La metodologia di intervento con le donne che subiscono violenza

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La metodologia di intervento con le donne che subiscono violenza
2° Convegno Nazionale dei Centri Antiviolenza e delle Case delle Donne
Marina di Ravenna 28 e 29 novembre 2003
La metodologia di intervento con le donne che subiscono violenza
Gruppo di lavoro
a cura di
Teresa De Brasi e Simona Cardinaletti
Hanno partecipato al gruppo di lavoro “La metodologia di intervento con le donne che
subiscono violenza” i Centri di:
Prato, Como, Monza, Ancona, Ravenna, Imola, Pavia, Ferrara, Parma, Grosseto, Trieste,
Bologna
Con il contributo dei Centri di: Siracusa, Bari, Palermo, Pisa, Latina, Roma.
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2° Convegno Nazionale dei Centri Antiviolenza e delle Case delle Donne
Marina di Ravenna 28 e 29 novembre 2003
Saperi Competenze Professionalità dei Centri antiviolenza
a cura di Teresa De Brasi
Associazione La Cicoria ONLUS-Imola
Introduzione
Il rapporto annuale delle Nazioni Unite per la popolazione del 2000, sottolinea come in tutto il mondo una
donna su tre è stata picchiata, violentata, costretta a subire abusi e sopprusi.
Dal 1993, la violenza di genere viene riconosciuta dall’Onu come fondamentale questione contro i diritti
umani.
Nel 1997 la Commissione Europea, propone una legislazione comune per la lotta contro la violenza alle donne,
chiedendo agli stati membri di considerare tale violenza, crimine penale, di creare centri di accoglienza e case
rifugio, di effettuare statistiche ed analisi del fenomeno, di coordinarsi sia a livello locale che nazionale per
contrastare in modo univoco e forte la violenza contro le donne.
L’Unione Europea nel 1998, attraverso il Foro delle Esperte, ha indicato in modo specifico i criteri di qualita’
che devono avere le case per donne maltrattate, tra cui citiamo ( Articolo 36) “le Associazioni di donne sono
state le prime a sollevare pubblicamente il problema della violenza contro le donne, e ad offrire
accoglienza e supporto alle vittime. Tutti i paesi dovrebbero riconoscere queste Associazioni e dare
priorita’ al loro lavoro.”
Malgrado il riconoscimento al livello internazionale dei Centri antiviolenza, cio’ a tutt’oggi non si è ancora
trasformato, nel nostro paese, in un coerente e generalizzato progetto politico che tenga conto di quanto sopra
dichiarato.
Occorre che questo riconoscimento avvenga anche in Italia, altrimenti continueremo ad assistere al paradosso che
malgrado l’esistenza, nel nostro paese, di oltre cento Centri antiviolenza, e trentasei Case rifugio, questi siano
ancora confinati nella sfera dell’invisibilità istituzionale, tranne che in alcune regioni e realtà locali.
E’ inoltre urgente, a nostro avviso, sviluppare e mettere in atto, le sinergie tra l’azione locale e quelle a livello
nazionale, ponendo come priorità la loro integrazione soprattutto per quanto riguarda le strategie e gli obiettivi
di intervento.
Di fatto sono i Centri a farsi carico di un problema che se è considerato “piaga sociale mondiale”, dovrebbe
vedere l’assunzione tangibile di responsabilità collettiva, a partire dai livelli istituzionali di coloro che
governano il nostro paese.
Sono totalmente inesistenti politiche adeguate a livello nazionale che diano garanzie di finanziamenti necessari
al proseguo dell’esistenza dei Centri, spesso a rischio di chiusura come si è visto a Bologna anni fa, e come si
vede oggi a Palermo ed in altre città.
I contenuti teorici e metodologici dei centri e delle case rifugio
“Anche il piu’ piccolo atto nelle circostanze piu’ limitate ha in se’ il germe della stessa illimitatezza, perché un
solo atto, e qualche volta una sola parola, basta a mutare ogni costellazione di atti e parole.” (Hannah Arendt)
La metodologia di intervento sperimentata e consolidata nel corso di questi anni di faticoso lavoro ( buona parte
di esso gratuito), ha prodotto risultati positivi ed evolutivi nella vita di migliaia di donne, facendole recuperare
dignità, benessere, salute e libertà.
Dalle innumerevoli ricerche, sappiamo che il modello di lavoro è quello con i dovuti distingui, che viene
praticato in tutti i Centri del nostro paese e in quelli esistenti in Europa, che ha come caratteristica
imprescindibile, quella di aver assunto culturalmente e politicamente, l’ottica di genere nell’approccio al tema.
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Marina di Ravenna 28 e 29 novembre 2003
L’ottica di genere, nel corso degli anni, è stata ed è sottoposta a critiche e rettifiche che l’hanno resa sicuramente
piu’ complessa, ma che non ha intaccato minimamente la convinzione di base di chi lavora nei Centri e nelle
Case, e cioè che è proprio a partire dal riconoscimento del valore di genere che si affronta e si concretizza l’aiuto
dato alle donne.
Qualunque sia, comunque, il punto in cui siamo giunte, nel definirla, l’origine si colloca ancora e sempre
nell’analisi sociale, culturale e politica dei ruoli maschili e femminili e nella ridefinizione di alcuni concetti:
 Il paradigma della differenza di genere viene riconosciuto e rivendicato. Il genere femminile è
considerato portatore di valori unici ed originali e non semplicemente come riflesso di altri.
 Il riconoscimento della donna come persona, intendendo con questo tutte le sue risorse, potenzialita’ e
capacita’.
 L’analisi dei meccanismi socio-culturali e politici, che tendono a perpetuare, confinandole nella
normale quotidianità, la violenza sulle donne
E’ a partire da questi concetti che si è sviluppata negli anni la professionalità delle operatrici dei Centri
antiviolenza, di cui rivendichiamo il riconoscimento ufficiale come già in essere in molti paesi europei, che
hanno trasformato la teoria dello studio e della conoscenza di genere, nella prassi di un metodo di intervento che
è “parzialità” scientifica ed autorevole.
Spesso, quando si fa riferimento alla professionalità, la si identifica con la quantità di sapere accademico (in
prevalenza titoli di studio), riconosciuta dalla cultura ufficiale.
In realtà, la professionalità, fa riferimento alla conoscenza, alle esperienze, alle competenze, alla serietà e al
rigore.
Nel caso della violenza alle donne, il sapere non proviene dalla cultura ufficiale, ma da un sapere alternativo che
nasce nel movimento delle donne a partire dagli anni ’70. Un sapere che fonda le sue radici nell’identità
specifica del genere femminile storicamente relegata nel privato dalla millenaria cultura patriarcale.
Un sapere che e’ riuscito nel tempo a permeare e trasformare la realta’ neutra maschile, costruendone una nuova,
dove la soggettività femminile ha trovato “spazio e voce”.
Le donne si sono interrogate, sono diventate sempre piu’ l’oggetto della propria riflessione, restituendo dignità,
valore e autorevolezza alla relazione di genere.
Ecco perché diciamo che l’intervento con e per la donna vittima di violenza, comprende contemporaneamente al
lavoro con l’altra, quello su se stessa.
L’autoriflessività nel nostro lavoro è fondamentale, perché in gioco non c’è solo l’essere operatrice, ma l’essere
donna alla ricerca di una nuova dimensione esistenziale, ed è questa ricerca che ci accomuna tutte.
Strettamente collegato all’autoriflessività è lo strumento della formazione. La formazione nei nostri Centri, è un
processo strettamente legato al nostro lavoro. E’ definito processo, perché, a differenza dell’informazione, va’ a
creare un percorso interattivo tra chi forma e chi è formato e fa riferimento non soltanto alla dimensione del
sapere e del saper fare, ma anche soprattutto al saper essere, evitando la scissione tra ciò che si sa e si fa, da
cio’ che si è. E’ questa la dimensione principale che influenza l’area dei significati, e di conseguenza della
pratica. Questo è l’aspetto che secondo noi, garantisce la serietà ed il rigore della nostra prassi, che viene
sottoposto continuamente alla verifica del quotidiano.
Si è piu’ volte sottolineato, come la violenza agisca sulla donna anche attraverso processi di esclusione dai vari
contesti relazionali, tanto che alla fine, l’unica appartenenza legittimata della donna è quella con il partner
violento.
I Centri antiviolenza, le offrono una possibilità di diversa appartenenza: quella di genere.
Ci si riconosce nello specifico femminile praticando un diverso significato dell’essere donna
Nella relazione di genere, a parlare sono “la profondita’”, la maggiore vicinanza tra il “vissuto e l’essere”.
L’essere che si riconosce nell’altra.
Sono scambi di parole, ascolto, sguardi, corporeita’, conflitti, ma sempre a parlare è la "profondita”.
E’ quindi, attraverso la valorizzazione reciproca, che la donna sperimenta o risperimenta un Se’ positivo,
agente, in grado di farle riprogettare la propria esistenza. Ed è proprio questo processo interattivo tra l’autostima
e la stima, che l’aiuta a costruire la fiducia in se’, annientata dalla violenza.
Le emozioni che vengono messe in campo nel lavoro con le donne, sono molto intense, riguardano la donna
vittima di violenza, ma riguardano anche l’operatrice in quanto donna, sia in positivo che in negativo.
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Questa fatica emotiva delle operatrici, viene quasi sempre supportata attraverso la supervisione con donne
professioniste (psicologhe, psicoterapeute), con una formazione specifica di genere che consente di elaborare i
propri vissuti favorendone cosi’ la crescita personale e professionale.
La relazione tra donne, si propone infine come modello di cura, ma non in termini medicalizzanti, il prendersi
cura implica il farsi carico dell’altra nell’ottica della promozione delle sue capacita’ e potenzialiltà.
Nei Centri antiviolenza e nelle Case rifugio viene riconosciuta alla donna la sua soggettività, si ha fiducia nelle
sue possibilita’ e risorse, non si prendono decisioni senza il suo consenso.
L’operatrice/consulente prende una posizione chiara contro la violenza, sta al fianco della donna, l’aiuta a
definire un obiettivo, a riconoscere i propri limiti e i propri punti di forza.
E’ solo attraverso questa alleanza che si crea lo spazio di movimentazione delle questioni inerenti alla propria
identita’ femminile e al contempo si lavora attivamente sul cambiamento reale della situazione individuale.
La donna con l’aiuto delle professioniste del Centro, attua questo spostamento che apre la relazione con lei a
scenari diversi.
Un andare e tornare a se’ con la possibilita’ di prendere contatto con il proprio sentire, con i propri desideri,
rimpianti, col proprio essere figlia, madre, amica, donna, figura a tutto tondo che acquista spessore e
consistenza, bellezza anche.
Avviene una trasformazione che si vede nel corpo non solo “malato”, nel muoversi non piu’ rigido o appiattito,
nella disponibilita’ ad incontrare lo sguardo dell’altra o chiedere aiuto per se’.
Un cambiamento nel vissuto, nel parlato.
Non piu’ lui, l’altro, ma se’ in rapporto con il mondo.
“Uscire dal recinto dell’immaginario maschile e patriarcale, intraprendere il viaggio che ci porta a
riappropriarci di cio’ che è piu’ nostro, femminile, specifico della razza delle donne, non è faccenda da
poco. Significa disattendere le immagini di un io collettivo che ha dalla sua migliaia di anni,
frantumare strati di rimozione, ricercare un’identita’ che non sia piu’, o non solo, la rappresentazione
del desiderio maschile.[...] Anche per noi non ci sono verita’ assolute: sofferenza, disagio e sintomi
sono li’ a ricordarci, con il loro moto spiralico, che la consapevolezza profonda, non ideologica, tiene
insieme le “diecimila cose” della vita.”
(Pina Giacobbe)
Bibliografia essenziale di riferimento
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