1 UNITÀ SINDACALE Falcri Silcea Viale Liegi 48/B 00198 – ROMA
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UNITÀ SINDACALE Falcri Silcea Viale Liegi 48/B 00198 – ROMA Tel. 068416336 - Fax 068416343 www.unisin.it Roma, 11 novembre 2014 Prot. n. 638/2014 RISERVATA ALLE STRUTTURE LL.SS. CENNI SULLA NATURA DEL CCNL ED EFFETTI DI UNA SUA DISAPPLICAZIONE Durante i lavori dell’ultimo Comitato Direttivo dello scorso 4 dicembre è emersa la necessità, diffusamente sentita dalle Strutture aziendali e territoriali, di fornire un chiarimento in merito a quelli che potrebbero essere gli effetti di un mancato rinnovo del CCNL - ivi compreso il caso di una sua disdetta cui non faccia seguito un accordo di rinnovo - e dell’ipotesi di una conseguente disapplicazione dello stesso. La Segreteria Nazionale, in collaborazione con l’Ufficio Studi e con il prezioso supporto della consulenza giuslavoristica di cui si avvale, con il presente documento intende fornire alle proprie Strutture un approfondimento tecnico sulla questione. Il Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro è la fonte normativa attraverso cui le Organizzazioni sindacali dei lavoratori e le Associazioni dei datori di lavoro definiscono le regole che disciplinano il rapporto di lavoro. Normalmente i CCNL regolano sia gli aspetti normativi del contratto di lavoro sia quelli di carattere economico. L’art. 39 della Costituzione stabilisce che la regolamentazione dei rapporti di lavoro può essere disciplinata da contratti collettivi stipulati a livello nazionale. La norma necessita però di una legge nazionale di applicazione e di dettaglio che non è mai stata approvata e, pertanto, i contratti collettivi integrano dei contratti di diritto comune che, come ogni altro negozio privato, vincolano solo le parti firmatarie. Questo tipo di contratto va trattato perciò come un contratto di diritto comune e quindi, come tale, collocato nell’alveo delle norme del codice civile. Il CCNL è un contratto a tempo determinato, prevedendo esso stesso l’arco temporale della sua durata e la data di scadenza. Alla scadenza del contratto collettivo regolarmente disdetto non è 1 pacifica, ed anzi risulta dibattuta in dottrina, la cosiddetta ultrattività dello stesso. Non sarebbe, infatti, applicabile la disciplina di cui all’art. 2074 c.c., relativa solo ai contratti corporativi e non al contratto collettivo di diritto comune. Parte della dottrina sostiene che l’ultrattività per gli attuali CCNL opererebbe sono nel caso di espressa previsione pattizia. In merito si è più volte espressa la giurisprudenza della Corte di Cassazione, a volte con pronunce contrastanti. Si deve però registrare la prevalenza della tesi più restrittiva che nega recisamente qualsiasi effetto di ultrattività di un contratto scaduto o disdetto. La sentenza delle Sezioni Unite n. 11325/2005 chiarisce che “I contratti collettivi di diritto comune operano esclusivamente entro l'ambito temporale concordato dalle parti, costituendo manifestazione dell'autonomia negoziale degli stipulanti; conseguentemente, le clausole di contenuto retributivo non hanno efficacia vincolante diretta per il periodo successivo alla scadenza contrattuale …” Alla luce del prevalente intendimento giurisprudenziale, un richiamo all’ultrattività del CCNL risulterebbe ancor più problematico in presenza di una disdetta operata da una delle parti. In questi casi, non essendoci più un contratto valido ed efficace, il rapporto di lavoro non può che essere disciplinato dalle norme di legge (codice civile e normative specifiche del settore). Chiarissima in merito è la sentenza della Cassazione n. 11602/2008 nella quale si legge che “alla scadenza prevista del contratto collettivo regolarmente disdetto … non è applicabile la disciplina di cui all’art. 2074 c.c. o comunque una regola di ultrattività … il rapporto di lavoro da questo in precedenza disciplinato resta disciplinato dalle norme di legge (in particolare quanto alla retribuzione dell’art. 36 Cost.) e da quelle convenzionali eventualmente esistenti, le quali ultime possono manifestarsi anche per facta concludentia, con la prosecuzione dell’applicazione delle norme precedenti”. L’art. 36 della Costituzione richiamato nella sentenza prescrive che “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa. La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge. Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale ed a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi”. Il principio descritto nella norma deve ovviamente trovare piena applicazione a prescindere dall’esistenza di un contratto collettivo e, quindi, anche quando un precedente contratto sia stato disdetto. La stessa sentenza della Cassazione a SS.UU. n. 11325/2005 ha chiarito che “opera … sul piano del rapporto individuale del lavoro la tutela assicurata dall'art. 36 Cost., in relazione alla quale può prospettarsi una lesione derivante da una riduzione del trattamento economico rispetto al livello retributivo già goduto”. Ciò significa che è ipotizzabile una rivendicazione, anche giudiziale, a tutela della ‘precedente retribuzione’, utilizzata però quest’ultima, non come residuato di un contratto non più efficace, bensì quale parametro di valutazione, indicativo e/o presuntivo, utile per verificare la proporzionalità degli emolumenti rispetto alla quantità ed alla qualità del lavoro prestato. Significa, più semplicemente, che un potenziale Giudice chiamato a pronunciarsi in merito potrebbe facilmente adagiarsi su quanto stabilito nel precedente accordo collettivo per verificare cosa sia dignitoso e proporzionale e cosa invece non lo sia. Si leggano al riguardo le sentenze della Cassazione n. 20310/2008 e n. 11330/2014 nella parte in cui spiegano entrambe che “il termine finale toglie alla scadenza effetto al contratto collettivo ma non sottrae il datore di lavoro dall’obbligo di retribuzione ex art. 2099 c.c., mentre l’ammontare ben può essere determinato dal giudice di merito ex art. 36 Cost. comma 1, con riferimento all’ammontare già previsto dal contratto individuale, recettivo di quello collettivo” 2 Giunto alla scadenza, dunque, il contratto collettivo di lavoro di norma cessa di produrre i suoi effetti e non è più vincolante per le parti, ma sul piano del rapporto individuale di lavoro - la tutela delle retribuzioni acquisite è in qualche modo garantita dalla succitata norma costituzionale. Una riduzione del trattamento economico rispetto al livello già goduto potrebbe infatti configurare una lesione del diritto costituzionalmente garantito dall’art. 36 della Costituzione e, quindi, dare la stura ad un ricorso giudiziale nei termini sopra descritti. Altro aspetto sul quale la disdetta del contratto collettivo non può incidere è quello dei c.d. diritti quesiti a proposito dei quali, però, bisogna ben intendersi. Si tratta solo, invero, di quelle posizioni giuridiche che sono già entrate nel patrimonio del lavoratore perché riguardano un rapporto o una fase del rapporto già interamente consumatasi. L’esempio tipico è quello del Tfr già maturato o del lavoro straordinario già prestato e rispetto al quale, gli emolumenti previsti dal contratto al tempo vigente, non possono evidentemente essere messi in discussione. Chiarissima al riguardo è la sentenza della Cassazione n. 11602/2008: “tale categoria individua i diritti già acquisiti nel patrimonio del lavoratore per effetto dell’intervenuto perfezionamento della relativa fattispecie costitutiva … il richiamo ad essi non appare pertinente al tema della durata dell’efficacia dei contratti collettivi la cui scadenza non pregiudica diritti già acquisiti dai lavoratori, ma impedisce solo la maturazione di nuovi diritti alla stregua del contratto scaduto”. Di pari segno è la Cassazione n. 19351/2007: “sono fatti salvi quei diritti già entrati a far parte del patrimonio del lavoratore quale corrispettivo di una prestazione già resa e nell’ambito di un rapporto già esauritosi, non potendo di contro ricevere tutela mere pretese alla stabilità o alla protrazione nel tempo di benefici economici e di aspettative derivanti da precedenti regolamentazioni”. Per completezza di trattazione, sulla questione della sorte dei vari elementi della retribuzione in caso di disdetta del contratto collettivo, si deve citare una recente pronuncia del Tribunale di Venezia del 30 maggio 2014, occupatasi della legittimità della revoca di benefici ‘accessori’ come il premio di produzione, la quattordicesima mensilità, il terzo elemento e gli assegni non riassorbibili. Il Giudice veneziano ha ritenuto sussistente il diritto al mantenimento della retribuzione “per effetto di quanto previsto dal disposto dell’art. 2103 c.c., norma la quale prevede che il lavoratore debba essere adibito alle mansioni di assunzione o equivalenti senza alcuna diminuzione della retribuzione …”, e ha precisato che “tra le erogazioni a carico del datore di lavoro rientrano tutte le somme di denaro, a qualsiasi titolo anche diverse dallo stipendio base … corrisposte in maniera stabile e continuativa”. La sentenza è disallineata rispetto ai principi sopra visti (una cosa è la tutela della retribuzione giusta ex art. 36 Cost., rimessa al libero apprezzamento del Giudice, altra cosa è il mantenimento automatico e doveroso di ogni voce di busta paga), e cita alcuni precedenti della Cassazione che, invero, dicono qualcosa di diverso. E’ il caso della sentenza n. 24268/2013 che pur avendo accertato l’illegittimità della revoca di un certo beneficio economico collaterale, lo ha fatto in realtà in applicazione di principi di buona fede e correttezza e sulla base della specifica vicenda in esame. Quanto agli effetti che la disdetta del contratto collettivo nazionale potrebbe avere su altri accordi (aziendali, agibilità, ecc.), la giurisprudenza è consolidata nel ritenere i vari istituti assolutamente autonomi e distinti. Già nella legittimazione a disdire un CCNL piuttosto che un accordo aziendale, la Cassazione (sentenza n. 8994/11) ha precisato che “il datore di lavoro potrebbe disdire un accordo integrativo aziendale in quanto parte stipulante”, mentre la facoltà di disdetta del contratto nazionale è riconosciuta solo “alle organizzazioni sindacali e datoriali firmatarie”. Inoltre, è pacifico che “il rapporto tra il contratto nazionale e quello aziendale si caratterizza in ragione della reciproca autonomia delle due discipline (e di un loro diverso ambito applicativo) … ne consegue che seppure il trattamento economico e normativo dei lavoratori è nella sua globalità 3 costituito dall’insieme delle pattuizioni dei due diversi livelli contrattuali, la disciplina nazionale e quella aziendale, egualmente espressione dell’autonomia privata, si differenziano tra loro per la loro distinta natura e fonte negoziale, con la conseguenza che i rispettivi fatti costitutivi ed estintivi non interagiscono …”. Si tratta quindi di profili distinti e le sorti del CCNL non si riflettono automaticamente sulla contrattazione di secondo livello. Identiche, ed anzi più fondate, considerazioni si possono fare per l’Accordo sulle agibilità sindacali che regola la particolarissima materia dei diritti del sindacato e dei suoi esponenti e che, come e più di un qualsiasi contratto aziendale, vive di vita propria e segue le sue dinamiche e le sue tempistiche. Del resto, in materia di rinnovi, è espressamente previsto il principio dell’autonomia dei cicli negoziali, ulteriore conferma della sostanziale impermeabilità fra i diversi strumenti negoziali. Vediamo ora cosa avverrebbe per una serie di istituti previsti nel CCNL del credito che, dopo la disdetta del contratto nazionale 1, seguirebbero solo la norma di legge: gli scatti di anzianità non maturerebbero più, così come le giornate di ex festività e si perderebbero una serie di permessi retribuiti previsti a vario titolo; fungibilità e sostituzioni seguirebbero quanto previsto dall’art. 2103 c.c. secondo cui si ha diritto all’assegnazione a mansione superiore in via definitiva dopo i tre mesi, con effetti migliorativi per l’assegnazione dei lavoratori alla categoria dei quadri direttivi, che per il CCNL acquisiscono tale diritto dopo 5 mesi2; la mobilità territoriale non sarebbe più regolamentata e si applicherebbero quindi i principi civilistici che regolano i trasferimenti dei lavoratori (es.: 2103 c.c., comma 1, ultimo cpv.); in tema di orario di lavoro il D.Lgs 66/2003 fissa in 40 ore settimanali il limite massimo previsto in una settimana a fronte dell’attuale limite di 37 ore e 30 minuti, e per ogni periodo di sette giorni la durata massima dell’orario di lavoro non può superare le 48 ore compreso lo straordinario; ogni azienda in tema di orari di lavoro e sportello potrebbe applicare gli orari ritenuti più opportuni; potrebbe cessare la contribuzione aziendale al fondo pensione o sanitario, ma questa materia è disciplinata dalla contrattazione di secondo livello, quindi in ambito aziendale e, per quanto sopra ricordato, segue le sorti dei contratti aziendali e non di quello collettivo nazionale; verrebbero soppressi il Premio Aziendale ed i buoni pasto; lo Straordinario varrebbe per tutte le aree professionali, quindi anche per i QD, e seguirebbe le prescrizioni del D.Lgs 66/2003 prevedendo una maggiorazione rispetto all’orario ordinario che secondo il RDL 692/1923 deve essere di almeno il 10%. Se il lavoro straordinario risultasse sistematico e continuativo il compenso inciderebbe sia sul calcolo del TFR che ai fini del calcolo della tredicesima e della retribuzione per ferie (Sentenza Tribunale di Cassino del 4/2/2003); 1 Sempre che il datore di lavoro modifichi effettivamente il proprio comportamento in ragione dell’avvenuta disdetta, anziché lasciare vivi i vari istituti contrattuali per facta concludentia, onde evitare anche solo il rischio di una catena infinita di ricorsi singoli o collettivi. 2 Si è occupata di tale questione la sentenza della Cassazione n. 2590/09 in cui, pur riaffermandosi la regola per la quale alla scadenza o alla disdetta del contratto il rapporto di lavoro è regolato solo dalla legge e, quindi, dall’art. 2103 c.c., la vicenda è stata risolta in senso contrario, con applicazione cioè della regola prescritta nel contratto già scaduto, perché il Giudice di merito in quella occasione ha accertato che “le parti abbiano implicitamente, per facta concludentia, prorogato l’efficacia del ccnl …”. 4 verrebbe meno l’obbligo di reperibilità per i lavoratori e, conseguentemente, le relative indennità; l’assegno di maternità obbligatoria resterebbe in vigore, ma nella ridotta misura di legge dell’80% rispetto a quella più favorevole del 100% prevista nel CCNL. Un’ultima considerazione. I Contratti e gli Accordi aziendali vigenti non cesserebbero di avere validità ed efficacia, ma resta la possibilità di una “disdetta generalizzata” estesa anche alla contrattazione di secondo livello da parte delle banche, attuata come mossa politica. Alla luce delle rilevanti problematiche cui andrebbe incontro, in questa eventualità, il datore di lavoro (es. i ricorsi citati in nota 1), si ritiene però più probabile la sopravvivenza del secondo livello, se non addirittura un rinnovato vigore dello strumento pattizio, con una regolamentazione di più numerosi aspetti contrattuali. LA SEGRETERIA NAZIONALE 5