivoletti lungo la schiena e a fermarglisi nel solco delle natiche. Si ritrovò a
leggere lo stesso rigo per la decima volta senza comprenderne il significato. E anche quando
riusciva a capire, la sua testa era concentrata su una cosa sola: la scrittura.
Erano tre mesi che lavorava sulla storia di Lily, una ventunenne testarda e superficiale, che aveva
il vizio di voler giudicare tutti e la brama di diventare una giornalista opinionista. Una sera, senza
preavviso, incontrava una pittrice di mezza età di nome Elizabeth, l’unica che riuscisse a tenerle
testa. Inizialmente indignata dalla sua “impudenza”, dal suo humour freddo e dalla sua arte bizzarra,
per metà astratta, che lei definiva “un impiastro a olio”, Lily rimaneva suo malgrado anche
affascinata da lei, e instauravano un rapporto di amore-odio, imparando l’una dall’altra. Finché Lily
non scopriva che Elizabeth era un vampiro, e allora avrebbe dovuto scegliere se proteggere il
segreto della sua nuova amica o spettegolare come al solito.
Il calore è il trasferimento di energia termica da un corpo all’ambiente circostante…
… La scena in cui Lily veniva morsa dall’Altro Vampiro avrebbe dovuto scriverla proprio così:
come un trasferimento di calore da un corpo a un altro.
Se c’è una variazione di temperatura il calore si definisce sensibile…
… “Sei un’insensibile!”, avrebbe detto Lily ad Elizabeth verso la fine della storia. Ma in realtà ce
l’avrebbe avuta con se stessa.
13
“Ci risiamo”, disse una voce esasperata alle sue spalle.
Il ragazzo si volse di scatto, il libro aperto sulle ginocchia, e individuò sull’uscio la figura alta e
snella di Donna Caterina, la sorella di Cinzia la fruttivendola.
“Alessandro, non puoi stare qui, togli lo spazio alla gatta per rientrare. Guarda che la prossima volta
lo dico a Giovanna”, sibilò.
“Mi scusi”, bofonchiò lui. “Ora me ne vado.”
Ripose il libro nella borsa, si alzò e si avviò in direzione della piazza principale. Sicuramente
anche oggi avrebbe studiato dopo la mezzanotte.
Tre del pomeriggio. Aveva dovuto mettersi all’opera.
Nel silenzio della sua casa vuota, Alessandro puliva, strofinava, spazzava, lasciando che la mente
vagasse e si soffermasse irrimediabilmente sulla storia che stava scrivendo.
Il suo giro di oggi non gli aveva dato l’ispirazione che cercava. Forse avrebbe dovuto davvero
prendersi un periodo di pausa… sì, come no, tu che prendi una pausa dalla scrittura? Non
resisteresti neanche un giorno… continua a pulire piuttosto, ché spesso le idee migliori vengono
mentre sei occupato a fare altro…
Mentre stava spolverando la televisione, qualcuno bussò. Lasciò cadere lo strofinaccio sul tavolo e
andò allo spioncino. Capelli biondo rossi, figura alta e muscolosa, naso sottile, vestiti impeccabili.
Poteva essere solo una persona.
Edoardo Gullotta, pensò con un sospiro. Ventunenne, napoletano, fidanzato di sua sorella.
Tendenzialmente odioso.
Aprì e si ritrovò dinanzi il suo abbagliante sorriso a trentadue denti.
“Buongiorno”, disse Edoardo con alterigia.
“Ciao”, borbottò Alessandro, la mano ancora sulla maniglia della porta.
“Che fai, pulisci casa?” il ragazzo più grande allungò il collo oltre il suo braccio, un sopracciglio
inarcato e l’aria scherzosa. “Vabbé, immagino sia necessario se non hai una cameriera.”
“Sì, infatti. Poi non ho nient’altro da fare.” Alessandro si strinse nelle spalle.
“Per forza, sei ad Acquarara, qui non c’è un emerito cacchio da fare.” Edoardo ghignò.
Alessandro si costrinse a ricambiare il sorriso.
“Cerchi Irene?”
Domanda idiota, Alessandro, di certo non cerca tua madre!
“È ancora da Assunta, devi andare lì”, si affrettò ad aggiungere per sembrare meno cretino.
“Non importa, sono passato solo per lasciarle questo. È per domani sera, vorrei che se lo mettesse,
sennò prenderà un colpo di freddo.” Edoardo gli porse una busta con su scritto ‘Capua’. Lui la prese
e diede una sbirciatina all’interno. C’era un maglione rosa a collo alto.
Alessandro alzò gli occhi.
“Be’?” Edoardo lo fissava trionfante. “Non è stupendo?”
“Boh, io non so un cavolo di vestiti. Scusa. Comunque dev’essere un bel regalo.”
“Eh, per forza non puoi capire. Sei un acquararese, non hai la sensibilità cittadina per queste cose.”
‘Sensibilità cittadina’? E che cos’è, una malattia?
Edoardo sorrise con condiscendenza alla sua espressione sbigottita. “Non te la prendere, non è
mica colpa tua. Anzi, è naturale quando vivi in un paese di merda come questo. Se fossi nato a
Napoli ce l’avesti anche tu.”
“Ah.”
Ci fu un trillo, e il fidanzato di Irene iniziò a frugarsi nelle tasche del doppiopetto beige finché non
trovò il suo smartphone, che resse tra le mani in modo da non coprire il logo della Apple.
Visualizzò il messaggio, la fronte corrugata.
“Oh. Scusa, devo tornare a studiare. Ho un esame molto importante il prossimo martedì. Au revoir!”
levò un braccio in segno di saluto e si avviò lungo la strada senza aggiungere altro.
“Orvuà”, masticò Alessandro prima di chiudere la porta.
14
Nel portare il regalo in camera di sua sorella, pensò che se non altro questa volta non gli aveva
dato una pacca di commiserazione sulla spalla, mentre faceva le sue considerazioni su quanto gli
acquararesi fossero inferiori. Era un passo avanti.
Cinque del pomeriggio.
Fermo davanti al frigorifero. Era lì. Lì. Un bel barattolo di Nutella, proprio quello che gli ci
voleva.
Non farlo, non farlo, non farlo…
Non riesco a non farlo!
Poi non lamentarti se ingrassi.
Sua madre si ostinava a comprare certa roba anche se gli aveva detto che non poteva abboffarsi. La
comprava per sé e per Irene, evidentemente, che invece “sapevano controllarsi”. Ma sua madre non
era in casa, ora come ora. Non era necessario che sapesse…
Si mosse guardingo verso la credenza, trovò le fette biscottate e meditò di prendersene al massimo
due. Soltanto due non avrebbero potuto fargli male, no? Si sarebbe contenuto. Afferrò un piatto…
“Alessandro, cosa stai facendo?”
Il piatto gli scivolò tra le dita, e lui lo bloccò giusto in tempo con l’incavo dei gomiti. Giratosi di
scatto, vide Irene sulla soglia della porta. Aveva indosso un tailleur color crema che le faceva
risaltare l’abbronzatura e un braccialetto a spirale.
“N-niente.”
“E allora molla quel piatto.”
Con Irene non si capiva mai se scherzasse o facesse sul serio. Nel dubbio, lui lo rimise a posto.
Avrebbe preso le sue due fette quando sua sorella se ne fosse andata.
“Com’è andata al lavoro?” chiese.
“Abbastanza bene, grazie. La signora Franchi si è fatta rifare il colore e il taglio per l’autunno, ma a
parte lei non c’erano molte clienti.”
“Mmh. Perché indossi quel coso?”
Irene piegò la testa e alzò un sopracciglio. I suoi orecchini a cerchio ondeggiarono.
“Per domani, no? Faccio le prove di quello che mi dovrò mettere.”
“Le prove?” ripeté Alessandro, colto da un lugubre presentimento.
Oddio, no, non ditemi che c’è una festa…
“Non ti ricordi che giorno è domani?”
“Ehm… sabato?”
“Spiritoso. È il ventiquattresimo anniversario di matrimonio di mamma e papà.”
Il fratello non rispose. Prese tutto il pacco di fette biscottate, il piatto che aveva lasciato poco fa e
il barattolo di Nutella, sparendo oltre il corridoio. Voleva chiudersi in camera sua e basta.
“Ciao, Alessandro”, esordì Nina Salti, di ritorno quella sera. Doveva essere appena stata dalla sarta
per farsi ricucire il vestito color cachi. Secondo lei era un piacevole cambiamento rispetto agli abiti
scuri che era solita indossare in autunno, quando il suo unico gioiello diventava la medaglietta al
collo.
Il figlio fece appena in tempo a nascondere il piatto vuoto e il barattolo dietro al cuscino prima che
lei entrasse nella sua camera. Si affrettò a prendere la busta dalle mani della genitrice, constatando
che era molto pesante.
“Ciao, mamma.”
“Spero che tu abbia combinato qualcosa, oggi. Non ti lascio restare a casa da scuola senza motivo.
Hai studiato?” gli stretti occhi marroni di lei erano sospettosi e indagatori.
“Un po’…”, ammise il figlio. Poi, pensando che tanto valeva fare le cose per bene, soggiunse: “Un
bel po’.”
Lo sguardo di lei si alleggerì alquanto.
15
“Bene. Mi raccomando, per la festa di domani mettiti la cravatta blu di tuo padre. Non ti sta come
stava a lui, ma almeno non sembrerai uno straccione come al tuo solito.” Alessandro posò la busta
sulla sua scrivania. La madre si mise di fronte a lui e alzò l’indice. “Ora parliamoci chiaro”, proferì
con tono autoritario. “Non voglio sentire che sei stanco, che non vuoi festeggiare, che odi le feste e
compagnia bella. Non mi interessa, devi essere educato e rimanere con noi. Abbi un po’ di rispetto
per la buon’anima di tuo padre una volta tanto. Non ho neanche invitato i tuoi compagni di classe e
mi aspetto che socializzerai almeno con gli altri.”
Grazie che non li hai invitati, abitano tutti a Massa Lubrense…
“Gli ospiti arriveranno alle… Che cosa stai nascondendo lì dietro?” All’improvviso Nina fu attratta
dal retro del cuscino di Alessandro.
Previdente, lui sollevò un braccio, per nascondere la visuale con la scusa di grattarsi la tempia.
“Niente.”
“Togliti di mezzo.” Sua madre lo scansò e andò a ispezionare.
Lui strizzò gli occhi, preparandosi alla tempesta…
“Nutella. Un’altra volta?!” esclamò la madre nel tornare verso di lui.
“Ave—vevo fame e mi sentivo un po’ giù, così…”
Nina non ascoltò altro. Diede un pugno sulla scrivania, provocando al figlio un brivido da attesa
inerme.
“Io non so più cosa devo fare con te. Non lo so più”, disse lei, la voce vibrante di ira.
“Mamma, mi dispiace, ma il fatto è che io…” cominciò lui, incauto.
Già, io cosa? ‘Non so contenermi davanti alle cose buone’? ‘Mangio per sfogarmi’? ‘Vorrei che
spendessi un nanosecondo del tuo tempo a cercare di capire come mi sento quando mi obblighi a
vedere la gente di questo paese’?
“Taci! Tu non devi fiatare quando parlo io!” la donna scattò verso di lui e gli mollò uno schiaffo in
pieno viso. Per un attimo l’unica cosa che Alessandro vide fu la saetta d’argento della Madonna al
collo di lei, poi arretrò, la mano sulla guancia bollente, finché non finì con le spalle al muro. “Ah!
Mamma, lasciami parlare!”
“Ormai hai diciassette anni, perdio! Non puoi continuare così!” e lo spintonò. “A scuola non fai un
accidenti, mangi tutto quello che trovi in casa perché non sai come ammazzare il tempo, te ne stai
sepolto in questa stanza con il naso sui libri e dici un sacco di stupidaggini sulla scrittura e sui
computer, su di te non si può mai contare, io sono stufa!”
“Mamma, mi aiuti con il bucato?” la voce di Irene non giunse mai tanto a proposito.
Nina squadrò con disprezzo suo figlio, scosse la testa sull’orlo delle lacrime e uscì dalla stanza.
Aveva lasciato la porta aperta, così Alessandro le sentì parlottare.
“Oh Padre Eterno mio…” disse la madre in tono melodrammatico.
“Senti, ma’, lascialo stare. Se vuole diventare un bue sono affari suoi.”
“Io non ce la faccio più, Irene. Tu non eri così, non so da chi ha preso. È totalmente diverso da suo
padre, nella vita non combinerà mai niente.”
Lui scostò lentamente la mano dalla guancia offesa. Si allontanò dal muro pian piano, una
sensazione di nausea alla bocca dello stomaco dovuta in parte alle sue parole in parte alle botte.
Si rendeva conto di non essere un ragazzo facile. Ma si chiese se fosse talmente odioso da meritare
nomignoli come “peso inutile”, “fallito”, “sfigato”, “mostro” e “grassone”.
Be’, dovresti considerare l’ipotesi che tua madre e i tuoi compagni abbiano ragione, gli sussurrò
una voce maligna all’orecchio. Alessandro provò a soffocarla senza successo.
Poi udì dei passi e il cuore gli balzò in gola. Sua madre si affacciò alla porta, entrò con passi
pesanti a riprendere la busta, il piatto e il barattolo di Nutella e abbaiò:
“Per punizione domani sera non toccherai nulla del buffet.”
Se ne andò sbattendo l’uscio e borbottando minacce a mezza voce, finché non fu lontana.
*
16
Nun liebe Kinder gebt fein Acht! Ich bin die Stimme aus dem Kissen!
Alessandro scattò a sedere sul letto a quella musica, il giorno dopo. I Rammstein.
Col respiro mozzo, si avvicinò barcollando al telefonino e lo zittì. Era sicuro di sapere perché si
sentiva lo stomaco in subbuglio. Doveva aver sognato di nuovo di essere legato e imbavagliato alla
mercé di una figura indistinta.
Era lo stesso sogno di altre notti, o per lo meno assai simile. Ormai non sapeva dire quando era
cominciato. Forse quando era molto piccolo, quando aveva così paura di addormentarsi che aveva
preso compresse al tiglio, alla passiflora e alla valeriana per un periodo; le aveva ancora sul
davanzale della sua camera per qualunque evenienza. Col tempo non ne aveva più avuto bisogno,
aveva cominciato a dormire come un sasso, ma l’idea di arrendersi a quel tipo di incubi lo rendeva
sempre stravolto.
E ancora peggio era destarsi anche con la consapevolezza di essere… eccitato.
Bagnato, accaldato, stuzzicato, non importava; i risultati erano gli stessi.
Annientante, pensò nel sedersi sul letto con la testa tra le mani. Tremava. Ogni volta è annientante.
17
III.
Festa
“Angela, ma hai freddo?” le chiese il padre nell’avviarsi verso il numero diciannove di via Giacomo
Leopardi. Era una sera calda di fine estate, la conclusione di una giornata altrettanto calda in cui
ventilatori e aria condizionata avevano avuto il loro bel daffare.
“Giuseppe, guarda come stringe il cappotto. È evidente che ha freddo”, replicò la zia di lei, sagace.
Non proprio, pensò la ragazza, mordendosi le labbra.
“Magari ha la febbre. Magari dobbiamo tornare a casa, Amalia”, disse l’uomo, teso.
“No, tranquillo papà, sto bene.”
Giuseppe annuì e bussò.
Dopo qualche secondo, venne ad aprire una donna rotondetta, dalla carnagione olivastra e i capelli
ricci e scuri in cui si intravedeva qualche filo grigio. Angela ipotizzò che fosse la padrona di casa. E
infatti…
“Signora Salti, buonasera.” Giuseppe abbandonò all’istante la sua aria perennemente immusonita e
le strinse la mano, il sorriso che si sforzava di essere cordiale.
“Buonasera. Mi fa molto piacere rivederla in buona salute, signor Vittoriano. E anche lei,
signora…” disse la signora Salti in tono affettato.
“La ringrazio”, disse zia Amalia.
“Lei è mia figlia, Angela.” Il padre la tirò avanti.
“S-salve”, disse Angela con un sorriso imbarazzato. Diede una rapidissima occhiata alla targhetta
sotto il campanello e aggiunse: “…Signora Irene.”
“Apprezzo lo sforzo di memoria, ma Irene Salti è mia figlia”, le rispose la donna con lo stesso tono
affettato.
La ragazza avvampò.
Allora era l’altro nome! Giovanna!
“Oh.” Angela si accorse che il sorriso della padrona di casa si era un po’ incrinato, mentre quello di
zia Amalia era più ampio.
“La scusi, non voleva offenderla…” Giuseppe strinse la spalla della figlia tanto da farle male.
Giovanna scosse la testa.
“Non mi sono offesa. Prego, entrate.”
Intanto che gli adulti si scambiavano convenevoli e lei pregava di non avere le guance troppo
rosse, gli ospiti chiacchieravano, chi in piedi, magari con un bicchiere in mano, chi seduto sul
divano o sulle poltrone. Angela notò di fronte a sé e un po’ a sinistra una colonna dipinta di bianco
che confinava con una libreria incassata nel muro, dove però oltre ai libri c’erano medaglie sportive
e trofei di Luigi Salti – aveva già sentito che Giovanna era vedova in effetti – fotografie per la
maggior parte di Luigi Salti, vari soprammobili e un televisore nel ripiano più basso. La radio
trasmetteva una canzone italiana che lei non conosceva.
Si avvicinò al tavolo del buffet, attaccato alla colonna e prima del corridoio che doveva portare
alle camere interne. C’erano altre foto accatastate nel fondo, stavolta di quella che doveva essere
Lourdes.
Poi si sentì toccare il braccio e si voltò. Suo padre.
“Angela, vado a giocare a carte con quei signori laggiù”, le annunciò.
“Ok. Sono tuoi amici d’infanzia?” chiese lei.
“Guardami negli occhi: non ti muovere da qua e non mangiare nulla. Hai già cenato, non ti fa per
niente bene tutta questa roba. Ci siamo intesi?” disse con voce ferma lui, come se non avesse udito.
Lei fece segno di sì con il capo.
18
Quando il padre la lasciò con un grugnito di approvazione, rimase ferma davanti al buffet per un
pezzo. Non osava toccare nulla per il timore di disubbidirgli, ma la tentazione c’era, davanti a
quelle graffe squisite, quei pasticcini ripieni di crema e quei tortini al cioccolato. Per tenersi
occupata si rosicchiò le unghie, come faceva spesso.
Ad un certo punto si concentrò su due ragazze che chiacchieravano a pochi metri da lei. Una era
bassa, piena di curve e con una cascata di capelli neri e ricci; l’altra aveva un naso all’insù, occhi
hazel e un caschetto castano-rosso. Ridevano, mandavano gridolini, si davano spintarelle.
Sembravano sovreccitate per qualcosa.
Va’ lì e presentati invece di fissarle e basta. Dato che ti sei trasferita ad Acquarara dovrai pure
cominciare a farti qualche amico.
Ma mi ricordano da morire le mie compagne di classe! So già come andrà a finire con ragazze del
genere.
Se parti così non ti farai mai degli amici.
Non so cosa dirgli…
Ma sei così imbranata da non riuscire nemmeno a dire “Ciao, come va? Sono Angela”? Sai che
forse-forse le tue compagne hanno ragione a dire che hai problemi mentali?
Lei si morse il labbro, si sistemò il giaccone e camminò verso di loro. Le due seguitarono a parlare
come se niente fosse.
Lei si schiarì la gola.
“Ma che schiiiiifo! Cioè, proprio da pesce!” ridacchiava la ragazza coi capelli ricci.
“Mi ha fatto due palle così co’ ‘sta storia…” rincarava la dose l’altra.
“Ehm… ciao”, fece Angela.
Le due si interruppero e la fissarono stupite.
“Non so se qualcuno vi ha già parlato di me. Io sono Angela, mi sono appena trasferita qui.”
Nessuna reazione da parte delle altre.
“E voi siete…?” Angela alzò le sopracciglia.
“Oh. Ehm…”, fece la ragazza col naso all’insù. “Io sono Simona Mattioni e lei è Gabriella
Malavasi.”
Per qualche inspiegabile ragione, Gabriella cominciò a ridacchiare.
“Piacere”, disse Angela con un sorriso lieve.
“Conosci qualcuno a questa festa?” chiese Simona.
“No, zero. Però mi farò conoscere il prima possibile!” il sorriso le si allargò.
Battuta pessima.
Non sapevo cos’altro inventarmi!
Fa schifo comunque.
“Ah, bene. Cioè… male”, Gabriella riprese fiato dopo la sua risatina.
“Noi stavamo andando a Nerano, sai com’è, devi proprio scusarci…” e Simona prese la sua amica
sottobraccio e la trascinò appena.
“Che cos’è Nerano? Ha un nome familiare, ma al momento non mi sovviene…”
Apparentemente la parola ‘sovviene’ era molto divertente, perché le due ragazze sgranarono gli
occhi e scoppiarono a ridere di nuovo.
No, stanno ridendo perché non conosci questo Nerano.
“È un baretto proprio qui di fronte”, spiegò Simona cercando di contenersi. “Vuoi venire con noi?”
Angela esitò, memore dell’avvertimento del padre. Ma dopotutto, se era davvero lì di fronte,
avrebbe potuto farci un salto e tornare prima che lui se ne accorgesse…
“Perché no? Grazie”, rispose con timida gratitudine.
“Perfetto, allora aspettaci qui, andiamo a chiamare Fili e Nando e torniamo. Vieni, France… cioè,
Simona!” disse Gabriella.
Angela aggrottò la fronte, sospettosa.
“Aspettaci, eh!” la ammonì l’altra ragazza. E le due amiche sparirono oltre la porta del retro, senza
smettere di ridere.
19
Lei attese accanto a quella porta, tormentandosi le unghie. Ricordava di aver letto di Nerano da
qualche parte, mentre si informava su Acquarara, però non riusciva a tornarle in mente dove. Forse
era solo un bar famoso?
Attese. Attese. Attese. Attese per minuti che le parvero infiniti. Finché non vide sfrecciare a tutta
velocità dalla finestra accanto un’automobile con a bordo Simona, Gabriella e due ragazzi.
Urlarono, suonarono il clacson, si sbracciarono nella sua direzione facendole saltare il cuore in gola
e scomparvero nel buio.
Angela si scostò dalla finestra, stretta nel suo giaccone. Le tremavano le mani, non sapeva se per la
rabbia o per la delusione.
Visto che facevo bene a fidarmi del mio istinto? Visto? Visto? Porca puttana!
“Angela? Angela? Ah… sei qui.”
“Ciao, zia Amalia”, rispose la ragazza con voce incolore.
“Ti stai divertendo?” domandò l’altra, frettolosa.
“Sì, tanto”, mentì.
“Bene, perché tuo padre voleva sapere se ti andava di giocare a scala quaranta con noi.”
“Non so giocare.”
“Ah. Peccato.” La zia si voltò per andarsene, l’indice che rovistava nel fornello della pipa.
“Zia!” la chiamò lei. “Ascolta, per curiosità: mi sai dire cos’è Nerano?”
“Non sai neanche questo?” zia Amalia alzò un sopracciglio, l’aria rassegnata.
“Me lo sai dire?”
“È un paese in riva al mare a qualche chilometro da qui”, rispose la donna prima di defilarsi.
Angela annuì tra sé e sé. Quelle due l’avevano ingannata anche sui loro nomi, ci avrebbe
scommesso. Decise di andare ad esplorare le altre camere, alla ricerca di un cantuccio in cui
meditare in pace.
“Per l’ultima volta, Alessandro”, sospirò Irene sulla soglia della porta. “Gli invitati sono tutti in
salotto, e ormai la scusa che devi finire i compiti non regge più. Mamma dice che se non vieni ti
lascia senza cena, domani.”
“Dille che arrivo subito”, sospirò lui di rimando, steso sul letto.
La sorella annuì e se ne andò. Alessandro chiuse il libro che stava leggendo (Il buio oltre la siepe
di Harper Lee), si rizzò in piedi e andò davanti allo specchio a infilarsi la cravatta di suo padre.
Quando finì di aggiustarsela, indugiò davanti alla sua immagine, cercando di capire se era
abbastanza ordinato e sistemato per sua madre.
In generale non aveva una grande opinione di sé. Non aveva mai avuto dubbi sul fatto di scrivere
decentemente, di avere una buona dizione o di essere portato per la critica amatoriale, ma il suo
aspetto era un’altra cosa. Se avesse dovuto descriversi in un giorno qualsiasi, avrebbe detto che era
una sorta di chiave di violino tracagnotta con un corpo pieno di ciccia, smagliature e nei. Il suo
faccione tondo e infantile contribuiva ad acuire la sensazione di grasso in eccesso, dandogli peraltro
un paio d’anni in meno. Avrebbe detto che detestava il suo naso schiacciato, cosa per cui Irene da
piccolo lo aveva chiamato “Patatino” anche davanti ad estranei finché non le aveva domandato
chiaro e tondo di smettere, il culo delle dimensioni di un terrazzo, o i suoi brufoli sottopelle, che
magari ad occhio nudo non si vedevano, ma, ogni volta che si toccava le guance, se le sentiva ispide
come se non si fosse rasato da una settimana. In un giorno sì, invece, avrebbe potuto essere un
minimo obiettivo. Pur riconoscendo che in generale non era né bello né affascinante né niente,
avrebbe confessato che le sue mani non gli dispiacevano. Erano sottili, con le dita lunghe, fino agli
avambracci sembrava normale. Poi iniziava a notarsi il peso in eccedenza. Per il resto, boh… forse
non era così orrendo come si considerava di solito, però non c’era nulla di particolare in lui, nulla di
degno di nota in quella pelle mista, in quegli occhi marrone scuro e in quei capelli castani che non si
capiva se fossero lisci o mossi.
Forza, non puoi restare davanti al tuo riflesso per sempre. Si raddrizzò, il petto in fuori e la pancia
in dentro, e imbastì il suo sorriso migliore prima di superare la porta della sua stanza ed entrare in
20
soggiorno. Individuò all’istante sua madre: era seduta sul divano insieme ad altre persone, nessuna
delle quali sconosciuta. Gli fece cenno di avvicinarsi e gli altri si resero conto della sua presenza.
“Eccolo, finalmente! Caaaro!” Assunta la parrucchiera batté le mani al suo arrivo, e coinvolse anche
il resto del gruppetto che attorniava sua madre. “Cos’è, ti eri perso?” volle sapere, suscitando
l’ilarità generale.
“Ehm…” cominciò il ragazzo.
“Certo che ce ne vuole per perdersi in una casa medio-piccola”, chiosò Don Tommaso il panettiere
mentre si grattava il mento.
“Ma quanto ti sei fatto grande, Sandro!” sua nonna allargò le braccia. “Vieni qui, bello di nonna,
fatti spupazzare…”
Anche se una voce dentro di lui gridava distintamente scappa e trovati un buco, un ripostiglio, un
bidone della spazzatura dove nasconderti!, Alessandro si accostò all’anziana donna con passetti
lenti e trattenuti, si chinò e si lasciò ‘spupazzare’.
“Ma guarda che guanciotte paffute!” Nonna Marzia iniziò a dargli buffetti e pizzicotti, come per
saggiare la consistenza della sua pelle. “Morbide morbide!” concluse con uno schiaffetto.
“Che pancetta prominente che abbiamo, eh, signorino?” rise Cinzia la fruttivendola.
“Hai fatto anche un didietro bello grosso…” Nonna Marzia gli diede un altro schiaffetto sulla
guancia.
“E quando china la testa sul petto gli spunta un doppio mento! Così, facci vedere!” tuonò Don
Tommaso.
“Caaaro! Quand’è che ti metterai a dieta?” chiese Assunta, e giù altre risate da parte degli adulti.
Quand’è che vi farete i cavoli vostri?
“Ehm…”
“È possibile che non sai rispondere altro che ‘ehm’, Alessandro?” lo apostrofò sua madre.
“Lascialo stare, Giovanna, alla sua età i ragazzini non hanno niente da dire…” Don Tommaso
scosse la testa con aria saputa.
E chi lo ha stabilito, questo?!?
“Voi non avete idea di quanto mi fa disperare, mangia dalla mattina alla sera!” anche Nina dimenò
il capo.
“Ah-ah, caaaro, non si fa così…” Assunta agitò il dito indice nella sua direzione.
“Tua madre ha ragione, Alessandro, dovresti essere un po’ più responsabile, ormai hai quasi
diciotto anni…” disse Cinzia.
“E si ostina a vestirsi come uno straccione, con quelle t-shirt, quei jeans pieni di tasche, quelle
scarpe da ginnastica…” rincarò la dose la madre.
“Cosa vuoi comunicare con questo tipo di abbigliamento?” proruppe Don Tommaso.
“Ehm…”
“Ecco, vedete? Sempre questo ‘ehm’ inconcludente!” lo criticò ancora la sua genitrice.
“Caaaro! Non essere timido, mica avrai paura di essere sbranato?” la battuta di Assunta scatenò
un’altra catena di risate.
Infatti non mi state mica mangiando vivo, nooo…
“Parlando seriamente, giovanotto, ormai sei abbastanza grande da doverti vestire con un certo
criterio. Io alla tua età mettevo i pantaloni a vita alta, le cinture, le camice a scacchi…” illustrò Don
Tommaso.
“Niente a che vedere con queste tasche rovesciate, questi pantaloni che se ne cadono, queste t-shirt
scolorite, queste felpe giganti, questi ridicoli capelli lunghi e incolti…” elencò Nina.
“Dovresti proprio venire da me, ti darò una bella spuntatina!” Assunta mimò l’atto del tagliare delle
forbici con l’indice e il medio.
Lui sapeva che non avrebbe resistito un secondo di più a tentare di sorridere come se avesse avuto
una paresi facciale e quant’altro, così iniziò a camminare all’indietro alla stregua di un gambero,
con l’intenzione di girare l’angolo e scomparire alla loro vista.
“Alessandro, dove stai andando?” lo richiamò sua madre, severa.
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“Ehm… vado a incipriarmi il naso”, bofonchiò distrattamente.
Oddio, questa come diavolo mi è uscita? Vabbé, chissenefrega!
“Ma questa è una frase da femminucce”, gli fece notare Assunta. “Non è che tra poco ci informerai
che sei pure ricchione?” e rise della propria battuta.
Alessandro si costrinse a ridere anche se provava zero divertimento. Poi, chiedendosi cosa
c’entrasse l’essere femmine con l’essere gay, girò l’angolo (“Non è normale per un maschio
adolescente essere così passivo”, osservò Cinzia), si ritrovò davanti al buffet e cacciò alla svelta un
bombolone, una ciambella ricoperta di zucchero e vari pasticcini in un piatto di carta; percorse il
corridoio, diretto alle camere interne.
Senza indugio, spalancò la porta del bagno, deciso a consumare le sue provviste lì dentro… e
agghiacciò quando ci trovò due ragazzi che pomiciavano. Lui e lei si staccarono con un sussulto e lo
osservarono stizziti.
“Oh… non ho bussato…” disse Alessandro in tono di scusa, e richiuse l’uscio. Con un sospiro, fece
per girarsi… andando a sbattere contro una ragazza che veniva dalla direzione opposta. Dolore
tremendo al braccio.
“Ahio!” la ragazza si era allontanata con una mano sulla spalla, dove era avvenuta la collisione.
Lui era stato costretto a sorreggersi alla parete e il piatto non si era rovesciato per miracolo.
“Scusa, non l’ho fatto apposta”, disse Alessandro imbarazzato, mentre si rimetteva dritto.
“No, scusami tu, mi sarei dovuta scansare”, sospirò lei. Lui la fissò, e in pochi secondi registrò che
aveva i capelli castano chiaro che le scendevano come un velo leggero sulle spalle, dandole l’aria
fragile e innocente delle Madonnine tragiche. Nonostante il clima mite, era imbacuccata in un
montgomery blu che le arrivava alle ginocchia. La mano che si massaggiava lenta la spalla aveva le
unghie rosicchiate, mentre l’altra era stretta a pugno sul petto, per chiudersi il giaccone. Benché
fosse alta più o meno come lui se ne stava leggermente incurvata in avanti come chi è certo di una
paternale imminente e vuole nascondersi.
“Ok”, Alessandro annuì a mo’ di cretino. La ragazza lo fissava attonita, e lui pensò che fosse il caso
di filare via. Ma lei gli bloccava la strada.
“Ehm… potresti spostarti? Devo entrare in quella camera”, chiese, il familiare calore che si
diffondeva sul viso.
“Oh, certo”, anche lei arrossì, e si fece da parte. Alessandro la sorpassò e rimase ad osservare la
porta aperta della sua camera, senza entrare. Dentro c’erano tre ragazzi – tra cui Edoardo – che
fumavano, smanettavano col cellulare e si scambiavano informazioni di una lievità parigina.
“E allora io le ho detto di no, e lei si è incazzata di brutto, ma con un culo inesistente non c’era
storia…” stava gesticolando un tipo.
“Ma dillo che non hai avuto il coraggio di fartela, ricchione!” lo schernì un secondo tipo
additandolo.
“Sopra era anche piatta!” il primo tentava di spiegare il suo punto di vista.
“Non è che magari era un uomo?” volle sapere Edoardo senza staccare gli occhi dal proprio display.
Ok, manco camera mia è agibile… pensò Alessandro con una smorfia.
“Noi… ci siamo già visti da qualche parte… per caso?” la voce esitante della ragazza alle sue spalle
lo fece voltare.
Ad una seconda occhiata, in effetti, constatò che lei aveva qualcosa di familiare…
“Non lo so”, rispose con sincerità.
La ragazza corrugò la fronte, come se stesse riflettendo rapidamente.
“Sei… Alessandro, il figlio di Giovanna, la tabaccaia?” domandò infine.
“Sì.” Lui si passò una mano sulla nuca, ancora più imbarazzato.
Oddio, adesso ovviamente mi dirà di scusarla e se ne andrà a raccontare alle sue amiche di essere
stata quasi schiacciata da quel ciccione di Alessandro Salti, e magari ricorderà insieme a loro
qualche mia figuraccia passata che ora come ora ho rimosso e rideranno e mi prenderanno per il
culo e…
Contrariamente alle sue aspettative, lei si aprì in un sorriso radioso.
22
“Io sono Angela!” esclamò.
“Angela?” fece eco il ragazzo senza capire. E poi i suoi occhi si sgranarono. “Oh… Angela
Vittoriano, la figlia dell’orafo?”
“Sì!”
“Ah!” anche lui sorrise e si schiaffò una mano in fronte. “Mi ricordo di te, facevamo le piste
d’argilla dopo i temporali, da piccoli!”
“Infatti!”
“Ma non ti eri trasferita a Sorrento?” lui si avvicinò di un passo, e lei non arretrò.
“Sono tornata adesso! Sai…” l’espressione di Angela tornò seria. “Mio padre ha perso il lavoro e
zia ci ha invitato a vivere qui per un po’.”
“Ah.” Alessandro si sentiva ottuso ogni volta che tirava fuori quella vocale, ma non sapeva come
altro commentare. Poi aggiunse: “Ti capisco se non sei molto entusiasta, a Acquarara non c’è un
granché da fare.”
“No, è che… non mi ricordo praticamente di nessuno…” lei giocherellò con una ciocca di capelli.
“A parte te. Mi sto nascondendo da un’ora perché non so cosa fare.”
“Pensa, io me li ricordo tutti e mi sto nascondendo lo stesso.” Alessandro fece una risata nervosa.
“Ah, è consolante.” Angela sorrise di nuovo e lasciò andare la ciocca.
Ci fu un momento di silenzio in cui entrambi si limitarono a guardarsi.
“Qui è tutto pieno, non riuscirai a nasconderti bene. E neanche io”, concluse lei.
Alessandro fece segno di sì con la testa. Non era disposto a darsi per vinto, però.
“Conosco un altro posto dove andare.”
“Ah, ok. Allora… ciao, è stato un piacere.”
Lui non sapeva se avviarsi oppure no. Dopo un attimo di esitazione disse:
“Vuoi venire?”
Angela batté le ciglia, meravigliata.
“Sì”, rispose all’istante.
Il ragazzo tastò alla cieca la parete della stanza buia. Dopo aver rischiato di inciampare di nuovo
per una mossa da contorsionista, riuscì a far scattare l’interruttore. In compenso, urtò la scopa e la
paletta e le fece cascare a terra con un tonfo sordo.
“Cazzo…” passò il piatto di leccornie ad Angela e si affrettò a rimettere scopa e paletta al loro
posto, contro il muro.
Provò a scoprire la lavanderia con gli occhi di lei: una stanzetta angusta con la lavatrice Zoppas P6
a sinistra, un cestino della carta straccia bianco latte a fianco della lavatrice, il pavimento in scaglie
di marmo stile anni Cinquanta e uno stendi panni a destra. Una collezione di ammorbidenti sul
ripiano della lavatrice. Una finestra in alto larga quanto un foglio di giornale.
“È un buco, lo so, ma almeno qui c’è un po’ di pace”, borbottò lui.
“È carina, invece”, lo rassicurò Angela con un sorriso timido.
Alessandro buttò uno sguardo allo stendi panni… e si accorse con orrore che la sua biancheria era
accatastata sopra tutti gli altri vestiti.
“Oh…”
Filò come una scheggia in quella direzione e prese a coprirla come meglio poteva con altri capi
meno imbarazzanti.
“Scusa per il disordine.”
Pieno di disagio scrutò la sua espressione, e notò – con sollievo – che lei non badava affatto alle
sue mutande. Sembrava più interessata alla maglietta che lui stava utilizzando per occultarle.
“Sei un fan di Harry Potter?” chiese.
Stupidamente, Alessandro si voltò verso la maglietta. Era una t-shirt bianca con un Boccino d’Oro
e le iniziali della saga.
“Sì, perché?” si aspettava qualche sfottò della serie “ma Harry Potter è per mocciosi!”
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Il sorriso di Angela si allargò, se possibile, ancor più delle volte precedenti; con una mano si aprì il
montgomery e lasciò intravedere una t-shirt nera con su l’immagine di Edvige.
Alessandro sorrise a propria volta.
“Non ci credo, Angela! Io ho letto tutti i libri!”
“Anch’io! Qual è il tuo preferito?”
“Il sesto, perché è il libro più dark della serie e si indaga sul passato di Lord Voldemort!”
“Il mio è il terzo, perché è un misto tra un giallo e un fantasy, e adoro Sirius Black. Insomma, è un
buono che non è del tutto buono, Azkaban lo ha un po’ squilibrato, ma sa essere un amico leale e
alla fine non puoi non scagionarlo… voglio dire, quando racconta la verità…”
“Sì, Sirius è interessante come personaggio. Prendi anche il fatto che predica bene e razzola male,
lo rende molto umano questo.”
“Mmh… ad esempio?”
“Vediamo un po’…”
Quella stanza era lunga quattro metri e mezzo e larga sei, con un’umidità micidiale per le ossa e un
odore di ammorbidente che rendeva tutto freddo, asettico. Ma tra Angela e Alessandro nulla era
realmente freddo e asettico. Passarono le successive due ore seduti a terra a gambe incrociate, a
discutere dei video divertenti che avevano visto su Youtube, ad analizzare la saga di Harry Potter in
ogni risvolto possibile e a parlare di scrittura, mentre gustavano le squisitezze sgraffignate dal
salotto (“L’unica cosa buona che sa fare Acquarara!”, “Concordo pienamente.”)
“Tu lo sapevi che i primi personaggi che sono venuti in mente alla Rowling sono stati Harry, Ron,
Pix e Hagrid?”
“No, sapevo che Hermione era il suo personaggio preferito, invece. Oddio, Pix! Che mito!”
“Quando obbedisce a Fred e George nell’Ordine della Fenice l’ho adorato.”
“E quando canta a Harry le canzoncine dementi?”
“È Potter Canaglia che infuria e si scaglia…”
“… Che uccide studenti e ride tra i denti…”
“In molti son convinti che blateri insensato...”
“Alcuni, più gentili, lo danno per malato…”
“Ma Pix lo sa benissimo che Potty è un po’ suonato…”
“Già!”
“Certo che ce ne vuole per inventarsi le canzoni del Cappello Parlante e quella del Complemorte di
Nick-Quasi-Senza-Testa. Io non ci riuscirei mai, faccio schifo a comporre filastrocche e
canzoncine”, osservò Angela. “In compenso mi piace molto scrivere in prosa.”
“Giura? Anche a me!”
“Davvero? E quanta roba hai scritto?”
“Eeeeh!” Alessandro fece un gesto con la mano che voleva dire “un’infinità”.
“Me la farai leggere?”
“Vedremo.”
“Mmh… risposta sibillina e satura di implicazioni…” lo stuzzicò Angela con un sorrisetto furbo e
un’aria falsamente meditabonda.
Alessandro ridacchiò.
“Cos’è, vuoi impressionarmi con dei paroloni?”
“Ma ci mancherebbe altro…”
In quella, l’uscio si aprì e i due ragazzi trasalirono per la sorpresa. Erano il padre di lei e la madre
di lui. Alessandro nascose in fretta e furia il piatto dietro la schiena e pregò di non avere la faccia
ricoperta di zucchero.
“Angela, ma cosa stavi facendo? Ti ho detto mille volte che non devi allontanarti in casa di
estranei!” la rimproverò suo padre, le sopracciglia aggrottate.
“Mi dispiace, papà”, rispose la figlia a occhi bassi, rimettendosi il montgomery.
“Mi hai fatto stare in pensiero, poteva capitarti di tutto!”
“Mi dispiace.”
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“Domani niente computer per tutta la giornata.”
“D’accordo.”
“Be’, comunque…” bofonchiò il genitore nel tentativo di assumere un’aria meno rigida. “Tua zia è
stanca, stiamo per tornare a casa. Prendi le tue cose e andiamo.”
“Sì, solo un minuto. Per favore.”
Giuseppe Vittoriano annuì cupo e lasciò che Nina Salti richiudesse la porta. I loro figli udirono la
loro conversazione intanto che si allontanavano.
“Se posso permettermi, la prego di non essere troppo severo con sua figlia. Sono sicura che è stato
mio figlio a trascinarla via dalla festa, e mi auguro che lo scuserà, è un ragazzo molto difficile.”
“Mia figlia è immatura e indisciplinata, signora, sono certo che suo figlio non c’entra.”
“Oh, mi creda, non vuole nemmeno commemorare il suo defunto padre, è capace di qualsiasi
cosa…”
Per un miracolo, o forse perché l’atmosfera allegra e calorosa tra di loro non si era ancora
spezzata, Alessandro e Angela poterono sorridere ancora una volta.
“Le madri.” Alessandro si grattò il naso.
“I padri. Be’, devo andare. Mi ha fatto piacere rivederti, in ogni caso.” E lei fece per sollevarsi da
terra.
“Oh, aspetta!” esclamò Alessandro, rosso in volto. “Se mi dai il tuo numero ti chiamo. Insomma,
una giornata senza pc è dura, io lo so bene. Magari avrai bisogno di distrarti.”
Cavolo, che cosa ho detto! Adesso penserà che voglio provarci, dannazione!
“Certo! Dammi anche tu il tuo.”
Si scambiarono i cellulari e digitarono svelti i rispettivi numeri. Quando se li restituirono, Angela
aggiunse: “Mi avrebbe fatto piacere se mi avessi telefonato anche senza la punizione di mio padre.
Cioè, mi farebbe piacere se lo facessi… ma la punizione c’è… oh, vabbé, chiamami e basta,
d’accordo?”
“Senz’altro.”
“Ciao, Alessandro.”
Lui sollevò una mano e la guardò richiudere la porta. E pensò che quel suo nome così lungo e
altisonante in bocca a lei aveva tutto un altro effetto.
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IV.
Il Gioco delle Confessioni Imbarazzanti
“È ridicolo, Amalia, e non tentare di fingere che non lo sia!” stava dicendo Giuseppe nell’altra
stanza per quella che doveva essere la terza volta in venti minuti. Angela invece se ne stava in
salotto, seduta su una delle sedie accanto al tavolo. In teoria si stava pettinando. In pratica, ogni
due colpi di spazzola agguantava il telefonino per scoprire se Alessandro l’aveva chiamata. E ogni
volta, nisba.
“No, hai ragione, è assolutamente ridicolo che tu ritenga un lavoro del genere indegno.” Sua sorella
era irremovibile.
Angela districò l’ultimo nodo, appoggiò la spazzola al tavolo e prese a tamburellare con le dita su
di essa. Dopodiché passò al tavolo.
“Da orefice a pizzaiolo ti sembra una cosa normale?”
“È normale per un paesino, è un lavoro onesto e non ti pagherebbero neanche troppo male.”
“Oh, questo lo dici tu!”
“Sorrento ti ha reso molto arrogante verso di noi, sai?”
Forse ha avuto qualche contrattempo… forse si è dimenticato di chiamare…
Eh, allora sai che grande considerazione ha di te?
Si infilò il cellulare in tasca con un sospiro e si alzò a passeggiare nel soggiorno, così svogliata che
tra pochissimo avrebbe ballato distratta anziché muoversi.
Forse dovrei chiamarlo io, si disse intanto che arrivava al divano-letto, faceva dietrofront e
tornava al tavolo.
No. Tua madre e tuo padre te lo dicevano sempre quando eri piccola, ricordi? ‘Le brave ragazze
non fanno mai la prima mossa.’
Sì, ma intendevano nel senso romantico. Alessandro è… un mio amico d’infanzia.
Vai a farti una passeggiata, piuttosto. E aspetta.
Puntò verso l’ingresso con l’idea che una cosa valesse l’altra, prese le chiavi e arrivò in corridoio.
Zia Amalia e suo padre stavano litigando in cucina – probabile che lui le avesse urlato che era stufo
di vederla impicciarsi degli affari suoi e che lei si stesse difendendo dall’accusa di essere una donna
senza criterio. Avrebbe dovuto avvertirli, naturalmente. Ma come faceva senza essere scannata?
“Tu non puoi capire come sia stato per me, mi sono spiegato?”
“Ovvio che no.”
Prese coraggio e avvalendosi del proprio blocnotes scrisse un bigliettino per Giuseppe. Sottolineò
tre volte le parole ‘Torno presto’ (per non farlo stare in pensiero) e lo fece scivolare sotto la porta
della cucina. Quindi si dileguò.
Perché sei così coglione?, si chiese Alessandro mentre percorreva via San Girolamo con le mani
in tasca e gli occhi fissi a terra. I soldi per la spesa tintinnavano a ogni passo, le sue nocche e le sue
dita sfioravano in continuazione quelli o la lista, dove la madre aveva aggiunto come poscritto di
fare delle buste doppie, perché le sue di solito non duravano neanche tre giorni.
Sei così pigro che butti tutto alla rinfusa, aveva detto, le fai rompere subito.
Pensava che lei gli avesse fatto un favore a mandarlo al supermercato, ma neppure così riusciva a
smettere di rimuginare.
Perché non hai chiamato Angela, coglione?
Mi vergognavo.
Ma se alla festa di ieri stavate così bene, porco diavolo!
A maggior ragione non volevo telefonarle. Non volevo guastare nulla.
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Tu sei matto.
Svoltò in via Delle Querce, assorto nelle sue meditazioni. Faceva così caldo che sembrava che le
sue scarpe si incollassero al marciapiede, e un po’ si maledisse perché non era in chiesa come quasi
tutti gli altri. Lì avevano l’aria condizionata.
E se ieri mi avesse dato retta soltanto perché non aveva nessun altro con cui parlare? E se io la
annoiassi in realtà? E se stesse ringraziando il cielo del fatto che non l’ho chiamata?
Ma te lo ha chiesto lei, razza di segaiolo mentale!
“Strana, la vita. In certi buchi di paesino non sei mai solo, eh?” disse con calma qualcuno alle sue
spalle.
Alessandro agghiacciò nel riconoscere quella voce roca, da fumatore incallito. Si volse con una
lentezza estrema verso la fonte del rumore, imponendosi di respirare a fondo.
Pietro Mancini e Gerardo De Gregorio lo fissavano con due orribili sorrisi a pochi passi di
distanza.
Oddio, non mi ero sbagliato. Sono proprio loro! Che cazzo ci fanno qui?
“Salti il Saltatore di scuola. Dopo due assenze di fila ci stavamo preoccupando, manchi a tutti
quanti”, sghignazzò Gerardo, lanciando un’occhiata di traverso al suo capo.
“Assolutamente. E sai perché in un buco come questo non sei mai solo? Perché non sei altro che
una formica in mezzo a un mucchio di altre formiche”, ribatté Pietro placido. Scattò ad afferrare
Alessandro con tutta la forza dei muscoli sviluppati dopo sette anni di palestra, lo strattonò e lo
sbatté contro un muretto. Alessandro strizzò gli occhi dal dolore, teso come una corda di violino. Li
riaprì e impiegò un paio di secondi per rimettere a fuoco il mondo… caldo, freddo, brividi, non lo
sapeva più neppure lui di preciso… strabuzzò gli occhi… Pietro gli stava torcendo un braccio…
Porca puttana, perché a me? Qui non siamo neanche a scuola, nessuno li controlla!
La voce melliflua di Pietro riportò le sue sensazioni alla realtà con l’effetto di uno schiaffo,
facendolo trasalire.
“Come stai a soldi, stronzo? Ne hai abbastanza per ingozzarti?”
Gerardo gli infilò le mani in tasca senza tante cerimonie, ne estrasse i soldi per la spesa e se ne
appropriò. Alessandro rabbrividì e si slanciò in avanti per liberarsi, ma fu sbattuto di nuovo al muro.
Quasi si strozzò con la sua stessa saliva, i suoi occhi sbarrati dardeggiarono lungo la via alle spalle
dei due ragazzi; era deserta, a parte per un uomo anziano e grassoccio sull’altro marciapiede, che
riconobbe come il padre di Assunta la parrucchiera. Lo guardò anche lui. Dopodiché, senza dire una
parola, l’uomo girò l’angolo e scomparve.
“E se ti punisco io prima di tua madre?”
Pietro tirò fuori l’immancabile accendino, alzò la fiamma e incominciò a farlo ballare davanti agli
occhi della sua vittima. Lo avvicinava ai capelli, alla pelle o ai vestiti di Alessandro e all’ultimo
secondo lo allontanava, rischiando di bruciarlo da un momento all’altro.
“L-lasciami, Pietro. Nessuno… ti ha chiesto… niente… perché mi rompi le scatole… in questo
modo?” si augurò che la sua voce risultasse abbastanza ferma, ma il fiato corto non lo aiutava a
bluffare. Gli girava la testa, gli si rivoltava lo stomaco, e non aveva idea se ne sarebbe uscito illeso.
“Perché mi annoio.” Pietro gli accostò la fiammella al naso. Alessandro chiuse gli occhi e deglutì.
Ammazzami ora, forza, ma smettila.
“E perché è maledettamente divertente venire a Acquarara a massacrare una botte di merda come
te.”
“Sfigato!” rincarò la dose Gerardo.
“Lasciatelo in pace”, ringhiò una voce diversa. Anche questa era familiare… Alessandro aprì un
occhio e la vide.
Angela se ne stava ritta a qualche metro da loro, la testa alta e i pugni serrati. Aveva iniziato a
captare qualcosa già prima di svoltare l’angolo. Due voci che non le erano piaciute per niente. E poi
aveva riconosciuto lui, Alessandro, paralizzato dal terrore più che dalle braccia di quel ragazzo che
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aveva chiamato Pietro. Quel ragazzo alto, con i capelli neri e lo sguardo tagliente, molto più
intimidatorio del suo compare dalla felpa arancione con su scritto De Puta Madre.
“E questa ora che cazzo vuole?” Pietro inarcò le sopracciglia.
“Lasciatelo in pace, ho detto.” Angela stava sudando freddo, ma una forza antica la spinse ad agire
per Alessandro per la prima volta. “Altrimenti chiamo mio padre. Non ci metto nulla a distoglierlo
dalla fruttivendola.”
Per risultare più convincente, gettò un’occhiata alla strada alla sua destra, che gli altri tre non
potevano vedere.
“E chi ti credi che è tuo padre, sfigata?” ridacchiò il ragazzo con la felpa arancione.
“Vuoi vedere che faccio sul serio?” scattò Angela.
“Ferma, ferma, calmati.” Pietro alzò un braccio. La fissò per una manciata di secondi, durante i
quali lei si impose di non sbattere le palpebre. Era più conscia che mai dei tonfi che sentiva nelle
orecchie, del proprio respiro, del sudore che le imperlava la fronte e le inumidiva le ascelle, del
proprio cuore martellante. Alla fine fu lui a desistere. Infilò la mano in tasca al suo amico e scagliò
a terra dei soldi, in direzione di Alessandro.
“Non ti preoccupare, botte di merda. Ci manchi ancora. Ci mancherete tutti e due”, disse torvo. Poi
prese il ragazzo con la felpa arancione per un braccio e si avviarono insieme. Per tutta la strada,
Pietro seguitò a voltarsi, come per controllare se lei stesse abbassando la guardia. Non la smosse di
un centimetro.
E infine sparirono anche loro.
Angela abbassò la vista sulle proprie scarpe da tennis scolorite e trasse un profondo respiro. Le
venne da sorridere per un attimo, mentre le sue percezioni tornavano alla normalità. Che cosa le era
capitato prima? Era stato come osservarsi dall’interno, avvertire il pulsare del sangue nelle vene e
rendersi conto che non doveva avere paura, che il suo scopo era mostrarsi sicura. Essere sicura. E
c’era riuscita alla grande.
L’attimo trascorse, fugace, tempestivo, lasciando spazio solo al vago piacere di aver intimorito
quei due bulli. Potere. La ragazza arrancò verso l’altro, che era ancora fermo con la schiena contro
il muretto di pietra.
Lei era stata fantastica. Alessandro aveva capito subito che non c’era nessun padre oltre l’angolo
di via Delle Querce, ma Pietro e Gerardo ci erano cascati. Era stata così persuasiva, così audace…
forse ci sarebbe riuscito pure lui, se non avesse avuto tante implicazioni emotive tra le balle, se
avesse dovuto difendere lei da qualcuno che non conosceva.
No, era inutile tentare di sminuire il suo gesto.
“Stai bene?” gli chiese Angela in tono mite, quando gli fu a un passo.
“S… sì. Grazie…” Il ragazzo si passò una mano dietro la nuca, a capo chino. Quando si decise ad
alzare lo sguardo, incontrò due occhi azzurri carichi di quella che poteva essere… comprensione? O
compassione?
“Ti va di fare una passeggiata?”
Angela e Alessandro si addentravano sempre più nel campo di grano. Le spighe ondeggiavano
lievemente intorno a loro, che procedevano senza guardarsi in faccia, gli occhi fissi sul terreno.
“Come va?” chiese lei a un certo punto, per interrompere il silenzio; si stava mordendo l’unghia del
pollice sinistro.
Lui si passò il polso sulla bocca, in imbarazzo.
“Meglio.”
“Mi dispiace, Alessandro. Veramente.”
“Sono due stronzi.” Lui sedette goffamente tra le spighe e lei lo imitò. “Mi rendono la scuola un
inferno più o meno in tutti i modi. E coinvolgono pure il resto della classe.” Alessandro sospirò.
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“Per esempio? Cosa fanno?” Angela strappò una spiga e prese a giocherellarci, tanto per tenere le
mani impegnate e lasciargli un po’ di privacy nel caso avesse gli occhi lucidi. Però lui pareva
calmissimo, solo molto amareggiato.
“Un mucchio di cose… per esempio, rovesciarmi addosso o sul banco coca cola, caffè o acqua, e
farlo un po’ troppe volte perché si tratti di una coincidenza. Poi c’è stata l’occasione in cui mi
hanno buttato in piscina, quando mamma mi ha iscritto per forza in palestra… e l’istruttore non mi
ha creduto quando gli ho raccontato che non ero misteriosamente scivolato, o forse ha fatto finta,
non lo so. Oh, e ovviamente quando vengo interrogato parte una catena di risatine che non finisce
più.”
Angela rimase zitta per una manciata di secondi, solleticandosi il mento con la spiga di grano
come se fosse stata una penna d’oca. Dopodiché schioccò la lingua e rispose:
“Vorrei poterti dire che non ti capisco. E invece le risatine in classe mia ci sono sempre,
specialmente da parte delle ragazze. Per non parlare delle telefonate anonime in cui mi chiedono
cose tipo ‘Ma hai l’ernia del disco, per caso? Ma hai l’AIDS?’ tanto per rompere. Mi sono
conquistata il titolo di ‘una con problemi mentali’ perché una volta sola e dico una ho sclerato
contro di loro dopo che mi avevano rotto le scatole tutta la mattinata.”
“Eh, arriva un momento in cui non li sopporti più, ti capisco”, riprese Alessandro.
“Infatti. Da allora non fanno altro che ricordarmelo. Oh, e tra l’altro sono anche ‘la brontosaura’
perché mi piace la discomusic anni ’70, quella che ‘manco i nostri nonni si sentivano!’”
“A me hanno dato del satanista perché ascolto metal. Continuavano a farsi il segno della croce e a
urlare ‘esci da questo corpo!’, e per metà erano anche seri.”
“Ma che stronzi, Alessandro. Non so tu, ma personalmente mi dà fastidio avere etichette con questa
facilità…”
“… Non me ne parlare. Irene e mia madre mi hanno detto di ignorarli, ma come fai a ignorare
qualcuno quando sei a testa in giù in una piscina per colpa sua?!”
“In effetti…”
“Ti devo confessare che a volte ho provato il desiderio di ucciderli”, Alessandro la guardò di
traverso. “Ho avuto paura di stare per diventare uno psicopatico per questo.”
Lei scosse la testa.
“Non credo che si diventi psicopatici per una cosa del genere, anche io sono stata sfiorata dall’idea.
Pensare di uccidere qualcuno è relativamente nella norma. Basta che rimanga nella tua testa.”
Lui immerse la punta della scarpa nel terreno, come un bambino vergognoso.
“Non ne avevo mai parlato con nessuno. Scusa se ti ho assillata con le mie seghe mentali.”
“Non ti preoccupare, a me non dà fastidio, al contrario. Se trovi qualcuno che ti capisce fa molto
bene sfogarsi”, lo rassicurò Angela.
“Hai ragione. Ricordati che se hai qualcosa da confidare io sono qua.” Alessandro fece un mezzo
sorriso.
Non sapeva che lei ci stava pensando seriamente.
“Sai mantenere un segreto?” anche lei gli lanciò un’occhiata sbilenca.
“Certo.”
“Io non so cucinare, non so rifarmi il letto, non so usare una lavatrice, non so cambiare una
lampadina, non so fare niente delle faccende domestiche.” La ragazza si accorse di arrossire.
Immaginò che Alessandro non l’avrebbe schernita, non faccia a faccia almeno, ma avrebbe pensato
che fosse stravagante. Così si affrettò a precisare:
“È perché mio padre mi tratta come se avessi sei anni. Quindi non ho mai avuto occasione di fare
molta pratica. È davvero… frustrante… avere diciassette anni e non potersi dichiarare autonomi.”
“Eh, io invece ho il problema opposto: mia madre mi vede già come un appoggio, perché da quando
è morto mio padre sono diventato l’uomo di casa. Con lei non ti puoi permettere una battuta, non ti
puoi permettere di essere pigro, non ti puoi permettere di farti i cavoli tuoi, non ti puoi permettere di
avere diciassette anni, non ti puoi permettere di deviare dal percorso che lei ha tracciato per te.”
“Quello non puoi farlo neanche con mio padre.”
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“Pensa che una volta, in terza media, ho… ehm… fregato un pacchetto di caramelle dal negozio di
Francesca Ferragamo.” Alessandro ricominciò a immergere le scarpe nel terreno, senza guardarla.
“E mia madre non si è incazzata più di tanto con me perché era sbagliato o perché nei Dieci
Comandamenti è stato detto di non rubare. Non più di tanto, ti dicevo. Si è incazzata più che altro
perché non era possibile che un ragazzino di quasi quattordici anni volesse ancora delle caramelle e
non avesse nemmeno i soldi per pagarle.”
“Che vuoi dire, lei non ti dà la paghetta?” Angela batté le ciglia.
“No, mi spedisce a fare lavoretti ora da Assunta, ora da Francesca, ora da Don Tommaso… per
farmi racimolare soldi per conto mio.”
“Neanche questo fatto del fregare le caramelle lo avevi mai detto a nessuno, vero?”
“Vero.”
“Ora tocca a me”, disse Angela a precipizio. Aveva giusto un’altra dichiarazione a portata di mano.
Dopodiché si pentì e fece un riso nervoso: “Scusa, attacco di stupidità.”
“No, perché? Sono parole tue, se trovi qualcuno di comprensivo sfogarsi è un’ottima cosa. Vale
anche per te.” Lui inarcò le sopracciglia.
“No, è che… come l’ho detto io sembra un gioco… ‘tocca a me, tocca a te…’”
“Bene, allora facciamo che è un gioco.” Alessandro si strinse nelle spalle.
“Il Gioco delle Confessioni Imbarazzanti?” propose lei.
“Per esempio. Tanto lo sai che io non le racconterei a un’anima.”
Sì, lo so. Angela sorrise di nuovo, ma questa volta era un sorriso sincero.
“Dunque…”
Continuarono per l’intero pomeriggio a disseppellire pezzi di se stessi. Il sole picchiava sui campi
mandando bagliori dorati, un vento leggero li accarezzava. Passavano pochissime macchine sulla
strada circostante, e Angela e Alessandro se ne stavano stesi tra le spighe di grano, nascosti e
protetti da occhi indiscreti. A mano a mano che si confessavano l’uno all’altra, si sentivano più
leggeri e spensierati. Parlarono delle attrazioni per i loro amichetti d’infanzia, delle loro ossessioni,
dei loro progetti segreti, di hobby che il resto del mondo avrebbe considerato da sfigati.
“Io ho paura del buio. Dormo sempre con una luce accesa, altrimenti mi paralizzo e non riesco a
stare tranquillo. Ce l’ho da quando ero piccolo… sono un caso perso, credo che non mi passerà mai.
Va… vabbé che poi quando mi addormento ho il sonno pesantissimo, solo il metal a tutto volume
mi sveglia, o qualcuno che mi venga a scuotere… però se stessi con la luce spenta ci metto la mano
sul fuoco che non mi addormenterei.”
“Io invece dormo con la schiena contro il muro. Devo avere il letto addossato a una parete, quelli al
centro della stanza mi terrorizzano. Mi fanno sentire troppo esposta.”
“Ah, e quando vado a dormire la porta della mia stanza deve stare chiusa, assolutamente. La chiudo
anche se mia madre o mia sorella vanno via e la lasciano aperta, di giorno. Mi dà fastidio che
possano spiare cosa faccio, come lo faccio, quando lo faccio… la vedo come un’invasione.”
“Ho anche paura delle bambole di porcellana, sai?”
“Oh, sì, mia madre se le è conservate! Sembra che ti guardino sempre!”
“Esatto! Fatto sta che da bambina fingevo di gradire se me le regalavano perché non avevo le palle
per rifiutare, ma le tenevo nascoste in un armadio. Poi mi facevo mille paranoie sul fatto che di
notte avrebbero potuto saltare fuori e uccidermi.”
“A proposito di mia madre: lei era convinta che io fossi autistico, da bambino, perché non riesco a
legare davvero con nessuno. Ho origliato mentre lo diceva a Irene una volta, e lei la rassicurava,
non so se per vera convinzione o per non farla stare in pensiero. Mia sorella è un punto
interrogativo, per me.”
“Sul serio non riesci a legare con nessuno?”
“Non riesco manco a parlare di me con gli altri. Figuriamoci avere… un legame.”
“Però con me stai parlando.”
Alessandro sorrise.
“Che c’entra? Tu sei un’eccezione.”
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Angela sentì un tuffo al cuore a quelle parole. Perché era trascorso un tempo interminabile da
quando qualcuno le aveva detto una cosa del genere.
Anche se il Gioco delle Confessioni Imbarazzanti si concluse bruscamente quando un contadino
iniziò a urlargli dietro per avergli rovinato il campo e loro furono costretti a scappare, lei non cessò
di meditare su quella frase.
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V.
Al telefono
“Comincia tu.”
“No, comincia tu.”
“Il problema con la mia storia è che devo trovare il modo per far litigare Angelo e Jonathan. Ma
come fai a mettere in conflitto due personaggi così simili? Non posso neanche ristudiarmeli
daccapo, perché le loro tante somiglianze servono ai fini della trama.”
“Mmh… forse non dovresti ristudiarteli daccapo, ma dovresti decidere una sola differenza che li
porta a litigare. Per esempio, mi avevi detto che Jonathan era un atleta prima di essere morso.
Potresti rendere Angelo un pantofolaio senza dover cambiare nulla della sua caratterizzazione,
semplicemente aggiungendo qualche scenetta semiseria in cui lui dimostra la sua pigrizia. Potresti
aggiungere qualche dettaglio a scene già esistenti, anche. Per quanto riguarda il loro litigio…
Supponiamo che il primo voglia staccare il secondo dalla poltrona. Magari Angelo opporrebbe
resistenza, Jonathan proverebbe disappunto e, visto che nessuno dei due è un tipo paziente,
bisticcerebbero.”
“Alessandro, sei un genio!”
“Nah, sono soltanto uno scrittore…”
“… Hai detto niente.”
“Certo, deve essere un litigio bello tosto per permettere a Jonathan di incazzarsi talmente tanto da
gettare la maschera, morderlo e trasformarlo in licantropo.”
“Sì, infatti. Farò in modo che si urlino di tutto.”
“Brava. Ma ricordati di non cambiare mai registro. Insomma, la tua è una storia tragicomica, rendi i
loro dialoghi da incazzati iperbolici e infantili, così farai ridere chi legge.”
“Tipo… ‘Parlare con te è bello quanto sedersi su un cactus!’ e ‘Va’ a farti un bel bagno col cianuro
al posto del bagnoschiuma!’”
“Ahahahah, ecco! Solo più forte!”
“E il tuo racconto? Qual era il guaio che mi dicevi?”
“Nessun guaio in particolare… ma la mia protagonista è una ragazza abbastanza frivola, almeno
finché non incontra Elizabeth e non matura un po’ grazie a lei. Volevo mostrare la sua frivolezza,
invece di raccontarla e basta.”
“Ottima scelta. E come pensavi di fare?”
“È proprio questo il punto: non lo so. Non so da che parte incominciare per mostrare una ragazza
superficiale, anche perché non vorrei scadere nel cliché della tipa viziata e coccolata.”
“Dunque… tu mi hai detto che Lily è vissuta con due genitori severi e all’antica e che per reazione
è diventata una ragazza libertina e spregiudicata, vero?”
“Mh-hm.”
“Quindi anche questo lato del suo carattere è rilevante.”
“Sì.”
“Falle rubare soldi dai portafogli dei suoi una volta su tre, e faglieli usare per andare nei club più
esclusivi della città. Deve essere senza scrupoli, leccare il culo oppure essere spietata a seconda di
quello che le fa comodo.”
“Non è che così diventa un po’ incoerente?”
“Tanto meglio se lo diventa! Rendi ancora più realistico il suo opportunismo. Ah, e lasciale
giudicare dall’alto in basso tutti i ragazzi che incontra, maschi e femmine. È un ulteriore segno di
superficialità.”
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“Uhm, per esempio, se incontra un ragazzo gentile e bruttino… dirò che lei lo trova ‘un secchione
asfissiante’ e che sottolinea tutti i suoi difetti fisici!”
“Esatto. Viceversa, se ne vede uno carino e arrogante, falla pendere dalle sue labbra, almeno finché
non perde interesse. Oh, e magari potrebbe incontrare Elizabeth proprio in uno di questi club,
dopotutto Elizabeth è un’artista che cerca l’ispirazione nei posti più disparati.”
“Aspetta che me lo segno…”
“Che stai facendo?”
“Scrivo al computer quello che mi hai suggerito, così non lo perdo.”
“Ma tu guarda. E io che per pigrizia alle due di notte usavo ancora i blocnotes!”
“Come sei all’antica, Angela…”
“E tu sei di una simpatia unica, guarda.”
“Scherzi a parte, sul computer è più facile perché puoi cancellare senza fare un macello, perché i
documenti sono protetti da una password invece di essere esposti ad occhi indiscreti come i
blocnotes e perché sei più rapida a scrivere… cioè, almeno io sono più rapido al pc… non so tu…”
“Lo sono anche io abbastanza. È il destino di quelli che hanno una grafia in stile zampe di gallina.”
“Oh, infatti, la mia professoressa di italiano me lo dice sempre! Una volta, in gita, io avevo
l’incarico di fare l’appello per controllare chi c’era sul pullman e chi no, e la Galimberti lo ha
proprio dichiarato davanti a tutti: Salti, la tua grafia è peggio del sanscrito.”
“Cosa eravate andati a visitare?”
“Napoli.”
“Ah! L’ultima volta che siamo stati in gita a Napoli dovevamo vedere la Cappella Sansevero, e
siccome i miei compagni non avevano mai sentito parlare del Cristo Velato, hanno capito che
stavamo andando a vedere il Cristo Pelato.”
“Ahahahahahah! Angela, ti prego, dimmi che stai scherzando!”
“Giuro!”
“Ma che razza di energumeni hai a scuola? Vabbé che io non sono messo tanto meglio…”
“A giudicare da quello che ho visto proprio no… Uh, aspetta.”
“Che c’è?”
“Sento dei rumori nell’altra stanza. Se mio padre mi becca al telefono a quest’ora mi uccide.”
“Ma se sono solamente le due di notte…”
“Dài, Alessandro, non fare lo spiritoso.”
“Stai ridendo anche tu.”
“Colpita e affondata. Ci vediamo domani, ok?”
“Ok. A domani.”
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VI.
Il casolare
Angela osservava la zia, che stava rovistando in un mobiletto dipinto di grigio.
“Mi dispiace per papà…” bofonchiò.
“È tuo padre che dovrebbe dispiacersi”, rispose Amalia in tono neutro, senza smettere di rovistare.
“Piantare una storia perché se ne è andata la corrente non è il massimo della normalità, gliel’ho
detto e glielo ripeterò.”
La ragazza si morse il labbro senza fare commenti; nel frattempo, una gocciolina di cera colò dalla
candela che reggeva tra le mani.
Però finire con un bernoccolo perché ti è cascato un album di fotografie in testa mentre eri al
buio non dev’essere piacevole, si disse.
“Ecco”, sentenziò zia Amalia. “Tra un paio di secondi il problema sarà risolto.”
Una lampadina al centro del soffitto sfrigolò e si accese. Angela sbatté le palpebre, in attesa che i
suoi occhi si abituassero alla nuova luce nella stanza.
Caspita.
Ora riusciva a distinguere bene il garage di zia Amalia: era tappezzato di foto d’epoca. Dovevano
essere tutte quelle che non era riuscita ad inserire in album, in negozio o ai muri di casa. Angela
spense la candela con un soffio e la appoggiò su uno scaffale colmo di scatole di cartone.
Incuriosita, si sporse in avanti e in quelle scatole notò vestiti gialli, verdi, azzurri, bianchi.
“Cosa sono questi?” chiese nel voltarsi verso la donna. Notò che le dava le spalle e rimetteva in
ordine lo scaffale di fronte.
“Oh, niente di particolare. Sono vestiti che cucio di tanto in tanto per gli anziani nell’ospizio di
Castellammare di Stabia. Quando ho del tempo libero glieli porto, e mentre se li scambiano
facciamo una chiacchierata.”
La nipote la fissò con una strana morsa allo stomaco; le sue maestre delle elementari le avevano
sempre detto che gli anziani in ospizio erano molto soli. L’altra sollevò con successo uno scatolone
gigantesco da terra e lo posò sullo scaffale, fermandosi un attimo ad asciugarsi la fronte.
“È un bellissimo pensiero, zia. Complimenti.”
Amalia Vittoriano non rispose; continuò ad affaccendarsi. Angela comprese il perché della sua
morsa: quello era il discorso più sul personale che avessero mai fatto da quando era arrivata. Non
voleva che finisse così presto.
“Sono quasi tutti vestiti da donna”, buttò là.
La zia fece spallucce con aria indifferente.
“Sono quelli che mi vengono meglio.”
“Quindi stai più tempo con le donne che con gli uomini.”
“Abbastanza. Anche se ad Acquarara è più interessante una conversazione con gli uomini, se
proprio bisogna conversare con qualcuno”, ammise risentita appena. “Le donne… be’, non hanno
mai combinato assolutamente nulla. E il risultato è che tutti si ricordano dei mariti, ma mai di loro.”
Angela pensò al sorriso sibillino della zia quando lei si era rivolta a Nina Salti con il nome
sbagliato, quella sera alla festa. Probabilmente Amalia era felice di non appartenere a quella
categoria di donne. O di non appartenere a nessuna categoria.
“Capisco a cosa ti riferisci.” La ragazza gettò uno sguardo nell’angolo con una foto dell’Opéra
Populaire color seppia appesa alla parete. I suoi occhi si ingrandirono un po’ appena vide cosa c’era
sotto.
“Hai una bici?” Era una Schwinn, quella che suo padre aveva sempre definito “la regina delle
biciclette”.
34
“Puoi usarla, se vuoi. A me non serve più”, disse la zia sorpassando Angela e uscendo dal garage.
*
“Per questo mi avevi detto di portare la mia”, commentò Alessandro, reggendosi sulla propria
mountain bike blu a un lato di via Roma.
“Esatto”, rispose la ragazza continuando a contemplare la bicicletta della zia.
“Be’, che ne pensi? Adesso è tua, no?”
“È… rosa”, disse lei con una smorfia mezza schifata e mezza scherzosa. A lui venne da
sghignazzare.
“Non è tutta rosa, dài. Almeno ha il sellino nero…”
“Alessandro, stendiamo un velo pietoso.”
“Vabbé, la smetto.”
“Nah, dài, a parte il colore sono soddisfatta.”
“Io propongo di inaugurarla con un cornetto da Tortorella. Ci stai?”
“Eh, magari un’altra volta, non c’ho un centesimo…” Angela montò su.
“Qual è il problema? Offro io.”
“Davvero? Grazie, ti restituisco i soldi a casa.”
“Dimmelo di nuovo e ti calcioroto all’istante! Offro io perché l’idea è stata mia!” la ammonì
Alessandro.
“Uh, ok, ok… Chi arriva ultimo non diventerà mai scrittore!” e Angela partì giù per il pendio a
tradimento, acquistando velocità.
“Oh, cazzo, allora devo vincere!” Alla voce alta di lui lei si voltò di scatto e lo scorse raddrizzare la
sua mountain bike, incurvarsi in avanti e seguirla a ruota.
Fu una corsa spericolata: sfrecciarono a tutta birra oltre un filo di panni, provocando le urla
spaventate di una donna sulla cinquantina. Si scusarono, ma non smisero pedalare neanche per un
istante. Si perdevano tra i palazzi e si ritrovavano nei vicoli, ridendo, scherzando, smaniando per
quel poco che il loro fiato glielo permetteva. A volte lasciavano il manubrio con una mano e si
toccavano, per poi sfrecciare di nuovo giù per le strade. Passarono Tortorella completamente
dimentichi di volere un cornetto, concentrati sulla loro nuova dimensione. In un paio di circostanze
Angela rischiò di essere sbalzata dal sellino. Il vento le frustava la faccia, gli occhi le lacrimavano,
le mani con cui stringeva il manubrio le facevano quasi male e i capelli le erano finiti in bocca, ma
non poteva impedirsi di ridere. Per la prima volta da quando era arrivata ad Acquarara si sentiva…
estatica. Si sentiva un tutt’uno con quelle finestre strette, quei muretti in pietra solcati da crepe, quei
passanti che borbottavano nella loro direzione. Erano secoli che non se la spassava tanto!
Ad un certo punto Alessandro uscì dal paese, se ne rese conto perché sorpassò il cartello con su
scritto “Benvenuti ad Acquarara”. Lei lo seguì imperterrita, finché non lo superò addirittura. Ci
stiamo addentrando nel Deserto, constatò Angela. È la prima volta che ci vado. Per un po’ si
divertirono a lasciarsi superare dall’altro e a riguadagnare terreno, poi frenarono di botto. Giusto in
tempo per non cozzare contro una rete metallica.
“Phew… ora basta, eh?” ansimò lui con un sorriso.
“Sì… basta…”, convenne lei.
Fissarono oltre la rete intanto che riprendevano fiato. C’era un campo con erba che doveva arrivare
sino al ginocchio. Gli insetti frinivano, gli uccellini cinguettavano. Sembrava un quadretto pastorale
di quelli che avrebbe potuto descrivere Virgilio nelle Bucoliche. Ma la cosa che attirò di più la loro
attenzione fu un casolare sullo sfondo, a poca distanza dalla rete.
“Perché non la sorpassiamo?” volle sapere Alessandro.
“Ma… e le bici?”
“Scherzi? Qui non c’è pericolo che le rubino, siamo a meno di dieci minuti dal paese!”
“Se lo dici tu…”
“E comunque possiamo controllare subito, quel casolare non dista niente.”
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“Ok, allora”, replicò Angela definitivamente convinta.
Appoggiò le mani alla rete con un sospiro. Infilò il piede in uno degli spazi, si diede una spinta in
avanti e iniziò a scavalcarla. Ripeté il medesimo procedimento per l’altro lato e scese con un
saltello. Alessandro impiegò molto più tempo di lei.
“Coraggio, salta!”
“Whoa! Fatto! Che palle…”
“Sei stato tu ad avere l’idea.”
“Eh, sì…”
“Almeno tutte le volte in cui mi sono torturata col quadro svedese a scuola sono servite a qualcosa.”
“Mmh…” Alessandro mise su un’aria meditabonda. “A scuola mia c’è un cortile dove in teoria si
dovrebbe fare ginnastica… però i miei compagni lo usano per fumare e parcheggiarci i motorini.”
“Ah, be’, comodo.”
Si avvicinarono al casolare. Era in pietra, con un solo piano e il tetto spiovente in mattoni rosati
che un tempo dovevano essere stati di un rosso vivo.
La porta non c’era. Entrarono.
A parte un po’ di polvere e un groviglio di rametti per terra, all’entrata, era abbastanza pulito. E
vuoto, soprattutto. Presero a girare per la stanza, ad ispezionarla, e trovarono solo una ragnatela
nell’angolo sinistro; nessuna scritta sui muri, nessun segno che quel casolare fosse stato usato da
poco tempo. Ad ogni passo il pavimento in legno produceva uno scricchiolio leggero. Angela pensò
che si sarebbe divertita a contare gli anelli di crescita e a scoprire ogni tipo di disegno possibile, lì a
terra.
Sfiorò la parete bianca e frastagliata, poi si volse. Notò una finestra sulla parete di fronte alla
porta; complici i rami degli alberi di fuori, in tutta la stanza veniva proiettato un piacevole gioco di
luci e di ombre. E anche se quel casolare non doveva essere di parecchio più grande della sua
camera da letto, qualcosa le diceva che avevano a disposizione tutto lo spazio del mondo. Le
sembrava che istante dopo istante le pareti si allargassero, lasciandola sola con il suo io,
infondendole un senso di pace. Forse si trattava del silenzio, forse della distanza con il paesino,
forse della natura, ma… era possibile che un posto potesse essere materiale e spirituale al
contempo?
“È… bello”, chiosò Alessandro nel guardare il soffitto.
Sì, hai perfettamente ragione, Alessandro, rifletté lei. L’unica parola che può definirlo sul serio
è… bello.
“Potrebbe diventare il nostro posto segreto”, azzardò Angela. “Pensaci. Non è come bighellonare in
paese, non è come rintanarci nella lavanderia di casa tua, non è come rischiare di essere beccati dai
contadini nei campi. Nel Deserto non ci viene mai nessuno, a parte quelli che vanno a visitare il
Monastero. Siamo in una botte di ferro.”
Alessandro si morse il labbro, ma lei seppe che stava considerando l’opzione. Di colpo, le
passarono per la mente le immagini dei pomeriggi che avrebbero potuto trascorrere lì. Avrebbero
potuto studiarci, ascoltare musica, fare merenda, disegnare, scrivere storie. Lontani da tutto e tutti.
“È un’idea. Una buona idea”, dichiarò lui infine.
Si affacciarono entrambi alla finestra, spalla a spalla, le mani sul cornicione. In retrospettiva, lei
sarebbe stata sicura che, se non avessero scoperto quel luogo, non avrebbero mai trovato se stessi.
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VII.
Disinteresse
Quel pomeriggio, al casolare, Alessandro le aveva prestato Lasciami Entrare, e quattro ore dopo
lei lo aveva quasi finito. Ad un certo punto, pensò che la sua pausa fosse durata a sufficienza:
avrebbe dovuto ripetere storia per il giorno successivo, dopotutto. Sarebbe andata a prendersi un
bicchiere di tè e poi basta, promesso.
Si alzò dal letto, mise il libro sul tavolino che le faceva da comò e si diresse verso la cucina. Stava
per poggiare la mano sul pomello, quando si rese conto che lì dentro c’era qualcuno. Si ritrovò suo
malgrado ad ascoltare.
“Assolutamente no, Amalia. Non mi preoccupa”, stava dicendo suo padre con aria categorica e un
po’ stizzita.
“Hai uno strano modo di dimostrarlo”, rispose la sorella.
“Angela è ancora piccola, ha solo…”
“…Diciassette anni, in effetti. Immagino che a volte ti esca di mente.”
Angela poté giurare che ci fosse un sorriso cinico in quella voce.
“Conosco mia figlia e so che quel ragazzino non significa niente per lei. Troppo, troppo piccola,
figurati se pensa a certe cose. E lui è così imbranato, il genere che non s’è ancora accorto delle
donne. Sennò non la tratterebbe come se fosse tale e quale a lui.”
“Non ti ricordi com’eri tu alla loro età?”
“Erano altri tempi.”
“Appunto.”
“Amalia, non provocarmi.”
La ragazza sentì lo scattare di un accendino e dedusse che suo padre si fosse acceso una sigaretta.
“Quello che sto cercando di farti capire non è che devi segregarla in casa, anche se sinceramente
non vedo nulla di buono nel suo amico. Ma forse dovresti considerare l’idea di renderla un po’ più
autonoma, visto che è abbastanza cresciuta da uscire con un maschio, qualsiasi cosa facciano. Non è
possibile che alla sua età non sappia avviare una lavatrice da sola, per esempio.”
“C’è tempo per queste cose.”
Angela udì un sospiro da parte di sua zia: “Sei testardo come un mulo.”
“Intanto, non mi sembra che lei sia venuta da te a pregarti di farla imparare! È segno che non le
interessa.”
“Questo è vero. E onestamente non vedo perché dovrei insegnarglielo io. Non sono affari che mi
riguardano.”
“Te ne sei immischiata proprio adesso.”
“Ti stavo dando il mio punto di vista”, scattò la sorella.
“Questo si chiama immischiarsi, al paese mio”, sentenziò Giuseppe.
Una sedia scivolò sul pavimento. Ci furono dei passi. Angela ebbe appena il tempo di sgattaiolare
nell’ingresso – adiacente alla cucina – che sua zia uscì di gran carriera dalla stanza. Per sua
sfortuna, andò proprio nell’ingresso, la pipa tra le mani.
“Angela”, disse in tono neutro, impassibile. “Da quanto tempo sei qui?”
“Sono appena arrivata, perché?” mentì lei. La sua voce era calma, o così le sembrava, ma dentro il
suo stomaco era sottosopra. Come ci si sente a sapere che anche io vi stavo osservando e forse
giudicando, zia? E adesso mi credi o no, ci arrivi o no? E papà? Cosa state…
Dall’occhiata penetrante della zia comprese che non le credeva, che aveva capito. Ma lungi dal
consolarla, criticarla o comunque spiegarle cosa pensava, zia Amalia si ritirò in camera propria
senza aggiungere altro.
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PARTE SECONDA
Esperimenti
“Il vero stolto, quello che gli dèi scherniscono o riducono in rovina, è colui che non conosce se
stesso.”
(Oscar Wilde, De Profundis)
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VIII.
Fantawriters
Alessandro leggeva – o meglio, recitava – sottovoce una pagina di Intervista col vampiro. Anche
se aveva la porta chiusa, nella sua stanza si stava diffondendo un delizioso profumino di pomodori
fritti. Aveva già fame.
Forse se doppio a bassa voce riesco a non essere scocciato… dovrei provarci più volte.
Proprio mentre ci pensava, la porta della sua stanza si spalancò senza alcun riguardo e sua sorella
cacciò la testa dentro.
“Alessandro, mamma vuole che vai a buttare la spazzatura!” annunciò.
Lui alzò gli occhi al cielo.
“Non lo puoi fare tu, per una sera?” domandò.
“Non vedi che sono al telefono con Edo?” gli occhi di lei si posarono sul libro. “Lo stavi facendo di
nuovo.”
“Che cosa?”
“Parlare da solo.”
“Stavo doppiando!” protestò lui.
“Sì, sì, come vuoi… no, amoruccio, non stavo dicendo a te!” miagolò Irene al cordless prima di
dileguarsi al di là della porta.
Alessandro sbuffò, scattò in piedi e andò in cucina a prendere il sacchetto. Nel passare davanti alla
padella coi pomodori, il suo stomaco brontolò.
“Non riesci proprio a contenerti?” lo criticò sua madre intanto che rovistava nella credenza.
Mica è una cosa che si può controllare!
“Scusa, mamma”, disse distrattamente, e poi trasportò il sacchetto oltre il corridoio, il salotto e
l’ingresso, fino ai contenitori della spazzatura di fronte casa.
Durante il tragitto, si sforzò di non pensare a quanto pesava quel dannato sacchetto e di
concentrarsi sulla pagina che stava leggendo. Gli piaceva molto la maniera in cui Anne Rice
riusciva a rendere l’erotismo nei suoi libri. Magari ci fosse riuscito anche lui! Chissà come
sarebbero potute venir fuori le sue storie, se le avesse partorite Anne Rice… di certo sarebbero state
incentrate sulla componente psicologica ed erotica... Be’, lui tentava di dare importanza a questi due
fattori quando scriveva, ma non era la stessa cosa…
Assorto com’era, si fece scivolare il sacchetto tra le dita mentre con una mano sollevava il
coperchio del contenitore. I rifiuti si sparpagliarono sul marciapiede.
Imprecando frasi sconnesse, Alessandro iniziò a raccoglierli.
Finché non gli cadde l’occhio su un annuncio mezzo accartocciato a pochi passi dall’ultima
scatoletta vuota da raccattare. Un annuncio che lo incuriosì abbastanza da spingerlo a spiegare il
foglio e darci uno sguardo. Un annuncio che lo fece saltare su e correre a casa come un matto, o
come una persona con uno scopo.
Angela disegnava con un solo tratto, senza staccare la matita dal foglio. Ultimamente aveva
abbandonato i paesaggi e si era concentrata sulle persone. O meglio, su una persona in particolare,
che aveva una straordinaria somiglianza con Alessandro. Mentre sfumava con il grigio della matita
per creare un’ombra, il suo cellulare appoggiato al davanzale della finestra squillò. Lei si alzò da
terra con un sospiro e andò a visualizzare il numero. Rispose quando si accorse di chi si trattava.
“Ciao! Che succede?”
“Angela, devi venire subito da me!” Alessandro aveva una voce concitata.
La ragazza corrugò la fronte.
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“Perché? È quasi ora di cena, che racconto a mio padre?”
“Trova una scusa, ti prego! Prendi la bicicletta e raggiungimi! Ti apro io!”
“Ma che succede? Non me ne puoi parlare al telefono?”
“No, devi vedere di persona!”
“Aspettami, arrivo.”
“Allora?” incalzò lei mentre Alessandro chiudeva la porta della propria camera a chiave (la manica
della maglietta gli si incastrò nel pomello, ma lui la liberò con uno strattone). “Cos’è tutto ‘sto
mistero?”
Lui le ficcò in mano un foglio di carta spiegazzato e colorato.
“Leggi!”
Angela lesse:
Prorogato il Premio Fantawriters fino al 15 dicembre
Il concorso Fantawriters indetto da Magnani Editore ha l’obiettivo di premiare giovani
scrittori esordienti e di diffondere la narrativa fantasy, fantastica e fantascientifica in tutta la
penisola.
Possono partecipare, con una sola opera inedita, ragazzi dai 14 ai 20 anni iscritti alla Scuola
Secondaria di Secondo Grado.
Ogni partecipante dovrà inviare la propria opera dattiloscritta in formato Word a
[email protected], con allegati nome, cognome, data di nascita e indirizzo postale
dell’autore (o degli autori) entro il 15 dicembre.
Laddove i dati richiesti risultassero incompleti, o la storia non risultasse conforme ai generi
letterari di cui sopra, il dattiloscritto verrà escluso dal concorso.
Il primo classificato otterrà un premio pari a 3000 euro e la pubblicazione con Magnani
editore.
Il giudizio finale è insindacabile.
“Sono tremila euro”, disse Angela con un filo di voce.
“Pensa a quanti libri e fumetti ci potresti comprare”, sorrise Alessandro.
“Non solo quello, pensa al viaggio che potremmo fare con una cifra del genere, pensa ai posti che
potremmo vedere, pensa a quanto staremmo bene insieme!” la voce di Angela aumentò di volume a
mano a mano che parlava, e lei saltò in piedi sul letto, meravigliandosi del suo stesso gesto.
“E se si riesce a vincere il primo premio c’è pure la pubblicazione!” il sorriso di lui divenne più
ampio.
“Ti viene in mente qualche racconto da inviare?” lei si scostò una ciocca di capelli dalla fronte.
“Cosa?” Alessandro aggrottò la fronte. “Io pensavo di scrivere una storia nuova, a quattro mani.
Pubblicare insieme e spartirci la vincita, semmai vincessimo.”
“Sarebbe una buona idea… se non fosse che le storie non si inventano a comando. Almeno, io non
ci riesco.”
“Però puoi fare qualcosa per farti scattare l’idea”, osservò Alessandro. Indicò la pagina stampata.
“Guarda. Qui c’è scritto che i racconti devono appartenere al filone fantastico, fantasy,
sovrannaturale. E non abbiamo forse scritto entrambi qualcosa del genere, nell’ultimo periodo?”
E allora lei finalmente capì dove voleva andare a parare.
“Vorresti… riciclare le nostre storie?”
“Più che altro, fonderle in una sola. A me sembrano buone entrambe, ma a tutte e due manca
qualcosa. Se le rimescoliamo e le riscriviamo, se prendiamo gli elementi migliori tenendo conto del
fatto che due teste sono meglio di una, chissà cosa ne potrebbe venire fuori.”
“Hai ragione… pensiamoci su. Qual è il tuo personaggio più realistico, più riuscito?”
“Lily. Elizabeth non mi convince per come è venuta, sarà che il mio senso dell’umorismo è pari a
zero.”
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“Il mio è Jonathan. E se li facessimo incontrare? Tipo, tu hai detto che Lily ha i genitori banchieri.
Magari… magari Jonathan potrebbe essere un giovane e brillante collega del padre appena giunto in
città… per cui lei si prenderebbe un’infatuazione senza sapere del suo oscuro segreto!”
“Giusto…” anche Alessandro scattò in piedi sul letto, gli occhi che brillavano di una luce febbrile.
“E magari lo scoprirebbe in modo drammatico, perché anche lui si farebbe fantasie su di lei fino a
trascinarla in un posto isolato e farle qualcosa.”
“La rapirebbe!”
“E la trasformerebbe!”
“E poi sarebbero costretti a scappare, perché lui sarebbe ricercato dalla polizia per rapimento e lei
sarebbe un licantropo giovane, inesperto e schizzato. Così vivrebbero tutte le avventure dei miei
personaggi…”
“… E nel frattempo si psicanalizzerebbero a vicenda come i miei due personaggi!”
“È perfetto!”
“Però alla fine Lily dovrebbe liberarsi, visto che Jonathan è un pazzo furioso. Insomma, può essere
intrigante quanto ci pare, ma non avrebbero certo una relazione sana e duratura.”
“O li facciamo morire entrambi di morte violenta, o facciamo che lui schiatta e lei resta in vita e
racconta alla stampa delle loro avventure, tenendo nascosto il fatto che è diventata un licantropo per
non finire in una clinica psichiatrica.”
“Nah, la seconda mi sembra troppo inverosimile. Come farebbe a tenerlo nascosto ai suoi, ogni luna
piena, considerato che non ha la maturità per andare a vivere per conto suo e che è un personaggio
quasi completamente statico? L’unica è farli crepare tutti e due, anche se lei prima deve vendicarsi
per tutte le merdate che lui le ha fatto.”
“In effetti… se vogliamo fargli vivere le avventure dei miei personaggi dobbiamo riscrivere tutte le
scene in chiave drammatica.”
“Concordo.”
L’una era lo specchio dell’altro in quel momento, lei ne era sicura. Se ne stavano su quel
materasso con un sorriso determinato, le sopracciglia lievemente aggrottate e gli occhi scintillanti.
“Sarà un lavoro duro, lo sai?” domandò Alessandro.
“Sì. Ma se vinciamo ne varrà la pena.”
Nessuno dei due specificò che ne sarebbe valsa la pena anche solo perché avevano deciso di
iscriversi, di tentare. Era scontato, così come era scontato che la madre di lui gli avrebbe fatto una
partaccia se li avesse scoperti con le scarpe sul copriletto, così come era scontato che dopo cena
avrebbero discusso al telefono della trama di quel loro nuovo progetto comune per ore e ore, così
come era scontato che non avrebbero avuto pace finché non si sarebbero messi a scrivere.
41
IX.
Jonathan e Lily
Per l’intera durata di ottobre e novembre, Angela e Alessandro non fecero altro che parlare del
racconto. Ne discutevano con una telefonata mattutina che si protraeva dal momento in cui si
svegliavano al momento in cui uscivano dal bagno completamente preparati, ne discutevano quando
si vedevano durante il giorno, ne discutevano con una telefonata dopo cena che andava avanti
finché uno dei due non chiedeva pietà all’altro per il troppo sonno. Rivoltavano la psicologia dei
personaggi come un calzino, ne rivedevano abitudini e manie, tentavano di palesarle nello scritto.
Scrivevano scene sparse, vivendo attimo per attimo la sensazione di saper comporre frasi, dialoghi e
scene d’azione come mai prima di allora. A volte scrivevano a quattro mani, direttamente al
computer; in altre occasioni, si scambiavano le bozze appena finito i compiti, nel casolare o sotto il
pergolato ormai spoglio di casa Vittoriano. Ognuno leggeva, sistemava, apportava piccoli
cambiamenti da esaminare poi insieme. Insieme. Era come se uniti potessero affrontare qualunque
insidioso blocco dello scrittore.
Finché non giunse quella sera, nel casolare. La sera che avrebbe cambiato tutto.
Era stato un pomeriggio insolitamente caldo per essere ai primi di dicembre, tanto che entrambi si
erano vestiti a strati ed erano rimasti solo in t-shirt. Colpa del riscaldamento globale, aveva detto
Angela.
Quest’ultima si stava rosicchiando un’unghia, concentrata sugli occhi di Alessandro, che
scorrevano l’ultima pagina del suo capitolo. Presto le avrebbe dato un parere. Quando lui terminò la
lettura, lei gli lanciò un’occhiata metà curiosa metà apprensiva.
“Che ne pensi?” lo incitò.
“È geniale, Angela.”
Lei si sciolse in un sorrisone.
“Mi piace moltissimo come hai riutilizzato la mia frase finale: in questo contesto calza a pennello!”
“Era una frase stupenda, mi sembrava doveroso renderle omaggio.”
Alessandro fece segno di sì con il capo e prese a sistemare i fogli che lei gli aveva passato. Si
sollevò per andare a riporli nella sua borsa. Li avrebbe corretti con più attenzione a casa, di certo.
“Qualche critica…?” fece la ragazza alle sue spalle.
Lui arricciò il labbro, soprappensiero, mentre tornava da lei.
“Forse hai ripetuto troppe volte la parola ‘sangue’. Magari troveremo dei sinonimi.”
“D’accordo.” Lei si rabbuiò appena, colta da un pensiero poco piacevole. “Ci manca solo una cosa,
ora. E poi abbiamo finito davvero.”
“Sì, lo so”, chiosò lui altrettanto cupo e pensieroso. “La scena di abuso.”
Ci fu una pausa durante la quale si limitarono a fissarsi. Erano contenti del ritmo con cui avevano
proceduto, ma quella scena gli stava dando un sacco di problemi. Se non fosse stato per quella,
avrebbero editato e poi inviato il dattiloscritto.
“Io ho cercato testimonianze di aggressioni online e ho provato a scriverla nove o dieci volte”,
cominciò Angela.
“Anche io le ho cercate.”
“Ti è servito?”
“Mmh… sì e no. Mi è stato utile per sapere quali sono le cose più realistiche da scrivere al riguardo.
Ma la verità è che mi manca l’immedesimazione. Insomma…” si sporse verso di lei, “… ci sono
scrittori che riescono a far vivere ai personaggi cose che loro non hanno mai vissuto. Stavolta io non
ci riesco.”
“Quindi per te il problema è che non lo abbiamo mai… sperimentato sulla nostra pelle?” Angela
annuì con aria riflessiva. “Capisco quello che vuoi dire, e secondo me hai ragione.”
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“Sperimentato”, fece eco il ragazzo. Abbassò la testa, meditabondo. “Sperimentato…!” si volse di
scatto nella direzione dell’altra. “Angela, tu saresti disposta a recitare?” chiese con una nuova
determinazione.
“In che senso?” fece lei perplessa.
“Ho letto da qualche parte che un ottimo modo per calarsi nei panni dei personaggi è quello di
interpretarli. Sì, dài… se io interpreto Lily e tu interpreti Jonathan, chissà cosa ne può venire fuori!
È perfetto!”
“Già…” Angela si lasciò assorbire pian piano dall’idea, e sorrise. “Le sensazioni si intensificano,
con un gioco di ruolo. Certo, dovrò farti un po’ male per un maggiore realismo…”
“Oh, non ti preoccupare, dopo tutte quelle che ho acchiappato da mia madre tu non potrai farmi
nessun danno!” Alessandro alzò un braccio come ad indicare l’intera stanza, entusiasta. “Allora
ricapitoliamo: abbiamo deciso che Jonathan l’avrebbe portata in un posto isolato, e il Deserto è
abbastanza isolato da garantirci identificazione. Abbiamo deciso di scrivere quella scena da
entrambi i punti di vista, e dato che sperimenteremo in due ce la possiamo fare. Dobbiamo solo
metterci nei panni del nostro personaggio, e quando lo avremo interpretato a dovere…”
“Aspetta un attimo, però”, lei gli abbassò la mano sinistra con un tocco gentile, improvvisamente
seria. “Se per una cosa o per un’altra tu volessi interrompere la scena, io come faccio a saperlo?”
“Ti dirò semplicemente ‘basta’”, rispose lui.
Angela scosse la testa.
“No, non va bene, perché anche Lily direbbe ‘basta’ al suo rapitore. Come faccio a distinguere un
‘basta’ finto da un ‘basta’ vero?”
Abbassarono gli occhi. Rimasero in silenzio a riflettere per qualche secondo, seduti a gambe
incrociate l’uno di fronte all’altra.
“‘Smettila’”, lei alzò la vista dal pavimento.
“Stessa solfa”, le fece notare l’altro.
Nuova pausa.
“‘Torniamo a noi’…?” propose Alessandro con scarsa convinzione.
“Troppo lungo.”
Lui si morse il labbro. Da qualche parte, nell’oscurità che calava, un gufo emise il suo verso
gutturale.
“Ci chiamiamo per nome”, disse lei con rinnovata sicurezza.
Lui sorrise.
“Buona idea.” Non aveva la bocca secca né si sentiva particolarmente nervoso; gli sembrava una
cosa naturale.
“Ok, tieniti pronto. Adesso mi alzerò e non sarò più Angela fino alla fine della scena. Sarò
Jonathan, un licantropo schizzato e pericoloso. Mi sto alzando, Alessandro…”
“Sì… e io sarò Lily, una ragazza superficiale e libertina che ha giocato col fuoco. Comincia pure.”
Angela alzò il mento e lo fissò con uno sguardo scuro, intenso, minaccioso.
“Bene, ragazza mia”, disse, la voce meno acuta del solito. “Com’è che dicevi? Sono una ragazza
cattiva che deve essere punita. Sono pronto ad accontentarti.”
Alessandro simulò un tremore atterrito. Si rannicchiò contro il muro come un animale in trappola.
“Jonathan, no… ti prego…”
“E ti accontenterò, a meno che tu non stia tranquilla e in silenzio. Così andremo d’accordo. Se provi
a scappare…”
Lui sapeva che quello era un segnale convenuto. Avevano deciso che Lily sarebbe scappata
appena Jonathan avrebbe menzionato quella parola, che sarebbe uscita dalla sua trance in quel
momento.
Così schizzò carponi verso la porta, verso la libertà, anche se fittizia, ma Angela fu più svelta. Lo
afferrò per le caviglie e lui cadde goffamente in avanti. Le sue unghie si piantarono nel pavimento,
come un gatto, e qualche scheggia di legno gli ferì le dita, bruciante.
“Aiuto! No, Dio mio, qualcuno mi aiuti! No!” piagnucolò mentre l’altra lo trascinava all’indietro.
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“Aiuto?” la ragazza emise una risata lunga, folle, beffarda. “Qui nessuno sentirà le tue urla, Lily!”
Lo capovolse come una tartaruga rovesciata. Incombeva su di lui, la potenza contro l’impotenza.
“Credevi di poter sfuggire ad un atleta come me, tu che non hai mai fatto una corsa seria in vita
tua?” gli prese il mento nel pugno.
“A-atleta?” balbettò Alessandro, provando a far suonare la sua voce anche sorpresa.
“Credevi che fossi nato banchiere, stupida ragazza?” lei gli diede uno schiaffetto. “Già… ci sono
tante cose che non sai sul mio conto… ma farò in modo che tu le scopra… d’altronde hai provato a
fuggire, meriti una punizione…”
“N-non so cosa ti sei messo in testa, Jonathan, ma devi lasciarmi subito! Ti prego!” la voce di lui
aveva una nota di isteria in parte simulata, in parte reale. C’era qualcosa di spaventoso nei capelli
fluttuanti di lei, che pian piano tornavano immobili, nel luccichio dei suoi occhi famelici, nel suo
sorriso ragionevole, qualcosa che lo annichiliva e lo faceva ansimare.
“Perché dovrei? Alla tua età dovresti sapere che non puoi avere tutto quello che vuoi, Lily…”
Quella voce, dolce e velenosa… No, non è… si sta certamente sforzando di…
E senza preavviso lei scattò verso di lui e gli punse il collo con i denti.
Non aveva morso troppo a fondo, si era controllata, ma Alessandro spalancò comunque gli occhi e
si mise a urlare, a dimenarsi, ma lei lo aveva bloccato a terra, riusciva a muovere solo le gambe, e a
vuoto…
“Zitta, puttana!”
Angela lo schiaffeggiò prima con il palmo e poi con il dorso della mano, come un pittore
impazzito.
“Tu sei la mia troia, adesso, lo sai? Sei il mio giocattolo e posso farti quello che voglio!” latrò.
Iniziò a mordergli ancora il collo in più punti, a far viaggiare possessivamente le proprie mani sul
corpo di lui, incurante delle sue suppliche e dei suoi strilli, finché lui non si sentì spingere indietro.
E avanti. E ancora. La testa gli sbatté contro il pavimento prima che riuscisse a sollevarla. Gelo e
una vampata di calore. Angela era a cavalcioni su di lui, un groviglio di capelli davanti alla faccia, a
spingere con il bacino verso la sua zona pelvica, anche se erano completamente vestiti. Simulava
uno stupro.
E lui rispondeva alla perfezione, voltando la testa ora a destra ora a sinistra, gli occhi chiusi, la
pelle che gli formicolava e gli abiti impregnati di sudore e sotto gli abiti un’erezione che non
avrebbe nascosto per molto, gemiti di vera paura che gli sfuggivano di tanto in tanto, vaghe
invocazioni di falso soccorso morte prima di nascere.
Andarono avanti così, il rapitore e la vittima, la vittima e il rapitore, e mentre il loro cuore pulsava
nelle orecchie, nel ventre, nei polmoni e nelle ossa, provavano un miscuglio inscindibile di
meraviglia, incredulità, eccitazione e paura. Era qualcosa di più di una semplice emozione
composta: un prendere contatto con i veri loro stessi, la capacità di rendere reale ciò che fino a un
istante prima non esisteva, la convinzione indelebile che il pianeta Terra fosse cambiato per sempre,
il più grande sentimento che avessero mai sperimentato. Insieme.
Dopo quelli che avrebbero potuto essere pochi minuti o molti millenni, Angela si accasciò sfinita
su di lui, le labbra a un centimetro dal suo orecchio, in attesa che il battito cardiaco tornasse alla
normalità. Abbassò le palpebre e rimase immobile per un po’. Era felice che prima lei e Alessandro
fossero una cosa sola e adesso stessero rientrando ognuno nel proprio corpo, felice di aver
comandato e di aver smesso di farlo al momento giusto. Felice di essersi… eccitata – ma questo
magari non glielo avrebbe confessato –, come la versione migliore e più potente di se stessa.
Fu un suono sommesso e ovattato a farle riaprire gli occhi.
“Ma stai piangendo?”
Sollevò il torso fino a guardarlo in faccia. Era così, gli occhi gli erano lucidi. Solo allora lei si rese
conto che il corpo di Alessandro sussultava lievemente, e che sulle braccia aveva la pelle d’oca.
Una lacrima gli scivolò lungo la guancia e a lei si strinse la gola.
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“Sssh… è tutto a posto. Tranquillo”, sussurrò Angela asciugandogli la guancia con il polpastrello
del pollice. “Tranquillo, Alessandro.”
Lui non si muoveva. Con cautela, sentendosi dannatamente aggranchita, lei si rimise in piedi per
raggiungere il punto in cui avevano posato le borse. Eccolo lì, vicino all’entrata. Prese la propria
sacca, tirò la zip che la chiudeva e recuperò una bottiglia d’acqua. Tornò da lui con quella tra le
mani e gli si inginocchiò accanto.
“Bevi, ti farà bene.”
Il ragazzo si mise a sedere con gesti lenti e nervosi, prese la bottiglia e la stappò. Mentre beveva,
Angela gli posò una mano sulla spalla, delicata tanto quanto prima era stata dura e decisa. Continuò
a mormorare parole di conforto e gli accarezzò il braccio finché non si accorse che il tremore di lui
andava scemando.
Alessandro si asciugò la bocca con il dorso della mano. Strizzò gli occhi. Deglutì.
“Hai avuto paura?” domandò lei.
L’altro ingoiò di nuovo. Dopodiché le indicò i propri jeans.
“Guarda”, disse con voce roca.
Angela eseguì. Quindi spalancò gli occhi: aveva visto una chiazza scura sul cavallo dei pantaloni.
“Oh, Dio…” esalò. “Scusami, scusami tanto.”
Ma per quanto la facesse star male il pensiero che lui avesse provato tanta paura da bagnarsi, non
riusciva a sentirsi veramente, veramente in colpa. Quell’emozione straordinaria che aveva provato
prima glielo impediva.
Adesso era la sua mano a tremare. Meditò di lasciargli il braccio, e stava per farlo, quando
Alessandro poggiò la propria mano sulla sua.
“Sai… sai cosa, Angela?” chiese, e un po’ di timbro di gola era sparito.
“N-no.” Dimmi, ti prego, dimmi cosa pensi, dimmi che stai bene, ho di nuovo il cuore a mille e…
“Mi è piaciuto. Mi ha fatto stare bene.”
Lei rimase in silenzio per qualche secondo, passandosi la lingua sulle labbra inaridite. Poi disse:
“Anche a me.”
Alessandro aprì la bocca per parlare. La richiuse. Si costrinse ad esprimersi:
“Se… se la cosa ti sta bene… dopo aver scritto questa scena… insomma, stavo pensando che…
potremmo continuare a sperimentare. A-anche senza interpretare Lily e Jonathan.” Farfugliò.
“Interpretando altri ruoli?”
“Sì, più o meno. Sempre se a te la cosa va bene.”
Angela esitò un istante. Solo un istante.
“Sì, per me va più che bene.”
Alessandro non le aveva lasciato la mano. Né lei l’aveva tolta dalla sua spalla. Entrambi strinsero
la presa fino a farsi leggermente male. Ma era un dolore gradito, piacevole. Un dolore bello, nel
quale echeggiava l’emozione nutrita nel corso del loro esperimento.
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X.
Tranquillità
In un gelido pomeriggio di qualche giorno più tardi, stavano discutendo dei loro ipotetici
esperimenti a casa di lei. Se ne stavano semidistesi sul divano-letto, ognuno imbacuccato nel
proprio pullover, e fissavano il soffitto.
“A te è venuta qualche idea?” stava dicendo Angela.
Alessandro rimase in silenzio per un secondo.
“Sì”, disse poi. “Pensavo che avresti potuto sculacciarmi con un battipanni. È un oggetto che
possiamo reperire con facilità, e mia madre lo usava spesso su me e mia sorella quando eravamo
piccoli. Non ha fatto troppi danni. Almeno… non danni fisici.” Abbassò la testa con un’espressione
un po’ amareggiata.
Angela provò un fiotto di tenerezza e di compassione, ma non riuscì a trovare niente da dire per
essergli di conforto. Invece si concentrò sulla sua proposta:
“Non so se posso sculacciarti con quello. Magari tua madre ha una forza maggiore o minore della
mia, magari potrei veramente fare dei danni. Dipende.”
“Da cosa?” lui girò il capo per osservarla.
“Da quello che troviamo su Internet.” Sulle labbra di lei apparve un sorriso lieve.
“Uh? Vorresti cercarlo?”
“Perché no? Internet a volte dà più risposte di un’enciclopedia.”
“D’accordo. Ma facciamolo adesso.”
Lei fece un cenno d’assenso. Si alzarono quasi in simultanea dal divano-letto, sedettero al tavolo e
Angela accese il computer.
“Cerchiamolo in inglese, troveremo più risultati”, suggerì Alessandro.
“Già, ma che parole chiave usiamo?”
Dopo svariate proposte da parte di entrambi, Angela scrisse direttamente “spank with a carpet
beater”. 211.000 risultati.
Per la maggior parte si trattava di episodi di cronaca nera, o di testimonianze di vittime di violenza
casalinga. Proprio quando stavano per scoraggiarsi, trovarono una pagina che inseriva il battipanni
in una lista di oggetti utilizzabili nell’ambito del BDSM.
“Biddiesseemme?” lesse il ragazzo inarcando le sopracciglia. “Che significa?”
“Non lo so… Dev’essere un acronimo. Adesso cerco pure quello.”
Digitò quelle quattro lettere sul motore di ricerca, ed entrambi furono stupiti dalla quantità di roba
associata ad esse.
“Clicca lì, porta la definizione!” esclamò lui.
La ragazza cliccò. Le apparve una schermata dove, a caratteri cubitali, c’era scritto:
Bondage/Discipline
Domination/Submission
SadoMasochism
I due si guardarono.
“Tu sai chi erano il Marchese De Sade e il Barone Von Masoch, vero?” chiese Alessandro
lentamente.
“Per sommi capi… ma sì, so chi erano”, rispose Angela.
Alessandro deglutì.
“Io voglio andare a fondo di questa storia”, sentenziò Angela, simulando una calma che non aveva.
Si raddrizzò davanti alla scrivania e scorse la pagina web.
“Se tu vuoi fermarti qui lo farò da sola, in un secondo momento”, dichiarò mentre tormentava la
tastiera. Quanto avrebbe desiderato tormentarsi anche le unghie…
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“No…” Alessandro sospirò. “Hai ragione, anche io voglio vederci chiaro.”
“Sicuro?”
“Sicuro.”
“Guarda che… se ci fughiamo i dubbi, potremo anche dire addio alla tranquillità.” Lei non sapeva
se stesse mettendo alla prova lui o se medesima.
“Che vuoi dire, per te chi resta nel dubbio è tranquillo? Io so che non sarò tranquillo finché non
avrò capito, Angela. E scommetto che anche tu la pensi così.”
“Hai ragione, sì… cacchio, non possiamo tirarci indietro. Fammi cliccare.”
Più si addentravano in quel mondo, più scorgevano tratti in comune con il loro “esperimento”
passato. Trovarono un sito molto utile, che veniva aggiornato di continuo, provvisto di un forum, di
una FAQ e di una galleria di immagini: everythingonbdsm.com.
Scoprirono che, nonostante fosse stato il Marchese De Sade a dare parte del nome a
quell’acronimo, il sadomasochismo odierno, così come tutto il BDSM, non poteva essere
paragonato alle sevizie perpetrate e subite nei suoi libri. La cosa fondamentale in un rapporto del
genere era la fiducia reciproca, e quasi ogni pratica (con l’eccezione di quelle classificate come Risk
Aware Consensual Kink) doveva rientrare nei termini del Safe, Sane and Consensual. Per questo
motivo esistevano le safeword. Si trattava di parole d’ordine concordate prima di una sessione che
avrebbero posto fine a tutto se la situazione si faceva troppo pesante per uno dei due. Poteva essere
qualsiasi cosa, come una parola improponibile nel contesto, oppure si potevano usare dei colori, il
rosso, il giallo e il verde. C’erano mille varianti per le safeword, e mille varianti per le attività.
Vennero a sapere che il sadomasochismo, malgrado fosse la parte più famosa dell’acronimo
BDSM, non era indispensabile in questo tipo di rapporti e potevano esserci molte affinità col sesso
classico, chiamato “vanilla”.
Lessero che esistevano un individuo dominante, il Top, e uno che voleva essere dominato, il
Bottom. Contrariamente a un aguzzino, il Top era empatico e comprensivo verso l’altro, e
contrariamente a una vittima, il Bottom aveva una grande forza di volontà. Potevano essere switch,
ossia interscambiabili, ma non era raro che i ruoli fossero sempre i medesimi all’interno di una
coppia. Dipendeva dall’indole, dalla predisposizione e da un sacco di altre cose.
Impararono le differenze tra i vari tipi di bondage, trovarono dei consigli validi su come praticare
in piena sicurezza e riconobbero l’aftercare, ossia le attenzioni e le coccole che facevano parte del
“dopo” di una sessione.
La cosa più sconcertante e rassicurante al contempo, per Angela e per Alessandro, era il constatare
che molte di queste cose – safeword, ravishment play, aftercare – loro le avevano già fatte senza
sapere che avevano un nome.
“Qu-questo significa che noi abbiamo praticato del BDSM”, balbettò Angela ad occhi sgranati,
quando finirono di leggere una discussione sul forum.
“E significa pure che tu sei una Top e io un Bottom”, rincarò la dose lui.
“Il fatto che ci piaccia significa che… be’, che ce lo avevamo d’istinto, ancora prima di venire a
sapere la teoria”, disse lei nel voltarsi verso di lui.
Alessandro le lanciò un’occhiata obliqua. “E significa… che io e te abbiamo fatto sesso per
davvero.”
Lei strinse forte il bordo della scrivania e si irrigidì sulla sedia. Hai visto tu stessa che non è nulla
di negativo se praticato come si deve.
Mi sono eccitata.
Non è nulla di negativo, Angela.
“Sei sempre convinto di voler ‘sperimentare’, adesso che sai che sono pratiche sessuali?” domandò.
“Certo”, rispose lui annuendo. “Tu sei convinta?”
“Certo”, e Angela riuscì a produrre un sorriso, che lui ricambiò.
“Con questo non ti sognare che mi innamorerò di te.”
“Ah, figurati, non ci pensavo neanche!” Angela si passò una mano sulla nuca.
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“Sperimenteremo tra amici.”
“Sì. Tra amici.”
Probabilmente anche lui voleva distogliere lo sguardo e si stava costringendo a mantenerlo; era il
suo modo di tenere il punto, farle capire che anche quella volta sarebbero stati insieme.
“Oh, visto che ci troviamo col computer acceso, inviamo il dattiloscritto, dài. Oggi scade il termine
per il concorso.”
Alessandro smise di sorridere.
“Giusto.”
Lei andò sulla sua casella di posta elettronica, scelse l’opzione “Scrivi nuova mail” e ci allegò il
loro racconto e i loro dati.
Digitò l’indirizzo di Magnani editore, inspirò e si mise più dritta, le mani che fremevano sulla
tastiera. Era fatta. Un click e tutto il suo lavoro, il loro lavoro sarebbe stato letto e commentato da
una giuria vera. Quasi non sembrava possibile che fosse giunto il momento.
Si volse verso Alessandro, per sapere se si sentisse come lei… e notò che lui aveva gli occhi bassi
e si stava torcendo le mani.
“Che c’è?”
“Non so se è una buona idea”, mormorò lui.
“Perché no?” Angela piegò la testa, stupefatta.
“E se ce lo rifiutano? E se non lo avessimo corretto abbastanza? E se facesse schifo?” l’altro non
aveva smesso un istante di studiare le proprie scarpe, e la tensione con cui si tormentava le mani
cresceva ad ogni parola.
La ragazza si morse il labbro inferiore. Poi, passati un paio di secondi, si alzò dalla sedia e si
posizionò di fronte a lui con le braccia aperte.
“Buttati”, gli ingiunse.
“C-cosa?” balbettò Alessandro.
“Buttati all’indietro, ti prendo io.”
“Angela, dài! Peso troppo, non ci riusciresti mai”, disse con un risolino nervoso.
“Non ti fidi di me?” lei aggrottò un po’ la fronte.
“Non è questo…” Alessandro fece un movimento lieve con la testa, ma lei capì che stava cercando
di svicolare.
“È proprio questo, invece. Io sono la tua Top. Ti lascerò fare la stessa cosa con me, dopo. Tu ti senti
abbastanza al sicuro nelle mie mani da permettermi di prenderti al volo?”
Il ragazzo si decise a fissarla; lei gli restituì l’occhiata con innocente determinazione, le braccia
sempre aperte.
“Andrà tutto bene”, gli promise.
Lentamente, lui le diede le spalle. Attese un attimo, quindi si lanciò nel vuoto. Angela non esitò
neanche un secondo, scattò in avanti per afferrarlo e ci riuscì. E mentre lei si chinava su di lui
sfiorandogli il volto con i capelli lunghi, Alessandro smise di strizzare gli occhi come chi teme di
schiantarsi al suolo e si lasciò sfuggire una risata sincera, che lei ricambiò all’istante.
“Tocca a te”, gli annunciò.
Quando anche lui l’ebbe presa al volo, Angela capì che la paura dell’ignoto era stata debellata. Ora
regnava la tranquillità.
Lasciò a lui l’onore di cliccare su “Invio”, e si accorse che anche questa decisione la faceva sentire
tranquilla e sicura.
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XI.
La corte dei miracoli
Angela e Alessandro non nominarono più il BDSM quell’anno. Si lasciarono assorbire
dall’enorme mole di compiti delle vacanze – che svolsero assieme, giorno dopo giorno – e dalla
frenesia delle feste. Angela avrebbe ricordato soltanto poche cose di quel suo Natale ad Acquarara:
le canzoni eseguite da una banda improvvisata ma abbastanza brava su un palco montato in piazza;
il rosso e l’arancione delle decorazioni a casa di sua zia Amalia; il minuscolo presepe sottovetro; il
valzer di parenti che andavano a trovarli; il broncio di suo padre quando gli chiesero, al momento
del brindisi di mezzanotte, come andava la ricerca di un nuovo lavoro; gli SMS di Alessandro, che
l’avevano salvata da una noia mortale.
E poi ci fu Capodanno, e il conto alla rovescia nel negozio di Don Tommaso il panettiere, e i
fuochi d’artificio, e la gente che si scambiava auguri per le strade.
Imparò a svegliarsi alle nove, ad aiutare e a farsi aiutare con lo studio, a consumare un pranzo
veloce e solitario e poi giù, giù con le biciclette fino al casolare, incuranti del freddo e della fatica.
Fino a quando non ricominciò la scuola e la solita routine.
Fino a quando non iniziò a sospettare che Alessandro se ne fosse quasi dimenticato.
Lo stava pensando anche adesso, mentre fissava il supermercato al confine con Massa Lubrense, la
schiena appoggiata al muretto di pietra e le braccia lungo i fianchi.
Magari lui non ci teneva più come prima, magari lei stava per fare una stronzata egoista…
… Eppure l’idea le era venuta, mentre si informava ancora su Internet; potevano sperimentare con
quella, ed era anche una buona idea tutto sommato…
… No, era una pessima idea. Alessandro non sarebbe mai stato d’accordo.
O invece sì? E se avesse stuzzicato la sua fantasia tanto quanto aveva stuzzicato quella di lei?
Gli aveva già prestato il CD cinque giorni prima, non poteva tirarsi indietro.
E se si fosse limitata a discutere di Notre Dame de Paris?
Portò all’indentro le labbra. Poi, lentamente, si staccò dal muretto spingendo a mano la bici,
attraversò e si decise ad andare a comprare quello che le occorreva.
“Quindi i Rammstein sono stati accusati di neonazismo?” chiese qualche ora dopo, nel casolare.
“Sì, ma hanno sempre smentito tutto. Neanche io ci credo. Mia madre, invece… a parte il fatto che
dice che il metal è solo rumore…”
“Ti dirò, è un genere troppo estremo per me, non so se riuscirei ad apprezzarlo. Il rock un po’ più
‘soft’ invece mi piace. Ma la mia musica preferita sai qual è.”
“Jackson 5ive, Bee Gees, Earth, Wind and Fire?”
“Uno di questi giorni se vuoi ti compro Last Days and Time, un loro CD.”
“Oh… a proposito di CD…” Alessandro recuperò la sua borsa, tirò la zip e ci frugò all’interno
finché non trovò Notre Dame de Paris. “Tieni, l’ho ascoltato tutto.”
Il sopracciglio di Angela ebbe un sussulto. Qualcosa le aveva detto di non partire in quarta con
l’argomento del disco, qualcosa le aveva detto di essere naturale come al solito e di aspettare che
fosse lui a sollevare la questione. E ora lui l’aveva fatto!
“Piaciuto?” chiese nel prendere il CD e riporlo nella sua sacca.
“Molto. Mannaggia, avrei voluto essere te e vederlo a Bagnoli!”
“Sì, hai ragione, è uno spettacolo che non si dimentica. Frollo era fantastico. Qual è la tua canzone
preferita?”
“Zingara, mentre non sopporto Cuore in me. Be’, considera che io non sopporto Febo.”
“La mia è La corte dei miracoli.” Angela sorrise.
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“Sì, bella. Piena di atmosfera.”
Ok, mi butto.
“A me ha fatto pensare alla Corte dei Miracoli in grande, come se fosse scissa dalla storia.”
“Tipo uno spin-off solo su Clopin e company?”
“Eh.”
“Sarebbe interessante…”
“Sì”, confermò lei. Stringendosi nelle spalle, aggiunse: “Mi piacerebbe interpretare la moglie di
Clopin e vedere te nei panni di un neofita, adesso.”
Alessandro corrugò la fronte, ma non come se fosse arrabbiato con lei. Come uno che non se lo
attendeva affatto.
“Vuoi sperimentare?”
“A te va bene?”
Wow. Dritta al sodo. Non hai negato, non sei andata per il sottile. Mi complimento con te, Angela.
“Per me possiamo cominciare anche subito”, disse Alessandro senza la minima esitazione.
Evvai!
“Chiaramente nessuno di noi sa come funzioni davvero una congrega di zingari. Possiamo solo
immaginarlo”, disse lei pensierosa.
“Angela, se dovessimo scrivere un libro sarebbe importante documentarsi, ma finché si tratta di
sperimentare tra di noi non fa nulla!” Alessandro agitò una mano.
“Hai ragione, hai ragione. Pronto?”
“Sì!”
Angela si rizzò in piedi e Alessandro la imitò.
Lei lasciò passare un secondo, poi si schiarì la gola e chiosò:
“E così tu sei Jacques Mireau. Quanti anni hai?”
“Venticinque, madame”, rispose lui con aria compita, forse addirittura con una punta di soggezione.
“Non sono pochi.” La ragazza allargò le braccia come a comprendere il casolare intero, alzò la testa
e declamò: “E vuoi diventare un membro di questa corte. Perché?”
“Madame, io credo con sincerità che Parigi non abbia niente da offrirmi. Sono solo il figlio minore
di un fornaio, non ho un futuro. Voglio viaggiare, imparare, conoscere tutto lo scibile. So che
solamente unendomi a gente della vostra risma potrò avere una formazione completa. Lo sento.”
Angela rimase zitta per una manciata di secondi, l’espressione seria di chi sta valutando
rapidamente. Lo vide ingoiare e sostenere il suo sguardo.
“Ti aspetterà un duro allenamento per divenire uno di noi. Ne sei consapevole? O hai preso tutta la
questione come un gioco?” domandò con una punta di aggressività finale.
“No, madame, non è mia intenzione prendere questo come un gioco!” Alessandro si preoccupò.
“E allora dimostracelo!”
“Sì, sì!” lui annuì più volte. “Ditemi in che modo posso dimostrarvelo e lo farò.”
Fece per inginocchiarsi, ma Angela fu più lesta.
“Non devi mai inginocchiarti davanti a me o a mio marito Clopin, ragazzo. Noi non siamo cristiani,
il nostro unico battesimo è la pioggia. Viviamo senza Patria e senza Dio. Sono cose che un parigino
comune non può comprendere”, completò sprezzante.
“Perdonatemi, madame, ma io credo di comprenderle”, obiettò lui a testa bassa.
“E comprendi anche che qui alla Corte dei Miracoli è necessario fidarsi gli uni degli altri?”
“Sì, madame.”
“Bene. A questo punto ti sottoporrò a una prova, prima di decidere se sei degno di far parte della
nostra Corte. E se fallirai… be’, andrai a ingrossare le file dei mendicanti e degli storpi. E Parigi
avrà perso soltanto il figlio di un fornaio.”
Alessandro rimase in silenzio, visibilmente teso. Lei gli indicò la parete di fronte, quella con la
finestra, e dichiarò:
“Voglio che tu mi dia le spalle, che vada a metterti contro quella parete e che non osi sbirciare per
nessuna ragione al mondo.”
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Angela si stupì dell’asprezza della propria voce, della sua determinazione adamantina. Non
ricordava di aver mai espresso la sua volontà tanto chiaramente… se non quando era piccolissima e
la timidezza, la sfiducia e il senso di inferiorità non avevano ancora attecchito in lei.
E la cosa più incredibile era che le veniva naturale, come se avesse sempre conservato una vena
autoritaria dentro di sé e Alessandro l’avesse fatta tornare fuori.
Voglio che tu mi dia le spalle, che vada a metterti contro quella parete e che non osi sbirciare per
nessuna ragione al mondo.
Per quanto fossero delle strane istruzioni, Alessandro non ci pensò due volte prima di metterle in
atto: Angela gli ispirava rispetto e ubbidienza. Perciò girò i tacchi e andò a piazzarsi davanti alla
finestra. Sentì che lei rovistava nella sua sacca, ma non osò guardare. Aveva promesso. Aveva un
comando. Per un po’ fissò il panorama di fuori, una parte di lui concentrata anche sui movimenti in
quella stanza, finché la voce di Angela non si levò di nuovo:
“Adesso togliti le scarpe, chiudi gli occhi e voltati.”
Alessandro si chinò per slacciarsele. Notò che sulla parete c’erano dei riflessi argentei di qualcosa
che lei aveva posizionato a terra. Lungi dall’indagare, lasciò le scarpe lì, chiuse gli occhi e si ruotò.
“Ho posto a terra una serie di minuscoli chiodi, Jacques Mireau. Desidero che tu faccia alla
perfezione i passi che ti ordinerò di fare per evitarli.”
Il ragazzo rabbrividì. Minuscoli chiodi… quindi puntine da disegno.
“Non aprire gli occhi neanche di un millimetro. Ricordati che se non ti fidi di me ti puoi far male.
Se la tua vocazione per questa corte è forte, e se hai i requisiti per entrarvi, non ci saranno
problemi.”
Cominciarono. Angela gli fece fare passi in diagonale, in orizzontale e in verticale, a volte piccoli,
a volte lunghissimi.
“Prosegui di un piccolo passo a sinistra… No, troppo ampio… ecco, così…”
Era strano quanto i suoi sensi si fossero affinati in pochi minuti. Sentiva tutto, ogni rumore, ogni
piccolo spostamento d’aria, l’odore del legno intenso come non era mai stato, il suo cuore che
batteva. Accelerava. Batteva.
E allo stesso tempo lui riusciva a calcolare i propri passi meticoloso.
“Spostati ancora allo stesso modo, ma stavolta a destra…”
Come aveva detto la professoressa Galimberti? Che l’istinto dei cacciatori-raccoglitori era
sviluppatissimo e che gli uomini odierni lo hanno perduto? Forse.
Gli venne da ridere al pensiero.
“Cos’hai da ridere, Jacques Mireau? Bada che potrei decidere di trapassarti in qualunque
momento”, disse Angela tagliente.
La voce di lei metteva i brividi, era la voce che avrebbe deciso del suo immediato futuro. Si
accorse di essere fradicio di sudore freddo, ma la cosa lo galvanizzò.
“Arretra… muoviti orizzontalmente di tre passi e mezzo…”
Tutto si riduceva alla potenza della sua volontà, proprio come aveva detto quel sito: tenere gli
occhi chiusi, non sbirciare neppure un istante, mentre si compiva quel passaggio di forza da lei a lui,
da lui a lei.
“Resta fermo coi talloni uniti. Bene. Adesso puoi aprire gli occhi, Alessandro.”
Lui lo fece… e rimase a bocca aperta. Sul pavimento non c’erano affatto puntine da disegno, bensì
innocue palline di carta stagnola a formare strani arabeschi, forme geometriche e figure quasi
umane. Luccicavano argentate al sole. Alzò lo sguardo verso Angela e si accorse che sorrideva.
“Ho comprato l’alluminio oggi, al supermercato”, spiegò.
Alessandro non fiatò per un istante.
“Ma… non erano minuscoli chiodi”, disse con un filo di voce.
“Ma tu non lo sapevi”, replicò la ragazza con semplicità, senza smettere di sorridere. “E hai
camminato sul filo di un rasoio lo stesso, nella tua mente.”
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Non appena ebbe metabolizzato il concetto, lui provò una gran voglia di ridere. E rise, una mano
sulla pancia e una sulla fronte.
“Hai un fazzoletto?”
“Addirittura?” lei ridacchiò, ma gliene recuperò un pacchetto dalla borsa e andò a porgerglieli.
“Scemo che non sei altro, credevi davvero che sarei stata così sconsiderata da rischiare di
infilzarti?” gli diede una pacca sulla schiena.
“Eh, non si può mai sapere…” lui iniziò a tamponarsi la fronte.
“La verità è che ti sei fidato di me.”
Alessandro sorrise e continuò a passare il fazzoletto sulla pelle sudata. Se si concentrava, sentiva
ancora l’eco del proprio respiro nella testa, ed era merito di entrambi.
“Sì. Mi sono fidato di te.”
“E ti fidi tuttora?”
“Sì.”
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XII.
Le avventure di Tommaso Mirano
Steso a pancia in giù sul pavimento di legno del casolare, Alessandro chiuse il libro di filosofia
con un colpo secco, facendo traballare il telefonino con cui aveva illuminato i fogli. Guardò Angela,
che aveva il mento tra i palmi delle mani e sgambettava nell’aria.
“Che cosa abbiamo imparato dalla lezione di oggi?”
“Che pur di smerdare gli ‘insipienti’ Sant’Anselmo si arrampicherebbe sugli specchi.”
“Esatto. Cioè, dài, lui dice che non bisogna confondere un’isola più perfetta delle altre con la
perfezione assoluta, ma se nella mente di Gaunilone – oppure nella mia mente – l’immagine
dell’isola corrispondesse alla perfezione assoluta? Mh?” allargò le braccia.
“Ciò non significherebbe automaticamente ‘l’isola esiste.’ Così come pensare che Dio esiste non lo
rende per forza veritiero.”
“Concordo.”
Angela giocherellò con la pagina del proprio diario, gli occhi bassi. Era come se avesse voluto
piegarla, poi a metà strada cambiava idea e la distendeva. Un lampo le illuminò la parte destra del
volto quando si decise a parlare:
“Senti, è da un pezzo che te lo volevo chiedere… tu ci credi in Dio?” lo fissò.
Lui fece spallucce.
“Non lo so”, rispose sincero. “Ho fatto Catechismo, ho preso la Comunione, ma ero più che altro
spinto da mia madre e mia sorella, avevo molti dubbi su quello che stavo facendo. Li ho ancora.”
“Come me.”
“Per il momento mi sono rifiutato di fare la Cresima. La farò quando mi sentirò pronto, semmai
arriverà quel giorno.”
“Idem. Papà non ha fatto grandi storie quando non ho voluto fare la Cresima, sai, dopotutto lui non
è praticante.”
“No?” Alessandro la osservò, interessato. “Mia mamma va in chiesa ogni domenica e non salta mai
la preghiera prima dei pasti. Non conosco nessuno a Acquarara che non faccia altrettanto. Nessun
adulto, almeno.”
“Già. Sai, forse, se vivi in una cittadina, le cose funzionano diversamente. Forse hai più impegni,
vieni a contatto con più ideologie, metti in discussione i dogmi… e non fai della religione il fulcro
della tua esistenza. Certo ci sono le eccezioni.”
“Ovvio. Ma cosa ne pensi tu nello specifico, Angela?”
Lei si stava rosicchiando un’unghia; a un tratto si morse il labbro e si passò i capelli dietro
l’orecchio.
“Da bambina ero legatissima a mia madre. Sai, Elisabetta Vittoriano. Quella che offriva le
caramelle alla menta a te e agli altri ragazzini che andavano a trovarla.”
Alessandro annuì, attento.
“Lei era una donna davvero religiosa, quindi mi aveva trasmesso un’immagine della fede positiva.
Mi diceva che le persone cattive andavano all’Inferno, quelle buone in Paradiso. Mi diceva che
Gesù mi amava tanto e che Dio aveva creato il mondo. E a me questo bastava. Poi è morta di
sclerosi multipla quando avevo dieci anni, anche se io avevo scongiurato la Madonna di salvarla.
Contemporaneamente, a scuola, sono venuta a conoscenza di altre religioni, altri modelli e altri stili
di vita. Mi chiedevo perché l’unica Verità dovesse essere il Cattolicesimo, chi lo avesse stabilito.
Ho scoperto delle tante porcate commesse dalla Chiesa in nome di Dio, l’Inquisizione, le
Indulgenze, le persecuzioni contro la Scienza, le Crociate, i roghi delle streghe e la pedofilia.
Notavo che gli adulti preferivano spiegarci queste cose in quattro e quattr’otto, evitavano le nostre
domande e continuavano a ripeterci che Dio era la luce, la Verità, la salvezza. Ma io avevo sete di
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sapere, non mi bastavano più queste risposte evasive, questi silenzi, queste spiegazioni date una
volta per tutte. Ogni volta che provavo ad esprimere un dubbio, anche minimo, mi sentivo dare
della scema. Ora guardo mio padre. Lui dice di essere credente, ma mangia carne il venerdì, non
prega, non legge la Bibbia, non va a messa, è stato con mia madre prima del matrimonio…
Suppongo che per lui, come per molta altra gente, la fede sia una questione di punti di vista. E io
non voglio essere un’ipocrita che si professa cattolica e nel frattempo si rigira la religione come le
pare, che crede a quello che le fa comodo e rigetta il resto. Adesso non so a cosa credere, e di certo
non voglio credere alla finzione.”
“Neanche io. Ma a differenza tua io non sapevo in cosa credere già da piccolo. Il Cattolicesimo
andava contro molti dei miei principi, e ci va contro pure ora.” Lui si guardò le unghie per qualche
secondo, incerto su come esprimersi. “Vedevo tutti gli altri bambini accettare passivamente i dogmi,
stavo zitto per paura di essere ripreso e diventavo sempre più diffidente...” Fissò Angela con
un’espressione che si augurò fosse risoluta. “Per quanto mi riguarda, al Catechismo ho imparato che
devo obbedire a chi si definisce autorevole andando anche contro la mia morale, che non posso
avere una visione mia della realtà ma devo seguire alla lettera la visione degli altri, che sono un
peccatore e devo vivere nel senso di colpa, che il piacere è immorale e il sesso è diabolico. A me, il
Catechismo ha insegnato solo a detestarmi, a colpevolizzarmi per tutto e a vivere nel terrore di
avere un’opinione diversa, altro che amore e tolleranza. Sono un insipiente? Forse. Ma molto
meglio essere un insipiente piuttosto che uno incapace di vedere più in là del suo naso.”
Il cuore gli galoppava per quello che aveva osato dirle. Una parte di lui era addirittura atterrita, si
figurava un’eternità di atroci sofferenze all’Inferno per queste convinzioni. Un mostro retaggio del
suo passato, del loro passato. E infatti lei lo anticipò:
“Non lo dirai a nessuno che la penso così, vero?” la domanda infantile le salì alle labbra, senz’altro
prima che potesse frenarsi.
“Certo. Resterà tra noi”, la rassicurò lui.
Angela gettò un’occhiata al libro di filosofia di Alessandro.
“Guarda tu che razza di discorsi ci fa fare Sant’Anselmo.” Sorrise tra sé e sé.
“Nah, dài, a me fa piacere parlare con te di queste cose. Sono cose che mi spaventano, ma mi fanno
anche stare bene una volta che le ho esternate. È… tipo…”
“Catartico?”, suggerì lei.
“Catartico.”
Nuovo silenzio.
“Però adesso posa ‘sto libro, per piacere. Facciamo una pausa dallo studio.”
Alessandro fece un sorrisetto e piegò la testa da un lato.
“Mi pesa il culo ad alzarmi… non è che lo metti a posto tu, eh?”
Angela sbuffò, gli diede una spintarella affettuosa e si alzò per posare il volume di lui nella borsa.
Alessandro chiuse gli occhi per un po’, la testa appoggiata a un braccio, ascoltando il suono
rilassante della pioggia. Meno male che entrambi si erano portati un ombrello e degli impermeabili,
un acquazzone così era raro da quelle parti.
“No!” esclamò la ragazza con voce sorpresa e divertita insieme.
Alessandro riaprì gli occhi e si accorse che lei aveva lo sguardo fisso all’interno della borsa.
“Che c’è?”
“Hai Le avventure di Tommaso Mirano come proposta di lettura?”Angela si voltò verso di lui.
“Sì. Lo conosci?”
“Lo hanno dato pure a noi!” lei sorrise con aria rassegnata. “Che pizza, eh?”
“No, aspetta, la parte in cui descrive le angherie dei suoi compagni dell’orfanotrofio è realistica e
interessante.”
“Quello magari sì… però nell’insieme è una noia mostruosa. Non è possibile che capitino tutte a
Tommaso, dài! Ha il morbo di Pott come Leopardi, è strabico, ha la erre moscia, è orfano, i suoi
compagni lo insultano, a diciott’anni viene cacciato dall’istituto, viene rapito da un ladro che si
scopre essere suo fratello maggiore, viene a sapere di essere l’unico erede di una fortuna immensa
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ma per averla deve rinunciare a quanto ha di più caro, scappa e viene investito da una macchina, si
risveglia all’ospedale con la dottoressa che lo aveva sempre trattato male all’orfanotrofio che in
realtà è sua zia e che gli racconta l’intera storia della sua famiglia... che palle!” lei alzò la vista al
soffitto. “E poi lui è un inetto piagnucoloso senza spina dorsale… Ancora mi chiedo come abbia
fatto a vincere un Premio Strega l’anno scorso.”
“Secondo me perché è stato pubblicizzato a destra e a manca e i giornalisti lo hanno definito
L’Oliver Twist italiano.”
“Probabile”, Angela annuì pensierosa. “Meno male che Le avventure di Tommaso Mirano è lungo
solo trecento pagine.”
Ad Alessandro venne da sghignazzare.
“No, dico sul serio, se fosse stato un mattone non lo avrei retto.”
“Non ridevo per te, pensavo alla dottoressa Loiacono. Alle sue visite mediche a Tommaso una volta
al mese.”
“E allora?” lei era perplessa.
“Nel libro non vengono mai descritte, se ne parla soltanto in breve. Tu non ci hai mai speculato
sopra?”
Angela spalancò gli occhi e sghignazzò anche lei.
“Ma dài! Veramente hai pensato che lo molestasse?”
“Pensaci, lei già lo trattava da schifo, lo controllava e lo puniva, figurati cosa potrebbe avergli fatto
durante quelle cosiddette visite”, disse il ragazzo in tono arguto, allargando le braccia. “Mi sembra
molto coerente con il personaggio, nel caso.”
“In effetti…”
“Sarebbe figo interpretarli.” Alessandro le studiò il viso con attenzione.
Angela sbatté le palpebre.
“Intendi… adesso?”
“Sì. Adesso. Tu fai la Loiacono e io faccio Tommaso. Sperimentiamo.”
Lei rifletté per qualche secondo, le labbra assottigliate e la fronte corrugata. Infine disse:
“Perché no? Mi è già venuta un’idea.”
“Bene.” Alessandro si sollevò da terra.
“Ora non ti pesa più il culo, eh?” ridacchiò Angela inarcando un sopracciglio.
“Proprio no.”
“Tieni.” Lei si sfilò la sciarpa di lana viola dal collo e gliela lanciò. Lui la prese al volo.
“Che ci devo fare?”
“Mettitela. Facciamo finta che la Loiacono lo abbia bendato e trascinato nell’ospedale.”
Alessandro se la sistemò sugli occhi e la annodò dietro la nuca alla bell’e meglio.
“Sei pronto?” volle sapere lei quando lui abbassò le braccia.
“Sì.”
“Ok, cominciamo. Ricordati di fare la erre moscia.”
Alessandro rimase in attesa. Sentì che Angela si alzava, veniva verso di lui e cominciava a girargli
intorno.
“Allora…” esordì lei, e ad ogni passo la voce si faceva sempre più sorniona e minacciosa, “signor
Tommaso Mirano…” lui poteva quasi sentirla alitargli sul collo, “…tu mi hai mancato di rispetto.”
“Io? No, non è vero, signora, glielo giuro!” disse Alessandro con voce strozzata.
“Non rifilarmi queste stronzate!” abbaiò Angela. Si ricompose: “Dicevo… tu mi hai mancato di
rispetto. È un dato di fatto. Ti sei rifiutato di venire a fare la tua visita medica mensile, e non una
sola volta, bensì quattro. E come ti sei giustificato? Rispondimi, Mirano.”
“Ho…” lui si morse le labbra. “Ho detto di essere impegnato con le pulizie dell’istituto e di non
avere il tempo di badare alla mia salute.”
“Esatto. Peccato che in tutte le mie peregrinazioni al di fuori dell’ala dell’ospedale non ti abbia mai
visto intento a pulire niente!” e sputò quella parola con una tale veemenza da farlo trasalire.
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“S… signora Loiacono… la prego…” Alessandro pensò che era fantastica nei panni di una maniaca
sessuale.
“Ti ho seguito. Ti ho osservato, Mirano, finché eri in circolazione. E ho… persuaso…” ora la voce
di lei era un sibilo di serpente, “… gli altri ragazzi dell’orfanotrofio a dirmi dove ti eri nascosto. È
stato difficile, sai. Piangevano, si dimenavano, urlavano, non erano affatto disposti a collaborare.
Ho dovuto punirli in più di una circostanza per la loro insolenza. Ma alla fine ho racimolato le
informazioni di cui avevo bisogno. A quanto pare te ne stavi tutto solo in camera tua…”
“Signora Loiacono, io…”
“… Barricato dentro, come per timore che qualcuno potesse venire a trovarti…”
“…La supplico…”
“… Sotto le coperte, fingendo un sonno profondo e rifiutando qualsiasi offerta di chiamare la
dottoressa Loiacono…”
“… La scongiuro…”
“Silenzio!” gli assestò una manata micidiale nella schiena. Alessandro si lasciò sfuggire uno squittio
terrorizzato. Angela inspirò dal naso e la sua voce tornò ambigua e sibilante:
“Un mangiapane ad ufo. Un bugiardo patentato. Un ingrato.”
Lo costrinse ad alzare il mento.
“Non solo hai mancato di rispetto a me, Tommaso Mirano, ma anche all’intero istituto. La gente
così merita una punizione.”
L’altra mano di lei tornò sulla sua schiena. Prese ad accarezzargliela in maniera così lasciva che
gli si accapponò la pelle.
“Cos’è che non ti piaceva delle mie visite? Forse… questo?” e la mano sulla schiena scese
terribilmente in basso.
“O questo?” e la mano si serrò, come una fiera che morde la carne.
“S-Signora L-Loiac-cono, lei n-non può…” balbettò il ragazzo.
“Oh, io posso tutto, mio caro. Potrei decidere di darti una punizione così severa da farti rimpiangere
le mie visite. Ma siccome la salute viene prima di tutto…” finalmente la ragazza lo lasciò e riprese a
girare in cerchio. “…oggi riprenderemo i tuoi controlli da dove li avevamo lasciati l’ultima volta.”
Calò un silenzio carico di attesa impotente per Alessandro.
“Non mi mancherai mai più di rispetto in quel modo. Sono stata chiara?”
La udì allontanarsi, e provò un momentaneo sollievo, mitigato dalla consapevolezza che non era
finita lì.
“S… sì, signora.”
“Così va meglio. E adesso voglio che tu segua alla lettera le mie istruzioni. Voglio che tu ti tolga di
dosso maglietta e pantaloni e che rimanga fermo fino a quando lo desidererò.”
Alessandro si sentì avvampare. Lui era pudico ai massimi livelli, tanto da chiudersi a chiave in
camera propria se doveva cambiarsi, tanto da urlare “Vattene subito!” se era in bagno e qualcun
altro aveva urgenza, tanto da essersi fatto la doccia a casa e non insieme agli altri nel periodo in cui
sua madre lo aveva obbligato a frequentare la palestra “come tutti i veri uomini”. Doversi esporre
così, anche se Angela era una sua amica fidata, gli costava parecchio.
“La prego…”
“Vuoi mancarmi di nuovo di rispetto, Mirano?”
“N-no.”
“E allora obbedisci. In silenzio.” La voce era implacabile, definitiva.
Con una lentezza esasperante, Alessandro infilò le dita sotto la maglietta e la sollevò.
Quell’ammasso di verde e grigio cadde a terra con un fruscio. Trovò a tentoni la cerniera dei jeans e
li spinse giù, rimanendo in mutande.
“Ora voglio che ti togli anche quelle. In silenzio.”
Le mani di lui si strinsero lungo il bordo delle mutande. Strizzò gli occhi, pieno di disagio ed
esaltazione. Presto o tardi avrebbe dovuto eseguire gli ordini. Ed eseguì.
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Non mosse un muscolo per quella che gli parve un’eternità, un freddo leggero sulla pelle nuda.
Fuori, la pioggia cadeva fitta, il vento faceva scricchiolare i rami di qualche albero, un cane
abbaiava in lontananza. Dopodiché udì un sospiro tremolante da parte di Angela. Non aveva la
minima idea di cosa lei stesse facendo, di cosa stesse pensando, di dove stesse guardando. Questo lo
intrigava e lo sgomentava. Immaginava cosa sarebbe avvenuto se li avessero beccati in quel
momento, in che modo avrebbero travisato, e la situazione acquistava fascino e rischio. Avrebbe
tanto voluto serrare i pugni, ma non poteva muoversi. Pregò che finisse presto e che non finisse mai,
quella sensazione di eccitazione terrea, sentiva di essere inerme contro il Caso, fino a quando un
rumore di passi non fece scricchiolare il pavimento. Ebbe coscienza delle dita che gli toccavano il
volto, gli sfioravano i capelli e si chiudevano dietro la sua testa, ad armeggiare col nodo della
sciarpa. Questa gli scivolò dagli occhi e la prima cosa che vide fu Angela, di fronte a sé. Sorrideva.
Aveva le guance scarlatte e il respiro accelerato. Lo attraversò l’idea che si fosse…
“Ora puoi rivestirti, Alessandro. Non ho altri comandi per te.”
“Grazie”, mormorò lui, provando un meraviglioso senso di libertà dopo tutta quella tensione
emotiva.
“Grazie”, mormorò lei in risposta. Gli voltò le spalle e andò a rovistare nel suo zainetto.
Alessandro si tirò su mutande e pantaloni, con dita maldestre. Nel recuperare la maglietta, gli
passarono per la mente le migliaia di cose che lei poteva aver fatto mentre lui non la vedeva. Si
disse che di queste cose nulla avesse avuto a che fare con quello. Non era possibile. Non perché
credeva che le ragazze non ne fossero capaci, ma perché avrebbe significato che lei era attratta da
lui in quel senso. E siccome Alessandro non era né bello, né affascinante, né solare e simpatico,
quella deduzione era una sciocchezza.
“Finito?”
“Sì.”
Angela tornò a guardarlo. Reggeva un altro volume di scuola tra le mani.
“Vieni, Numero Uno, fine della pausa. Ora tocca alla matematica. Vuoi un po’ di Coca Cola?”
“Sì, ok.”
“Ho portato anche due barrette per merenda.”
“Che pasto sostanzioso…”
“Ah, ah, come sei simpatico.”
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XIII.
Prima di andare a dormire
Meraviglioso. Angela lanciò la sua sacca sul divano, si tolse la giacca e la appoggiò a una delle
sedie attorno al tavolo. Lui è meraviglioso.
Stavano parlando di Dr House MD quando lui l’aveva riaccompagnata a casa, dopo aver cenato
insieme da Sale & Pepe. Era saltato fuori che lui era un fan accanito, mentre lei aveva visto e
apprezzato qualche puntata della prima serie le volte in cui era riuscita a beccarlo in tv.
“Io ho il cofanetto della seconda stagione in DVD. Ho risparmiato per mesi pur di potermela
permettere, e ti assicuro che ne è valsa la pena.”
“Eh, tutti quelli che seguono House mi hanno detto che la seconda è più bella della prima.”
“Se ti interessa te la presto.”
“Mi faresti un grandissimo favore se lo facessi. Voglio imparare tutto di Gregory House.”
“Anzi, sai cosa? Te la regalo proprio.”
“T-tutta la seconda serie?”
Angela aveva arrestato la bici rischiando di perdere l’equilibrio, spiazzata. Alessandro non aveva
fatto una piega.
“Sì, tanto la so a memoria.”
“Mi… mi lusinga che tu voglia darmela, Alessandro, ma sul serio, non ti devi privare di una cosa
che ti piace per…” la voce le scemò dinanzi all’espressione di lui.
“Tu la vuoi, vero?” il tono era determinato, irremovibile.
“Sì, mi piacerebbe un sacco averla, ma è tua e…”
“E allora giuro che se non te la prendi mi metto a citarti a memoria tutti gli episodi!”
Quando lei aveva rifiutato ancora era partito un battibecco amichevole in cui Alessandro aveva
iniziato a declamare ogni singola battuta del primo episodio della seconda serie, Accettazione, per
romperle le scatole, e Angela si era scherzosamente tappata le orecchie intonando “Lalalalalala,
tanto non ti sento!”
Tra una risata e l’altra, erano arrivati sotto casa di lei.
“Te la porto domani, ok?”
La ragazza aveva annuito, felicemente arresa ad Alessandro. Di colpo, aveva provato il desiderio
di dire qualcosa di così grande da poter esprimere tutto ciò che la sconvolgeva quando era con lui.
L’impulso le era cresciuto dentro, lo aveva sentito salirle alle labbra, però non glielo aveva detto, né
l’avrebbe mai fatto. No. Non voleva rovinare nulla del loro rapporto. Per quanto la facesse soffrire,
meglio lasciare le cose come stavano, perché certamente lui non ricambiava il suo amore.
Era di amore che si trattava, vero? Non di un’infatuazione superficiale. Non sapeva dire quando di
preciso era successo, ma da un bel po’ di tempo a quella parte, nei momenti a metà tra la veglia e il
sonno, Angela non poteva fare a meno di pensare al suo viso tondo e paffuto, ai suoi grandi e
brillanti occhi scuri, alle sopracciglia cespugliose e dritte che gli rendevano lo sguardo serio.
Pensava ai suoi folti capelli castani, nei quali avrebbe voluto affondare le mani. Alle sue guance
lisce, non deturpate dalla barba come per la maggior parte dei suoi coetanei, che avrebbe
accarezzato volentieri. Alle sue labbra piene che avrebbe baciato molto più che volentieri. Trovava
teneri i suoi chili di troppo, affascinanti le sue mani affusolate, bello il suo corpo, tanto quanto la
sua mente.
Con lui sentiva di poter essere se stessa. E insieme erano una cosa sola.
Alla fine aveva fatto qualcosa, qualcosa che aveva espresso la sua gratitudine, la sua gioia e il suo
sentimento solo a metà. Gli aveva dato un bacio sulla guancia. Poi era sgattaiolata nel giardino in
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fretta e furia, imbarazzatissima e al settimo cielo, senza preoccuparsi di controllare l’espressione di
Alessandro.
Adesso seppe di arrossire di nuovo. Si stese sul divano-letto e prese a pronunciare il nome di lui
più e più volte, ridacchiando, guardando il soffitto, ridacchiando ancora.
Per la prima volta non mi sono rimpinzato stasera, si disse Alessandro mentre saltellava per
infilarsi il pantalone del pigiama. Dovette sorreggersi ad una sedia pur di non perdere l’equilibrio,
ma questo non riuscì a guastare il suo umore.
Praticamente aveva alternato un boccone a una frase, perché con Angela la comunicazione non
moriva mai. Ed era stato come se qualcosa dentro di lui fosse consapevole di quando fermarsi per
non avvertire quella sensazione di pienezza fino a scoppiare e di senso di colpa. Avrebbe dovuto
organizzare più cene con lei – genitori permettendo.
Forse sto proprio acquistando un maggiore autocontrollo.
Andò a mettere il cellulare in carica… e l’occhio gli cadde sull’interruttore della luce. Si morse il
labbro. Gli era venuta la tentazione di spegnerla, per una volta. Di provare a controllare anche la sua
paura del buio, oltre al suo impulso di abboffarsi.
No, era impossibile. Non l’avrebbe superata mai.
Ma era davvero tanto impossibile? Lo aveva confessato anche ad Angela tempo fa, quando
credeva che non ne avrebbe mai parlato ad anima viva.
… E di colpo, così come aveva rivolto la mente ad Angela, seppe cosa doveva fare.
Chiuse gli occhi e la immaginò davanti a sé, nel casolare, l’espressione seria e austera delle loro
sessioni.
Ti ordino di spegnere la luce, Alessandro.
La spense. Fece una corsa verso il letto e si ficcò sotto le coperte. Rimase immobile per un po’, ma
il terrore paralizzante che si aspettava non venne. Aveva solo un timore leggero, sfumato, che
aumentava e diminuiva.
Chiuse di nuovo gli occhi e fantasticò di vederla con l’espressione dolce e benevola dei loro
aftercare.
Bravissimo. Sapevo che ce l’avresti fatta. La gente intorno a te continua a tentare di farti credere
che sei un incapace. Ma tu non credere alla finzione.
Non crederò alla finzione, sentenziò Alessandro con un sorriso. E per qualche motivo, forse
perché non si sentiva appesantito o frustrato, forse perché non era atterrito, forse perché il pensiero
di lei era caldo, amorevole e confortante, impiegò pochissimi minuti ad addormentarsi.
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XIV.
L’ispezione
Angela finì di leggere sottovoce la recensione di Hot Fuzz di Alessandro. Lui, steso accanto a lei
con le loro borse a fargli da cuscini, attendeva il resoconto, e nel frattempo le fissava il profilo
regolare, pallido, dal naso grosso e il bacino stretto. Tutto in lei emanava concentrazione, anche se
poteva vedere soltanto la metà di lei che non era messa in ombra dai giochi di luce del casolare. A
giudicare dal ritmo con cui muoveva gli occhi, stava andando spedita.
E all’improvviso girò la testa verso di lui e il sole le illuminò l’intera faccia.
“Bella. Molto dettagliata. E zero errori di grammatica”, disse passandogli il foglio.
“Grazie.” Alessandro lo prese e se lo piazzò davanti agli occhi, reggendolo con le mani.
“Mi piace il fatto che hai alternato senza problemi termini gergali – quando dovevi esprimere il tuo
commento – e termini tecnici – quando dovevi parlare nello specifico di cast, regia e company. Io in
inglese tendo sempre ad essere molto scolastica e piatta, con un unico stile.”
“Ri-grazie, ma… a me tutta la parte finale non convince.”
“Perché?”
“Perché conoscendo il professore si aspetta un gran finale.”
“Allora potresti, uhm… spostare le prime righe, in cui dicevi che non te lo aspettavi così
accattivante e originale, verso la fine. Lo potresti rielaborare un po’, nel senso… invece di negare,
della serie ‘I didn’t expect’, potresti affermare le sue qualità.”
“Grande, Angela. Farò proprio così, a casa.” Lui si lasciò scivolare il foglio oltre la testa, sul
pavimento, e il fruscio che fece mentre svolazzava verso terra come un fantasma gli diede uno
strano piacere. Doveva essere il sole tenue, invernale, doveva essere l’atmosfera calma e
sonnacchiosa delle tre del pomeriggio, ma sentiva una grande pace dentro di sé.
Guardò il soffitto e sorrise. “Come hai detto che era, la mia pronuncia in inglese?”
“Un macello, non si capisce se sia British English o American English.” Lei ridacchiò apertamente.
“Oh, dear, I deeply apologise, it must be annoying as fuck, changing your style like this!” anche lui
rise.
“I’d rather not say this to my teacher.” Angela alzò un sopracciglio, allegra.
“Yeah, better not.”
“Perfetto. Allora, se devo stare alla tua recensione, è un film da vedere?”
“Assolutamente sì. Non è un capolavoro e non è nemmeno il mio genere, ma è molto divertente.”
“Me lo segno. A parte questo hai visto qualche bel film di recente?”
“No, nessun altro. In compenso Irene è andata in fissa per Ufficiale e Gentiluomo. Glielo ha
consigliato Edoardo, e ormai se lo guarda ogni sera.”
“Mai visto.”
“Non te lo consiglio proprio, è un filmetto”, sghignazzò Alessandro.
“Di che parla?”
“Mah, sai… così a grandi linee è una storia d’amore e di disciplina.”
“Disciplina? Oh, diavolo, allora devo vederlo anche per te.” Lei gli diede una gomitata scherzosa
che gli strappò un altro mezzo sorriso.
Lui chiuse gli occhi e ascoltò il canto degli uccelli, fuori dal casolare. Aveva una mano sul petto,
ma sotto tutti quei vestiti non riusciva a sentire il suo battito cardiaco. Per qualche motivo sapeva
che fosse accelerato, anche se non aveva motivo di accelerare. Forse era l’atmosfera a stare
cambiando… si stava trasformando in un’atmosfera da esperimento.
60
“Non abbiamo mai sperimentato affidandoci alla sfera militare”, rifletté ad alta voce prima di
realizzarlo con la ragione. Lasciò passare un paio di secondi; poi, quando stava per riaprire bocca,
Angela lo anticipò come lui aveva voluto:
“A te piacerebbe?”
“Sì.”
Alessandro percepì un movimento alla sua sinistra; aprì un occhio e vide che lei si stava alzando in
piedi. La imitò.
“Mettiti di fronte a me.”
Lui eseguì e Angela lo osservò per qualche istante. Ancora Alessandro non sentiva il battito
cardiaco, ma c’erano delle onde sotto la pelle. Onde di…
“Sull’attenti!” urlò Angela.
Adesso il cuore gli fece un brusco sobbalzo, in preda alla sorpresa. Lui scattò subito, il petto in
fuori e la pancia in dentro.
“Talloni uniti, soldato!”
Alessandro la assecondò senza fiatare. Il mondo si era velocizzato senza di lui, e ora doveva
cercare di stare al passo.
“Bene!” commentò Angela sprezzante. “Bene…” si mise a marciare su e giù, sotto gli occhi
dell’altro. “Non conosce neppure le basi, soldato James…”
Il ragazzo decise di improvvisare.
“Mi… mi perdoni… Tenente Motton.”
E così entrambi erano stati battezzati. All’improvviso, lei gli si parò dinanzi, il mento in su e l’aria
truce. Straordinario come potesse destreggiarsi tra stati d’animo così diversi.
“Soldato James, lei ha bisogno di disciplina”, sentenziò.
“Sissignore, ha proprio ragione”, si affrettò ad annuire lui.
“Non mi interrompa quando parlo!” sbraitò la ragazza, e le vene del collo le si gonfiarono.
“Mi scusi, signore.”
Angela riprese la sua “passeggiata” con le mani dietro la schiena.
“Non voglio più sentire il Sottotenente lamentarsi della sua condotta, soldato.”
Alessandro si era così immedesimato che seguiva il movimento dei piedi di lei con apprensione.
“Lei è pigro. È debole e viziato. E quel che è peggio, lei fa uso di sostanze illegali!”
“No—nossignore, non l’ho mai fatto.”
“Non provi a contraddirmi mai più, soldato James, o c’è il deferimento al Tribunale militare!”
strepitò Angela, sputacchiando goccioline di saliva.
Il ragazzo si raddrizzò al punto da sembrare uno stoccafisso.
“Sappia che mi hanno mandato con lo scopo preciso di rimetterla in riga.”
Lui deglutì.
“Ora la sottoporrò a un’ispezione, soldato. Si tolga tutto di dosso. Immediatamente!” ringhiò lei.
Per la seconda volta, Alessandro iniziò a slacciarsi le scarpe, a sollevare il maglione, a sbottonarsi
la camicia. Tentava di farlo con gesti composti, che non lasciassero trasparire il suo nervosismo.
Ascoltò se stesso inspirare ed espirare mentre si spogliava, perché quel suono lo teneva ancorato
alla Terra, lo manteneva lucido. Il freddo era molto più intenso dell’ultima volta che si era spogliato
davanti a lei, e iniziò a tremare leggermente. Eppure qualcosa gli diceva che non stava tremando
solo per quello. Le studiò l’espressione, ma non ci lesse nulla che potesse aiutarlo, doveva solo stare
lì ad ipotizzare.
“Ora le concederò di darmi le spalle, soldato James.” L’altra strinse gli occhi e incurvò un angolo
della bocca all’insù.
Lui ubbidì, e osservò le proprie ginocchia e il ventre sporgente farsi tagliare a metà dall’ombra
proiettata dal davanzale della finestra. Si impose di non fare domande; doveva fidarsi.
“Bene, così… Si chini con le braccia penzoloni e la schiena molle. Molle, ho detto. Si rilassi.”
Chinò il corpo e la testa, a faccia in giù nell’ombra. Se adesso avesse chiuso gli occhi avrebbe
visto solo nero.
61
Con un dito lei gli toccò una scapola, poi passò su tutta la sua colonna vertebrale. Lui si irrigidì.
“Se mi creerà problemi durante quest’ispezione le farò ficcare la testa in una latrina”, lo ammonì lei.
Al che riprese a sfiorarlo, a partire dalla colonna vertebrale e poi a destra, a sinistra, in su e in giù.
Era fin troppo calma, e quel contatto era fin troppo delicato. Cos’aveva in mente, per la miseria? Per
la…
“E se ti prendessi da dietro, cagna? Ti piace il mio manganello?” Quella pioggia di aghi sottilissimi
sulla schiena dovevano essere i capelli di lei. Si stava abbassando verso il suo volto.
“Cos’è, non hai fiato per rispondere?” lo provocò, e le sue parole furono un soffio nell’orecchio che
lo fece rabbrividire di nuovo. Respirava davvero come un cagnolino o era un’impressione?
“Sei solo una cagna in calore. Non riesci neppure a stare fermo, e ringrazia la puttana che ti ha
partorito in un cesso di autogrill che mi stia arrapando pure io, sennò ti avrei già sfondato il cranio a
manganellate.” Gli mordicchiò il lobo, e le ginocchia di lui si piegarono in avanti prima che le
raddrizzasse, e prima che Angela le intrappolasse tra le sue gambe.
“Stia dritto, bastardo.” Gli scivolò via di dosso provocandogli una certa delusione e lo toccò ancora,
stavolta solo con le mani.
Alessandro aveva sempre sentito il contatto fisico come un’invasione. Abbracciava i parenti solo
per dovere, per non incorrere nell’ira di sua madre, però non gli piaceva affatto, rimaneva lì come
un pezzo di legno. Anche adesso Angela lo stava invadendo, mentre le sue mani scivolavano lungo
le sue gambe, risalivano verso le cosce, percorrevano la schiena fino alle spalle e affondavano nei
capelli… ma stavolta era un’invasione piacevole, addirittura necessaria, che accarezzava qualcosa
di profondo dentro di lui. Realizzò solo a poco a poco che in realtà quello che Angela gli stava
facendo era lasciargli comprendere il suo corpo. Lasciarglielo amare, lasciare che lui smettesse di
considerarlo uno stupido ammasso di lardo e lo vedesse per quello che era.
Così si abbandonò a lei, assecondò le sue mani, chiuse gli occhi e cessò di controllare dove lo
toccava, concentrato sul fuoco che aveva nel bassoventre, sui brividi che gli correvano lungo la
schiena, brividi che non avevano nulla a che fare con la sua paura del buio, non se avesse continuato
a restare lì faccia a faccia con se stesso, a sentire quelle farfalle nello stomaco, e quel piacere che
non sarebbe riuscito a contenere ancora per molto, non se lei…
Angela ritrasse le mani.
“Le ho forse concesso di venire, soldato?” ringhiò.
“N-no, signor Tenente. Mi scusi.” Sapeva di averlo detto, ma la sua voce gli giunse da un posto
lontanissimo e non riuscì a decodificarla.
“E allora si dia un contegno. Si rivesta, l’ispezione è finita.”
Alessandro ubbidì, ma si lasciò sfuggire anche un sorriso nel passare accanto a lei. Era un sorriso
in cui c’era un po’ di tutto: delusione che fosse finita così presto, timore di non essere stato
all’altezza, vergogna che lei lo avesse visto in quello stato, gratitudine per quanto gli aveva fatto.
Umiliazione, sottomissione e una specie di trionfo.
Andò a infilarsi la maglietta, con un’eco di sensazioni tattili addosso, e udì Angela alle sue spalle:
“Disgustoso, gemeva come un verginello. Riceverà i risultati dell’ispezione tra sei giorni.”
“Grazie, signor Tenente.”
Ci fu silenzio, almeno finché lui non finì di vestirsi. Quando si stava tirando su la cerniera dei
jeans, chiese: “Come sono stato, Angela?”
Lei rispose, e in quella voce c’era un sorriso che rifletteva tante sfaccettature quante un prisma:
“Bravissimo.”
62
XV.
A lezione da Alessandro
“Bene!” Alessandro si appoggiò alla colonna del soggiorno con un sorrisone, facendo sobbalzare
madre e sorella. “Avete preso tutto? Le chiavi? I soldi? Lo spuntino di metà mattinata?”
“Alessandro, è la quarta volta che ce lo chiedi”, lo rimbeccò la madre.
“Su, forza, è ora di affrettarsi, troverete gente se non vi sbrigate!” lui prese Irene per un braccio con
ostentata allegria e la condusse sulla soglia della porta. Aveva il cellulare pronto in tasca da quando
aveva finito di prepararsi, quella mattina alle sei. Ora erano le otto e quelle due se ne stavano ancora
lì! Doveva prendere provvedimenti.
“Scusa, che hai intenzione di fare invece di venire con noi?” domandò Irene perplessa.
“Oh, guarderò un po’ di televisione, leggerò, andrò a fare la spesa e mi porterò avanti con lo
studio”, rispose prontamente il fratello.
Sua madre si accigliò, incredula.
“Alessandro, cosa stai…”
“Presto, presto, è ora di andare!” lui afferrò il cappotto a scacchi di sua madre e quello rosa di Irene
e glieli passò.
“Ricordati di comprare anche l’origano, la pasta e…” cominciò Irene.
“Sì, sì, c’è scritto tutto sulla lista!” il ragazzo la tirò fuori dalla tasca e la distese: “Uova, latte,
farina, detersivo per piatti, bicchieri di carta, aceto, origano, pennette, fusilli… devo continuare?”
“No, credo che mi basti così…” sospirò Nina.
“E allora in marcia! Massa Lubrense non si sposta, siete voi che dovete raggiungerla!” Alessandro
aprì la porta, ci spinse Irene fuori e seguitando a dire una cascata ininterrotta di “prego, sta’
tranquilla, divertitevi, non pensate a me” fece strada alla madre. Dopo un ultimo “Ciao, fate
presto!” sbatté loro la porta in faccia e, appoggiatocisi contro, prese a digitare un messaggio sul suo
cellulare.
Dall’altra parte dell’uscio, Nina Salti fissò la figlia maggiore con aria dubbiosa. Alessandro aveva
dato una replica troppo dettagliata per i suoi standard quando gli avevano chiesto cos’avrebbe fatto,
visto che di solito a quesiti simili rispondeva “niente”. Si era svegliato addirittura prima di loro,
quando in genere preferiva poltrire sino a tardi. Ed era stato troppo gentile e partecipe, invece che
abulico e indifferente come sempre. La cosa l’aveva insospettita parecchio.
“Non hai la sensazione che ci stia buttando fuori di casa?”
“Lo ha già fatto…” sospirò Irene. “Vieni, Alessandro ha ragione. Massa Lubrense non si sposta.”
E presa la madre sottobraccio si avviò giù per la strada illuminata dal primo sole mattutino.
Angela si rigirò nel sonno. Si rannicchiò come un gatto, per il freddo, e rimase immobile in quella
posizione finché non fu destata bruscamente dal trillo che annunciava un nuovo SMS. Socchiuse gli
occhi, grattò via la cispa e lasciò passare un paio di minuti; gettò via le coperte fin troppo leggere e
trascurando il proprio tremolio arrancò verso il tavolo sul quale aveva appoggiato il telefonino.
Giuro che se mi sta finendo di nuovo la ricarica mi metto a urlare… no, non posso, papà si
incazzerebbe da morire.
Si sorresse allo schienale di una delle sedie e lesse: Alzati e cammina, il sabato non è fatto solo per
dormire. Ti aspetto a casa mia.
Alessandro, pensò lei con un sorriso. Posò il cellulare e si diresse verso il bagno per chiudercisi
dentro, del tutto sveglia.
63
“Bene arrivata, pigrona!” la salutò Alessandro quando venne ad aprire. Aveva un sorriso smagliante
e un’enorme felpa blu addosso.
“Sì, scusa, ho visto troppo tardi il tuo messaggio…”
“Tieni.” Lui la anticipò ficcandole in mano un CD e dirigendosi verso la lavanderia. Alla ragazza
bastò un rapido sguardo alla copertina per capire tutto: Last Days and Time degli Earth, Wind and
Fire.
“Oh… alla fine lo hai comprato?” disse sorpresa e lieta. Strinse le gambe e si strofinò
l’avambraccio con la mano libera, sia per scaldarsi sia per un gradevole imbarazzo.
“Certo. Sono stato a Sorrento apposta. Mettilo nello stereo, ci servirà”, replicò lui con aria assorta e
a voce un po’ più alta del consueto, senza smettere di rovistare. Angela udiva il rumore di oggetti
che cozzavano tra di loro.
“D’accordo. A che ci servirà?” lei accese lo stereo e inserì il disco, in attesa che lui tornasse.
“Sarà il nostro sottofondo musicale mentre lavoreremo. Mamma e Irene sono al mercatino, quindi
non c’è pericolo che ci disturbino. Abbiamo l’intera casa a disposizione.”
Il tono di lui era allegro e soddisfatto.
“Ah, perfetto. Ma aspetta un attimo…” la ragazza avvicinò le unghie alla bocca d’istinto. “…mica
avrai intenzione di sperimentare qui?”
“No. Cercavo solo di prepararti per la tua prima lezione di Faccende Domestiche.” Finalmente
Alessandro ricomparve in soggiorno. Aveva in mano una scopa e un secchio colmo d’acqua
saponata.
Angela spalancò gli occhi. Le sembrò che a un tratto l’intera stanza fosse stata avviluppata in una
coperta calda e morbida, dello stesso colore della felpa di lui.
“Di… dici davvero?” moriva dalla voglia di abbracciarlo, ma tenne le mani a posto.
“Sissignora.” Il ragazzo si schiarì la voce e declamò con fare pomposo: “Oggi ti renderò edotta sui
misteri delle Pulizie dei Pavimenti, poi proseguiremo con le Superfici Riflettenti e i Soprammobili,
apprenderai come si cambia una lampadina fulminata, mi sarai d’ausilio nella tribolazione della
Spesa e infine ti illustrerò i segreti della Pastasciutta. Naturalmente dovrai dimostrare di aver
recepito i miei insegnamenti rimettendo a nuovo la cucina, più tardi.”
La ragazza rise di cuore, e lui mise su un’aria falsamente indignata.
“Non c’è niente da ridere, screanzata, ti metterò in difficoltà con la Pulitura dei Pomodori se
continui!”
“Sono preparata a tutto, Professore.” Angela fece spallucce e afferrò la scopa, che quasi le sfuggì di
mano.
“Regola Numero Uno: la scopa si impugna così…”
64
XVI.
Il battipanni
Alessandro stringeva il battipanni tra le mani, le ginocchia che tremavano lievemente. Guardava
Angela, gli occhi stretti per via della luce che la colpiva in pieno viso, sulla soglia del casolare.
“Lo hai portato”, puntualizzò lei.
Lui strinse di più la presa sull’oggetto.
“Sì.”
“Mi sono esercitata tutta la settimana per non farlo troppo forte o in maniera pericolosa.”
“Vuoi dire che lo hai sperimentato anche su di te?”
“Una specie. Allora, cominciamo?”
“D’accordo. Tu sarai la contessa Du Barry e io il tuo servo.” Lui poggiò il battipanni a terra ed
entrò del tutto, facendola arretrare.
Poi la ragazza fece un altro passo indietro, nell’ombra. Un movimento fluido ed aggraziato. Iniziò
a tremare anche lei, ma di collera. Il che contribuì a dargli un brivido di eccitazione.
“Jean Delamar, questo è il nome con cui ti conoscono tutti, a Versailles.” Anche la voce le tremava.
“Ma io sono l’unica a conoscere quello reale. Ed è Ladro.”
Il cuore iniziò a battergli più velocemente. Decise che avrebbe negato.
“Contessa Du Barry, in tutta onestà non capisco di cosa stiate parlando.”
“Ah, non lo capisci?” lei fece un sorriso orribile, privo di gioia. “Te lo spiego io, ladruncolo che non
sei altro. Tu avevi il compito di pulire le mie stanze. Pulire, che è la sola cosa per cui un miserabile
come te esiste. E invece hai derubato una nobildonna.”
Alessandro strinse i pugni e tentò di assumere un’aria di spaventata dignità.
“Ancora non capisco di cosa…”
“La collana!” lo interruppe lei, perdendo il controllo all’improvviso. “La mia collana di smeraldi,
regalatami dal Re in persona! Dovresti essere impiccato per questo, Ladro!”
E scaraventò un oggetto immaginario a terra. Alessandro fece un balzo indietro come per evitarlo.
“Se la vostra collana di smeraldi è sparita io non c’entro nulla, Contessa.”
“Sei un bugiardo, oltreché un Ladro!” strillò la ragazza.
“Probabilmente ve la siete giocata alla Roulette senza neanche rendervene conto” e mascherando la
paura, Alessandro si concesse un ghigno.
Angela arretrò come se lui le avesse dato uno schiaffo.
“Come osi, razza di plebeo, lurido verme… una donna d’alto rango quale io sono, giocare ad un
ignobile…”
“Sappiamo tutti dei vostri vizi, sappiamo tutti in che modo vi siete impossessata di quel titolo
nobiliare, signora.” Il ghignò divenne più ampio, e lui si stupì dell’audacia con cui la stava
sfidando. “Come avete ucciso il Conte Du Barry e come avete sedotto Sua Maestà.”
“Tu…” la ragazza era così sconvolta da non riuscire a proferire nulla di sensato. “Tu, tu, tu! Ladro
sconsiderato, demonio!”
Picchiò il pugno su una cassettiera immaginaria. La somiglianza con le volte in cui sua madre
aveva compiuto il medesimo gesto fu tale che il cuore di Alessandro sbatacchiò contro le costole.
Aveva cominciato a sudare freddo, ormai.
Angela si volse verso di lui ansimante, un sorriso diabolico stampato in volto.
“… Hai decretato la tua condanna, Ladro.”
“Lo so.”
“Mettiti in ginocchio e implora perdono, e forse ti risparmierò.”
Alessandro rimase immobile, ritto in piedi davanti a lei.
65
“No?” il volto della ragazza era una maschera di ira fittizia. “Bene. Ho deciso cosa fare con te,
Ladro. Denunciarti al Re non sarebbe così… gratificante. Vorrà dire che ti punirò da sola.”
Il sudore gli scorreva inarrestabile sulla schiena, l’eccitazione era alle stelle…
“FACCIA AL MURO!” strepitò lei con un furore isterico, anche se la voce era arrochita di catarro.
Lui girò i tacchi e si ritrovò a fissare la parete.
“Ora chinati a novanta gradi. Oh, dimenticavo… uno come te non sa neanche cosa siano, novanta
gradi.” Lei si concesse una risata sardonica. “INCHINATI AL MURO!”
Alessandro lo fece, e pose i palmi sulla parete, in attesa spasmodica.
“Conta ad alta voce, Ladro. Sempre ammesso che un miserabile, un plebeo quale sei sappia
contare.”
Ricevere il colpo non fu neanche lontanamente come immaginarlo. Fu proiettato in avanti e
strabuzzò gli occhi. Ma non cedette.
“Uno”, disse con sicurezza.
Bang.
Questa volta impiegò un secondo prima di rispondere.
“D-due.”
Bang.
“T-t-tre.”
Bang, bang, bang, bang!
Adesso riuscì ad emettere solo una catena di “aaah!”. Stava andando a fuoco.
“Supplica, Ladro.”
“M-mai.” E gli sfuggì un sorriso.
Bang, bang, bang, bang!
Era umiliante, oh, eccome se lo era. Lo umiliava essere stato costretto a chinarsi e a offrire il
didietro come un bambino cattivo, lo umiliava il dover sparare numeri con quella voce tremolante,
lo umiliava la profonda somiglianza con le sculacciate di sua madre, durante l’infanzia. Eppure…
“D-dodici! Argh!”
Eppure, ripensandoci, tra una fitta e l’altra… non era così simile alle punizioni ricevute in passato.
D’accordo, anche sua madre gli aveva fatto germogliare macchie rosse sulla pelle, come di sicuro
stava facendo Angela. Ma adesso, adesso…
“QUINDICI!”
… Adesso, forse Angela lo stava guarendo. Gli stava facendo scoprire un modo nuovo di provare
dolore, una punizione che non lo faceva sentire un debole, o un vigliacco, o colpevole di qualcosa.
Era…
“Ah!”
… poteva essere un male positivo, purificatore, che portava al piacere e al perdono per se stessi?
Bang!
“MA SÌ, SÌ!”
“Cos’hai da esultare, Ladro disgustoso?”
Sì, anche ad Angela piace, si sente! Che bello, è soddisfatta di me!
“S… AH! D-DICIANNOVE!”
… Perché Angela non lo stava ferendo con ira e con disprezzo, ma con amore. Questo cambiava
ogni cosa, rendeva quella pulsazione dolorosa solo la lieve, sopportabile interferenza di una radio
che trasmetteva musica celestiale.
E forse una parte di lui l’aveva sempre saputo.
Ecco perché era stata sua, l’idea, quel pomeriggio lontano in cui gliel’aveva proposto.
Bang, bang, bang!
Le sensazioni si intensificavano e si mescolavano, e Alessandro si ritrovò a non contare più, a
respirare tra i denti, gli occhi serrati e quel sorriso che non accennava a svanire.
66
Lui continuava ad emettere gemiti, di dolore e di delizia insieme, e il fatto che fossero la diretta
conseguenza di quello che lei gli infliggeva la eccitava come poche altre cose.
Pensò per un istante alle migliaia di compiti a cui suo padre e sua zia si rifiutavano di lasciarle
adempiere, convinti che non fosse affidabile abbastanza da portarli a termine.
Per loro lei era troppo piccola, troppo inesperta, troppo stupida. Incapace di riuscire in qualcosa.
Ma questa volta… dipendeva tutto da lei.
Aveva il destino di Alessandro tra le mani.
Ed era capace di dargli piacere, di renderlo felice.
Era una persona di valore, finalmente.
Tutte queste sensazioni si mescolarono dentro di lei fino a condurla ad un violento orgasmo
mentale.
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XVII.
Vero amore
Alessandro correva. Inseguiva Angela, che lo distanziava sempre di più, forte di una maggiore
agilità. Lui aveva acquistato un po’ di autostima in seguito ai loro esperimenti, ma allora maledisse
il suo corpo lento e molliccio. Lei si allontanava, gli stava scivolando tra le dita, e lui la inseguiva
con la forza della disperazione, come se fosse stata sua moglie. Quando sentì che non poteva
sopportarlo oltre, gridò il nome di lei. Dentro, pensava che fosse una questione di vita o di morte.
La ragazza finalmente si arrestò. Accanto a un lampione, con un braccio attorno ad esso.
Alessandro osservò il suo viso dalla carnagione chiara, le sue sopracciglia dritte, i suoi grandi
occhi a mandorla azzurri, il suo naso largo e le labbra un po’ troppo piene per la mascella. Li
osservò come se li vedesse per la prima volta. I capelli castano chiaro – sciolti, lisci, con la riga in
mezzo – brillavano sotto il fascio di luce del lampione. Si sentì minuscolo a quella vista, mentre si
avvicinava a lei.
“Scusami”, mormorò.
“Mi hai ferita.”
“Mi dispiace.”
Minuscolo, insignificante, quasi meschino.
Dopo un attimo di esitazione fece una cosa che non aveva mai fatto: le posò una mano sulla
guancia. Lei chiuse gli occhi, e la sua espressione si ammorbidì un po’.
“Che devo fare per farmi perdonare?”
Angela gli si avvicinò di un paio di passi, scostandosi dal lampione. Piegò la testa e appoggiò le
labbra su quelle di lui. Le ritrasse, le riappoggiò. Ancora e ancora, con rinnovato slancio.
Lo sterno minacciava di sbriciolarglisi, mentre anche lui la baciava, e le affondava le mani nei
capelli, la teneva stretta come se non avesse voluto, non avesse potuto lasciarla andare, e la testa gli
era diventata così leggera che…
Il telefonino fece partire Mein Herz Brennt dei Rammstein e Alessandro si svegliò di soprassalto.
Ci mise un po’ a realizzare dov’era e perché Angela non gli stava accanto. Dopodiché realizzò
anche che quello era il quattordicesimo sogno in cui baciava Angela da quella fatidica sera in cui
avevano litigato e poi fatto pace. Ormai non aveva più dubbi. Con un mugolio assonnato ruzzolò
giù dal letto e strisciò fino al cellulare per zittirlo. Visualizzò anche l’orario: le undici.
Uh, quindi pure oggi la sveglia si è attivata in ritardo. Volevo portarmi un po’ avanti con lo
studio, di mattina presto… pazienza.
Rimase seduto a gambe incrociate sul pavimento per un po’, le immagini del sogno che svanivano
a poco a poco. Ma le sensazioni restavano, eccome se restavano.
Vertigine…come quella volta che lei lo aveva baciato sulla guancia.
Decise di andare a vedere cosa stava combinando Irene. Si alzò, percorse il corridoio con una
mano che strusciava contro il muro e in quindici passi si ritrovò davanti alla sua porta. Bussò, come
di consueto.
“Avanti.”
Alessandro abbassò la maniglia ed entrò. Irene stava davanti allo specchio, una maglietta viola
appoggiata addosso e un’altra verde nella mano libera.
“Che fai?” volle sapere lui.
“Esco con Sabrina, andiamo a vedere Non ti dimenticherò mai a Massa Lubrense”, rispose lei
sbrigativa, senza staccare gli occhi dallo specchio.
“Ah”, fu il commento di Alessandro, ancora sulla soglia della stanza.
68
“Che ne dici…” sua sorella si voltò verso di lui. “Mi sta meglio la maglietta color ametista o quella
color giada?”
“Lo sai che faccio schifo a dare consigli sui vestiti, Irene.” Alessandro si strinse nelle spalle.
“Uh, potresti sforzarti, ogni tanto… ” bofonchiò lei distrattamente.
“Scusa, scusa…” lui franò sul suo letto, scansando un paio di peluche a forma di coniglietto.
In quel momento, il cellulare di Irene squillò. La ragazza gettò a terra le magliette, si precipitò
come una scheggia verso la sua scrivania, afferrò il telefonino e rispose. Doveva aver riconosciuto
la suoneria. Era My Heart Will Go On.
“Ciao, amore!... Cosa?... Adesso?... Nell’hotel?... Arrivo subito… sì… ok, ti amo da impazzire,
cucciolotto!” fece con un tono sciropposo. Alessandro preferì sorvolare.
Irene chiuse la comunicazione e iniziò a pigiare altri tasti.
“Ma tu non avevi un appuntamento con Sabrina?” fece suo fratello, perplesso.
“Le sto mandando un messaggio proprio adesso. Le voglio dire che ho qualche linea di febbre.”
“Ah”, Alessandro pensò che era il caso di sorvolare anche stavolta. Poi la curiosità fu troppo forte.
“Mi spieghi una cosa, Irene?”
“Cosa?”
“Perché quando parli con Edoardo la tua voce cambia sempre un po’? Cioè, non mi sembra la tua. È
innaturale, da bambinetta.”
Irene alzò la vista dal telefonino.
“Be’… forse perché lo amo. E quando ami qualcuno tendi sempre a cambiare un minimo. Un
giorno molto lontano lo capirai pure tu”, e gli fece la linguaccia.
“Mi sono già innamorato, per tua informazione”, Alessandro sollevò un sopracciglio.
“Giura?” momentaneamente dimentica del suo SMS, Irene si sedette sul pouf, gli occhi che
scintillavano e un sorriso pettegolo stampato in faccia. “E chi è? Come si chiama?”
“Angela”, e Alessandro, suo malgrado, ricambiò il sorriso.
“Angela Vittoriano? La figlia di Giuseppe Vittoriano?” sua sorella corrugò la fronte.
“Sì, lei.”
“Un po’ una santarellina come ragazza, non trovi?”
“Se lo dici tu…” Alessandro era di nuovo serio.
“Quindi lei è la tua ragione di vita?”
“Cosa?” il ragazzo batté le ciglia. “Certo che no! Perché dovrebbe?”
“Perché Edoardo è la mia ragione di vita, no? È ovvio!” Irene aveva tutta l’aria di stare dicendo
qualcosa di inopinabile, alla stregua della Teoria Copernicana.
“E chi te lo ha detto?” Alessandro era sconcertato. “Fammi capire, se lui non ci fosse più tu
moriresti?”
“Sì, è chiaro.” La ragazza inspirò profondamente e un nuovo sorriso le si dipinse in volto. “Lui è
tutto per me. La mia vita, il mio amore, il mio mondo… è perfetto.”
“Ma dài, non esistono ragazzi perfetti.”
“Lui lo è!” sbottò Irene. “È bellissimo, tanto per cominciare. È ricco, possiede una BMW, una casa
meravigliosa, qualsiasi cosa si metta addosso gli cade a pennello, è sexy ed è un figo… che altro
puoi volere di più?”
“Ehm… tutto qui? Cioè, tu lo ami perché è bello e ricco?” borbottò suo fratello.
“Certo che sei proprio lento, tu…” sospirò Irene picchiettandosi un dito sulla tempia. “Scusa, non
puoi etichettare l’amore con tanti piccoli ‘perché’. L’amore non può avere etichette. Che vuoi
sapere oltre a questo? Ti pare che mi metto spaccarmi il capello in quattro per trovare la
motivazione per cui lo amo?” concluse in tono canzonatorio, incrociando le braccia al petto.
“Io ti so dire cosa mi piace di Angela”, disse Alessandro con semplicità.
“Ah, sì? Sentiamo.”
“Eh. Sarebbe una lista lunga. È una ragazza intelligente come ce ne sono poche. Parlare con lei è un
dono raro. Mi piace la sua ironia, la sua dolcezza, la sua sensibilità. Mi ha aperto gli occhi su un
sacco di cose e le devo molto. Sa criticarmi se deve, è una ragazza con le palle, anche se ad occhi
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esterni sembra insicura e imbranata. Sa ascoltarmi e capirmi, non mi giudica per quello che le
racconto anche quando è stravagante. E ha un dono per la scrittura. A volte ho l’impressione che
riesca a comprendere i miei pensieri, è una telepate. Forse è anche perché abbiamo tante cose in
comune, tanti interessi ed aspirazioni. Non c’è niente che cambierei in lei, ma so che non è perfetta.
Solo che… è perfetta per me.”
“Mmh…” la sorella gli lanciò uno sguardo obliquo. “È perfetta in qualsiasi ambito?”
“Sì”, rispose Alessandro con decisione.
“Quindi scopate”, Irene fece un altro sorrisetto compiaciuto e puntò il dito contro il fratello. “Ti ho
beccato, scopate!”
“No, noi non ‘scopiamo’, ‘facciamo l’amore’”, replicò lui.
“Uh, come sei preciso!” lei alzò gli occhi al soffitto.
Alessandro decise che era meglio tornare a concentrarsi su di lei.
“Senti, non ti pare che Edoardo sarà dispiaciuto di sapere che hai mollato una tua amica per stare
con lui?”
“Scherzi? A lui non piacciono le mie amiche. E da un lato lo capisco, fa bene. Nessuno è perfetto
come lui… Tra l’altro è geloso, ed è così romantica la sua gelosia…” riprese la ragazza con tono
sognante. “Anche la volta scorsa mi ha detto di mollarla per andare da lui.”
“No, cioè…” Alessandro la fissava con tanto d’occhi. “Ti ha ordinato di lasciarla perdere
nonostante sappia che vi conoscete da quando eravate bambine, che Sabrina sta passando un brutto
periodo e che tu per lei sei una cara amica?”
“Sì, e allora?” disse lei con aria stoica.
“Ma non può dirti cosa fare!” esclamò lui indignato.
“Certo che può, lo fanno tutti i fidanzati del mondo, Alessandro!” Irene spalancò le braccia.
“Angela non mi ordina cosa fare! Cioè, me lo ordina, ma in un altro senso…” farfugliò lui.
“Mi sa che tu hai le idee un po’ confuse sul vero amore, fratellino”, disse Irene. “Comunque ora
vattene, mi devo cambiare.”
“Come vuoi…” il ragazzo si sollevò dal letto un tantino scombussolato ed avanzò verso l’uscio.
Quando stava per uscire, sua sorella lo chiamò:
“Secondo te è meglio la maglietta ametista o quella verde giada?”
“Me lo hai già chiesto.”
“Ah.”
E Alessandro richiuse la porta.
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XVIII.
Mike e Sayu
Angela si decise a usare la trama di Unwanted Journeys per le loro sessioni soltanto quando ebbe
acquistato il sedicesimo volumetto. L’idea le venne perché, una volta raccontata la storia ad
Alessandro, lui dimostrò di apprezzarla e le chiese di prestargli il primo numero. Parlava di Mike
Maguire, un americano medio con manie di protagonismo, che un giorno scopriva per puro caso di
avere l’abilità di viaggiare in altri mondi. Nonostante lui non desiderasse questo potere, si vedeva
costretto ad accettare di vivere avventure tragicomiche, e durante i suoi viaggi conosceva Sayu
Iwamura, una giapponese con la medesima facoltà, che però a differenza sua aveva imparato a
controllare i propri poteri e a fare tesoro degli insegnamenti che ricavava dai vari popoli incontrati.
Sayu era anche una ricercatrice e si era occupata più volte di raccogliere testimonianze di
viaggiatori di altre dimensioni, facendosi una cultura in merito. Mike decideva di prenderla come
maestra e a mano a mano diventava più responsabile e oculato, meno incentrato su se stesso. Il
sedicesimo volume era terminato con una “vacanza” a Ierosland, (un mondo che ricordava tanto la
Grecia Antica ma dove la gente era religiosa ai limiti dell’inverosimile), con l’involontaria
profanazione di un tempio da parte di Mike e la successiva reazione irata di Sayu.
E adesso, in un caldo e soleggiato pomeriggio di fine marzo, dopo averne parlato e parlato e
parlato, avevano pensato di “sperimentare”.
“Guardami. Guardami, ti ho detto”, intimò Angela con tutta la severità di cui disponeva.
Alessandro la guardò, cercando di assumere un cipiglio riluttante e spaventato al contempo.
“Io ti avevo avvisato, Mike-san. Ti avevo dato dei libri su Ierosland, ti avevo tradotto i
Comandamenti del loro dio, ti avevo detto che era una civiltà diversa, ti avevo ammonito di studiare
prima di viaggiarci. Che hai fatto giovedì pomeriggio, al posto di studiare?” disse in tono secco e
scandito.
“Iwamura-sensei, non puoi dirmi che gente che non permette neppure di starnutire in un tempio sia
tanto norma…”
“Che cosa hai fatto?” ringhiò lei.
Alessandro sospirò, deglutì e rispose: “Sono andato a prendermi un doppio Cheeseburger da
McDonald’s.”
“Pezzo di idiota!” esclamò la ragazza.
Lui fissò a terra, mortificato, e Angela ebbe una fitta di piacere.
“Ti rendi conto del sacrilegio che hai fatto? Avrei dovuto lasciare che ti portassero via!” abbassò la
voce, la rese più pericolosa. “Lo sai che vogliono bastonarti?”
Il ragazzo sollevò la vista, gli occhi colmi di terrore.
“No!”
“Lo sai che vogliono farlo fino a lasciarti piaghe?” lei sorrise sadica.
“No!”
“Lo sai che qualcuno voleva addirittura sacrificarti al dio adirato?”
“Iwamura-sensei, smettila! Non dire queste cose, smettila!”
Angela alzò le mani e abbassò il capo.
“Come vuoi, come vuoi. Ma sappi che appena uscirò da quella porta, appena uscirò dalla tua vita, tu
sarai solo e potranno farti quello che preferiscono.”
Alessandro aprì la bocca, poi la richiuse, come un pesce fuor d’acqua.
“Decidi tu, Mike-san. Vuoi che me ne vada? Mh? Lo faccio?” e avanzò di un passo verso l’uscita,
ancora più sadica.
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“No!” lui la implorò. “Ti prego, Iwamura-sensei, rimani. Puniscimi se credi sia necessario, dimmi
cosa devo fare per espiare la mia colpa. Salvami.”
Angela si riavvicinò, gli occhi ridotti a fessure.
“Solamente se mi giuri obbedienza.”
“Te lo giuro.”
Gli occhi di lei tornarono della loro grandezza naturale.
“Bene. Non te lo meriteresti, sai? Dovresti essere lasciato ad annaspare.”
“N-ne sono consapevole.”
“Sei uno stronzo ignorante, arrogante e viziato.”
“Perdonami se sono così, Iwamura-sensei”, mormorò contrito.
Lei piegò la testa da un lato. Provò un’esultanza segreta al pensiero che lui si stesse appagando.
“Forse conosco un mezzo per salvarti la vita. È un vecchio rimedio che i sacerdoti di questo mondo
utilizzavano con gli adepti indisciplinati. Forse li placherà. Voglio che tu segua alla lettera le mie
istruzioni.”
“Lo farò, Iwamura-sensei.”
“Mettiti in ginocchio.”
Il ragazzo eseguì.
“Ora prostrati come se dovessi fare un inchino, e congiungi i pollici e gli indici.”
Alessandro obbedì. Lei attese che le sue dita, toccandosi, formassero un triangolo isoscele sul
legno del pavimento. Alcune ciocche di capelli gli erano ricadute sul viso, ma gli occhi, ancora
visibili, brillavano nella penombra. Era sexy da morire.
“Ora tieni la testa china e rimani così finché non torno. Ti ordino di resistere il più possibile e di
non aprire bocca neanche una volta. Qualora non ce la facessi più…” Angela gli si avvicinò, si
accovacciò davanti a lui e gli fece scorrere il cellulare al di sotto del palmo della mano sinistra.
“…sei autorizzato a muovere un dito e a farmi uno squillo, in modo che io possa tornare e darti il
permesso di alzarti. Non ti azzardare a cambiare posizione mentre sono via.”
Girò i tacchi e si diresse verso la soglia del casolare. Una volta lì, lo osservò con la coda
dell’occhio.
“Sono stata abbastanza chiara, Mike-san?” disse con voce aspra.
La risposta giunse in un pigolio.
“S… sì, Iwamura-sensei.”
Angela annuì e oltrepassò l’uscio senza degnarlo di una parola. Quando fu fuori all’aria aperta, si
accasciò contro il muro, si lasciò scivolare a sedere sui talloni e trasse un profondo sospiro. Dare
ordini con tanta durezza continuava a scuoterla e ad elettrizzarla. Inspirò ed espirò molte volte,
seguendo con lo sguardo i salti di una cavalletta sul terreno erboso.
Quando si decise a controllare sul telefonino erano passati venti minuti. Lentamente si rimise in
piedi, fece il giro del casolare e allungò il collo per sbirciare dalla finestra. Lui era sempre lì,
immobile nella posizione in cui lo aveva lasciato. Con il capo chino sul pavimento non poteva
rendersi conto della sua presenza. Angela fissò la sua schiena ricurva il collo scoperto, i capelli che
di solito gli arrivavano alla nuca e che in quel momento gli coprivano in parte il profilo. Una mosca
gli zampettava sulla mano destra, ma lui ancora non si muoveva per scacciarla.
Lei pensò che non avrebbe resistito granché a guardarlo, così si scansò dalla finestra e, col cuore
che batteva a mille e la schiena fradicia, scese sino alla rete metallica al limitare del campo,
intenzionata a scavalcarla. Sarebbe andata in paese a prendersi uno spuntino. Non avrebbe
recuperato la bicicletta: voleva metterci molto tempo.
Per l’intera durata del loro esperimento Angela avvertì un peso sul petto e una sensazione di calore
in fondo al ventre. Si sedette a un bar, consumò una limonata e dei salatini, una parte di lei convinta
di dover fare presto e l’altra convinta di potersela prendere comoda. A volte cacciava fuori il
cellulare dalla tasca con mosse repentine per visualizzare il display, certa di avere una chiamata
persa di Alessandro; altre volte, la presa sulla sua tasca si allentava, lei sedeva compita al suo posto
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e sembrava non avere alcun pensiero al mondo. Anche se guardava i passanti, ognuno immerso
nelle proprie attività, non riusciva a scacciare il vortice di emozioni dentro di sé. Sapeva però che
erano tutte connesse ad una sola cosa: il potere.
Così è questa l’esperienza di chi ha potere su qualcuno. Dopo anni so di nuovo cosa si prova.
Presumo di doverci fare l’abitudine.
Un sorriso intimo le si allargò sul volto. Quando il cameriere servì un Limoncello all’uomo seduto
di fronte a lei, tirò nuovamente fuori il cellulare: le quattro e quarantasei. Erano trascorsi ben
cinquantacinque minuti da quando aveva lasciato Alessandro. Per tornare a piedi fin lì ce ne
avrebbe messi altri venti. Si disse che era ora di liberarlo.
Percorse il campo ad andatura lesta, il cuore che non aveva mai cessato di martellare. Quasi alla
soglia del casolare, si arrestò. Non voleva entrare così, di botto, non voleva presentarsi stravolta;
non sarebbe stato appropriato. In quanto Top, doveva essere sicura di sé e dare sempre
un’impressione di fermezza. Rimase a calmarsi, sistemandosi i vestiti. Poi, per l’ennesima volta,
verificò l’orario sul telefonino: lui era lì da quasi un’ora e mezza. Bene, aveva “sofferto” abbastanza
e non l’aveva mai chiamata. Era il momento di entrare. Benissimo.
I secondi si allungarono, e Angela restò lì a fissare lo schermo. Poteva aspettare finché non fosse
scoccata l’ora e mezza. Mancavano tre minuti… due minuti… un minuto… un secondo…
Si passò i capelli dietro le orecchie, si schiarì la gola e con passo sicuro varcò la soglia.
Alessandro era sempre prostrato con lo sguardo fisso a terra, la faccia talmente rossa che sembrava
in procinto di deporre un uovo. Ben lungi dal ridere, Angela gli comunicò in tono mite:
“Tutto ok, Alessandro. Ti puoi muovere.”
Lui stramazzò al suolo con la grazia di un elefante. Angela provò una percezione di rilascio
identica a quella che sicuramente stava provando lui, gli si accostò e gli tese la mano per aiutarlo ad
alzarsi. Alessandro la guardò senza prenderla.
“Che c’è?” fece lei, non senza una punta di preoccupazione.
“Mi si sono addormentate le gambe”, bofonchiò il ragazzo con la voce arrochita di chi non ha
parlato per un pezzo, strizzando gli occhi e scuotendole per ristabilire la circolazione.
E questo è il minimo, Angela. Probabilmente gli fanno anche male le ginocchia, le mani gli sono
diventate insensibili, ha il torcicollo e la schiena a pezzi.
La ragazza indugiò inginocchiata accanto a lui, paziente. Alessandro se ne stava supino, le guance
che impallidivano a poco a poco, ed emetteva sospiri di sollievo.
“Pronto?” gli chiese a un certo punto.
Lui annuì e le afferrò la mano per tirarsi su. Quando fu in piedi al suo fianco a stiracchiarsi e a
massaggiarsi la nuca, Angela non si trattenne:
“Porca putta…”
Adesso che si era sollevato dal pavimento un po’ polveroso, erano perfettamente distinguibili le
orme sudate dei suoi palmi e delle sue ginocchia. Erano troppo ben definite perché si fosse spostato
anche solo per breve tempo.
Angela lo guardò, e notò che lui ricambiava l’occhiata.
“Non ti sei mai mosso? Proprio mai?” lo interrogò; sapeva di possedere un ascendente su di lui, ma
una parte di lei non riusciva a credere a quanto ne avesse.
La domanda parve non turbarlo affatto.
“Neanche una volta”, rispose impassibile.
Le labbra le tremarono davanti a quella risposta tanto tranquilla e sincera. Si mosse verso di lui e
gli posò le mani sulla schiena.
“Che fai?” sembrava disorientato.
“Ti faccio un massaggio. Te lo meriti”, tagliò corto lei.
“Ah. G-grazie.”
73
XIX.
Vertigine e estasi
“Quindi tu sei favorevole all’eutanasia”, osservò Angela mentre pedalavano verso il paese, il
tramonto che bagnava d’oro il Deserto.
“Assolutamente sì”, rispose Alessandro categorico, senza togliere gli occhi dalla strada. “Se la vita
è mia – come infatti è mia – e io ho la possibilità di decidere quando terminarla perché rimanere in
vita mi farebbe troppo male, lo farei, senza che nella mia scelta possano intervenire dottori,
familiari o divinità.”
“Il mio professore di religione ti direbbe che siccome la vita è un dono di Dio sarebbe un peccato
mortale terminarla prima del tempo. Ma io non sono d’accordo. Ok, la vita è un dono, ma i doni si
possono anche non accettare, no?”
“Esattamente. Senza contare che la vita non è un dono per tutti, e se dovessi finire attaccato a
qualche macchina per vivere – o meglio, sopravvivere, che non è un sinonimo – pagherei qualcuno
per ammazzarmi.”
“Sai… penso che lo farei anch’io. Il problema principale è che nessuno ci pensa a queste cose
finché non si ritrova con la merda fino al collo. È vergognoso che in Italia non si possa fare il
testamento biologico.”
Il paese era sempre più vicino, Alessandro ne era consapevole…
“Ma tu non hai paura di morire?”, lo interpellò ancora la ragazza, titubante.
“Sì, tanta”, confessò lui. “Ma ho più paura di non vivere.”
Non parlarono per qualche altro secondo, e lui ne approfittò per ripassare mentalmente il suo
piano. Glielo avrebbe chiesto al confine con Acquarara…
… Si accorse di avere i peli ritti sulle braccia, e si domandò se non stesse per fare una stronzata…
“Non lo dirai a nessuno che la penso così, vero, Angela?”
… Erano arrivati al cartello con su scritto ‘Benvenuti ad Acquarara’…
“Certo che no. Resterà tra noi.”
… O la va o la spacca, è l’unica…
“Angela… ti fermi un attimo?”
Lei lo accontentò.
“Che succede?” chiese.
“Ehm… ti dovrei dare una cosa, è da un po’ che te la devo dare. Ma non posso farlo in paese”,
biascicò.
“Ah, ok.”
“Vieni, scendi dalla bici.”
Lei scese, reggendola con una mano. Mentre smontava, lui si umettò le labbra senza farsi notare.
“Aspetta… scendo anch’io. Chiudi gli occhi, è… ehm, una sorpresa. Sarai libera di… ehm… darmi
uno schiaffo se non ti piacerà.”
“Addirittura?” lei aggrottò le sopracciglia, le palpebre abbassate. “Ma che sorpresa è?”.
“Adesso vedrai.”
E, come se si stesse per tuffare da un trampolino di dieci metri d’altezza, lui si slanciò in avanti e
la baciò.
Alessandro era arrivato alla veneranda età di diciassette anni e mezzo senza aver mai baciato
nessuno. Non aveva mai avuto una ragazza, né lo aveva mai fatto per sfida o al gioco della bottiglia.
Aveva un’idea molto teorica di come si dovesse fare, quindi fu un’esperienza impacciata ai massimi
livelli. Il suo naso andò a cozzare contro quello di lei, gli capitò di sbattere i denti contro i suoi e di
ritirarsi bruscamente, scarlatto in volto.
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Oddio, ma perché l’ho fatto? Che pensata di merda!
Angela batté le ciglia, imbarazzata e perplessa.
“Vuoi schiaffeggiarmi?” disse lui con voce roca.
Lei rimase zitta per un attimo.
“No”, mormorò poi. “Ci voglio riprovare.”
Alessandro spalancò gli occhi quando lei gli si riavvicinò e piegò la testa, come l’aveva vista fare
in sogno così tante volte. Eppure nei sogni lui non aveva mai provato terrore, a differenza di adesso.
Neanche lei era un’esperta in materia, così procedettero per tentativi goffi e maldestri, e soprattutto
umidi. Le bici giacevano abbandonate sull’asfalto, perché nessuno dei due si era preoccupato di
tirar giù il cavalletto. E a nessuno dei due importava.
Così a mano a mano Alessandro acquistò dimestichezza, e invece di scemare, il suo entusiasmo
cresceva, tramutandosi in qualcos’altro.
Vertigine. Ma era un senso di turbamento che non lo rendeva inquieto, anzi; gli sembrava che
fosse giusto così. Voleva essere sconvolto, messo sottosopra, continuare ad avere quella sensazione.
Estasi. La vertigine aumentava… aumentava, aumentava e aumentava… finché non smise di
sentire il terreno sotto i piedi, come quando si trovava sott’acqua e gli pareva di essere leggerissimo,
di reggersi in uno spazio senza più forza di gravità.
Vertigine e estasi, disagio e piacere, le due cose che solo Angela era capace di fargli provare. E la
consapevolezza che il non vivere non lo avrebbe toccato mai più.
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XX.
Primo appuntamento
Angela riusciva a stento a contenere l’emozione mentre passeggiava per le strade di Acquarara con
Alessandro. Continuava a stritolargli la mano, gli lanciava delle occhiate furtive di tanto in tanto e
lui rispondeva con un sorriso sereno, incoraggiante. Era una bella serata di primavera con un clima
piacevolmente fresco, un cielo indaco dove iniziava a spuntare qualche stella e un’aria fragrante.
Non faceva che incrementare la loro idea che nulla potesse andare storto.
Avanzavano tra la folla della piazza principale e tra le prime luci della sera, per il puro piacere di
camminare insieme. E parlavano. Di tutto e di più.
“Sai io che voce darei a Jonathan, in un eventuale film? Quella di Luca Ward, è sensualissima”,
stava dicendo Angela intanto che sorpassavano un anziano in bicicletta.
“Però è un po’ abusata. Che te ne pare di Simone d’Andrea?” fece lui soprappensiero.
“E chi è?” ridacchiò lei.
“Quello che ha doppiato Carson in Flightplan.”
“Ah, ce l’ho presente. Sì, è bravo. Ha un non so che di letale anche lui.”
“Oppure Francesco Bulckaen, Commodo in Il Gladiatore. Quando fa quel discorso sulle api
industriose a sua sorella Lucilla è eccezionale.”
“Uh, dovrei rivederlo, non me la ricordo quella parte.”
“Te lo presto io.”
“A parte questo, ti rendi conto di quanto sarebbe grande farci un film?”
“Certo, sarebbe stupendo. Noi due, autori e sceneggiatori… Ma per il momento sono solo fantasie.”
“Vabbé, forse – ma dico forse – si avvereranno.”
“Oh, e ci vedrei bene pure Fabio Boccanera, sai, Johnny Depp in Chocolat.”
“Mmh… A proposito di cioccolato, ti va una cioccolata calda da Tortorella?” lei glielo indicò sul
marciapiede di fronte.
“Eh, non c’ho un euro, al massimo te la prendi tu…” disse Alessandro stringendosi nelle spalle.
“Tranquillo, te la offro io.” Angela pensò che gli avrebbe preso anche dodici barili di cioccolato,
uno per ogni mese dell’anno, se lui avesse voluto. Lo tirò verso il locale.
“Grazie, ti restituisco i soldi a casa.”
“Dimmelo di nuovo e ti calcioroto all’istante!” Angela si girò e gli sorrise di sfida.
“Non vedevi l’ora di rendermi pan per focaccia, eh?”
“Come hai fatto a capirlo?”
“Ormai ti conosco bene.”
“Alessandro!” lo chiamò una voce familiare alle loro spalle.
I due ragazzi si voltarono per riconoscere Irene, imbacuccata in un cappotto viola con dei pompon
rosa a qualche metro da loro. Aveva la mano alzata e il collo un po’ allungato, nel tentativo di
sbirciare oltre qualche testa o qualche cappello. Le si avvicinarono, e nel mentre Alessandro
intrecciò le sue dita a quelle di Angela, infondendole una nuova raffica di fiducia.
“Ciao.”
“Ciao.”
“Come mai quel cappotto? Non ti senti bene?” volle sapere lui.
“Sono freddolosa”, rispose lei battendo i denti.
“Ah, ok.”
“Così finalmente vi vedo insieme”, era visibilmente curiosa. “È il vostro primo appuntamento?”
“Sì, una specie”, rispose Angela.
“Che vuol dire ‘una specie’?”
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“Che siamo già usciti insieme, solo in maniera un po’ diversa.”
“Insomma, siete già usciti o non siete usciti?” Irene sembrava perplessa.
“Sì… no, cioè… siamo andati a farci delle passeggiate, ma…” farfugliò Angela, sentendo il calore
diffondersi sulla faccia. Possibile che dovesse sempre fare figure a cioccolatino con gli altri?
“…Ma non eravamo ancora fidanzati”, le venne in soccorso il suo ragazzo.
“Ah, ora è chiaro”, commentò la sorella, pensierosa. “Perciò devo dire a mamma che non ceni con
noi stasera?”
“Perché? Certo che ceno con voi”, Alessandro sbatté le palpebre, confuso.
“È il vostro primo appuntamento e non andate manco a cena fuori?” si meravigliò la sorella.
Da quando in qua è un obbligo?, si chiese Angela.
“Be’, noi…”
“Micetta!” All’angolo della via apparve un ragazzo che, a giudicare dal sorriso smagliante, gli abiti
eleganti e l’appellativo dato a Irene doveva essere Edoardo Gullotta. “Non vedevo l’ora di
incontrarti oggi!”
“Edo, amoruccio!” Apparentemente dimentica di avere un freddo boia, Irene spalancò il cappotto
lasciando intravedere una scollatura profonda nel suo maglione rosa e si gettò nelle braccia del
fidanzato.
Deliziarono i passanti con un bacio da contorsionisti, poi le loro teste si allontanarono.
“Che fai stasera?” tubò Edoardo.
“Niente! Volevo stare solo con te!” miagolò Irene.
“Io mi devo vedere con Gianni e Paolo, ma disdico subito”, lui prese a smanettare col cellulare
senza togliere la mano dalla vita della sua ragazza.
“Come sei romantico!” Irene batté le ciglia, adorante.
“Tutto per la mia micetta.”
Angela e Alessandro si scambiarono un’occhiata in tralice, incerti su cosa fare al momento.
Irene attese pazientemente che Edoardo finisse di scrivere l’SMS, dopodiché si ricordò degli altri
due. “Oh… amoruccio, questa è… Angela, la ragazza di mio fratello.”
Edoardo alzò la vista dal telefonino. Angela, sentendosi una stupida imbranata, sollevò una mano
in segno di saluto.
“Ah, ciao”, fece lui.
“Ciao”, risposero in coro Alessandro e Angela.
“Pensa, è il loro primo appuntamento!” Irene gli accarezzò la spalla.
Edoardo sorrise con sussiego.
“Il primo? Ce ne vorrà prima di arrivare ad una quota di ottantadue appuntamenti, come la nostra.”
Gli altri due si limitarono a sorridere imbarazzati.
“Eh, già”, approvò la sua ragazza. “Però fanno pappa e ciccia da settembre!”
“No, ma dài…” Edoardo li fissò con tanto d’occhi, “e in tutto questo tempo non siete mai usciti?”
“Ehm… no”, Angela si passò una mano dietro la nuca.
“Perché, quando è stato il primo, per voi?” intervenne Alessandro.
“Dopo una settimana che ci conoscevamo! Ci amavamo da morire già allora!”
“Scusate tanto, comunque, ma questa ragazza appartiene a me, perciò vi dovrò privare della sua
presenza”, Edoardo mise un braccio intorno alle spalle di Irene.
“Ciao a tutti!” esclamò quest’ultima con aria estatica, e si avviò su per la salita con Edoardo.
Angela ascoltò i loro discorsi mentre se ne andavano, perché non si erano curati di abbassare la
voce più di tanto.
“Sai, micetta, non mi piacciono quei due. Insomma, tuo fratello è strano, la sua ragazza sembra una
mezza scema…”
“Hai ragione, amoruccio.”
“Non frequentarli troppo.”
“Come vuoi tu, amore.”
“Ti amo, lo sai?”
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“Sei l’unica cosa che conta.”
“Ho aspettato te per la mia intera esistenza.”
E sparirono oltre la curva. Angela si girò verso Alessandro.
“Pare che dovremmo vergognarci, siamo solo al primo appuntamento.”
“E non andiamo neppure a cena fuori.”
“Già.”
Si fissarono per una frazione di secondo; poi Alessandro disse:
“Chiamami ‘amoruccio’ e ti calcioroto io!”
Scoppiarono a ridere a crepapelle e attraversarono per prendersi finalmente le loro meritate tazze
di cioccolata calda.
78
XXI.
Tutta se stessa
Angela non sapeva dire con precisione quando era successo.
Forse quando c’era stata una pausa di silenzio tra di loro.
Forse quando un pettirosso appoggiato al davanzale della finestra aveva spiccato il volo.
Forse quando Alessandro aveva alzato lo sguardo da Unwanted Journeys e l’aveva fissata così
intensamente.
Fatto stava che si erano mossi in simultanea l’una verso l’altro e avevano cominciato a baciarsi.
Non era una cosa che capitava spesso, se non in privato, lì nel casolare, oppure un attimo prima di
entrare ognuno nel portone di casa propria. Stava affinando la tecnica col tempo.
Ma poi lui si era gettato all’indietro, per terra, e lei lo aveva seguito, con le labbra e con tutta se
stessa.
E così qualcosa era mutato.
Per qualche minuto rimasero a toccarsi, ad ascoltare i loro corpi, ad accarezzarsi i capelli, le
guance, la schiena, l’uno inebriato dall’altra.
Finché Alessandro non si staccò ansimando:
“Legami.”
“Cosa?” Angela si allontanò di qualche millimetro dalle sue labbra e riaprì gli occhi, frastornata.
“Legami, ti prego.” Anche se sussurrava, il suo tono era insieme bramoso e agitato.
Lei stava per chiedere ‘con che cosa?’, dopodiché abbassò la vista su di sé.
“C’è la mia sciarpa.”
“Fallo.”
Sì. Durante quell’esperimento c’era un dettaglio che mancava, lo sentiva anche lei.
E Angela gli fece passare più volte la stoffa sottile della sciarpa azzurra attorno ai polsi. Strinse il
giusto, senza rischiare di bloccare la circolazione ma certa di limitarlo. Provò una fitta di piacere
all’idea di impedirgli i movimenti, di legare quei polsi stretti, di congiungere quelle meravigliose
mani affusolate; una fitta di piacere che la lasciò scossa e che la fece fermare un attimo. Poi riprese,
per tutti e due, fin quando il ragazzo non poté fare altro che tenere le braccia sopra la testa e
arrendersi a lei.
“Guarda nel mio portafogli”, mormorò Alessandro poco dopo.
“Sì”, rispose Angela con voce flebile. Si alzò, tentò di mostrarsi sicura. “Certo.”
Lo lasciò lì a terra, immobilizzato con i jeans alle caviglie e la camicia aperta, pensando che il tono
con cui aveva detto “certo” non era stato male. Convincente. E una volta persuaso lui, avrebbe
persuaso anche se stessa.
Non ebbe bisogno di rovistare molto. Al secondo tentativo infatti identificò la macchia blu e grigia
del portafogli sul fondo della borsa. Immerse la mano, lo aprì e trovò un preservativo.
Lo prese, rimise tutto il resto a posto, resse un’estremità della bustina tra i denti e iniziò a togliersi
la maglietta.
Angela non tentò di fingere che lui non le avesse puntato gli occhi addosso. Lasciò che la cosa
invadesse la sua mente, che l’accompagnasse mentre si spogliava. Aveva sempre detestato la sua
pelle così chiara da essere solcata da vene azzurrine, il suo busto privo di curve – il busto di una
bambina più che di una ragazza di diciassette anni – e l’idea di essere totalmente senza protezione
davanti a un uomo. Ma stavolta non era un uomo qualsiasi. Era Alessandro. E anche lui si era
esposto per lei. Ora era compito suo accettarlo pienamente, dargli tutta se stessa.
Con questa consapevolezza avanzò verso di lui, sicura che stavolta sarebbe toccato anche a lei
provare un po’ di dolore fisico. Gli si inginocchiò accanto e riprese a far viaggiare le mani sul suo
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corpo, come quando avevano fatto l’ispezione da Tenente Motton e Soldato James, sì, ma ora lei
sapeva alla perfezione cosa doveva fare e dove lo doveva fare per eccitarlo.
Fu sempre lei a dovergli infilare il preservativo quando venne il momento, a sovrastarlo e a
spingere per la prima volta.
Il dolore che si aspettava venne e nonostante tutto la colse impreparata, al punto che si lasciò
sfuggire un verso strozzato.
“Angela?” la voce lievemente preoccupata di lui le fece alzare gli occhi. “Stai bene?”
Lei inspirò. La sua espressione si indurì.
“Sta’ zitta, Lily”, disse burbera. “Sta’ zitta e prendimi.”
“Sì, Jonathan”, si affrettò a rispondere lui.
Angela sorrise tra sé e sé. Era così che avevano cominciato, con Lily e Jonathan, quella era stata la
loro primissima volta. Sapeva che il richiamarli alla mente faceva bene a entrambi: allontanava la
paura dell’ignoto. Gli portava via un po’ di potere.
Forza…
Angela riprese a farsi forza con le ginocchia e spinse per la seconda, la terza, la quarta, la quinta
volta. Il bruciore era intenso, ma lei lo provava con un certo distacco. Era troppo concentrata sulle
migliaia di espressioni che riusciva a scorgere in lui. Il modo in cui corrugava la fronte e poi la
rilassava, il labbro che si mordeva e poi si inumidiva, il suo respiro affannoso, gli occhi prima
strizzati e poi socchiusi. Erano tutte espressioni, parti di lui che risalivano in superficie e si
manifestavano. Questo è Alessandro, si disse Angela mentre ancora spingeva, piano ma decisa
adesso. Alessandro che era capace di sbrodolarsi addosso qualunque cosa stesse mangiando, che si
segnava al computer i lampi di genio per una storia prima di dimenticarseli, che doppiava i
personaggi dei libri che leggeva, che si irrigidiva se chiunque altro a parte lei provava a toccarlo.
Questo è Alessandro, si ripeté ancora e ancora osservando le mani di lui che si contraevano e si
distendevano. Immaginò che desiderasse sfiorarla, ma anche restare così, immobile, e imprimere
ogni singolo istante nella memoria.
Fu allora che lui inarcò la schiena e si lasciò sfuggire un grido soffocato. E non molto tempo dopo
toccò a lei imitarlo, sentendo che qualcosa si liberava.
Era potere.
Potere che possedevano l’uno sull’altra, che li aveva condotti al punto di non ritorno e glielo aveva
fatto superare, potere che abbatteva qualunque barriera e ti cambiava per sempre.
Il potere di dare tutto te stesso all’altro.
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XXII.
Giusto e sbagliato
Luce soffusa. Finestra aperta per lasciar entrare la brezza primaverile nella camera di Irene. Lei se
ne stava raggomitolata sul lato sinistro del letto, la sigaretta tra le labbra, con soltanto la maglietta di
Edoardo addosso. Lui invece aveva gli occhi socchiusi e le mani dietro la nuca, concentratissimo
sulla musica. Nocturne di Debussy, come piaceva a lui.
Irene si era scaricata tutto Debussy, tutto Ravel e tutto Saint-Saëns solo per far piacere al suo
fidanzato. La affascinava sempre la sua cultura sterminata sulla Francia, la sua abilità con il flauto,
la sua dizione perfetta. Sì, Edoardo era la perfezione fatta uomo. Non c’era nulla che non sapesse
fare. E poi era ricco, ricco da far girare la testa, con la sua BMW scintillante che una volta le aveva
concesso di guidare, l’albergo a cinque stelle di cui suo padre era proprietario, la sua meravigliosa
casa a Taormina e quella in Sardegna. Irradiava bellezza nell’intera stanza, dava alla vita di lei un
significato.
La ragazza diede un’altra boccata di fumo e rimase a contemplare i capelli fulvi e arruffati di lui –
così diversi dai suoi insignificanti riccioli castani – i suoi occhi neri come schegge di ossidiana, il
suo naso greco e il petto liscio e muscoloso. Persino dopo un anno e mezzo, non le sembrava
possibile che un uomo simile appartenesse a lei. E quello che lui faceva per lei? Non riusciva
ancora a credere a quanto le aveva detto giusto un’ora fa. Le aveva regalato un paio di orecchini
d’oro bianco, spiegandole che si era accorto che lei non ne possedeva. Alla domanda di Irene su
come avesse fatto ad accorgersene, lui le aveva confessato che aveva preso di nascosto la chiave del
suo portagioie e quella mattina aveva fatto un’ispezione a sorpresa.
“Quindi sei entrato in camera mia senza che io ci fossi?” aveva chiesto lei meravigliata. Edoardo le
aveva gettato uno sguardo obliquo. “Lo faccio spesso, micetta. Ho fatto una copia delle tue chiavi di
casa, così da allora le uso anche io. Mi siedo sul tuo letto e mi ricordo di tutte le cose che
facciamo… ti immagino vicina… ecco, vengo a controllarti perché non voglio che ti manchi
niente.”
A quel punto Irene aveva provato una tale felicità e commozione per l’amore di lui che lo aveva
baciato pazzamente, lo aveva stretto ed erano crollati sul letto. Avevano finito per farlo una, due,
tre, quattro volte. Lui l’aveva stretta con tanta forza da lasciarle lividi, ma Irene non si era
lamentata. Dopotutto, Edoardo era perfetto, perciò quella era la maniera più perfetta di fare l’amore.
Eppure, malgrado fosse al settimo cielo per la sua relazione con lui – l’unico rapporto che valesse
la pena coltivare nella vita – non riusciva a scacciare un’ombra. Non appena Edoardo aprì gli occhi,
al termine di Nocturne, lei era lì che si mordeva il labbro.
“Che c’è, micetta?” lui le fece un sorriso mozzafiato. “Dovevo dire a Sabrina che non saresti uscita
con lei per un'altra settimana?”
“No, non è questo…” sospirò la ragazza. “È che sono un po’ preoccupata per Alessandro.”
“Tuo fratello?”
“Sì.”
“E perché mai?”
Per la prima volta da quando si erano messi a letto, Irene gli lanciò uno sguardo serio, penetrante,
riflessivo. “Tante cose. In certe occasioni torna a casa con lividi e graffi e dice di essere caduto. Poi
un giorno è sparito il battipanni e ho scoperto che ce lo aveva lui, anche se ha detto che si era rotto e
lo aveva ricomprato tale e quale. Un giorno, mentre facevo il bucato, ho visto anche che un suo
pantalone era macchiato di… sì, be’…” abbassò la voce come se si trattasse di una cosa scabrosa e
terribile. “…di urina.”
“Urina?” Edoardo batté le ciglia.
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“Sì.”
Lui aggrottò la fronte e rimase zitto per quasi un minuto. Dopodiché schioccò la lingua e disse:
“Be’, tesoro… magari si è azzuffato con un altro ragazzino e ha provato tanta paura da farsela sotto.
Non stare in pena, è una cosa che forma il carattere. Io al liceo ero famoso per picchiare tutti i
coglioni che se la chiamavano”, e sorrise di nuovo.
Anche la sua ragazza sorrise, però tornò seria quasi immediatamente.
“Sospetto che la sua fidanzata c’entri qualcosa.”
“Ma come!” lui scoppiò a ridere. “Micetta, io l’ho vista la sua ragazza, ti ricordi?”
Irene annuì.
“E ti ho detto che impressione mi ha fatto. Lo sai che io non mi sbaglio mai su queste cose. È una
mezza sega, del genere che non farebbe del male a una mosca.”
“Sei sicuro?”
“Certo.”
“È che con lei ha un rapporto strano…”
“È tuo fratello che è strano. Lo possiamo continuare a dire in sua assenza, vero?”
“Suppongo di sì…” Irene sospirò di nuovo. “Con tutto il bene del mondo, è uno sfigato strampalato.
Insomma, passa il tempo chiuso in camera sua a scrivere, a leggere e a mangiare, sta sempre con
quell’i-Pod nelle orecchie perché dice che ‘la musica lo ispira’, odia lo sport e le feste e rifiuta
qualsiasi contatto umano. Mi sorprende che si sia trovato una ragazza.”
“È una sfigata anche lei, amore. Semplice.”
“In effetti…”
“Vuoi sapere la verità? Nessuno ha una storia bella come la nostra. Nessuno.”
Irene si sciolse in un sorrisone, spense la sigaretta e si rituffò nelle braccia del fidanzato.
“Ti amo!”
“Io di più!”
“Sei l’unica cosa che conta.”
“Ho aspettato te per la mia intera esistenza.”
“Baciami ancora, sono pazza di te.”
*
Alessandro aveva gli occhi chiusi e le labbra appena incurvate in un sorriso. Seguiva mentalmente
le dita di Angela, che tracciavano disegni leggeri sulla sua pelle. Ecco, ora risalivano il braccio… la
spalla… il collo, e lui rabbrividiva di piacere… inspirò a fondo, rilassato. Era bello abbandonarsi a
qualcuno, affidargli anima e corpo e sapere che ne avrebbe fatto quello che voleva, ma era anche
bello quando questo qualcuno si prendeva cura di te.
“Sei stato bravissimo”, mormorò Angela mentre gli accarezzava i capelli.
“Dobbiamo rifarla quella cosa con la corda. Come hai detto che si chiama?”
“Frogtie. L’abbiamo vista venerdì scorso su everythingonbdsm.com, ti ricordi?”
“Ah, già.”
“Non ti ha stretto troppo, vero? L’ho lubrificata con l’olio per il corpo di mia zia e l’ho sperimentata
su di me, prima.”
“No, tranquilla. Anche tu sei stata una grande.”
Le dita di lei gli sfiorarono la guancia, dove aveva un taglietto appena disinfettato. Angela esitò.
“No che non lo sono stata”, disse. “Altrimenti non ti avrei sfregiato con le unghie.”
“Sfregiato?” la voce di Alessandro aveva una nota scherzosa. “Dài, non esagerare. È un graffietto di
quelli che può fare un gatto.”
“Avrei potuto fare di peggio.”
“No che non avresti potuto. Lo so.”
Angela riprese ad accarezzarlo, ma senza il calore e la dedizione di poco fa. Sembrava piuttosto
che stesse riflettendo su qualcosa.
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“Hai mai la sensazione…” si bloccò, poi proseguì, irrefrenabile. “… che quello che stiamo facendo
sia sbagliato, anormale, da evitare?”
Alessandro aprì finalmente gli occhi. Lei sbatté le palpebre e distolse lo sguardo, per puntarlo di
nuovo su di lui un istante dopo.
“Lo pensi veramente?” chiese serio.
“No, non lo penso. È più che altro una sensazione… è pallida, sbiadita, ma c’è. Forse è il mio
subconscio. Tu che ne dici?”
Alessandro si raddrizzò sul pavimento. Era ancora un po’ dolorante per via dell’ultima sessione,
ma era un dolore lieve e tollerabile.
“Dico che io ho provato un senso di colpa per anni perché avevo fantasie sadomasochiste. Ho avuto
un’educazione bigotta, di quelle che ti fanno vergognare anche dei sogni che fai. Di quelle che… ti
fanno sentire represso, schiacciato, umiliato… e sai cosa? Ragionandoci e informandomi ho capito
che è questa la vera violenza, non il sadomasochismo nel BDSM.”
Le posò una mano sulla guancia. Angela piegò la testa e ci si appoggiò contro.
“Secondo me il tuo subconscio è condizionato dalla stessa educazione che ho avuto io. Secondo me
è penetrata così in profondità nella tua mente da aver messo radici, e per quanto provi ad estirparla
continua a ricrescere. Ma la parte di te più… incontaminata, la parte più nascosta e anche quella più
autentica sa che le nostre sessioni non hanno niente di innaturale. Non facciamo altro che
assecondare i nostri desideri, non facciamo altro che giocare. Di quante coppie si può dire lo
stesso?”
“Miliardi”, borbottò lei.
“Ecco. Non credere alla finzione, Angela. Alla fin fine la cosa si riduce a questo.”
Riuscì a strapparle un sorriso. Angela gli scostò la mano dal volto e la tenne stretta.
“Vabbé… la prossima volta mi limerò le unghie prima di combinare qualsiasi cosa.”
“Mmh, tanto lo so benissimo che te le mangerai!” la schernì lui.
“Ehi, non sfottere!”
“Sennò?”
“Sennò verrai punito!”
“Angela si mangia le unghie, Angela si mangia le unghie…”
“L’hai voluto tu!” lei gli piombò addosso e iniziò a fargli il solletico.
“Oddio, no! Pietà!” Alessandro iniziò a contorcersi e a guizzare, ma lei non lo lasciava andare.
“Sei mio prigioniero”, decretò con un nuovo sorriso, e continuò finché lui non si abbandonò alle
risate.
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XXIII.
Dovere e potere
Angela entrò in cucina per gettare qualche ritratto venuto male direttamente nella spazzatura. Lei li
valutava in base a un sacco di parametri; se si era distaccata troppo dal soggetto preso in
considerazione, se il tratto non era pulito, se aveva sbavature di colore involontarie, era venuto uno
schifo. Era molto severa con se stessa, però mai quanto nella scrittura.
Ci trovò zia Amalia ai fornelli, ritta in piedi con le braccia incrociate al petto. Attendeva che la
torta nel forno fosse pronta, naturale: il profumo di mele e cannella si era diffuso fino in salotto.
“Che fai?” domandò alla nipote senza girarsi.
“Butto dei disegni venuti male.” Angela richiuse il coperchio della spazzatura e si sciacquò le mani
sotto il getto tiepido del lavello.
“Ah”, fu il commento della zia.
“Posso aiutarti in qualche modo con la cucina?” chiese la ragazza in un tono cordiale che lasciava
trasparire la sua tensione.
“No, grazie.” Zia Amalia ancora non si girava. “Al massimo puoi apparecchiare la tavola.”
Angela ci rimase un po’ male, ma si disse che in fondo doveva aspettarselo.
“Oh, tuo padre vuole che ti dica che domani c’è il mercatino dell’usato a Massa Lubrense, quindi
non potrai uscire con come-si-chiama Salti. Devi venire con noi. Tornerai a casa appena finita la
scuola, all’una, ce ne andremo alle due e torneremo alle sette di sera.”
La nipote rimase in silenzio per una manciata di secondi.
Non prendertela a male, dovevi aspettartelo…
… questo non mi impedisce di prendermela!
Serrò i pugni con aria torva. E così una splendida giornata era stata rovinata prima ancora di
iniziare. Non era possibile che facessero sempre così. Non era giusto. Zia Amalia non l’aveva
degnata di uno sguardo né prima né dopo aver sputato la sentenza.
Provò il desiderio di fare qualcosa per autoaffermarsi, una buona volta.
Inspirò a fondo, distese il viso e rilassò le mani.
“Non sono d’accordo, zia”, esordì con voce ferma.
La donna rimase immobile con gli occhi fissi sul forno, ma Angela capì che la stava ascoltando.
“Io e Alessandro avevamo dei progetti. Volevamo festeggiare insieme la fine della scuola e i nostri
compleanni con qualche giorno di anticipo. L’abbiamo stabilito da prima che papà decidesse di
andare al mercatino dell’usato, e gliel’ho pure detto. Dev’esserselo dimenticato. In ogni caso,
questo è quello che desidero. Restare qui.”
Amalia Vittoriano, finalmente, si voltò. Fissava la nipote con un’aria che voleva sembrare
impassibile, ma tradiva interesse.
“Tra pochissimo compirò diciotto anni, zia. Credo di essere abbastanza grande da poter rimanere a
casa da sola per un pomeriggio, poter uscire e avvalermi delle chiavi che mi avete dato per le
emergenze se avessi bisogno di tornare in anticipo. Credo di essere abbastanza matura da dover
rispettare i miei impegni, anche. Spero che ascolterete la mia richiesta: io obbedisco volentieri a
mio padre e a te… ma pretendo di essere trattata in maniera adulta.”
La zia taceva. Angela era felice di averla affrontata, ma si chiedeva se non avesse esagerato.
Quando il forno si spense, annunciando che la torta era pronta, zia Amalia non si mosse. Angela
paventava il momento in cui avrebbe riacquistato il dono della parola, si stava preparando a
qualcosa di grande.
Eppure quello che zia Amalia proferì fu:
“Vuoi aiutarmi con la pasta?”
Il volto della nipote si illuminò.
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“Certo.”
“Bene.”
Zia Amalia avanzò verso la credenza e ne tirò fuori una scatola di penne rigate.
“Ci parlerò io con tuo padre, non preoccuparti… Bene… Faremo una pasta al pomodoro semplice,
stasera. Tu puoi occuparti dei pomodori. Sai pulirli, vero?”
“Sì, zia”, rispose Angela con orgoglio. “So pulire i pomodori.”
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PARTE TERZA
Tragedia
“Non vi è nessuna ragione per cui un uomo debba mostrare la propria vita al mondo. Il mondo non
capisce.”
(Oscar Wilde, De Profundis)
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XXIV.
Fine dei giochi
“Che ore sono?” domandò Alessandro. Aveva la schiena appoggiata al muro e non poteva fare a
meno di tamburellare con i piedi; Irene avvertiva la sua trepidazione anche se stava cercando di
mantenersi calmo.
“Le due e due minuti”, bofonchiò lei, senza smettere di rovistare nella lavatrice. “Ah, eccolo il mio
vestito rosso!” soggiunse poi tutta soddisfatta, tenendolo davanti a sé per esaminarlo senza badare
all’umidità.
“Angela ormai sarà uscita da scuola”, continuò lui soprappensiero.
“Tu, invece, sei riuscito a saltare anche l’ultimo giorno. Immagino ti sentirai un uomo realizzato”,
lo stuzzicò Irene intanto che teneva il mento abbassato sul petto e si appiattiva l’abito addosso con
una mano sola, perché con l’altra reggeva i propri orecchini d’oro bianco a cerchio. Quanto avrebbe
desiderato uno specchio lì, a portata di mano…
“Devo lasciarla mangiare prima, aspettare che i suoi vadano al mercatino dell’usato e poi avviarmi
verso casa sua”, proseguì il ragazzo tra sé e sé.
“Che palle… me li reggi un attimo?” Irene allungò la mano con gli orecchini verso il fratello.
Lui li prese e se li infilò in tasca, assorto. Irene si alzò in piedi, il vestito appoggiato sul petto con
entrambe le mani adesso, e iniziò a passeggiare per la stanza. Si concesse dieci secondi di
fantasticherie, in cui si vide passeggiare sulla spiaggia di Taormina al fianco di Edo, amata e riverita
nelle luci della sera, anziché qui con una montagna di panni da stendere in un giorno identico a
qualsiasi altro…
“Ma sì… Magari le farò compagnia mentre mangia!” Di punto in bianco suo fratello schizzò fuori
dalla stanza – le aveva fatto prendere un colpo, per la miseria! – prima che lei avesse il tempo di
chiedergli se l’abito le donasse. Be’, si disse subito dopo, ti avrebbe risposto che non sapeva dare
consigli sull’abbigliamento, come al solito.
“E alla fine io le ho detto chiaro e tondo che avrei passato un’estate meravigliosa anche con le sue
stupide telefonate anonime. Che sarei stata con una persona speciale”, completò Angela.
Alessandro sorrise. E così certe cose stavano cambiando, in classe di lei.
“E Giusy è ammutolita?”
“Assolutamente sì.”
“Dobbiamo festeggiare.” Lui si mosse verso le loro borse, tirò la zip che chiudeva quella di lei e
cacciò fuori due lattine di Coca Cola a temperatura ambiente.
“Vuoi bere già ora?” sghignazzò la ragazza al suo ritorno.
Alessandro le si sedette di fronte a gambe incrociate, e per una volta non gli diede fastidio essere
in una macchia di luce sul pavimento.
“Voglio fare un brindisi”, spiegò.
“D’accordo.” Angela prese una delle Coca Cole, Alessandro aprì la propria e fece straripare un po’
di schiuma sul pavimento.
“Oh, cazzo…” alzò gli occhi al soffitto, rassegnato. Certe cose non sarebbero cambiate mai, invece.
Angela rise scuotendo la testa con tenerezza, e lui abbozzò un sorriso suo malgrado. Era proprio
bella, così luminosa e serena, inginocchiata nella sua stessa macchia di sole.
“A noi”, disse lei.
“A noi”, confermò lui.
Fecero cincin con le lattine e mandarono giù un sorso di bevanda.
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“Se proprio dobbiamo comprare un ventilatore nuovo, scegliamolo da un’altra parte”, ribatté
Amalia piccata. “Qui, di nuovo, non troverai niente.”
“Ma troveremo ventilatori a prezzi stracciati”, le ricordò il fratello, che per starle dietro si fece largo
tra una signora grassa e una ragazza con una borsa marrone.
“Da quando ti preoccupi del prezzo?” domandò lei senza girarsi.
Giuseppe si morse il labbro. Aveva percepito la frase sottesa: tanto sono io che pago, Giuseppe.
E lui lo detestava, detestava dover dipendere da lei, detestava che ad Acquarara le sue referenze e
la sua esperienza non contassero un accidenti. Sentì il bisogno di proseguire da solo.
“Vado a guardare quella bancarella di libri di testo usati, magari trovo qualcosa per Angela”, le
annunciò.
Finalmente sua sorella si volse. Aveva la fronte corrugata.
“Ma se non hai neppure la lista dei libri dell’anno prossimo.”
“Ti sbagli!” Giuseppe si frugò in tasca e tirò fuori un opuscolo del liceo artistico F.G. di Sorrento.
Sorrise quando Amalia sbatté le palpebre, e per un momento sembrò più simile a un bambino
ringalluzzito che a un quarantenne.
“L’ho trovata in salotto. Le farò una bella sorpresa se le prenderò alcune cose in anticipo.”
La zia di Angela fece per aprir bocca, probabilmente per chiedergli da cosa derivava questo
improvviso interesse per la figlia, ma si trattenne e annuì.
“Ti aspetto laggiù.”
Dopodiché scomparve tra la folla.
Giuseppe si avvicinò alla bancarella coi libri di testo. Visto che i prezzi sarebbero aumentati tra il
venti e il venticinque percento quell’anno (l’aveva letto sul giornale), il Comune di Massa Lubrense
aveva voluto aiutare le famiglie.
Scorse la lista, poi fissò la ragazza al di là del bancone. Gli sfuggì una smorfia. Non doveva avere
neppure cinque anni più di sua figlia e vestiva in maniera così provocante? Al mondo non c’era
proprio più criterio.
Ma il pensiero di Angela era pericoloso, perché gli procurava uno stato di tensione alla bocca dello
stomaco. Non sapeva esattamente perché. Forse si trattava di un presentimento, qualcosa che
risvegliava il suo istinto paterno.
Devo stare calmo. Angela è al sicuro, ad Acquarara, e non c’è nessun motivo per pensare che stia
per succedere qualcosa.
“Micetta, fa’ presto”, l’ammonì Edoardo, mentre dava una controllata all’orologio. “Se vogliamo
andare in albergo dobbiamo approfittarne adesso.”
“Aspetta solo un secondo, amoruccio”, disse lei oltre la porta del bagno.
Edoardo sorrise tra sé e sé. Non c’era niente di meglio di un pomeriggio infuocato nella suite
principale, poco ma sicuro. E se quelle stronze delle cameriere avessero fatto storie per il disordine,
be’, lui le avrebbe rimesse subito in riga. Provò un piacere un po’ perverso ad immaginare tutte le
cose che avrebbero fatto lui e Irene.
Proprio mentre era assorto in queste elucubrazioni, la porta del bagno si spalancò e ne uscì fuori la
sua ragazza con un vestito rosso che stentava ad arrivarle alle ginocchia. Lui aggrottò la fronte,
irritato.
“Be’? Non sto bene?” chiese lei ammiccante.
“È troppo corto. Non voglio che nessun altro ti veda così”, disse a denti stretti.
“Ma è estate, fa caldo…” provò a protestare lei con una vocina piccola piccola.
“Non voglio che nessun altro ti veda così”, ripeté Edoardo perentorio. “Devo camminare per strada
con te, come credi che mi sentirei sapendo cosa pensano della mia ragazza tutti gli allupati di questo
paese di merda?”
Irene abbassò lo sguardo.
“Mi metterò un cappotto lungo e non si noterà”, mormorò.
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Il suo ragazzo le concesse un sorriso magnanimo. Le si avvicinò e le ravviò un ricciolo – un gesto
che, Edoardo lo sapeva, la mandava in visibilio. Irene chiuse gli occhi, godendosi quel momento.
“Brava.”
Lei si illanguidì ancora di più.
“Oh, sai cosa ti renderebbe veramente perfetta, adesso? I tuoi orecchini d’oro bianco, amore.”
“Vado subito a cerca… oh!” la ragazza riaprì gli occhi, allarmata. “Li ho dati ad Alessandro!”
Lui sbatté le ciglia.
“E perché mai hai dato i tuoi orecchini migliori a quello scemo di tuo fratello?”
“Me li doveva reggere un momento, poi è schizzato via per incontrarsi con Angela Vittoriano e ce li
aveva ancora.” Lei si morse il labbro in apprensione.
Edoardo la fissò severo.
“Pensa se te li perdesse, distratto com’è.”
Irene ricambiò lo sguardo, supplichevole.
“Non è detto che me li perda…”
“Ma potrebbe succedere. È probabile che succeda. E poi, saresti stata così bella… peccato…”
Lui fece un sospiro e scosse la testa con aria teatrale, staccando con calcolata lentezza la mano dai
capelli di lei. Sapeva che Irene avrebbe fatto qualunque cosa pur di renderlo felice…
“P-prendiamo la tua macchina e andiamo a cercarlo, amoruccio? Voglio che sia tutto perfetto,
stasera”, lo guardò con occhi languidi, imploranti.
“Ma potrebbe essere dovunque…” Edoardo fece un sorriso sbilenco e piegò il capo, per metterla
alla prova.
“Acquarara è piccola, ci metteremo mezz’ora di macchina a setacciare tutte le strade. L’unica casa
in cui dobbiamo controllare è casa Vittoriano.”
“Ma tu mi hai detto che prendono le biciclette per uscire insieme. E se fossero, che ne so, nel
Deserto o in qualche altro posto un po’ fuori dal paese?”
“C-controlleremo anche lì.”
“Severus, cosa stai facendo?” Alessandro alzò la testa dal pavimento.
Angela, ritta in piedi di fronte a lui, si leccò le labbra con fare lussurioso.
“Sta’ zitto, Lupin”, gli ingiunse con la massima tranquillità.
“D-dov’è la mia pozione Antilupo?”
“Per quanto voi Lupi Mannari possiate essere tardi, in una situazione del genere perfino tu avresti
dovuto accorgerti che quella pozione è l’ultimo dei tuoi problemi.” ribatté lei.
Gli si accovacciò accanto. Gli sfiorò il ginocchio con una mano, la bocca incurvata in un sorriso
allusivo, poi fece scorrere le dita sul tessuto dei suoi jeans. Lentamente, quasi con dolcezza. Ma
quella calma letale prima della burrasca metteva i brividi ad Alessandro.
“Sai, ho sperato che tu fossi così distratto da non accorgerti dell’incantesimo imperturbabile che ho
fatto alla porta”, disse Angela soave, la mano che si avvicinava sempre di più alla chiusura lampo
dei pantaloni di lui. “Ho sperato di legarti…” accennò con la mano libera ai polsi stretti di
Alessandro. “E adesso la mia attesa è stata premiata.”
“Severus, cerca di essere ragionevole. Siamo entrambi professori di questa scuola, siamo colleghi.
Non hai motivo di farmi…” Il ragazzo brancolò alla ricerca di una parola adeguata, ma doveva
fingere di non avere la minima idea di cosa volesse il suo ‘carnefice’. “…nulla.”
“Neanche voi avevate motivo di farmi nulla, anni fa!” scattò lei atteggiando il volto in una
maschera di ira e rancore. “Eppure lo avete fatto, tu e Black e Minus e soprattutto quel Potter!”
“Eravamo d-dei ragazzi, Severus, nient’altro che rag-gazzi immaturi…” balbettò lui.
“Forse loro erano dei ragazzi immaturi, ma tu capivi. Capivi e non hai mai fatto niente per fermarli,
non è così? Te ne stavi sepolto col naso nei libri e mancavi ai tuoi doveri di Prefetto, Lupin. Eri il
peggiore. E adesso devi pagare.”
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E Angela si avventò su di lui baciandolo con veemenza, quasi mordendolo. Alessandro iniziò a
contorcersi, a fingere di resisterle, mentre invece ogni fibra del suo essere reclamava di venire
incatenata a lei.
“Arrenditi, Mocciosus. E apri la bocca”, ghignò la ragazza contro le sue labbra sigillate.
Alessandro obbedì…
“Accosta, Edo, accosta!” esclamò Irene, quasi strappandogli di mano il volante. Edoardo si stizzì
alquanto per il suo gesto, si vedeva dal suo tic nervoso alla bocca, ma si limitò ad allontanarla.
“Perché?”
“C’è la mountain bike di Alessandro lì!”
Il suo fidanzato accostò. Scesero entrambi ed andarono a ispezionare le due bici. Irene non aveva
mai prestato abbastanza attenzione alla bici di Angela per ricordarsela, però quella mountain bike
blu oltremare con la vernice scorticata in un punto preciso del telaio e il cestino e il sellino dipinti di
bianco non poteva che appartenere ad Alessandro.
Rivolse gli occhi di fronte a sé. Il Golfo di Napoli non si vedeva da lì, c’era una vegetazione
troppo fitta. In compenso c’era un casolare sullo sfondo.
“Iniziamo a scavalcare questa rete. Non possono essere lontani”, le sussurrò Edoardo all’orecchio.
“Sei sicuro?” lei era dubbiosa. E poi non le piaceva comportarsi come una bambina di sei anni che
giocava ad arrampicarsi chissà dove.
Edoardo fece spallucce e si aggrappò alla rete, cominciando la salita.
“Angela!” disse Alessandro senza fiato.
Angela smise all’istante di spingere, stravolta anche lei.
“Che c’è? Vuoi che interrompiamo qui?” domandò sollecita, mentre gli scostava una ciocca sudata
dalla fronte.
“No, non è questo… ho sentito un rumore”, spiegò lui, nell’attesa che il respiro tornasse regolare.
“Che genere di rumore?” la ragazza girò la testa per un attimo, poi tornò a guardarlo.
“Uno scricchiolio strano, quasi… metallico”, ansimò Alessandro, contraendo le mani legate.
“Probabilmente era solo il vento. Non preoccuparti.”
Il ragazzo la fissò per qualche istante, prima di sorridere lentamente.
“Già… magari era solo il vento… lascia perdere… Severus.”
Sul viso di Angela si allargò un ghigno.
“No che non lascio perdere, Lupin!”
E riprese a tutta velocità.
“Angela!”
Irene ed Edoardo si scambiarono un’occhiata eloquente. Era proprio lì che si trovavano, gli altri
due.
E a giudicare dal tono spaventato di suo fratello, non si erano concessi una gita di piacere.
Senza pensarci due volte, la ragazza iniziò la scalata, dietro Edoardo. C’erano dei sussurri nel
casolare, adesso, ma non erano importanti… non quanto la paura nella voce di Alessandro.
Alessandro si era lasciato andare alla sua nuova dimensione, arreso completamente alla potenza di
Angela. Meraviglia, incredulità, eccitazione e un sottile filo di paura a permeare il tutto, le
conosceva così bene! Lo travolgevano e defluivano dal suo corpo, come le onde del mare, come un
gioco di catarsi e tempesta senza fine, e sapeva che tra poco sarebbe stato sommerso dal piacere,
sarebbe esploso finché Angela avesse continuato a possederlo in quel modo, finché…
Finché non si sentì stringere i polsi da una morsa d’acciaio. Tentò di riemergere dagli abissi, di
fare chiarezza… Angela non lo avrebbe mai stretto così. Anche nella sua durezza, in lei c’era
sempre qualcosa di dolce e delicato. Riaprì gli occhi e agghiacciò.
“Irene!” urlò.
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“Togliti, stronza!” la sorella si staccò del tutto e lui seppe di avere ancora i polsi, ma strattonò
Angela, ancora a cavalcioni, e la mandò a sbattere contro la parete. Una delle due urlò, ma avrebbe
potuto essere un ruggito di dolore o di rabbia, e Alessandro era troppo confuso per sapere se
Angela…
“Che sta succedendo qui?” Un fruscio e uno strappo. Si accorse di avere i polsi liberi, era stato
Edoardo a pronunciare quella frase. Alessandro scattò a sedere, gli occhi spalancati e una serie di
tonfi nelle orecchie.
“Lascialo stare, brutta stronza!” Irene le diede una manata in petto. Angela non reagiva. Si limitava
a massaggiarsi la schiena e a ricambiare lo sguardo torva.
“N-no, Irene, guarda che non è come credi tu…” Barcollando, Alessandro tornò in piedi e tentò di
riabbottonarsi i pantaloni, le guance incandescenti, il preservativo cascato a terra.
“Non è come credo io? Ti aveva legato, ti stava violentando!” Irene fece per scagliarsi sull’altra
ragazza – cazzo, no, lasciala stare! –, ma il suo fidanzato la trattenne con le braccia dietro la
schiena esclamando “Ferma, sta’ ferma, prima devo capire!”. Alessandro si rese conto che il volto
di Edoardo era color mattone, e immaginò stesse facendo uno sforzo considerevole per mostrarsi
calmo.
Il suo sguardo guizzò su Angela, che se ne stava con le spalle al muro senza dire una parola, nuda
dalla vita in giù, e il suo silenzio lo spinse a urlare ancora:
“Stavamo solo giocando, maledizione!”
“Tu adesso vieni a casa con noi!” ringhiò Edoardo, puntandogli il dito contro come la canna di una
pistola.
“No che non ci vengo! Chi vi ha dato il permesso di interromperci?” l’altro si impose di non
arretrare né abbassare la voce.
“Alessandro, vai.”
Lui si girò verso la sua ragazza. Angela annuì, risoluta, e ripeté l’ordine.
“Vai con loro.”
“Ma…”
“Vai.”
Alessandro comprese dai suoi occhi che lei faceva sul serio. Cercò di leggerle in volto un indizio,
un disegno, un piano, qualsiasi cosa, ma lei era quasi del tutto impassibile, se non fosse stato per un
pizzico di paura che lasciava trasparire a stento, come uno dei mille giochi di luci e di ombre del
casolare.
Assecondala. Per uscire da questa situazione dovete separarvi, dovete essere accondiscendenti e
placarli. Mantenete il sangue freddo.
Si allontanò da Angela senza smettere di fissarla, col fiatone, e si apprestò a seguire sua sorella e il
suo ragazzo.
“Dentro!” Irene strattonò Alessandro fino al soggiorno, lo spinse sul divano – che arretrò di
qualche centimetro sotto il peso del ragazzo – e si gettò sulla poltrona.
Edoardo si preoccupò di richiudere la porta e di avanzare verso gli altri due, a braccia conserte,
meditabondo. Non riusciva a scacciare dalla testa l’immagine di quella ragazzina, di quella donna
che faceva… Buon Dio, non voleva pensarci, eppure ci pensava. Sapeva che c’era qualcosa di
tremendamente sbagliato in quella storia. E la sua ragazza non tardò ad esprimerlo:
“Io ti ho dato carta bianca!” strillò, gli occhi fuori dalle orbite, puntando il dito contro il fratello.
“Credevo che fossi normale!”
“Irene, calmati”, disse Alessandro, le mani congiunte in grembo, lo sguardo febbrile.
Edoardo si appoggiò alla colonna del salotto.
“Lascia che ti spieghi…” continuò il fratello di Irene.
“E invece ti fai costringere da una qualunque a farti legare, a farti fare le torture!”
“Nessuno ha costretto nessuno, Angela non mi stava torturando e certamente non è una
qualunque…”
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“Ti ha fatto uscire anche di cervello!” Irene ebbe uno scatto nervoso e sputacchiò un po’ di saliva.
“Ti sbagli”, replicò Alessandro con una calma che faceva stizzire Edoardo. “Se mi lasci parlare ti
spiegherò tutto. Vuoi ascoltarmi, per favore?”
Irene si abbandonò contro lo schienale della poltrona, mordendosi il labbro con vera furia e
guardando torva il fratello.
“Io e Angela ci siamo iscritti a quel concorso letterario per il premio Fantawriters, ti ricordi? Te ne
ho parlato.”
La sorella non rispose e continuò a squadrarlo con sospetto.
“Una sera, siccome non riuscivamo a scrivere una scena di rapimento, abbiamo deciso di
interpretare i nostri personaggi, lei faceva Jonathan e io Lily, e abbiamo scoperto che questi giochi
di ruolo ci piacciono tantissimo, perciò…”
“Ah, adesso non sai neppure più distinguere i giochi di ruolo dalla realtà!” lo interruppe Irene, le
sopracciglia talmente aggrottate da congiungersi al centro.
Anche Alessandro corrugò la fronte. Sillabò:
“No, Irene. Forse sei tu a non saper distinguere i giochi di ruolo dalla realtà. Non c’è niente di male
ad avere fantasie un po’ particolari, finché si usano delle precauzioni, sai? Questo perché c’è
differenza tra giocare e fare sul serio.”
“Come ti permetti di fare cose così perverse e dolorose, soprattutto? Come si è permessa lei di
sfiorare mio fratello, dico io!” Irene tornò alla carica come se non avesse sentito nulla.
“Concordo…” borbottò Edoardo dalla propria postazione.
“Si è permessa perché è la mia ragazza, mi ama e vuole quello che voglio io!” esclamò Alessandro
con una certa veemenza. “Non parlare così male di cose e persone che non conosci minimamente,
grazie. Dovresti saperlo anche tu che il sesso è il modo più intimo per comunicare, e che giudicare
per partito preso è…”
“Ok, ok, non farmi una lezioncina sull’amore, Alessandro, ne abbiamo già parlato. Sta di fatto che
io non capisco come possiate anche solo pensare di dimostrare i vostri sentimenti attraverso il
dolore.”
“Perché tu non lo senti dentro. Non riesci a percepire la differenza tra dolore negativo e dolore
positivo, tra dolore costruttivo e dolore distruttivo. È una cosa che ti è troppo estranea, si vede. Non
fai altro che concentrarti sul dolore come se fosse la cosa più schifosa della Terra, per colpa dei
preconcetti che ti ficca in testa questa società. Perché il dolore, un dolore misurato e controllato,
non potrebbe essere liberatorio, gradevole per alcune persone? Perché? Non hai idea di quanta
sensibilità e quanta connessione mentale ci voglia perché una scena funzioni. Non hai idea di
quanto rispetto e di quanta fiducia siano necessari, quanto amore comporti affidarsi l’uno all’altro, e
nulla mi vieta che non lo capirai mai, perché semplicemente non puoi.”
Edoardo buttò un’occhiata a Irene, che ora sedeva proiettata in avanti con le mani sui braccioli
della poltrona. Aveva lo sguardo appannato, come se fosse lontana anni luce da quel salotto. E poi
espresse ad alta voce quello che Edoardo stava pensando:
“Tu sei pazzo, Alessandro. E lei è più pazza di te. Non dirò niente a mamma, ma farò di tutto perché
tu non la riveda mai più. Ora vattene in camera tua.”
“No.”
Edoardo alzò un sopracciglio. Come osava rispondere di no a Irene, quel piccolo pazzo arrogante?
Scattò verso di lui prima ancora che l’altro potesse rendersene conto. Un attimo dopo, il piccolo
pazzo arrogante si divincolava inutilmente, mentre Edoardo lo teneva per il bavero, gli occhi ridotti
a fessure.
“Hai sentito tua sorella, stronzetto?” gli alitò a un centimetro dal volto. “Vattene in camera tua, o ti
ci spedisco io.”
“Non potete costringermi a fare qualcosa che non voglio fare!”, sbraitò Alessandro – come si
permetteva di non avere paura o di reprimerla?! – e la sua mano si chiuse sul braccio con cui
Edoardo lo teneva.
“Ah, no?”
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Edoardo lo tirò tanto per la maglietta che quella fece uno straaap sinistro. Mentre lo stronzetto
continuava a contorcersi, Edoardo lo obbligò a seguirlo incurante dei suoi fastidiosissimi “lasciami,
bastardo!”. Stavano per arrivare al corridoio che conduceva alle camere private, quando Alessandro
riuscì ad aggrapparsi alla libreria incassata nel muro con un ultimo “lasciami!”.
“Irene, di’ qualcosa!” Alessandro si volse con un filo di speranza verso la sorella, che sedeva al suo
posto senza degnarlo di uno sguardo, massaggiandosi le tempie e dimenando il capo.
Quell’immagine lo annichilì al punto che Edoardo poté approfittarne per assestargli un micidiale
pugno al diaframma. Con un rantolo, Alessandro si afflosciò a terra e Edoardo lo trascinò per i
capelli.
“L-lasc-sciami, E-E-E-doar…” disse debolmente, le mani che brancolavano nel tentativo di liberare
i capelli dalla sua stretta.
“Cos’è, non ti piace, masochista di merda?” il ragazzo spalancò la porta della sua stanza, lo
scaraventò all’interno senza tante cerimonie e serrò la porta a chiave. Nel tornare in soggiorno udì
Alessandro pestare i pugni contro l’uscio, gridandogli di lasciarlo uscire, di dargli un’altra
possibilità di spiegarsi, di non fare niente di male ad Angela.
Ma né Irene né Edoardo lo accontentarono. In nessuna di queste tre cose.
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XXV.
Prenderle da adulta
Angela inserì le chiavi nella toppa con un sospiro. Da quando si era separata da Alessandro aveva
vagato per le strade di Acquarara come un’ubriaca, senza meta e senza scopo, concentrata sullo
scampanellio della sua bicicletta. Dopodiché si era decisa a tornare a casa. Voleva mettersi a letto e
dimenticare quella giornata: forse l’indomani mattina avrebbe trovato una soluzione con la mente
fresca e riposata. Già, forse… Richiuse la porta alle sue spalle, posò le chiavi sul piatto di ceramica
nell’ingresso e percorse il corridoio, fino all’uscio coi vetri smerigliati del soggiorno. Quando lo
aprì, si accorse che suo padre era seduto su una sedia accanto al tavolo, e si teneva la testa tra le
mani.
“Che c’è, papà?” chiese Angela, un oscuro presentimento che si faceva strada dentro di lei.
L’uomo alzò lentamente il capo e la fissò con uno sguardo terribile: sembrava spento e luccicante
allo stesso tempo. La ragazza ebbe un tuffo al cuore a quello spettacolo.
“Siediti”, le intimò. “Siediti prima che ti sfasci la testa.”
Angela obbedì.
“Irene Salti mi ha appena raccontato una cosa, Angela.”
Lei rimase zitta, i suoi peggiori sospetti confermati. E così Irene non era stata in grado di tenersi
per sé quel segreto oltre le due ore scarse. Adesso toccava a lei e a Alessandro raccogliere i cocci.
“Mi ha raccontato che ha trovato te e suo fratello piccolo a fare cose strane, molto strane. Dice che
tu gli hai fatto il lavaggio del cervello e lo hai convinto a farsi legare i polsi. Dice che hai fatto
anche quella cosa che le brave ragazze fanno dopo il matrimonio, mentre il fratello di Irene Salti era
indifeso e incapace di difendersi.”
Angela batté le ciglia e deglutì. Il padre deglutì nello stesso momento; buffo, oppure no. Per un
attimo le apparve molto meno sicuro di sé.
“È così, puttana?” ringhiò lui, poi perse la sua verve: “Te… te lo sei scopato?” esalò a mezza voce.
La ragazza serrò le gambe, ma disse con voce abbastanza ferma:
“Sì, ci sono andata a letto. E devo confessarti che non era la prima volta che lo facevamo.”
Anche il padre sbatté le palpebre, nell’impossibilità di far fronte a quello che la figlia gli aveva
riferito. I suoi occhi luccicarono come se si stesse spezzando in due, ma subito dopo lui strinse i
pugni, una vena che pulsava sulla tempia, e sbraitò:
“Spiegami perché! Perché lo hai fatto! E vedi di risultare convincente, puttanella, sennò ti faccio
pentire di essere nata.”
Angela era terrorizzata, non aveva mai visto suo padre così nemmeno nei momenti di foga più
grande; sembrava che si stesse risvegliando qualcosa di ancestrale in lui. Ma forse quella avrebbe
potuto essere la sua unica possibilità di spiegarsi. Così, ancora a gambe serrate, si mise dritta e
pronunciò con la voce calma, potente, sicura che aveva durante le loro sessioni:
“So che potrà essere molto difficile da accettare per te, siccome mi vedi ancora come una bambina.
Ma vorrei che facessi lo sforzo di tentare di capire il mio punto di vista. Metterti nei miei panni. Nei
nostri panni; miei e di Alessandro.”
Sostenne lo sguardo del padre, che si stava indurendo ogni secondo di più.
“Prima di tutto, dovresti sapere che hai una figlia di carne e sangue, e non di ferro o di metallo, e
che quindi, come chiunque altro, ha pulsioni e desideri. Ho trovato qualcuno con cui condividerli.”
Trasse un respiro profondo.
“Mi sono innamorata di lui, papà… è la prima volta che mi succede, e so che lui prova lo stesso per
me. Perciò cerca di partire dal presupposto che non facciamo ‘cose sconce’ senza un briciolo di
considerazione l’una per l’altro. So che il BDSM non lo conosci bene, che ne hai una visione molto
stereotipata e limitata a informazioni di terza mano. Io però ho fatto delle ricerche in merito,
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ricerche che mi hanno portata a credere… anzi no, a capire… che il sesso tra me e Alessandro non
ha nulla di perverso. Non più di quanto ce lo abbia il sesso classico, che nell’ambito del BDSM si
chiama ‘vanilla’. Perché il BDSM visto da fuori sembra tutto frustini e manette e violenza simulata,
ma c’è un forte aspetto psicologico e filosofico dietro.”
Suo padre scosse pochissimo la testa, di nuovo spaventato, ma lei proseguì:
“Io e Alessandro abbiamo imparato a conoscerci, in questi nove mesi passati ad Acquarara, e adesso
ne so abbastanza su di lui da poterti spiegare cosa prova, così come lui potrà fare altrettanto per me.
Vedi, è sempre stato un ragazzo chiuso e introverso, ha avuto problemi a fare amicizia e ad aprirsi
con altre persone” – strinse i pugni – “è stato ferito. Mascherava quelle stesse ferite dicendo che non
gli piaceva nessuno e sentiva di dover trattenere tutte le sue emozioni, di doversi mostrare sempre
controllato, invulnerabile e cresciuto, di non potersi confidare né fidare. Ma di me si è fidato.”
Non poté fare a meno di sorridere a quel pensiero.
“Mi ha eletta, mi ha dato il suo corpo e la sua mente come non aveva mai fatto con nessun essere
umano, mi ha detto ‘fanne ciò che vuoi’. E da parte mia l’ho ripagato dandogli la mia forza e la mia
disciplina, due qualità che non avevo idea di possedere. Le ho scoperte con lui, grazie a lui.”
Adesso toccò a lei squadrare suo padre con aria di rimprovero. Eppure riconobbe anche una certa
malinconia, qualcosa che le prendeva la gola e il ventre.
“Tu e zia purtroppo mi avete sempre relegata agli angoli della mia esistenza, facendomi sentire
un’inetta e un’incapace. Per la prima volta, con Alessandro, mi sono sentita forte, vitale, coinvolta.
Credimi se ti dico che io non avrei mai potuto fargli davvero del male, che ho sempre saputo
quando dovevo fermami, che avevamo concordato una parola d’ordine per limitare i rischi, che non
abbiamo praticato in maniera irresponsabile o pericolosa. Credimi se ti dico che io non l’ho mai
ferito con odio, non l’ho mai ferito per sentirmi superiore; l’ho fatto perché era quello che
desiderava, quello di cui aveva bisogno.”
Le ci volle uno sforzo immane per mantenere il tono fermo e controllato.
“In questi mesi io e Alessandro, grazie alle nostre confidenze e anche al BDSM, abbiamo imparato
a sconfiggere i nostri demoni, affrontare le nostre paure, ci siamo sentiti liberi. Questa esperienza
mi ha fatta maturare, e ora quel mistero chiamato Angela Vittoriano non mi fa più paura. Io sono
fermamente convinta che la gioia e la sofferenza, il dolore e il piacere possano stare insieme, perché
sono l’uno l’opposto dell’altro, perché non esisterebbero l’uno senza l’altro. È stato così per noi. È
stato qualcosa che non dimenticherò mai.”
Quanto aveva parlato? Un’ora? Un anno? Non era importante. Quello che contava era che Angela
aveva fronteggiato quell’uomo con un coraggio e una dignità adulta. Provò stima per se stessa,
esattamente come ne provava con il suo ragazzo al fianco.
Ma quello fu uno degli ultimi istanti in cui si stimò, nella sua vita.
Suo padre scattò verso di lei prima ancora che la ragazza avesse la capacità di pensare a
qualcos’altro, le afferrò le spalle e la scosse, disperato: “Di-dimmi che non fai sul serio, Angela!
Dimmi che è tutto uno scherzo bastardo di Irene Salti!”
Angela sbatacchiò avanti e indietro finché lui non la lasciò andare. Quindi gli disse:
“No, papà. È tutto vero.”
“Dimmi che sai che hai fatto cose oscene e malvagie! Ti prego, dimmelo, dimmelo che sei sana…”
“Cosa?” gli occhi azzurri di lei si dilatarono. “Io e Alessandro non abbiamo fatto nulla del genere!
Noi ci amia…”
Accadde così in fretta che non realizzò al cento per cento cos’era successo. Seppe soltanto che un
attimo prima era seduta con lui che incombeva su di lei, un attimo dopo era a terra, la sedia
rovesciata e un dolore terribile alla schiena.
“Puttana! Mostro che non sei altro! Elisabetta ha partorito un mostro, io ho cresciuto un mostro!”
Angela non abbassò lo sguardo con aria contrita, come aveva sempre fatto di fronte alle sue accuse
e le sue strigliate. Ignorò il dolore pulsante alla schiena, dominò l’impulso di strisciare e implorare
perdono e continuò a fissarlo strenuamente, coraggiosamente. Doveva farlo per Alessandro. Doveva
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farlo per tutti quelli che, come loro, praticavano il BDSM senza essere mostri. Doveva farlo perché
ormai era troppo grande, troppo egoista, troppo idealista per piegarsi ancora.
“Io non sono una puttana, papà, non sono neppure un mostro e sono innamorata di lui. Se non riesci
a capirlo peggio per te.”
Con ogni probabilità suo padre non si attendeva questa risposta. Perché non riuscì a sostenere lo
sguardo di lei, lo stornò altrove. Tremava, Angela non sapeva se per la collera o per il dolore o per
la paura. E poi dichiarò, con una folle razionalità:
“D’accordo, bambina… io ci ho provato con le buone… ma tu non collabori…” si portò le mani
alla vista. Si morse il labbro e annuì con espressione risoluta. “…s-se questa cosa viene fuori a
Acquarara… uno deve prendere dei… dei provvedimenti… è… ” Scosse la testa, per un attimo
ridacchiò isterico, emise un verso strozzato.
In quella, Angela udì un movimento alla sua sinistra, verso la soglia, e si volse di scatto: zia
Amalia.
“Zia”, disse con voce imperturbabile, quasi sommessa, assumendo una postura più dritta. Nutrì la
fantasia che la sorella di suo padre lo avrebbe placato. Zia Amalia non apparteneva a nessuna
categoria, no? Era più libera di suo padre. Era…
“Volevi essere trattata da adulta, Angela, non è vero?” domandò la donna in tono tagliente e
glaciale; era appoggiata allo stipite della porta con le mani lungo i fianchi, i suoi occhi non davano
alcun segno di vita. “E adesso le prendi da adulta, da ragazza di quasi diciotto anni. E da puttana
quale sei.”
Angela percepì qualcosa frantumarsi, dentro di lei. Il vetro delle apparenze che finiva in mille
pezzi. Poteva sentirne il rumore.
Zia Amalia si scostò dalla porta e si allontanò in silenzio, magari per chiudersi nella sua stanza
come se la cosa non la riguardasse affatto, come se fosse tutto normale…
“No…” Angela scosse la testa, dapprima lenta, dopodiché sempre più rapida. “No, no, no! Non
avete capito niente, se pensate che quelli come me meritino questo!” gridò con quanto fiato aveva in
gola.
“ZITTA, IN NOME DI DIO!” Giuseppe agitò il pugno destro, le lacrime che erano tornate a
brillargli negli occhi, e poi dal dolore passò di nuovo alla furia. “Sei tu a non capire, devi essere
punita per la tua perversione! E ora m-mettiti sulla schiena!”
“No!” lei gridò la sua ribellione.
“Mettiti sulla schiena, troia!”
“No! Papà, non credere alla finzione!”
“E allora ti ci metto io!”
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XXVI.
Il patto
Se la ringhiera di metallo fosse stata viva avrebbe urlato di dolore. Pietro non faceva che alzare e
abbassare la fiamma del suo accendino, scaldando sempre lo stesso punto. Gerardo, seduto sulla
scalinata dietro di lui, fissava il loro interlocutore con lo sguardo vacuo e la bocca semiaperta.
Pietro faceva dardeggiare il proprio sguardo in giro, e tornava a concentrarsi sulla fiammella
arancione che lambiva la sbarra, sulle sue tracce di rosso sbiadito…
Quasi tutti sapevano che Pietro aveva una passione per il fuoco che sconfinava nella piromania.
Aveva scottato ragazzini con quello, aveva incendiato la coda a molti gatti solo per divertirsi, ed era
famoso per organizzare piccoli falò di foglie e insetti se si annoiava. Quello che quasi nessuno
sapeva, invece, era che a scuola una materia su tutte catturava la sua attenzione: la filosofia. Sì, era
affascinato dallo Stoicismo, che diceva che il Mondo era nato dal fuoco e dal fuoco sarebbe stato
distrutto e poi rigenerato. Tutto nasceva e moriva lì. E il fuoco era nelle sue mani in quel momento.
Tornò a rivolgere lo sguardo al ragazzo di fronte a lui, con un blando interesse.
“E che vantaggio ne ricavo, se ci sto?” chiese.
Edoardo cominciò a spazientirsi, lo vedeva dal modo in cui si agitava sul posto.
“Mi pare ovvio, Pietro.”
“Tutto qui?”
“Senti…” Edoardo si sporse verso di lui, gli occhi neri scintillanti. “Se non hai le palle per farlo non
starò qui a tentare di convincerti.”
Oh, certo, adesso si vuole giocare la carta della paura. Molto furbo.
“Non ho detto che non voglio farlo”, disse Pietro con calma misurata.
“E allora parla chiaro, perché abbiamo i minuti contati.”
Il tono di Edoardo non era eccessivamente duro. Si era limitato a fare una richiesta e ad incalzare.
Doveva ben sapere che se voleva tirarlo dalla sua parte non poteva rischiare di offendere.
“Hai detto che puoi rivolgerti solo a noi”, fece notare Pietro piano.
“Sì”, confermò Edoardo con uno sbuffo, “come ti ho già spiegato, i miei amici non ci starebbero.
Sono tutti figli di papà preoccupati di cosa penseranno di loro se verrà fuori. Non capiscono che
nessuno crederà a quella troia, non avrebbero il fegato di provare. Posso rivolgermi a voi due,
quindi.”
Mmmh, davvero molto furbo. Vuole farmi sentire importante perché può contare su di noi e non su
dei ragazzi più grandi. È proprio un maestro all’opera. Ma Pietro dovette ammettere che l’altro
aveva centrato in pieno. Aveva gratificato il suo ego e lui aveva ottenuto quello che desiderava.
Sorrise. Non c’era più motivo di fare resistenza.
Si voltò di scatto verso Gerardo.
“Tu ci stai a punire una stronza, vero?”
“S-sì”, rispose prontamente quest’ultimo.
Certo. D’altronde che altro potresti fare, Gerardo? Sono io che comando qui. Pietro si rivolse ad
Edoardo e pronunciò la frase che avrebbe decretato la distruzione di Angela Vittoriano:
“Per me va bene.”
97
XXVII.
Il leone, il serpente e il mulo
Quando Angela riaprì gli occhi, la prima cosa che la colpì fu il dolore. Anzi, il Dolore. Aveva male
dappertutto, alle braccia, alle cosce, alla schiena, alle natiche. Con cautela, borbottando un “ah” di
tanto in tanto, si mise a sedere. Nel guardare i suoi jeans e la sua maglietta lilla, si domandò perché
si fosse addormentata vestita e come mai avesse gli avambracci ricoperti di lividi.
Poi affiorarono i ricordi, uno dopo l’altro dal vortice della sua mente.
Papà… discusso… picchiata… Irene… zia Amalia… Severus Piton e Remus Lupin… scoperti…
Qualcosa le sprofondò verso lo stomaco, pesante come un filone di pane non lievitato e ficcato in
bocca con brutalità.
Ma che ore erano adesso? Dov’era suo padre? Cosa stava facendo Alessandro?
Calma. Sta’ calma, o almeno provaci, provaci con tutte le tue forze. Controlla sul cellulare.
Istintivamente si portò le mani alla tasca, ma ebbe un piccolo sussulto appena si rese conto che era
vuota.
Picchiata… stavo strisciando… mi ha dato uno strattone prima di sparire, dev’essere stato allora
che me l’ha tolto, e—e io non me ne sono accorta.
Per qualche motivo il sussulto le era rimasto incastrato, le echeggiava su e giù dallo stomaco
all’epiglottide, dall’epiglottide allo stomaco. Mordendosi il labbro, prese la risoluzione di provare
ad alzarsi. Si resse al bracciolo del divano e, strizzando gli occhi, si mise in piedi. Il corpo le
pulsava nei punti dove il padre l’aveva colpita, e per essere elastica doveva impegnarsi allo strenuo.
Zoppicò un paio di volte, poi si diresse abbastanza ferma verso la porta coi vetri smerigliati. Cercò
di aprirla. Niente. L’avevano chiusa dentro. Le avevano sequestrato il telefonino. Cos’altro
meditavano di farle?
Si voltò verso l’uscio che dava sul giardino scuotendo la testa a più riprese, il sussulto che si era
trasformato in un fremito. A… a giudicare dalla posizione del sole e dalla luce rossastra che
penetrava nella stanza, doveva essere il tramonto. Dunque aveva dormito tutto il giorno.
Non piangere.
Alessandro.
Alessandro è…
Arrancò verso l’uscio del giardino, e con una lieve sorpresa si accorse che era aperto. E mentre
superava il pergolato e procedeva verso la siepe, le gambe diventavano a mano a mano più agili, più
svelte. Più forti.
Devo aiutarlo. Chissà cosa gli avranno fatto Irene e Edoardo. Lo libererò.
Come pensi di fare?
L’unica è scavalcare questa siepe.
Ma è una cosa impossibile!
Improbabile, ma non impossibile. E io devo provare.
Si resse al pergolato con una mano per issarsi sul muretto sotto la siepe. Ok, non era troppo alta…
ma nemmeno troppo bassa. Si tenne in punta di piedi e strinse forte il pergolato, per far passare la
sua gamba destra al di là della siepe, e per qualche motivo quella pulsazione dolorosa alla pelle le
parve diminuire. Forse era qualcosa da dentro a star diminuendo, e a stare passando a poco a poco
pure fuori.
Sto arrivando, Alessandro… pensò mentre si aggrappava con le mani dove poteva, si slanciava su
un fianco e sentiva degli scricchiolii sinistri di rametti che avrebbero potuto sbilanciarla da un
momento all’altro. E l’immagine della siepe si fondeva con l’immagine della rete oltre la quale
c’era il casolare.
Il suo braccio destro affondò nella siepe e un ramoscello si spezzò, squarciandole la manica.
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“Cazzo…” Angela cambiò percorso, provando a ignorare il fastidioso prurito del suo nuovo graffio.
Poi il suo piede toccò il muretto, lei rimase sospesa a mezz’aria con l’altra gamba, ed ebbe la
certezza spaventosa che sarebbe caduta con la schiena a terra, restando paralizzata a vita. Mulinò le
braccia per tenersi in equilibrio quando ci posò anche l’altro piede sopra, ansimò, si aggrappò alla
siepe, esitò. Aveva una foglia nei capelli, ma non si preoccupò di strapparla via. Occhi chiusi.
Vertigini. Occhi aperti. Le foglie verdi davanti a lei ondeggiavano, ondeggiavano, erano immobili.
Mormorando “ti prego” a fior di labbra, si volse di schiena e si calò giù con un salto che le fece
arrivare il cuore in gola.
Dio mio, sono libera!
Non credeva che ci sarebbe riuscita veramente. Ma spese soltanto una frazione di secondo a
meravigliarsi della sua vittoria. Poi incominciò a correre.
Via Giacomo Leopardi numero 19, via Giacomo Leopardi numero 19…
Oltrepassò Sale & Pepe, Tortorella e la piazza dove quel gruppo improvvisato aveva suonato a
Natale. Le parve di tornare indietro nel tempo, fino alla sera in cui lei e Alessandro si erano
ritrovati.
Se la madre lo ha segregato in casa proverò a spiegarle con calma come stanno le cose. E se
reagirà come mio padre, farò la pazza.
Dolore, ancora Dolore, dev’essere l’adrenalina che cala…
Stava per raggiungere l’abitazione, sarebbe bastato svoltare l’angolo e l’avrebbe trovata di
fronte… quando due fasci di luce le si piantarono negli occhi, accecandola per un istante.
Lei si arrestò di colpo, aguzzò la vista e riconobbe la BMW di Edoardo. Lui scese, e con un moto
di rabbia Angela si rese conto che ad accompagnarlo c’erano anche Pietro e Gerardo.
“Cerchi Alessandro, non è vero?” disse Edoardo con voce ferma. Sembrava placido, quasi
preoccupato.
Angela strinse i pugni, conscia di non aver pensato a quell’imprevisto, e fece un brusco cenno
d’assenso.
“È tutta colpa tua se non c’è!” Gerardo le si scagliò contro con violenza.
Cosa?
“Sta’ zitto, deficiente!” Pietro gli diede una manata nella schiena, arrabbiato.
“Che significa che Alessandro non c’è?” lei spostò lo sguardo da Gerardo, visibilmente pentito di
aver proferito verbo, a Pietro, che le restituiva un’occhiata di fuoco, e infine a Edoardo, che se ne
stava a braccia conserte accanto allo sportello ancora aperto. Lui lasciò passare un attimo prima di
rispondere.
“Significa che è scappato di casa. Quando ha avuto una discussione con sua madre a causa della
vostra… stranezza. Adesso è nel casolare dove vi abbiamo trovato l’altra volta. Ci ho appena
parlato, ma dice che non si muoverà finché non ti avrà vista. Deve dirti qualcosa di importante,
pare. Davvero, era così sconvolto che non si è capita una mazza. Ci servi tu.”
Angela si azzannò il labbro. Provava ancora un briciolo di fiducia in Edoardo – aveva anche
tentato di placare l’accesso di ira di Irene, diamine – e pensava che con lui presente gli altri due
non si sarebbero azzardati a farle niente. Perciò non oppose resistenza quando Edoardo le fece
notare che l’unico modo per schiodare il ragazzo da lì era che lei andasse con loro. Salì sul sedile
anteriore di quella macchina e fissò Edoardo che ingranava la prima, la mente che correva ad
Alessandro. Cosa voleva dirle? Forse che non dovevano vedersi mai più? No, Alessandro non
avrebbe mai neanche pensato una cosa del genere…
Perché non ho incontrato quasi nessuno, per strada? Cazzo, quel graffio brucia da morire… Sono
a messa? Le dicerie su di noi sono già cominciate? Sono tutti a casa di Nina a chiamare la polizia
per trovare Alessandro? Dio mio, Dio mio, dobbiamo restare uniti.
Rimase seduta lì mentre l’auto si addentrava nel Deserto. Fino a quando non si stoppò, immersa
nella vegetazione.
“Ma… questa non è la strada per il casolare”, disse Angela con voce atona.
99
“Lo so, lo so.” Edoardo non la guardava negli occhi. Aveva lo sguardo fisso nello specchietto, fisso
sugli altri due.
Giuro che se continua a non guardarmi…
“Che cosa state…” cominciò.
Edoardo si volse verso di lei. E sostenere il suo sguardo famelico fu addirittura peggio.
“Scendi dalla macchina”, le intimò con calma.
La ragazza sentì un brivido, qualcosa di atavico che si diffondeva sotto la pelle. Come se una
piccola parte del suo animo avesse già compreso cosa stava per avvenire.
“Perché?” la sua voce era ragionevole, almeno per ora.
“Scendi dalla macchina!” Il fidanzato di Irene la afferrò per un braccio e la costrinse a scendere.
“Lasciami, mi fai male! Non provare mai più a toccarmi così!”
“Io voglio essere il terzo!” esclamò Gerardo reprimendo a stento l’eccitazione.
Per Angela quelle parole erano senza senso, perché la sua parte razionale voleva rifiutarsi di
vedere, ma l’istinto, l’istinto le diceva tutt’altro …
“E ora togliti la maglietta, troia.” Edoardo aveva il respiro corto e un sorriso orrendo che gli
aleggiava sulle labbra.
“Cosa?! Che vi siete messi in testa?” anche se la voce di lei si sforzava di rimanere sicura, una
paralisi si stava propagando in tutto il suo corpo, come un virus. Aveva la testa incassata nelle
spalle e fissava solo Edoardo.
Finché non udì uno scatto e si voltò verso la fonte del rumore, strozzandosi quasi con la sua stessa
saliva.
Pietro aveva alzato la fiamma del suo accendino e la scrutava torvo, ma quando parlò fu quasi
ragionevole:
“Prova a scappare e ti incendio i capelli con questo accendino. Lo vedi?”
Scappare? Oddio, mi vogliono… no, non è possibile…
“TOGLITI LA MAGLIETTA!” ruggì Edoardo, e piombò su di lei con la forza di un leone.
Angela cadde sul terreno, prigioniera del suo peso, delle sue mani che trafficavano con la zip dei
pantaloni di entrambi.
“Ah!... Lasciami! Lasciami andare!... Fermo! Vi prego, lasciate… aaah! B-basta!”
“Ho appena cominciato, troia!” lui le sollevò la maglietta fino al collo e le tirò giù i jeans e le
mutandine.
“Basta! Basta! Vi scongiuro, smettetela! Ah! EDOARDO!” gridò lei quando lui le diede uno
schiaffo, schiaffo che le lasciò la guancia incandescente e la sensazione che l’occhio le schizzasse
fuori. Iniziò a singhiozzare, stordita dal suo alito di tabacco, dalla sua fretta e dalla sua furia,
inorridita dallo scintillio della bustina che lui stava strappando tra le mani, finché non strizzò gli
occhi costringendosi a non soffocare, costringendosi a respirare.
“Sta’ zitta e leva quelle mani!”
“Ti incendio anche là sotto se non le levi”, la ammonì Pietro, sempre con quell’aria orribilmente
stoica. “E ti ficco l’accendino dentro se ci fai incazzare.”
“Pensa, sverginata da un accendino, ahahah!” Gerardo invece sembrava voler compensare il suo
distacco con quella voce stridula, eccitata, indignata.
“Naaah, quel mezzo piglia in culo di Salti gliel’ha già sfondata…”
Angela si lasciò sfuggire un gemito quando Edoardo prese a torcerle le mani. Tentò di resistere per
pochi attimi disperati, contorcendosi come un’anguilla e mugolando ancora, ma alla fine le
allontanò d’istinto, pur di sottrarsi alla sua presa.
“No Pietro, aspetta, semmai è stata lei a sfondare lui!”
“Che merda!”
Edoardo ne approfittò per penetrarla in maniera brutale, squarciarla in due. Angela spalancò gli
occhi pieni di lacrime con un rantolo, quasi stupefatta.
“Basta! Basta! Basta! Aiuto!”
100
La troia continuava a singhiozzare, a gridare “basta!” e a voltare la testa da un lato e dall’altro. La
sua schiena si inarcava ad ogni spinta, i suoi occhi erano ora sbarrati ora serrati e all’angolo della
bocca aveva una scia di bava. Tutto questo non faceva altro che aumentare l’adrenalina in circolo ad
Edoardo. Sentiva il sangue pompare nelle vene, non si curava neanche di riprendere fiato e spingeva
con quanta forza aveva in corpo. Sapeva di stare violando ogni limite della troia, sapeva di stare
profanandola, e l’idea lo faceva volare tanto quanto le paste che aveva preso a volte in discoteca, a
Napoli. Ma c’era dell’altro. Ogni colpo, ogni morso, ogni toccata lasciva erano il suo modo di
impartirle una lezione. Se la ricordava, trionfante e dominatrice su Alessandro, ed era una visione
che il suo cervello non riusciva ad accettare.
Una donna che spadroneggiava?
Non era possibile, era illogico, era innaturale, sovvertiva l’ordine dell’Universo.
Per di più era una troia psicopatica.
E lo aveva ingannato, perché Edoardo non si sbagliava mai sulle persone, non era nel suo DNA
commettere errori, e lei a prima vista gli era sembrata inoffensiva, scialba, una verginella del cazzo.
Sì, meritava di essere punita.
Pietro osservava la scena con una sorta di distaccato piacere. Era un piacere più potente di quello
che provava quando scaricava film porno, ma ancora non lo riguardava del tutto; lo faceva eccitare
pian piano, consapevole che ogni secondo lo portava più vicino al suo momento, e allora sì che
sarebbe stato tutto diverso, allora sì che si sarebbe strappato la noia di dosso, come stava per
strappare la bustina che aveva in tasca. Inspirò e sorrise: qualcosa gli si stava già smuovendo tra le
gambe. Gerardo, lì accanto, si stava masturbando. La cosa non lo toccava, Gerardo era sempre stato
privo di autocontrollo e non c’era speranza che cambiasse adesso. La stronza invece sembrava uno
di quegli insetti che si contorcevano su una foglia divorati dalle fiamme del suo accendino. E
urlava. Lui non era preoccupato che qualcuno potesse sentirli o che lei potesse darsela a gambe.
Prima di tutto, erano in una zona troppo isolata.
Seconda cosa, Edoardo era all’opera.
Edoardo era una delle poche persone da cui Pietro pensava di dover imparare. Aveva il fascino del
ricco, del ragazzo del capoluogo, del tipo più grande. E Pietro osservava, prendeva spunti,
catalogava. Quando sarebbe toccato a lui, non lo avrebbe imitato, bensì emulato.
Era irresistibile, magnifico, potentissimo. Gerardo continuava a masturbarsi e non staccava gli
occhi da quello spettacolo. Anche se una piccola parte di lui aveva il sentore di stare osservando
passivamente una cosa sbagliata, gli veniva da ridere, esultare, gridare. La ragazza, Angela o come
cavolo si chiamava, aveva la biancheria nera ornata di pizzo, come tutte le puttane che aveva visto
nei telefilm. Una stronza che deve essere punita, eh, Pietro? Con una fitta di paura simile a una
scarica elettrica, pensò che l’avrebbe punita anche lui. Questa era l’occasione di provare il suo
valore agli altri, di dimostrare che era vivo. Non se la sarebbe lasciata scappare.
Era il loro sguardo annebbiato a terrorizzarla più di ogni altra cosa. Sembrava che fossero in
un’altra dimensione, che non si rendessero nemmeno conto delle loro azioni. Era lo stesso sguardo
che Angela aveva sempre immaginato appartenere agli alcolizzati, ai tossicodipendenti.
Quando Edoardo si scansò lei ebbe l’illusione che fosse finita… per poi ripiombare nell’incubo
non appena si aggiunse Pietro.
Se il primo le aveva ricordato un leone, il secondo le parve spaventosamente simile a un serpente.
Si muoveva a scatti, sferrava un colpo e balzava all’indietro. E mordeva. Sulle orecchie, sul collo,
sul seno. La sua presa era meno forte di quella di Edoardo, meno totalitaria, ma in un certo qual
modo più dolorosa. Aveva l’impressione che un veleno bruciante le si stesse diffondendo giù in
basso.
Con un ultimo scatto di serpe, si scansò anche lui. Questa volta Angela non osò neanche sperare
che l’avrebbero lasciata in pace. Era il turno di Gerardo.
101
Quest’ultimo le diede l’idea di un mulo accaldato, nei suoi sbuffi, nel suo ondeggiare, nei suoi
respiri affannosi simili a ragli. Non si preoccupò neppure di tenerla ferma, ma lei non aveva la forza
di muoversi, sentiva il freddo dell’erba bagnata sulla schiena, dei brividi che la scuotevano tutta, la
testa che le girava e una serie di puntini davanti agli occhi, sempre più fitti…
… Poi ci fu il nulla.
Edoardo si aggiustò i pantaloni con ostentata nonchalance. Non si aspettava che la troia sarebbe
svenuta. Iniziava a sentirsi stanco e svuotato. Ma aveva un ruolo da mantenere con quei due
ragazzini. Fece scrocchiare il collo a destra e a sinistra. Rivolse gli occhi sugli altri due, che se ne
stavano muti a riprendere fiato. Gerardo ansimava ancora e faceva guizzare lo sguardo a terra, in
alto, su Edoardo, sul ragazzo alla sua sinistra, come se non credesse che era tutto reale. Ma Pietro,
Pietro aveva quasi riportato il respiro alla normalità e stava controllando qualcosa sul cellulare con
un sorriso stanco, neppure appagato. Perverso.
Lui non è come me. Non è come me. Dio santo, potrebbe quasi essere come la troia psicopatica.
“Qualcuno la rivesta. La portiamo dalla mia ragazza. Che è anche casa di quel masochista, quindi
avrà un bel regalo.” Per fortuna la voce gli era venuta decisa.
Appena Irene aprì la porta, sbarrò gli occhi e si lasciò sfuggire un “Oh.” Aveva visto Edoardo e
Pietro, il compagno di classe di Alessandro. Ma soprattutto l’altro compagno di classe, Gerardo, che
portava in braccio Angela priva di sensi.
La mano appoggiata allo stipite le tremò.
“Ragazzi… Alessandro è in punizione”, riuscì a boccheggiare.
“Non siamo venuti per questo”, rispose Pietro con voce incolore.
La ragazza si scansò e li lasciò passare. Il braccio pendente di Angela sbatacchiava ad ogni passo.
Era sporca di terra e chissà quali altre sudicerie. Irene osservò muta la scena, con Gerardo che la
adagiava sul divano e guardava imbarazzato gli altri due. Era come se provasse del senso di colpa
per qualcosa.
“Ragazzi…”
Lei notò che anche loro avevano le scarpe e i pantaloni macchiati d’erba.
“Cos’ha Angela?”
“È caduta”, disse Gerardo.
Pietro lo fulminò con gli occhi.
“È meglio se andiamo”, concluse, e prendendo Gerardo per il gomito lo costrinse a seguirlo fuori
dalla casa.
Irene e Edoardo ascoltarono il tlack della porta che si chiudeva, l’uno di fronte all’altra.
Irene sbatté le ciglia, stupidamente, senza capire.
“Edo… che è successo?” chiese con voce timida e nervosa.
Lui sospirò e scosse la testa. Si avviò nell’ingresso.
“Edo…” Irene si sentì mancare. Lo seguì, allungò la mano per toccarlo… ma la ritrasse quando vide
l’espressione dei suoi occhi.
“Ti amo, Irene”, mormorò lui. Dopodiché aprì l’uscio e sparì.
Questo nulla ha una luce, pensò Angela. È sempre più nitida… forse sono alla fine di un tunnel?
Forse sono all’Inferno?
Si risvegliò, e trasalì quando vide Irene seduta sulla poltrona rossa di fronte a lei.
“Ebbene?” domandò quest’ultima seccamente.
Le faceva male dappertutto, e ad ogni respiro le sembrava che un coltello da macellaio le si
conficcasse nelle costole. Aveva voglia di chiudersi in una stanza, isolata dal mondo, e sciogliersi in
lacrime… tanto non sarebbe bastato a cancellare l’evidenza.
“Acqua”, disse con un filo di voce. Buffo, possedeva ancora una voce dopo quello che le avevano
fatto.
102
“Che cosa è successo?” incalzò Irene.
“Acqua.”
“Dopo che mi avrai spiegato cos’è successo.”
Angela aveva coscienza di Irene, rigida sulla poltrona, ma delle immagini intrusive, dei flashback
indesiderati la facevano scomparire e riapparire davanti ai suoi occhi. Il fruscio dei jeans calati sino
alle scarpe che sbattevano contro le sue cosce ad ogni spinta, le loro spalle che si muovevano avanti
e indietro e sembravano pugni neri contro i fari della macchina. Il dolore della schiena sbattuta a
terra, contro la terra, la puzza di tabacco del loro alito, la loro presa come una morsa.
“Allora?”
Angela sbatté le palpebre, rimettendo a fuoco la stanza. Strinse gli occhi e iniziò a tremare, a
dondolarsi sul posto.
“Risparmiami queste sceneggiate e dimmi chiaro e tondo cos’è…”
“… Mi hanno violentata.”
Lo aveva sparato come un colpo di cannone. L’agghiacciante verità le fece fermare il cuore per un
momento.
“Cosa?”
“Edoardo, Pietro e Gerardo mi…”
“NO! LUI NON LO FAREBBE MAI! STAI MENTENDO, STUPIDA TROIA!” e Irene si avventò
su Angela.
Lei non provò neppure a difendersi. Non ne aveva la forza, e ogni colpo bruciò come una fiamma.
Irene era talmente rapida che lei riusciva a scorgere solamente macchie rosa di carne e il castano dei
capelli danzare nell’aria. Poi si schermò il volto con le mani e non vide più nulla. In quelle sferzate
c’era tutto: odio, disprezzo, paura di chi non conosce, pregiudizi, furia e meschinità. Ma soprattutto
c’era un dolore incancellabile, perché Angela sapeva che Irene le credeva, le credeva più di quanto
potesse immaginare, e questo Irene non poteva sopportarlo.
Quando non ne poté più, Irene guardò la ragazza raggomitolata a terra e agonizzante, la pelle rossa
per le percosse subite. Forse, se avesse visto quella scena con gli occhi di un’esterna, si sarebbe
impietosita. Ma Irene provava troppo astio e troppa confusione ed era cresciuta in una famiglia in
cui era normale punire con le botte chi sbagliava. Perché l’errore era tutto di quella troia di Angela,
no? Se l’era andata a cercare. Edoardo non c’entrava, che altro avrebbe potuto fare?
In ginocchio accanto ad Angela, con un groviglio di riccioli sul volto, il petto che si alzava e si
abbassava freneticamente e le mani che stringevano l’orlo del tappeto al punto da farle diventare le
nocche biancastre, Irene sibilò: “Anche Alessandro ti odia. L’ho fatto ragionare, ieri, e ha detto che
non vuole vederti mai più. T-troia sadomasochista.”
Sì... forse dire le cose come avrebbe voluto che fossero, e non com’erano veramente, l’avrebbe
aiutata a reggere la situazione. Forse era simile a quando, da bambina, si copriva gli occhi con le
mani e immaginava che se non avesse potuto scorgere chi le stava davanti, chi le stava davanti non
avrebbe potuto scorgere lei.
Consapevole di aver ferito a morte quella creatura disgustosa, Irene la prese per la collottola e la
costrinse a sollevarsi sulle gambe barcollanti, proiettata in avanti e col respiro mozzo. Aprì la porta
e la spinse fuori sullo zerbino, lasciandola lì a piangere, a smoccolarsi e a tentare di reprimere la
bile che le era salita in gola.
103
XXVIII.
Vittoria
Alessandro se ne stava davanti al computer, i capelli scarmigliati e gli stessi vestiti del giorno
prima addosso. Si stava facendo un solitario online. Un modo come un altro per ammazzare il
tempo, in attesa del giudizio finale.
Per tutto il giorno non aveva fatto altro che dormire, svegliarsi e riaddormentarsi, e Irene ed
Edoardo erano entrati e usciti dai suoi sogni tramutandoli in incubi. Non aveva mangiato, non era
andato nel bagno attiguo alla sua stanza se non due volte. Non ne avvertiva il bisogno, ora come
ora. Alle sette di sera gli era sembrato sul serio di impazzire, lì a gironzolare come un sonnambulo
da dieci minuti e con gli occhi iniettati di sangue, almeno secondo il suo specchio. Doveva
ringraziare quattro compresse al tiglio, alla passiflora e alla valeriana ingollate una dopo l’altra se
non gli era ancora capitato. Proprio come quand’era piccolo. Adesso, sveglio da un’ora e venti, se
ne stava solo nella sua stanza, preparandosi per la resa dei conti con sua madre – che non aveva
visto da prima di essere uscito con Angela – e con sua sorella.
In uno stato di apatia nera, decise di abbandonare il solitario e andò sulla sua posta elettronica. Si
rese conto, con una vaga sorpresa, di avere un nuovo messaggio. Aggrottò la fronte e cliccò
sull’icona. Veniva nientemeno che da Magnani editore.
Gentili Alessandro Salti e Angela Vittoriano,
siamo lieti di informarvi che il vostro racconto, “La luna è di ghiaccio”, è stato proclamato
vincitore del concorso Fantawriters.
Pur così giovani, avete dimostrato una certa facilità di scrittura, e il testo colpisce per l’intensità
di alcune immagini e per l’abilità con cui è stata tratteggiata la psicologia dei due protagonisti,
carnefice e vittima.
Saremo lieti di incontrarvi il 10 luglio alla Feltrinelli di Piazza Dei Martiri numero 23, a Napoli,
per ritirare il premio e discutere della pubblicazione dello scritto.
Cordiali saluti,
Celeste Marconi,
Magnani editore
Alessandro rimase a fissare lo schermo del computer. Sbatté le palpebre più volte, frastornato.
Non riusciva a prendere atto della cosa. Non si aspettava che avrebbero veramente vinto. Ottobre
era lontano anni luce e assomigliava troppo all’ennesimo sogno a occhi aperti. Tutto quel che era
accaduto intanto lo aveva quasi cancellato dalla sua testa. Adesso che aveva una prova tangibile,
reale… non sapeva come si sentiva. Se non fosse stato per la situazione di merda in cui si trovava
con ogni probabilità avrebbe gioito. Con ogni probabilità avrebbe telefonato ad Angela per
condividere quella gioia.
Ma chissà cosa stava facendo lei nel frattempo… erano passati quasi due giorni dall’ultima volta
che si erano visti, stando al display del computer. Mancavano pochi minuti a mezzanotte.
Il ragazzo rilesse la mail. Ad una terza rilettura acquistò risolutezza. Non sapeva se la cosa lo
rendeva pienamente felice o no, ma sapeva di certo che quello rappresentava un segnale: non poteva
più stare ad Acquarara. Non gli apparteneva più come posto, non aveva più nulla da spartire con
nessuno, lì.
Che cosa lo avrebbe aspettato altrimenti? Estate e inverno sempre uguali passati a girovagare
chissà dove senza nessuno con cui parlare davvero, a fare i compiti dopo la mezzanotte per aver
104
buttato un pomeriggio, a ingozzarsi, a smettere di sperare, a gettare nel cesso il suo cuore e il suo
cervello?
No. Maledizione, no!
Fu con questo pensiero che Alessandro si alzò e cominciò a prepararsi una valigia. Lo fece non
appena scoccò la mezzanotte dei suoi diciotto anni.
105
XXIX.
Dormire
Edoardo il leone, Pietro il serpente, Gerardo il mulo.
Angela avanzava nella notte con andatura oscillante, come uno zombie. Aveva una striscia di
sangue sulla fronte, le pupille dilatate, i capelli arruffati davanti alla faccia e i vestiti luridi. Si era
pisciata addosso.
Edoardo il leone, Pietro il serpente, Gerardo il mulo.
Non le importava di essere ridotta allo stato di un animale randagio. Non aveva più nessuna
considerazione del proprio corpo, nessuna considerazione di se stessa.
Ricordò che una volta, ormai molto tempo fa, anche Alessandro si era pisciato addosso, e per
colpa sua. Era stato quando avevano fatto un ravishment play per la prima volta. Probabilmente ora
lei sapeva cosa doveva aver provato. Probabilmente non aveva mai capito fino in fondo quanto lo
avesse fatto soffrire con i suoi atti perversi. E adesso aveva avuto quello che meritava.
Edoardo il leone, Pietro il serpente, Gerardo il mulo.
Lei era un essere immondo, disgustoso, orribile. Altrimenti perché le avrebbero fatto delle cose del
genere, suo padre, sua zia, Irene e quei ragazzi? Non le sarebbero bastate mille vite per cancellare i
suoi peccati. Tutto quello che chiedeva era di potersi accasciare a terra e dormire, forse sognare.
Edoardo il leone, Pietro il serpente, Gerardo il mulo.
Non si stava dirigendo verso il Deserto, verso il loro posto. Quello non le apparteneva più. Non
voleva neanche vederlo. No. Si stava dirigendo verso i campi coltivati, in tutt’altra direzione.
Edoardo il leone, Pietro il serpente, Gerardo il mulo.
Esausta, si fermò davanti a un muretto in pietra alto sino alle ginocchia. Ascoltò il rumore del
vento, che soffiava alle sue spalle. Sembrava spingerla a scavalcarlo. Tutto sembrava spingerla a
scavalcarlo. Sarebbe stato così bello addormentarsi al di là di quel muretto, libera dalla colpa e dal
rimorso, libera dalla consapevolezza che aveva perso per sempre Alessandro. Perché era così, no?
Non le avrebbero mai permesso di rivederlo, e lui alla lunga avrebbe dimenticato… o forse no, forse
gli sarebbe rimasta per sempre una cicatrice, la cicatrice dell’abuso. E in quel paesino lei non
avrebbe potuto più mettere il naso fuori di casa, l’avrebbero segnata a dito, insultata, chiamata
“troia psicopatica”, non appena si fosse sparsa la voce dei loro “esperimenti” e del suo stupro.
L’avrebbero spedita da un prete a confessarsi, a un santuario a chiedere perdono. Questo prima del
manicomio. Sicuramente suo padre e sua zia si stavano organizzando per mandarcela, così come era
certo che la stavano cercando in ogni dove, a Acquarara.
Angela chiuse gli occhi e iniziò a dondolarsi avanti e indietro, le ginocchia che sbattevano contro
il muretto di pietra, sempre più veloce e sempre meno cosciente del suo corpo.
Edoardo il leone, Pietro il serpente, Gerardo il mulo. E Alessandro.
Il cuore si strangolava, letteralmente, al pensiero che aveva mandato a puttane il rapporto con una
delle creature che più aveva amato nella sua vita.
Lui era stato male a causa sua, a causa del suo egoismo e della sua brutalità.
Lei stava male a causa di altri.
Ma lei lo meritava, lui no.
Edoardo il leone, Pietro il serpente, Gerardo il mulo.
Angela si dondolò ancora una volta. L’ultima.
106
XXX.
Il nulla
Devi andare su un’isola deserta e puoi scegliere tre libri. Quali?
Era così strano constatare che aveva dovuto fare una tale cernita nella vita reale, e non per gioco.
Alla fine Alessandro aveva scelto Il buio oltre la siepe, Intervista col Vampiro e Le avventure di
Tommaso Mirano. Avevano tutti e tre un valore sentimentale legato a quell’anno. Gli dispiaceva
molto di non poter portare Harry Potter con sé, che pure aveva lo stesso valore, ma sette libri erano
troppi.
Chiuse gli occhi sotto il getto caldo della doccia. Poco tempo fa Irene era venuta a liberarlo. Lui
l’aveva oltrepassata, diretto verso il bagno, e lei non lo aveva richiamato. Sua madre era al lavoro.
Una parte di lui era nervosa per quello che sarebbe successo al suo ritorno; l’altra parte era già a
Napoli, distaccata da quella realtà. Mentre usciva dalla doccia e si infilava i vestiti, indifferente al
fatto di essere ancora bagnato, ripassava mentalmente quello che avrebbe dovuto dire. Il discorso gli
era venuto con una fluidità pazzesca, e dentro di sé pensava che sua madre e sua sorella avrebbero
dovuto prendere o lasciare. D’altronde ora era maggiorenne, e tra meno di cinque giorni lo sarebbe
stata anche Angela. Non sapeva esattamente in che modo avrebbe fatto a convincerla a venire con
lui, visto che continuava a non rispondere alle sue chiamate. Immaginava che avrebbe bussato alla
sua porta a mo’ di principe azzurro, le avrebbe spiegato il piano e avrebbe distratto suo padre per
darle il tempo di scappare. E poi sarebbero filati come il vento verso i pullman, avrebbero
acquistato i biglietti e si sarebbero seduti in fondo, eccitatissimi, la preoccupazione per essere stati
scoperti a sperimentare scomparsa. O per lo meno molto attutita. Perché tanto il padre e la zia di lei
avevano reagito più o meno come sua sorella e il suo ragazzo, no? Sicuramente si erano limitati a
darle della pazza e a segregarla in casa. Non potevano aver fatto di peggio. L’unico punto
interrogativo rimaneva sua madre.
E per i soldi, be’… lui era riuscito a mettere assieme duecento euro. Li stava risparmiando per
comprarsi prima e seconda serie di House, e Nonna Marzia gliene aveva spediti in anticipo come
regalo di compleanno. Per quello che voleva fare sarebbero bastati. E dopo ci sarebbero stati i soldi
della vincita, e quelli del guadagno del libro, e siccome erano maggiorenni avrebbero potuto
trovarsi un lavoro in qualche negozio o in qualche bar… avrebbero mollato tutto e avrebbero
cominciato una vita nuova, insieme.
Certo, aveva paura… paura di non farcela, paura di stare costruendo dei castelli in aria, paura di
star perdendo il contatto con la realtà… ma non sarebbe mai tornato ad Acquarara con la coda tra le
gambe, avrebbe preferito finire sul lastrico piuttosto.
Tornò in camera sua, consapevole che rimaneva un’ultima cosa da fare. Per sicurezza, ricontrollò
la carta di identità e tutti i suoi altri documenti. Poi andò fino al quadro con dentro contenuto il suo
diploma di terza media, lo staccò dal muro e glielo fece sbattere di nuovo contro, rompendo il vetro
in mille pezzi. Liberò il foglio dalle schegge e lo pose in cima ai suoi vestiti. Con un groppo in gola,
si disse che non poteva più rimandare, che c’era tutto. Chiuse finalmente la valigia, calpestò il vetro
e si diresse verso il soggiorno trasportandola. Ci trovò Irene, seduta sulla poltrona proprio come due
sere fa. Buffo, erano trascorsi solo due giorni… eppure lui era diversissimo. Fino a due giorni fa
non credeva che se ne sarebbe andato da Acquarara così presto o che sarebbe mai stato beccato a
praticare BDSM con Angela. Un’illusione infantile, forse. Senza dubbio un’illusione passata.
“Hai detto che volevi parlarmi”, disse con voce apatica alla ragazza.
Irene sollevò il capo.
“Sì, è così”, rispose brusca.
“Bene. Ti ascolto.”
107
Irene non toglieva gli occhi dalla sua valigia.
“Volevo chiederti che intenzioni avessi. E adesso ti vedo con un trolley.”
Era come se sua sorella maggiore non riuscisse a guardarlo in faccia. Alessandro pensò che doveva
fingere che la cosa non gli facesse né caldo né freddo. Doveva mostrarsi risoluto; forse gli anni
passati a recitare nel silenzio di camera sua l’avrebbero aiutato.
“Vuoi mangiare qualcosa?” chiese lei, sempre con quel tono un po’ aspro. Come se fosse stato un
dovere chiederglielo, una questione di etichetta.
Alessandro scosse la testa. Non voleva accettare niente offerto da lei o dalla madre. Non ne aveva
la necessità.
“Cos’è, vai a dormire dalla tua padrona?” incalzò la sorella.
“Lei non è la mia padrona.”
“Quello che sia!” finalmente si decise a restituirgli lo sguardo.
“Ho realizzato che tu, mamma e la gente di questo paese non ci accetterete mai. Tra pochi giorni
cominceranno già a circolare delle voci su me e lei. Ammesso che non circolino già ora. Perciò ce
ne andiamo. Non provare a fermarci, Irene, perché sarà tutto inutile.”
“Ve ne andate? Ma sei più pazzo di quel che pensassi! E con quali soldi?”
“Non fingere di preoccuparti per me, i soldi li ho e li avrò.”
Il ragazzo frugò nelle tasche e tirò fuori la mail che aveva stampato. La porse ad Irene, che la
afferrò. Lui la vide impallidire mentre scorreva celermente il testo.
“E così hai vinto.” La sua voce vibrava.
“Non ci credevi, eh?” commentò lui sprezzante. Riprese il foglio, lo piegò e lo infilò di nuovo in
tasca. “Ora aspetterò che torni mamma e poi me ne andrò. Suppongo che tu le abbia già detto tutto,
anche se avevi promesso di non farlo.”
“Sì, infatti. Non potevo lasciare che rimanesse all’oscuro della tua perversione.” Il viso di lei aveva
un’orribile sfumatura verdognola.
“Allora sappi che…”
In quel momento, la serratura scattò e Nina si introdusse in casa. Era bianca come un cencio.
Appena scorse suo figlio in salotto le tremarono le mani con cui reggeva le chiavi. Quest’ultimo
ipotizzò che fosse scissa tra l’orrore e la rabbia.
“Dove pensi di andare, Alessandro Salti?” proferì cercando di trattenersi.
“Via, con Angela.”
“Angela?...” gli occhi di sua madre si dilatarono. “Quindi non avete saputo?”
“Saputo cosa?” Irene piegò la testa.
La donna fissò a turno i suoi figli prima di parlare. Schioccò la lingua e disse riluttante:
“È stata violentata da Edoardo Gullotta, Pietro Mancini e Gerardo De Gregorio. Si è gettata in un
burrone, fuori da Acquarara. Hanno ritrovato il corpo stamattina.”
Violentata… burrone… corpo…
“Questa è la stronzata più grossa che potevate inventarvi per farmi rimanere qui!”, Alessandro sperò
che la sua voce risultasse decisa e incazzata al punto giusto. Sapeva che non significava nulla,
sapeva che era una panzana vera e propria… Non poteva affatto essere… Adesso sarebbe andato a
casa di lei e l’avrebbe trovata lì, un po’ scossa ma pronta a seguirlo… Non poteva essere… Non
poteva…
“E ha fatto bene a gettarsi in un burrone, quella puttana malata.” Nina aveva esitato un momento
prima di pronunciare quella frase, ma riprese con una nuova, orribile carica di odio: “Dopo aver
traviato mio figlio, dopo averlo seviziato… Irene, sei stata bravissima a picchiarla quando è venuta
qui a dirtelo, ieri sera…”
Quello fu il colpo di grazia. Alessandro lasciò andare la valigia, si chinò carponi e vomitò. Gli
parve che la stanza ondeggiasse su e giù, a destra e a sinistra. Come in una specie di trance, vide la
madre accorrere verso di lui, urlando qualcosa sul tappeto tanto caro a Luigi… la respinse ed ebbe
un nuovo conato. Poi si rialzò e le urlò con una voce che non sembrava la sua di non provare mai
più a chiamare Angela “puttana malata”, vide Nina levare le braccia al cielo e invocare la Vergine
108
Santa per quel suo figlio traviato… vide Irene darle manforte… e la madre che alzava le mani per
prenderlo a schiaffi e pugni! No, stavolta non lo avrebbe fatto! Era finita, l’era delle punizioni
corporali! Lui scattò in piedi, arretrò e le tirò contro un vaso di porcellana, che si infranse sulla
parete di fronte. Seguitò a tirare oggetti contro di lei, preda della disperazione, preda delle sue stesse
urla, lucidissimo nel suo delirio.
Ma si era concentrato troppo sulla madre, perché Irene era sgusciata alle sue spalle nel frattempo.
Lo acchiappò facendogli cadere di mano un soprammobile, gli tenne ferme le braccia con i gomiti
rialzati e lo lasciò alla mercé della genitrice.
Nina Salti fece schioccare la mano più e più volte sul corpo flaccido del figlio. Lui era sempre
stato una delusione, ma mai come adesso che aveva scoperto quanto fosse pazzo desiderava
impartigli della disciplina, disciplina vera. Doveva darsi una raddrizzata, nella maniera più assoluta.
Per di più sarebbe stato a causa sua se avrebbero cominciato a diffondere maldicenze sulla loro
famiglia! Alessandro Salti il masochista, il deviato, quello che si faceva picchiare per sfizio… da
una donna che non era sua madre, oltretutto!
Solo lei aveva il diritto di dargli una regolata coi fiocchi.
Solo lei sapeva quante ne doveva buscare al giorno.
Solo lei doveva conoscere il piacere che scaturiva dal rendergli le guance incandescenti, vedergli
quel misto di panico e pentimento e prostrazione dipinto in viso, quell’espressione che significava
sì, mamma, fai benissimo, ti ho delusa.
Quando picchiava i suoi figli, e soprattutto Alessandro, tutte le frustrazioni e le privazioni della
sua vita si azzeravano. Lei sentiva di esistere, esistere sul serio. Non era più Nina la tabaccaia, la
vedova di Luigi Salti, quell’essere mediocre che non era quasi mai uscito da Acquarara… era una
dea. Dava e toglieva. Elargiva punizioni e premi, a seconda di ciò che meritavano gli altri.
E così riversava la sua collera e la sua paura su di lui, immobilizzato da Irene come la parodia di
un crocifisso, in attesa di vedergli quell’espressione, in attesa di sentire che lei esisteva.
Ma quell’espressione non venne.
Con un ultimo scapaccione e uno strillo, la donna si arrestò, gli occhi fuori dalle orbite e le labbra
semiaperte in una vacua sorpresa. Quel pervertito di suo figlio stava… sorridendo!
Era un sorriso amaro, cinico, privo di gioia.
Sapeva che l’avrebbe fatta incazzare ancora di più, perché non era disposto a lasciarsi piegare.
Scoppiò in una risata forzata, mascherò la sua sofferenza… e Irene lo lasciò andare, esterrefatta,
proprio come lui aveva desiderato! Lui schizzò in avanti. Diede uno spintone alla madre per
scansarla, superò la pozza di vomito come se la sua vita potesse essere racchiusa in quell’unico
gesto, il superare qualcosa, agguantò la valigia e la trascinò fuori, nella notte. Urtò un uomo che gli
gridò qualcosa di indistinto, fuori dalla casa, ma non si fermò neanche a controllare chi era. Corse,
corse, corse per le vie buie e gelide di Acquarara come aveva fatto Angela solo un giorno prima,
incurante del male alle giunture, perché non poteva minimamente essere paragonato al buco nero
che si era spalancato dentro di lui. Un buco nero che stava risucchiando tutta la speranza, la gioia, la
luce della sua vita, e lo lasciava ad annaspare in quell’enormità muta e terrificante.
Angela, Angela, la sua Angela, e non un’altra… lei non c’era più! A causa di quei mostri!
Era assurdo, era reale!
Ma questo lo motivava ancora di più a fuggire da quel posto, oh sì, doveva andarsene da quel
luogo dove ogni angolo era lo spettro di un ricordo, dove spirava un’aria di decadenza, morte e
devastazione, e quel suo miscuglio di odio, dolore distruttivo e terrore gli metteva le ali ai piedi!
Via Giacomo Leopardi, via San Girolamo, via Delle Querce… per l’ultima volta, cazzo!
L’ultimissima volta!
Quando incontrò gente in piazza, venne additato dai più, chiamato “lurido masochista!” da Cinzia
la fruttivendola, apostrofato con frasi tipo: “Bravo, fai i bagagli! Vattene, non ti vogliamo qui!” da
Don Tommaso il panettiere e un ragazzino in bicicletta gli lanciò anche una pietra, ma lui la schivò
109
a testa bassa, alla stregua di un ariete alla carica. Li avrebbe fatti tutti a pezzi, se lo avessero
ostacolato. Tanto l’intero mondo era in pezzi al momento… non ci sarebbe stata nessuna
differenza… Bene, gli stavano lontani… forse era abbastanza spaventoso per loro…
Inciampò in un sasso quando arrivò alla fermata dei pullman, slittò in avanti e riprese a vomitarsi
l’anima. Alla fine i suoi conati si ruppero in brevi colpi di tosse e avvertì le lacrime pungergli gli
occhi. Ma non scesero. Il suo era un dolore che andava al di là delle lacrime.
“Tutto bene, ragazzo?”
Il conducente era sceso dall’ultimo bus e lo osservava preoccupato.
Alessandro alzò la testa quel tanto che bastava per consentirgli di restituire lo sguardo.
“S…” la voce non gli veniva. Ci riprovò. “Sì, signore. Quanto… quanto costa un biglietto per
Napoli… signore?”
“Sette euro.”
La voce gli era scesa di nuovo. Si chinò sulla valigia per aprirla e recuperare il denaro e con la
coda dell’occhio notò che le persone a bordo schiacciavano i volti contro i finestrini.
“Ec-c-c-o a lei.”
“Sei sicuro di non aver bisogno di aiuto?”
Il conducente si premurò di caricargli il bagaglio oltre gli scalini. Disse anche qualche altra cosa
che lui non udì. Alessandro arrivò fino a uno degli ultimi posti a testa bassa, lo sguardo perso. Il
furore che lo aveva guidato via da Acquarara stava scemando, e si trasformava in qualcos’altro. Era
stata un’esplosione effimera, lo aveva lasciato stremato. Sedette e abbracciò la valigia. Diede un
sospiro.
La gente lo stava ancora fissando.
Come un fenomeno da baraccone.
“Cos’avete da guardare? Mai visto uno che rimette?” disse stancamente.
Di colpo, gli altri passeggeri lo lasciarono in pace. Qualcuno si mise a borbottare al proprio vicino,
qualcun altro si concentrò sul panorama. Lui abbassò le palpebre quando partirono.
E mentre in paese la gente si radunava fuori dall’abitazione di Nina Salti, mentre l’autista
imboccava una salita, svoltava a destra, giungeva all’autostrada e Acquarara si allontanava sempre
di più, Alessandro si chiese se sarebbe mai stato di nuovo padrone del proprio corpo, perché ora
come ora si stava librando a mezz’aria a scorgere se stesso dall’alto. Gli pareva di non percepire più
il contatto col sedile, con il tappetino sotto i piedi, con nulla.
E forse c’era proprio quello ad attenderlo.
Il Nulla.
110
Epilogo
Dalla mia versione dei fatti privata, ingarbugliata e incompleta di tre anni fa
CADAVERE DI UNA DICIASSETTENNE RINVENUTO IN UN BURRONE, SI IPOTIZZA
SUICIDIO
Acquarara. 18 giugno. Gianluca Manilo, 58 anni, residente a Massa Lubrense con la
famiglia, riferisce di aver rinvenuto il corpo senza vita di una ragazza adolescente in un
burrone. La ragazza è stata identificata dalla procura come Angela Vittoriano, 18 anni non
ancora compiuti, scomparsa da casa dal 17 giugno scorso. “In paese sono tutti convinti che si
tratti di un suicidio”, dichiara la zia della ragazza, Amalia Vittoriano. “Perché stavano
cominciando a circolare voci sui suoi problemi.”
I compaesani riferiscono di una presunta infermità mentale della ragazza, la quale avrebbe
avuto impulsi violenti che sconfinavano nella psicopatia. La giovane sarebbe fuggita da casa
dopo un’accesa discussione avuta con il padre Giuseppe, al momento indagato.
“Ho dovuto picchiarla”, afferma l’uomo tra le lacrime. “Era una vergogna per la nostra
famiglia.”
Suicidio? Omicidio? Il cadavere presenta tracce di violenza sessuale oltreché di lacerazioni.
“Probabilmente se li è fatti da sola, quei graffi”, afferma Edoardo Gullotta, 21 anni. “Non mi
stupirebbe affatto.”
E così siamo giunti all’ultimo atto.
Ormai ne saprà abbastanza di me e di questa storia, avvocato. Quando ho lasciato Acquarara ero
così sconvolto che non mi sono reso conto di quanto costasse abbandonarla. Me ne rendo conto
adesso, dato che non riesco ad abituarmi alla vita nell’ostello della gioventù a Mergellina. Gli altri
ragazzi vanno a vedere le tombe di Virgilio e Leopardi, visitano le chiese e i palazzi storici, vanno a
ballare in discoteca, fanno gite a Pompei. Io me ne sto sempre sulle mie, resto in camera tutto il
giorno oppure vago senza meta e senza scopo per le strade. Mi faccio scivolare tutto addosso e non
mi sorprendo di niente. Ci sono giorni in cui alzarmi dal letto è un’impresa titanica. Altri in cui
resto a fissare il vuoto per un tempo infinito… e poi mi accorgo che è passata un’ora. Credo che si
possa chiamare depressione.
Vivo nell’attesa della premiazione, che si svolgerà tra una settimana. Ci andrò vestito come meglio
posso, ma avendo portato soltanto sette cambi sportivi non credo farò una buona impressione. E non
mi interessa.
Ho parlato con la proprietaria di un negozio di abbigliamento non troppo lontano da qui. Cercava
una commessa, ma dice che le va bene anche un ragazzo, purché sappia “fare il mestiere”. Anche se
io non ne capirò un granché di vestiti, cose come piegarli e incartarli per i clienti le so fare
benissimo. Comincio a lavorare questo mercoledì.
La notte fatico a prendere sonno, e quando ci riesco, sogno di essere legato e imbavagliato da
Edoardo, Gerardo e Pietro ed essere costretto a fissare impotente loro tre che stuprano la mia
ragazza. Mi sveglio di soprassalto con in bocca un sapore dolciastro, mi guardo attorno e ci metto
un po’ a ricordarmi dove sono. I miei compagni di stanza si staranno facendo l’idea che io sia uno
schizzato. Neppure questo mi interessa.
Ci sono giorni in cui non tocco cibo, altri nei quali divoro qualsiasi panino mi capiti sottomano. La
mia mente corre alle fantasticherie che avevo una volta, quando pensavo a come sarebbe stato
dividere tutto questo con Angela. La mia ex ragazza, ormai. Mi auguro che, se esiste un Aldilà, lei
si trovi in un luogo bellissimo, libera, serena, viva.
Ho meditato tante volte di raggiungerla. Eccome se l’ho meditato. Non riesco a impedirmi di
rimuginare sul fatto che forse l’ho uccisa io. Non solo perché è stata mia l’idea di sperimentare,
111
quella sera nel casolare in cui abbiamo interpretato Lily e Jonathan; né solo perché avevo gli
orecchini di mia sorella in tasca, e se non fosse stato per quelli non ci avrebbero mai scoperto,
credo. Non è neppure solo perché ho deciso di stendermi con un mix di pillole, e se non l’avessi
fatto forse avrei sentito Irene che la picchiava, avrei potuto urlare. Ripenso alle migliaia di cose che
ci siamo detti e la mia memoria torna ossessiva a quando le ho parlato dell’eutanasia.
Se dovessi finire attaccato a una macchina per sopravvivere pagherei qualcuno per ammazzarmi.
Ho paura di morire, ma ho più paura di non vivere.
Magari, se avessi tenuto a freno la lingua, lei sarebbe ancora qui. Dio, se soltanto fossi arrivato in
tempo, se qualcuno mi avesse avvisato! Avrei potuto toccarla, dirle che non era colpa sua,
baciarla… ripeterle ancora e ancora che l’amavo, così come lei amava me.
Non ce lo siamo mai detti, è vero. Mai in maniera esplicita. Ma ogni giorno era sottointeso, era
palpabile, era amore. È ancora amore. Perché io non la dimenticherò mai, mai.
L’unica cosa che mi impedisce di gettarmi da una scogliera, impiccarmi con la cintura o farmi
investire è il pensiero che lei non avrebbe voluto. È il pensiero che questa esperienza condivisa mi
ha forgiato. È il pensiero che devo fare qualcosa, per tutti e due e per tutti coloro che hanno
‘sperimentato’ come noi.
Scommetto che ad Acquarara stanno cercando di mettere tutto a tacere, nonostante qualche notizia
sia trapelata al giornale. Insomma, se la cosa venisse fuori e non si limitasse a qualche trafiletto in
quarta pagina sarebbe implicato Edoardo Gullotta, brillante rampollo di buona famiglia… ma la
gente chiacchiera, occulta, diffonde falsità, e la cosa mi fa venire voglia di urlare…
… Così, ecco, suppongo che questo mio scritto si possa considerare un grido di disperazione. Non
sono sorpreso dalla rapidità con cui l’ho composto, perché so che c’è stata lei ad accompagnarmi
durante tutta la stesura. Mi sono detto che quando sarei riuscito a trovare un avvocato glielo avrei
fatto leggere immediatamente, e così è stato. Giuro che non avrò pace finché non trascinerò quei
bastardi in tribunale.
E prima che facciano diventare Angela un caso mediatico, ho voluto raccontare la nostra versione
dei fatti. È la denuncia più veritiera, più sincera e più potente che io riesca a fare. Scrivere cos’è
successo realmente, come ci siamo avvicinati l’uno all’altra, in che modo abbiamo scoperto il
BDSM, la dolcezza e la responsabilità con cui abbiamo ‘sperimentato’, la maniera in cui siamo
diventati grandi insieme, la fine del nostro rapporto.
Scrivere, e sperare intensamente che qualcuno scagioni almeno lei, se non anche me. Che
qualcuno si renda conto che anche le minoranze stigmatizzate hanno un cuore e una dignità. Che
qualcuno tolleri, rispetti, capisca. Che qualcuno non creda alla finzione.
112
RINGRAZIAMENTI:
Come ho già accennato nella dedica, senza il sostegno, il materiale e le spiegazioni di William e
Dalila non sarei andata da nessuna parte, quindi il primo ringraziamento va a loro.
Grazie anche a Beevean, la mia grandiosa Beta Reader, perché ha saputo individuare una marea di
errori ai quali io non avevo fatto caso, perché mi ha criticata e incoraggiata e ha sopportato tutte le
mie paturnie sulla storia.
È stato bello condividere Non credere alla finzione anche con Elisa, che ha argomentato le sue
opinioni sia nel caso di erroracci coi personaggi (se Giuseppe non fa qualcosa di mostruoso nel
finale è solo merito tuo, grazie…) sia che si trattasse di piccole sviste dialettali – di quelle che però
mi sarebbero costate un sacco, avendo deciso di scrivere in italiano standard.
Un grazie speciale ai miei genitori, che dopo lo shock iniziale hanno capito e appoggiato la mia
scelta letteraria, e a Olivier Jules (per ulteriori dettagli si veda la pagina successiva).
Inoltre, grazie a tutti coloro che hanno dedicato parte del proprio tempo alla lettura di Non credere
alla finzione, che l’abbiano apprezzato o trovato tremendo. È da prima che imparassi a scrivere che
sogno di raccontare storie; mi piace sapere che qualcuno mi abbia presa in considerazione.
Per contattarmi, scrivete a [email protected]
Per ulteriori dettagli sulla storia, domande frequenti comprese, visitate www.selvierosblog.it
113
COPERTINA:
La foto in copertina è una rielaborazione di “Casetta abbandonata nel bosco” di Olivier Jules,
Webmaster del sito http://www.olivierjules.com/blog/
La fotografia originale si trova qui:
http://www.olivierjules.com/blog/2008/12/deserted-house-in-the-woods/
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LICENZA:
Quest’opera è distribuita con licenza Creative Commons – Attribuzione: non commerciale – Non
opere derivate 3.0 Italia (CC BY-NC-ND 3.0)
Per leggere una copia della licenza consultare il link: http://creativecommons.org/licenses/by-ncnd/3.0/it/deed.it
115
NOTE:
1. Il primo “esperimento” di Angela e Alessandro – ravishment play o rape play – è una pratica
prettamente sadomasochistica classificata come edge-play (pratiche controverse e ad alto rischio per
quanto riguarda l’impatto fisico e psicologico) dalla comunità BDSM; pertanto due ragazzi vergini
che neppure sanno dell’esistenza del BDSM non dovrebbero mai cimentarsi in qualcosa di così
pesante la prima volta. Va considerata una grossa licenza poetica da parte mia, tesa a mostrare
quanto sia radicata la fiducia che nutrono l’uno nell’altra e allo scioccare i lettori con una svolta
potente nella storia.
2. Il paesino di Acquarara è fittizio, ma è ispirato alla reale Sant’Agata dei Due Golfi e si trova nella
stessa posizione geografica. Ho scelto un luogo inventato per comunicare che questa storia avrebbe
potuto accadere dovunque.
3. Checché ne dica il personaggio di Alessandro nella sua Prefazione, questo racconto è un’opera di
fantasia. Personaggi e situazioni sono invenzioni mie e hanno lo scopo di conferire veridicità alla
narrazione. Pertanto, ogni riferimento a fatti o persone realmente esistite, vive o scomparse, è
puramente casuale.
116

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