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Arte e Cultura
La statua del
Navigatore alla Foce
di Matteo Fochessati
“Eretto, proteso verso il mare antistante, che scruta con occhio
da trasmigratore avvezzo alle infinite lontananze, questo Navigatore
sembra la umana incarnazione del moderno Nettuno: mito legato
alla realtà, che ha avuto dall’artista la sua vita, e non effimera.
Col remo alzato in segno di affermato dominio del mare, esprime l’indefettibile volontà di potenza di un popolo marinaro”1. L’intonazione retorica con la quale il cronista della rivista municipale presentava nel 1941 la statua del Navigatore - realizzata da Antonio Maria Morera in marmo “Bianco Carrara”, dopo una prima provvisoria presentazione in
gesso, in occasione della storica visita del Duce a Genova
nel 1938 - rispecchia in maniera esemplare il retroterra ideologico da cui era scaturita la concezione del maestoso monumento, collocato di fronte al mare nel nuovo quartiere della Foce, all’estremo limite dell’allora Viale Duca d’Aosta.
D’altra parte il giudizio critico sulla ricerca plastica dello scultore che, originario di Casale Monferrato e diplomatosi all’Accademia Albertina di Torino, si era trasferito a Genova
al termine della prima guerra mondiale, è stato a lungo improntato da una devastante e incondizionata attitudine retorica, inadeguata a offrire una corretta e complessiva contestualizzazione storica della sua esperienza artistica. Questo approccio esegetico, che a causa di una fraintesa interpretazione del virtuosismo tecnico dell’artista ha finito per
nuocere alla sua opera, impedendone un’obbiettiva lettura
critica, è confermato ad esempio da un articolo del 1954
di Emile Schaub-Koch, nel quale si suggerivano improvvidi accostamenti con Rude e Rodin 2, o da un successivo testo di Vitaliano Rocchiero del 1986, in cui il monumento alla Foce era descritto con queste parole: “… forte e serena
raffigurazione dell’uomo ligure di mare: rude, tenace e semplice, che, armato di un pesante remo, scruta l’orizzonte lontano, a guardia ideale del porto e della sua città. La prepoA fronte, la statua del “Navigatore” dopo la ricollocazione
nella sua sede originaria.
tente anatomia muscolare del torace e dei bicipiti, delineata e modellata con forza ma senza esagerazioni, è chiaramente allusiva alla potente capacità operativa e manovriera dei pesanti antichi remi lignei, armati di robusto cuoio” 3.
Dato che lo stesso Rocchiero avvertiva tuttavia l’esigenza
di evidenziare come le direttive ideologiche della propaganda avessero imposto all’opera una certa pesantezza, sarà
necessario ripartire proprio dall’analisi del contesto storico,
all’interno del quale il Navigatore fu concepito, per inquadrarne la specificità artistica. Quest’opera rappresenta infatti l’apice del gusto e degli indirizzi espressivi che caratterizzarono la cultura plastica in Liguria negli anni tra le due
guerre, in un’epoca nella quale si affermò, in sintonia con
i principi estetici sostenuti dal regime, una concezione della scultura monumentale come supporto decorativo degli
edifici o come cardine strutturale dell’organizzazione dello
spazio urbano; una peculiare impostazione che - grazie anche all’estesa produzione scultorea nel cimitero di Staglieno durante la seconda metà dell’800 – svolse, come è noto, un ruolo fondamentale nel contesto artistico ligure.
Prendendo spunto dalla lezione di Edoardo De Albertis e di
Eugenio Baroni, che con il monumento di Quarto propose,
in alternativa alla radicale rottura linguistica dell’avanguardia, una tra le più innovative sperimentazioni plastiche dei
primi del ’900, tale tendenza si venne consolidando negli anni ’20 e ’30 attraverso la presenza in Liguria di due celebri
scultori come Arturo Martini e Francesco Messina. Il primo
incarnò, con autonome e inedite scelte espressive, la diffusa riflessione dell’epoca sull’arcaismo e sulle sue potenzialità di sintesi delle forme; il secondo, orientato sin dagli esordi verso una rilettura della tradizione plastica, divenne il principale interprete di una ricerca di mediazione stilistica tra na-
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turalismo e classicismo. Attraverso personali rielaborazioni dei
temi stilistici e dei repertori iconografici del loro tempo, entrambi gli scultori condivisero comunque la vocazione celebrativa della scultura monumentale di quegli anni.
Questa progressiva integrazione tra arti figurative e architettura - politicamente formalizzata nel 1938 dalla proposta della legge del 2%, divenuta operativa nel 1942 e tutt’ora vigente - ebbe il suo culmine in Liguria, a livello effimero, con la sequenza di sculture realizzate dagli scultori
Galletti, De Albertis, Venzano, Morera e Micheletti per il maestoso apparato celebrativo del Viale delle Vittorie, alla cui
estremità era stato innalzato il palco a forma di prua di nave, dal quale Mussolini arringò la folla riunita in Piazza della Vittoria durante la sua citata visita al capoluogo ligure.
All’interno del processo di rinnovamento urbanistico, determinato da questa politica di monumentalizzazione degli
spazi cittadini, furono quindi realizzate, a Genova e nel resto della Liguria, importanti opere pubbliche come i fregi
e le sculture di Arturo Dazzi, Edoardo De Albertis e Giovanni Prini per il Monumento ai caduti di Piazza della Vittoria
di Marcello Piacentini, vincitore del concorso del 1924; le
statue raffiguranti San Giorgio e San Giovanni di Antonio
Maraini, L’Ardire di Guido Galletti e La Prudenza di Luigi
Pasciuti, che furono collocate nel 1930 sui frontali delle gallerie di piazza Portello; i rilievi con le Vittorie di Nanni Servettaz per il palazzo dell’INPS di piazza della Vittoria (1938)
o, nell’ambito della stessa sistemazione urbanistica, i bas-
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sorilievi di Galletti e dello stesso Morera nelle gallerie interne dei palazzi Jacazio di Beniamino Bellati; la Minerva armata di Galletti, collocata sul fronte della Biblioteca Universitaria (1935), e la sua Vittoria Vigilante davanti alla Casa del Mutilato di Genova di Eugenio Fuselli (1938); il monumento a Colombo di Francesco Messina a Chiavari (1935);
o, infine, con una più sperimentale impostazione compositiva il grande rilievo in pietra di Finale di Arturo Martini,
Pegaso e la Vittoria Fascista, posto a decorazione della facciata esterna del Palazzo delle Poste di Savona di Roberto Narducci (1934), nelle cui sale spiccavano i rilievi in ceramica, di matrice déco, di Mario Gambetta.
All’interno di questi specifici caratteri di ricerca e del clima politico che ne ispirava i contenuti iconografici va dunque inquadrata la produzione plastica di Morera che, inizialmente caratterizzata da un’adesione a quelle istanze michelangiolesche mediate nei primi decenni del secolo dalla lezione di Rodin, si distinse, nel contesto della diffusa
retorica celebrativa degli anni ’30, per sempre più evidenti concessioni accademiche 4.
Affiancando alla sua produzione plastica una ricerca pittorica, nell’ambito della quale a cavallo degli anni ’10 e ’20
si dedicò alla decorazione di edifici pubblici 5, Morera ricoprì tra le due guerre diversi incarichi ufficiali a livello cittadino: nel 1932 fu eletto Accademico di merito all’Accademia Ligustica di Belle Arti, che diresse dal 1936 al 1944,
svolgendo anche l’incarico di professore di nudo e di storia dell’arte; inoltre nel 1936 fu nominato segretario del direttorio del Sindacato Fascista di Belle Arti.
Questi impegni istituzionali gli garantirono una cospicua attività nel campo delle opere pubbliche, con prestigiose committenze sin dai primi anni della sua permanenza nel capoluogo ligure. Tra le sue principali opere si ricordano il Monumento ai caduti per la Caserma Doria di Genova (1922),
il Monumento ai Caduti di Rivarolo (1926), il Monumento
ai Caduti di Sant’Ilario (1933), il Crocifisso nel Sacrario dei
Caduti di Staglieno (1935-36) e i bassorilievi per la Casa
del Fascio di Sestri Levante di Beniamino Bellati (1938).
In tutte queste prove, dato il carattere ufficiale della committenza, lo scultore sviluppò un linguaggio classico che,
per una resa più immediata dei temi trattati, tendeva in genere ad appiattirsi su modelli linguistici tradizionali ed accademici: una tendenza stilistica alla quale Morera fu in grado di sottrarsi solo in occasione di una produzione di minore impegno pubblico, come nel caso dell’impianto classico, liberamente interpretato, della statua Il dio Krishna,
eseguita per la Mahrani di Indore.
Questo suo progressivo adeguamento ai codici rappresentativi imposti dalla propaganda del regime ebbe la sua massima espressione proprio nella statua del Navigatore (o Il
marinaio d’Italia) che, rimossa per un lungo periodo dalla
sua sede originaria, a causa dei lavori nell’alveo del Bisagno, è adesso finalmente ritornata a svolgere la sua naturale funzione di direttrice della sistemazione urbanistica del
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quartiere, risalente all’epoca della sua realizzazione.
Sottoposto a un accurato intervento di consolidamento e
di pulitura, eseguito dal restauratore Axel Nielsen, che ha
curato tutte le fasi di smontaggio e di ricostruzione dell’opera prima e dopo la ricollocazione, il monumento ha dunque riacquistato la sua originaria solidità e la sua naturale
nitidezza cromatica che, grazie alla rimozione delle scritte
vandaliche sulla schiena e alla stesura di un prodotto “antigraffiti”, si spera possa essere preservata in futuro.
Rinforzata in tutte le sue parti, compreso l’arco recante la scritta “Vivere non necesse, navigare necesse est”, la scultura di cui si conserva un bozzetto in bronzo, molto più naturalistico e libero nella modellazione rispetto alla definitiva traduzione in marmo del 1940 - era stata comunque già sottoposta nell’immediato dopoguerra a un’opera di restyling “ideologico”, con l’eliminazione dei fasci littori dalla cornice architettonica e la rimozione dal piedestallo in granito dell’iscrizione “Giovinezza del Littorio fa di tutti i mari il mare nostro”.
Liberato dai suoi più evidenti contrassegni politici, il Navigatore di Morera si è dunque progressivamente spogliato del
suo originario valore simbolico, limitandosi a svolgere la funzione di asse focale dell’impianto urbanistico dell’area. Divenuto parte integrante del quotidiano scenario cittadino, questo monumento, come accade in genere anche alle opere
più celebrative, ha quindi del tutto ridimensionato la propria
carica retorica, assumendo una differente funzione comunicativa, dalla quale dipende ormai la nostra personale in-
tuizione dello spazio urbano e dell’ambiente nel quale viviamo. Un po’ come accadde a Budapest per la statua a Ilja
Afanaszjevics Osztapenkó, eroe dell’esercito sovietico caduto nel 1944 durante l’assedio alla città difesa dalle truppe
tedesco-ungheresi. Innalzato nel 1951 nel punto preciso nel
quale il soldato russo era stato ucciso e che nel frattempo si
era trasformato in un importante snodo centrale del traffico
in entrata e uscita dalla città, questo monumento fu infatti
sempre meno percepito come effige commemorativa, diventando un simbolo caro e famigliare per gli automobilisti e i
giovani autostoppisti che intorno a lui si radunavano. E per
questo il suo abbattimento, durante la campagna di rimozione delle statue celebrative del regime, avviata tra il 1989
e il 1990 dopo il collasso del blocco sovietico, fu fortemente osteggiata da molti cittadini di Budapest, che ancora oggi continuano a chiamare quel luogo Osztapenkó.
Note
M.M.R., La statua del “Navigatore” dello scultore Morera collocata alla Foce, di fronte al mare nostro, in “Genova”, 1, gennaio 1941, p. 28.
2
E. Schaub-Koch, Antonio Morera statuaire orphique, in “Turismo”,
marzo-aprile 1954, p. 23.
3
V. Rocchiero, Antonio Maria Morera Statuario, Medaglista, Cattedrante, in “Arte Stampa”, numero speciale, gennaio 1986, p. 11.
4
F. Sborgi (a cura di), La scultura a Genova e in Liguria. Il Novecento, Volume III, Cassa di Risparmio di Genova e Imperia, Genova, 1989,
pp. 80-81, 132-133.
5
Come ad esempio le decorazioni pittoriche per la Sala dei Veglioni
del Teatro Politeama di Casale Monferrato, per l’Aula Magna della Scuola Superiore di Enologia di Conegliano Veneto e per il Circolo ufficiali di Genova.
1
Le diverse fasi del trasporto
e della ricollocazione dell’opera.
A fronte, la statua del “Navigatore” ,
da “Genova”, gennaio 1941.
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