Comune di Collesalvetti

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Comune di Collesalvetti
Dopo l’importante rassegna Antonio Antony de Witt: pittura e grafica nel segno dei
Primitivi, la Pinacoteca “Carlo Servolini” ospita ora una nuova importante mostra dal
titolo Adriano Baracchini-Caputi, Ettore Castaldi, Eugenio Caprini. Una triade per
il divisionismo a Livorno, promossa dal Comune di Collesalvetti e curata da
Francesca Cagianelli.
Tale iniziativa espositiva conclude il ciclo di appuntamenti culturali previsti entro
l’estate 2011, prima dell’evento culminante di fine anno, coincidente con l’inedita
mostra dedicata a Giovanni Zannacchini
Sono di scena per la prima volta in questa mostra Adriano Baracchini-Caputi
(Firenze, 1883-Livorno, 1968), Ettore Castaldi (Livorno, 1877-Santos, Brasile1956),
Eugenio Caprini (Livorno, 1875-1932), tutti esordienti nell’ambito dello storico e
celebrato Caffè Bardi di Livorno, all’insegna di una sperimentazione divisionista non
esente da divagazioni simboliste.
Regna tra loro il magistero di Vittore Grubicy de Dragon che negli anni Venti
Valentino Piccoli commemorava proprio relativamente al ruolo di mecenate svolto
nella Livorno del primo Novecento, quando “parlava della piccola originalità
livornese”: parole lontane, ma indelebili, che rievocano una realtà esclusiva quella
di una Livorno qualificabile come “un singolare centro d’arte: raccolto ma
intenso, solitario ma audace”.
Parole che una volta per tutte smentiscono la vulgata di una compagine livornese di
vocazione municipalistica e attardata sulla tradizione ottocentesca: ecco infatti che
grazie a una tale investitura all’insegna di emancipazione e innovazione, i
protagonisti del Caffè Bardi diventano “giovani ardenti e sinceri, che ancora; in
tempi mercantili come i nostri pensavano all’Arte come a una lotta perenne,
come a una travagliata conquista, e non come a una carriera da percorrere con
avveduti accorgimenti” (V. Piccoli, Beppe Guzzi, in “Il Telegrafo”, 5 febbraio
1927).
Tra essi, Adriano Baracchini-Caputi, “maestro di minuzie tecniche” risponde con
originalità di accenti poetici alla lezione del divisionismo milanese; di non minore
qualifica espressiva appare degno Ettore Castaldi, nel quale l’opzione pervasiva per
il linguaggio di Grubicy non affievolisce la sua “passione nobilitante” (G.
Razzaguta, Virtù degli artisti Labronici, Livorno 1943); e ancora Eugenio Caprini,
ridimensionato da Gastone Razzaguta con riferimento alla sua infatuazione
divisionista, verrà celebrato da Carlo Servolini nella Commedia Labronica delle
Belle Arti (Lecco 1960), per il tramite di un appassionato Gino Romiti che non stenta
ad apostrofarlo quale “nottambulo mitissimo”.
Partecipe, insieme con lo stesso Servolini, all’epoca della frequentazione della Scuola
di Arti e Mestieri di Livorno, di quelle “notturne gite al chiar di Luna”, rischiarate
dalla fantasia e dal coraggio di coloro che nella Livorno di inizio Novecento, seppero
farsi protagonisti eletti di una Bohème tutt’altro che municipalistica, è forse Caprini
il solo a fondere in termini più suggestivi il verbo divisionista di Grubicy con la
parabola simbolista di Gino Romiti, in una risultante nottunista di fascino
esclusivo.
Doveva essere proprio Gino Romiti, il virtuale quanto autorevole difensore di Carlo
Servolini nel processo inscenato tra le pagine della sua irriverente Commedia, a
tramandare l’eredità del divisionismo di Grubicy tra i giovani bohèmiens
livornesi: eredità consistente in piccoli capolavori che sono “sorprendenti misteri (…)
coniugati alla catena delle leggi universali” (G. Romiti, Di Vittore Grubicy, in “Il
Telegrafo”, 12 agosto 1920).
Una triade dunque emblematica, quella dei tre seguaci di Grubicy, che consente
di ritessere tutto un chiaroscuro di entusiasmi e di veti nel quale si impose il
divisionismo a Livorno, tra un Razzaguta impegnato a tramandare mitiche eredità
nostrane e un Carlo Servolini, determinato a rilanciare un Novecento autonomo e
alternativo.