L`Islam Moderato Insulindiano e il Dialogo con l

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L`Islam Moderato Insulindiano e il Dialogo con l
Università degli Studi di Cagliari
Facoltà di Scienze Politiche
Corso di Laurea Specialistica in Relazioni Internazionali
(Classe 60/S)
L'Islam Moderato Insulindiano e il Dialogo
con l'Occidente
Relatore
Prof.ssa Annamaria Baldussi
Tesi di:
Trudu Ilaria
Anno Accademico 2006/2007
Indice
1.
Introduzione……………….…………………………………………..
p. 4
2.
Il lungo cammino verso la democrazia……………………….
p. 6
p. 6
2.1 Excursus storico: avvicendamenti al potere in Insulindia….……
2.1.2 Indonesia
2.1.3 Malaysia…………………………………………….………...
p. 21
2.2 Islam e Politica……………………………………………………
p. 28
2.2.1 Pancasila
2.2.2 NU e Muhammadiyah………………………………………….
2.2.3 Movimenti Dakwah (PAS, Darul Arqam, ABIM)…………………..
p. 31
p. 31
2.3 Il Processo di Democratizzazione………………………….……….. p. 34
3. Dialogo con l’Occidente………………….………………….….…
p. 46
3.1.Cooperazione Internazionale………………………………….….
3.1.1 Relazioni USA – Indonesia – Malaysia fino 11/9/2001….…………..
3.1.2 UE – ASEAN: esempio di cooperazione Sudest Asiatico-Occidente…..
3.1.3 ONU, ONG e Diritti Umani………………………………………
p. 46
p. 47
p. 55
p. 57
3.2 11/9/2001 Una Nuova Sfida: Insieme contro il terrorismo….….
p. 63
3.3 Dialogo interreligioso…………….………………………………
p. 66
4. Conclusioni ……………………………………………………………
p. 70
5. Bibliografia…………………………………………………………….
P. 72
1.Introduzione
Al giorno d’oggi ascoltando un telegiornale, un dibattito o leggendo qualsiasi
quotidiano, ci si rende conto che una nuova parola è entrata ormai nel nostro
dizionario quotidiano: “Islam”; purtroppo i fatti di cronaca legati a questo termine
sono sempre caratterizzati da una connotazione negativa, e soprattutto dopo 11
settembre 2001 sono macchiati di rosso. Ma cos’è l’Islam? L’Islam è fede (dín), ma
non solo, è anche stato, mondo (dunya) ed è diritto (dawla), questa religione
trascende i confini occidentali che sono stati delimitati nel nostro passato con la
frattura tra lo Stato Temporale e quello Secolare; per i musulmani l’Islam è il loro
mondo che tutto comprende, la vita dei suoi seguaci è continuamente pervasa da
aspetti religiosi, o per lo meno così era in passato, perché non esiste attualmente
l’identità: Stato Islamico che applica la legge islamica (sharia) e che come capo abbia
un’autorità religiosa. A partire dall’epoca di Maometto e per poche generazioni, la
società musulmana conobbe e sperimentò tale identità, dove il capo religioso era allo
stesso tempo, capo della comunità (umma), ossia colui che, illuminato da Allah, ne
rappresentava il vicario (kalifa) in terra e come tale insegnava la legge divina alla sua
unione di credenti. Questa triade costituisce la base per capire i popoli musulmani, i
quali seppur messi in ombra da una minoranza di fanatici, costituiscono la vera realtà
islamica.
Nello studio che mi accingo a presentare, mi propongo di confutare la teoria
secondo la quale non esista un Islam moderato e di conseguenza non esista
concretamente la possibilità di un dialogo con esso. Al fine di servire questo scopo,
ho preferito utilizzare fonti provenienti soprattutto dal mondo non-occidentale, nel
tentativo di fornire una visione distaccata dalla mia cultura e di spogliarmi il più
possibile da concetti e punti di vista propri dell’Occidente. Troppo spesso la civiltà
islamica è stata oscurata dalla bandiera del terrorismo, purtroppo “pochi” sono riusciti
con atti eclatanti a distruggere la reputazione di “tanti”, i quali a loro volta
inorridiscono di fronte ad attentati alla vita umana. Soprattutto in seguito all’attentato
dell’undici settembre si è sviluppata una tendenza, interna ai paesi occidentali, volta a
demonizzare la religione Islamica, insieme a tutti i suoi fedeli, e volta a creare uno
stereotipo del musulmano con pensieri e atteggiamenti, anti-sionisti, anti-americani,
ergo, anti-occidentali.
Ho deciso di prendere in esame due paesi del cosiddetto “Islam periferico”, da
una prima analisi superficiale potrebbero anche sembrare erroneamente simili: sono
infatti entrambi costituiti da una popolazione a maggioranza musulmana, con un
comune background storico-culturale, inoltre appartengono entrambi al contesto
dell’Asia Sudorientale; tuttavia l’elemento che li contraddistingue è fornito dai diversi
risultati raggiunti in seguito alla loro indipendenza. L’Indonesia, per esempio, non ha
sviluppato uno stato Islamico propriamente detto, ossia con l’elevazione della sharia
a legge suprema, questo a causa dell’elevato tasso di multi-culturalismo all’interno
dei suoi territori: durante la sua indipendenza ha dovuto affrontare continue sfide alla
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su integrità territoriale, che era costantemente minacciata da movimenti separatisti
che pervadevano tutto l’arcipelago, in un simile contesto non era certamente possibile
istituire uno Stato musulmano. La Malaysia, invece è un ibrido di Stato Islamico,
anche in questo caso la popolazione si suddivide in diverse categorie, ma da un punto
di vista linguistico: accanto ai malesi doc, coesistono anche elementi cinesi ed
indiani, i loro conflitti si sviluppano quindi su un livello “etnico” piuttosto che
religioso, come accade in Indonesia. Un altro elemento che li distingue sono i diversi
sistemi democratici, mentre il primo ha un tasso superiore, l’altro è ancora nella via
della transizione democratica. La scelta di questi due stati potrebbe apparire
inopportuna, proprio per la loro distanza dalla Terra Santa e dall’origine della fede
Islamica, ma ho preferito scegliere la regione Insulindiana proprio per la realtà
multiculturale che la contraddistingue, per la tolleranza e apertura mentale che fin
dagli albori dei primi traffici marittimi non le ha mai impedito di intrecciare legami
sia commerciali che intellettuali con altri popoli. Nonostante la sua distanza dalla
“culla dell’Islam”, la fede in questi territori ha tuttavia mantenuto i caratteri essenziali
che contraddistinguono il messaggio islamico originale, che, a discapito dell’opinione
comune, si pregia di virtù quali tolleranza, universalità, versatilità, ma non solo,
accanto a questi principi (che anche lo stesso Occidente concepisce come “propri”) vi
è il germe della democrazia: la comunità musulmana originaria, nell’esplicare le sue
decisioni, ha sempre ricorso ad un’assemblea dei saggi, i quali decidevano a rigor di
maggioranza.
Al fine di provare la mia tesi, procederò prima con un breve excursus storico sugli
avvicendamenti al potere nei due stati, ponendo l’accento, di volta in volta, sul
legame tra politica-religione e sulle modalità alle quali i movimenti islamici dei due
paesi, ricorrono di volta in volta per influenzare o meno le scelte de rispettivi governi;
successivamente analizzerò le transizioni democratiche insite all’interno
dell’ambiente istituzionale e politico insulindiano, con le relative riforme e
analizzando di volta in volta i limiti che ancora devono superare. Questo passaggio è
necessario per due ragioni: innanzi tutto con l’intento di appurare che l’Islam non è
incompatibile con il modello democratico, e consecutivamente per poter instaurare un
dialogo proficuo con l’occidente è necessario avere al proprio interno qualche forma
democratica. Una volta analizzato l’aspetto democratico proprio della Malaysia e
dell’Indonesia mi concentrerò sulle modalità con le quali questi due Stati hanno
raggiunto un dialogo con l’Occidente, prima come “individui” con il colosso
statunitense, poi come regione asiatica rapportata all’Unione Europea e da ultimo
come contesto globale nell’ambito dei diritti umani e i rapporti con l’ONU. Gli ultimi
due paragrafi saranno dedicati agli sforzi compiuti da questi due paesi musulmani, per
affrancarsi dalla bandiera che è caduta sul mondo musulmano, in seguito al tragico
attentato al World Trade Center e infine sul dialogo continuo con le altre religioni per
cooperare allo sviluppo della tanto agognata, quanto sognata, pace mondiale.
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2. Il lungo cammino verso la democrazia
2.1 Excursus storico: avvicendamenti al potere in Insulindia
2.1.1 Indonesia
Il variopinto panorama religioso presente in Indonesia è da considerarsi unico nel suo
genere e nella sua natura: all’interno di questo stato a maggioranza musulmana,
ovvero esattamente il 90% della popolazione, trovano posto altre religioni minoritarie
come il Cristianesimo nelle sue versioni protestante che rappresenta il 6% (soprattutto
nelle province di Irian Jaya e nella zona settentrionale di Sulawesi) e cattolica 3% (a
Timor-Est, nella zona orientale di Nusa Tenggara, nelle Isole Flores e nelle
Molucche) l’Induismo (Bali), il Buddismo (Borneo Occidentale) e infine una minima
parte si reputa animista o segue pratiche sincretiche (soprattutto Giava) delle religioni
precedentemente nominate. Questo cocktail di culti è tenuto insieme dal pilastro del
Panca Sila, ossia una sorta di dottrina che venne creata dal primo presidente
dell’Indonesia Sukarno al fine di mantenere la libertà di religione, dando piena
legittimità di esistenza a ciascuna fede e fornendo anche il substrato che avrebbe
funto da collagene per preservare l’unità nella diversità che è propria di questo Stato,
nonché il suo motto: “Binneka Tunggal Ika”.
Sin dalla nascita dello Stato Indonesiano la sua politica, proprio per la sua società
multiculturale, è sempre stata intrisa di connotati religiosi, con organizzazioni che ne
rappresentassero gli interessi; due erano e tuttora sono i maggiori i contenitori degli
aspetti musulmani: il partito Madjelis Sjuro Muslim Indonesia (più comunemente
noto come Masjumi) e successivamente Nahda’ul Ulama (NU)1, che significa
Rinascita Ulama. I due schieramenti si distinguono per l’orientamento più
tradizionalista del secondo rispetto al primo, Madjelis si distingue più per una
tendenza modernista, da una parte premeva per la costituzione di uno stato
musulmano, ma dall’altra era aperto alla collaborazione con l’occidente, pur
aborrendo la posizione amichevole di Sukarno coi comunisti. Sukarno ai primi albori
della sua instaurazione al potere ha dovuto affrontare immediatamente, il problema
della multireligiosità; davanti a lui si ponevano due strade: quella di dare piena forma
al nuovo stato sotto la bandiera dell’Islam oppure garantire la sopravvivenza dei vari
1
Nahda’ul Ulama: Il partito sorse per la prima volta nel 1926 dalla scissione di un altro partito: Sarekat
Islam, successivamente verrà inglobato all’interno del Partito Masjumi e nel 1952 acquisterà
nuovamente vita propria separandosi da quest’ultimo raggruppamento polico-religioso.
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culti professati all’interno del paese preferendo l’instaurazione di uno Stato laico. La
frammentazione arcipelagica propria del territorio richiedeva prima di tutto: unità e
centralizzazione governativa, l’istituzione di uno stato musulmano avrebbe significato
invece creare disordini all’interno della nuova entità statuaria, la quale era già
abbastanza provata dalla autoproclamazione di indipendenza della Repubblica delle
Molucche del Sud, in opposizione all’Indonesia; questa rivolta scaturì all’indomani
della creazione del nuovo stato e non a caso ebbe come focolaio Ambon, una città a
predominanza cristiana. Queste ribellioni necessitarono una forte contromisura da
parte governo, che rispose appunto tramite una accentuazione del potere centrale e
tramite la soluzione del dilemma tra l’istituzione di uno stato laico, o uno prettamente
islamico, ed ecco porsi di fronte al nuovo presidente una terza via: le due correnti si
accordarono, giungendo al compromesso rappresentato dall’istituzione del Panca Sila
come ideologia nazionale. L’origine etimologica di questa parola è da cercare nella
lingua sanscrita e significa “cinque principi”; essa è, infatti, composta da cinque
concetti2. L’importanza di quest'istituzione è tale da essere stata forgiata allo scopo di
creare un trait d’union tra le differenze culturali ed elevarle a nota caratteristica del
paese, nonché base per una convivenza pacifica per i cittadini indonesiani professanti
qualsiasi religione purché questa fosse monoteistica.
Facendo un piccolo passo indietro, descriverò la situazione politica antecedente
alla costituzione dello stato, per poi ricollegarmi a Sukarno. Ancor prima della
Dichiarazione di Indipendenza Indonesiana iniziavano già a sorgere i primi partiti o
movimenti di diverso indirizzo politico. I primi erano uno di corrente nazionalistica e
l’altro islamico. La prima associazione: la Muhammaddyya, venne fondata nel 1906.
La seconda, il Sarekat Islām venne costituita nel 1911. Entrambi i due movimenti
associazionistici nacquero a Giava., ma il Sarekat Islām mise radici anche a Sumatra.
L’impulso della sua creazione deve essere letto come risposta all’opera di
cristianizzazione che il quel periodo si stava verificando nelle deu isole. Inizialmente
il Sarekat Islām fu un’associazione di mercanti che si univano contro i cinesi, solo
successivamente assunse un carattere politico e questo avvenne in concomitanza
all’assorbimento e al successivo distacco di frange comuniste, le quali separandosi
diedero vita al Perserikatan Komunist Indonesia (P.K.I.), il partito comunista
indonesiano. Nel 1927 nacque Perserikatan Nasional Indonesia, un altro partito di
corrente nazionalistica, i cui leader furono il futuro primo presidente indonesiano
Sukarno e il suo vicepresidente Mohammed Hatta. Tra questi partiti, un ruolo
predominante verrà assunto dal P.N.I. Nel 1923 il P.K.I. a seguito di un’insurrezione
fallita a Giava venne dichiarato illegale e quando venne dichiarata l’Indipendenza i
leader nazionalisti assunsero i due ruoli più importanti nel neonato stato. Sukarno si
servì dei comunisti per contrastare la potenza delle idee islamiche, questo, al contrario
del suo successore era un ammiratore della Cina Comunista. Questa sua approvazione
per le idee comuniste gli causò il dissenso del partito Madjelis Sjuro Muslimin
Indonesia, o più comunemente noto come Masjumi, questo era un raggruppamento di
tutte le associazioni islamiche, nonché forza preponderante nei primi due governi
della storia dello Stato indonesiano.
2
http://home.swipnet.se/zabonk/indons/instant/politics.htm
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In seguito alla dissoluzione del governo coloniale olandese e alla successiva
dimissione di tutte le più alte cariche manageriali, economiche, governative, le quali
erano tutte ricoperte da personale olandese, l’Indonesia era in una situazione di deficit
di personale competente per la sua amministrazione. Gli indonesiani non avevano mai
avuto mansioni dirigenziali ed erano per questo in una situazione di completa
incapacità. In questo clima di inadeguatezza direttiva si inserivano le proposte di
alcune frange di correnti musulmane che erano aperte alla collaborazione con
l’Occidente. Questi movimenti erano favorevoli a contatti con le nazioni più ricche
del mondo, dalle quali erano certi si potesse imparare e riuscire in questo modo a far
fiorire l’economia del proprio paese sotto l’effetto propulsore occidentale.
All’interno della federazione Masjumi esistevano differenze tra le varie
associazioni islamiche, infatti ad essa aderivano inizialmente riformisti, modernisti,
progressisti e tradizionalisti. Nel 1952 l’ala tradizionalista si separò dalla federazione
e diede così nuova vita al Nahdat’ul Ulama (Rinascita degli Ulama), il quale era già
sorto nel 1926 dalla scissione dal Sarekat Islām. Questi tradizionalisti non
contestavano la collaborazione di Sukarmo coi comunisti, mentre il restante dei
Masjumi vi ci si opponeva e si mostrava più disponibile alla collaborazione con
l’Occidente. Successivamente a questo allontanamento, le prime elezioni generali
proclamavano la vittoria ex-equo del Masjumi e del P.N.I., seguiti dal movimento di
Rinascita degli Ulama, e infine dal P.K.I. Nel 1959 Sukarno con decreto presidenziale
sciolse l’Assemblea Costituente che stava lavorando alla costituzione provvisoria e
ristabilì la precedente costituzione del 1945. Il presidente dopo aver incorporato alla
sua carica anche quella di primo ministro, si occupò della formazione del governo,
vietò allo stesso tempo lo svolgersi di attività politiche, bloccò il funzionamento del
parlamento e infine interdisse il Masjumi. Veniva così avviata le politica di
“Democrazia Guidata” che prevedeva la cooperazione tra tre schieramenti politici. Le
correnti islamiche erano state relegate in un piano inferiore, in quanto i due partiti alla
ribalta erano quello nazionalista e quello comunista. L’unico partito musulmano
riconosciuto era quello tradizionalista, in quanto aveva accettato l’alleanza coi
comunisti e non poteva però assumere una propria connotazione individuale.
Nel 1965, dopo il fallimento di un colpo di Stato rivoluzionario, il governo di
Sukarto venne rovesciato. Durante questa manovra politica vennero uccisi dei capi
militari ed il P.K.I. venne ritenuto responsabile di questa strage. Questo partito venne
eliminato e salì al potere un nuovo Presidente: Suharto e il governo del “Nuovo
Ordine”. Suharto, per accentrare ancor di più il potere nelle sue mani, utilizzo il
Panca Sila come filosofia fondamentale indonesiana e fece del suo quinto principio
un baluardo per la lotta al comunismo, perseguendo atei o politeisti accusati di aderire
a tale dottrina. Un esempio di questa persecuzione contro i comunisti è la conversione
di numerosi cinesi alle religioni monoteiste per evitare l’oppressione del governo. Il
partito della Rinascita degli Ulama cooperò a questa repressione, garantendosi cosi un
ruolo prioritario tra gli schieramenti Islamici. La dottrina nazionale venne anche
sfruttata per diminuire il ruolo dei movimenti musulmani e per attuare una
depoliticizzazione dell’Islām. La prima mossa in tal senso, venne compiuta con la
creazione ad opera del Orde Baru (Nuovo Ordine) di un partito musulmano, la cui
attività sarebbe stata oggetto di controllo governativo. Questo nuovo raggruppamento
8
politico prese prima il nome di Partai Muslim Indonesia (P.M.I.)3. Nel 1973, per
volere di Suharto, si formarono tre schieramenti: Partai Persatuan Pembangunan
(PPP) che comprendeva al suo interno tutti i movimenti islamici, Partai Demokrasi
Indonesia (P.D.I.): un composto eterogeneo costituito da Cristiani, Protestanti e
nazionalisti; infine il G.O.L.K.A.R. , partito che era appoggiato dal nuovo presidente.
“Dopo l’eliminazione del PKI e di Sukarno, i partiti politici, soprattutto quelli
islamici, erano gli unici che potevano opporsi al dominio politico militare dell’Ordine
Nuovo. E’sotto questa luce, che la semplificazione del sistema partitico del 1973 può
essere vista come un modo per delimitare l’opposizione politica attraverso la
precisazione di cosa il Panca Sila sia, in termini di comportamenti e organizzazioni
politiche consentite e tramite l’utilizzo di tale dottrina come una sua giustificazione e
spiegazione”4. I NU (Nahdat’ul Ulama), avendo partecipato alla disintegrazione del
PKI, contavano sulla concessione da parte del governo di privilegi e favoritismi
politici, che invece furono pochi. Suharto, nonostante la disponibilità che i NU
avevano cercato di dimostrargli, concepiva questo movimento come un possibile
avversario politico dal quale difendersi. Temeva un incremento di attivismo
musulmano verso nuove istanze, che si sarebbero mosse verso la creazione di uno
Stato Islamico.
Nel 1978, per assicurarsi un ulteriore controllo sui movimenti musulmani e
ostacolare la possibilità che questi avessero una presa maggiore nel popolo, venne
inaugurata una nuova politica chiamata P-4 che era l’abbreviazione di Pedoman
Penghayatan dan Pengamalan Pancasila, ovvero guida alla comprensione e pratica
del Panca Sila. Tutto ciò significava la realizzazione di corsi educativi, allo scopo di
produrre una maggiore autocoscienza della filosofia nazionale, con un conseguente
depauperamento delle religioni ed ideologie presenti in Indonesia. Tra il 1980 e il
1982 al P-4 venne affiancato un progetto di “pancasilazione”5: non solo i funzionari
dovevano seguire gli insegnamenti in materia, ma ciò che causò dissidi e
disapprovazione fu l’obbligo per ogni associazione e raggruppamento politico di
aderire formalmente alla dottrina nazionale. Il mancato consenso avrebbe significato
l’automatica auto-esclusione dalla scena politica e l’illegittimità del gruppo in
questione. Questa adesione doveva rappresentare il conformarsi dei gruppi al Panca
Sila, il quale sarebbe diventato la dottrina cardine fondamentale, a cui l’orientamento
del movimento doveva adeguarsi.
Questa nuova imposizione scatenò il disdegno di tutte le associazioni, soprattutto
a carattere islamico. Secondo la loro opinione, l’inserimento di tale filosofia alla base
delle proprie associazioni aveva come scopo quello di spogliare ulteriormente il loro
carattere prettamente religioso e per questo motivo si rifiutarono di accettare tale
costrizione. Tutti i dissidenti vennero politicamente eliminati, in questi anni ci furono
numerosi moti di protesta che avevano come protagonisti attivisti musulmani e
cristiani. Nel 1985 il NU cedette nuovamente alla volontà del governo ed aderì al
Panca Sila e allo stesso tempo liberò gli associati dall’obbligo di votare solo ed
3
Andrée Feillard, “Les Aulémas indonesien aujourd’hui: de l’opposition à une nouvelle légitimité”,
Archipel, 46, 1993, pp. 89-110
4
Douglas E. Ramage, op. cit, p. 30
5
François Raillan, “Islam et Ordre Nouveau au l’imbroglio de la foi et de la politique”, Archipel, 30,
1985, pp. 229-261
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unicamente per il PPP. Grazie a questa mossa vi fu un periodo di distensione tra il
NU e il GOLKAR. Questo clima di tranquillità era stato in un certo modo anticipato
dall’inizio degli anni ’70. In questi anni era stata approvata una legge che legittimava
il matrimonio religioso; le materie a carattere sacro erano state affidate al ministro
dell’educazione e cultura; la corte suprema era stata abilitata a giudicare in cassazione
secondo la legge islamica; infine vennero emanati dei decreti per facilitare la
predicazione musulmana, limitando inoltre le opere missionarie cristiane ad opera di
religiosi stranieri.
Un altro importante passo di avvicinamento venne compiuto nel 1983 con la
prima compilazione del diritto islamico indonesiano. Gli Ulama si opposero ad una
codificazione, in quanto avrebbe significato avventurarsi in un’operazione che
neanche lo stesso Muhammad aveva intrapreso. Per questo motivo si preferisce il
termine “compilazione”; questa consisteva in una definizione del diritto islamico, il
quale doveva essere doppiamente conforme: prima alla sharī‘a e poi, a parità di
livello, al Panca Sila. Mentre gli Ulama continuavano ad opporsi all’esistenza di un
diritto tipicamente indonesiano, alcuni giudici progressisti proponevano di esaminare
i casi che di volta in volta fossero stati oggetto di una sentenza, utilizzando i valori
presenti nella società indonesiana. Sorgeva cosi un ulteriore quesito, ovvero quello
relativo a chi dovesse essere considerato sotto la giurisdizione della legge islamica.
Questa discussione sorse anche in seno al comitato per la formazione
dell’indipendenza. La frase che è stata più volte oggetto di dibattito è quella che
afferma “l’obbligo per gli aderenti all’Islām di osservare la legge islamica”,
nonostante queste dispute ricorrenti, non si è giunti ad una chiara definizione del
problema. Questo argomento diventerà nuovamente spunto per nuovi dissidi, quando
nel 1991 il Ministro del Culto annuncerà la proposta per l’approvazione di matrimoni
interreligiosi. Il progetto verrà poi abbandonato per la sollevazione dei musulmani, i
quali rifiutavano questa possibilità per paura di un ulteriore depauperamento
dell’Islām.
In seguito all’adesione dei NU al Panca Sila Suharno ebbe un doppio
atteggiamento nei confronti dell’Islām. Da una parte, essendo la religione
maggioritaria, vi era un apparente appoggio. Questo si esplicava in interventi volti a
sovvenzionare le scuole islamiche, per esempio, a Java–Est il NU ottiene aiuti per
creare nuove scuole. Questo supporto economico veniva offerto solo a istituti con
insegnamenti moderati i progressisti, i quali non minavano la stabilità del Panca Sila,
e quindi dello stato. Dall’altra parte le scuole che usufruivano delle sovvenzioni,
erano alle stesso tempo soggette ad un maggiore controllo da parte dello stato. Questo
aveva cosi la possibilità di intromettersi all’interno della loro organizzazione, ad
esempio, le nomine degli insegnanti erano vincolate da scelte governative ad opera
del ministro di culto. Sotto il suo controllo6 (i) avveniva la raccolta della zakat, la
quale, secondo l’usanza, dovrebbe avvenire ad opera della comunità musulmana; (ii)
veniva finanziata la costruzione di moschee e scuole; (iii) era regolato ogni aspetto
del pellegrinaggio. La doppia politica era quindi, quella di mascherare il proprio
6
Marcel Bonneff, “Récentes ètudes et points de vue sur la mentalité javanaise et le probleme du
développement national en Indonesie”, Archipel, 12, 1976, pp. 231-248.
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controllo con delle azioni di sostegno formale, coadiuvate da movimenti di sempre
maggiore propaganda della propria filosofia nazionale.
Lo Stato e l’Islām erano in continua competizione in diversi ambiti, entrambi
cercavano di penetrare nel campo dell’altro. Vi erano scuole pubbliche, private e
musulmane; da una parte vi erano le leggi dello Stato che regolavano la vita degli
indonesiani e dall’altro vi era il diritto islamico che disciplinava le relazioni tra
musulmani e tra questi e non-musulmani. Infine Suharto cercava di penetrare
nell’animo degli indonesiani attraverso il Panca Sila, ponendolo come dottrina al di
sopra di tutte le religioni. L’Ordine Nuovo si occupava anche del pellegrinaggio verso
La Mecca. Questo non era solo un momento di partecipazione ad uno dei Pilastri
dell’Islām, era anche un momento di aggregazione di musulmani provenienti da tutto
il mondo. Il governo temeva l’Hağğ per le opportunità di dialogo e di raffronto tra
musulmani. Si temeva che la conoscenza di altre realtà potesse rinvigorire le istanze
islamiche e minacciare la precaria situazione di equilibrio in Indonesia. L’influenza
del governo si manifestava attraverso la regolamentazione rivolta verso tutto ciò che
coinvolgeva il pellegrinaggio. Gli aiuti stranieri elargiti da paesi musulmani venivano
filtrati dal governo (era necessario disporre di un’elevata somma di denaro per
adempiere a questo pilastro), i passaporti non erano validi per l’Arabia nei periodi in
cui si svolgeva l’Hağğ. A causa di tutti questi elementi, con l’aggiunta di un attento
controllo sui passaporti, il numero ufficiale di pellegrini diminuì di quasi la metà,
coloro che non riuscivano a partire legalmente erano cosi costretti ad effettuare il
pellegrinaggio come clandestini. Una nuova crescita del numero dei pellegrini si ebbe
dal 1972, durante un periodo di distensione tra le due parti nel quale il governo si era
assicurato la collaborazione degli Ulama.
Nel 1993, a seguito di un controllo sempre maggiore dello Stato, il NU invitò le
proprie scuole a non accettare l’ingerenza governativa, arrivando addirittura a
convertirle in private e poter cosi sfuggire al controllo del ministro del culto. I
movimenti modernisti che erano aperti ai contatti con l’Occidente preferirono attuare
dei corsi con un indirizzo più generale, i quali, fermo restando l’insegnamento
religioso, avrebbero conferito una maggiore istruzione e preparazione per
un’eventuale futura occupazione di cariche amministrative e politiche.
Negli anni ’90 ci fu un avvicinamento di Suharto ai musulmani. La dimostrazione
più significativa fu la visita del presidente indonesiano a La Mecca. Altre prove non
meno importanti furono la fine della proibizione del velo indossato dalle ragazze nelle
scuole pubbliche, la creazione di un’organizzazione di intellettuali musulmani (ICMI)
e la ricerca di un’alternativa alla lotteria nazionale, in quanto ai musulmani è vietato
giocare d’azzardo. In questo periodo si assiste ad un’islamizzazione crescente,
attraverso lo sviluppo dell’insegnamento religioso, una più assidua presenza nelle
moschee e soprattutto alla preghiera collettiva del venerdì. Questo periodo di armonia
è frutto di vari compromessi da entrambe le parti. Ad esempio, il governo lanciò un
corso di Panca Sila secondo l’Islām, tramite il BP7: un organismo di diffusione
dell’ideologia nazionale.
A questo punto è importante effettuare due puntualizzazioni. E’vero che lo stato
non aveva più un carattere ostile verso l’Islām, ma è necessario operare delle
distinzioni. Innanzitutto si deve rilevare che, mentre i gruppi più moderati hanno
goduto in un certo modo della benevolenza del governo, i movimenti di estremismo
11
musulmano sono sempre stati condannati dallo stato. Questi infatti, erano fermi sulle
loro posizioni, auspicavano l’istituzione di uno stato islamico, erano in uno stato
incessante di lotta alla crescente cristianizzazione, criticavano la diffusione
dell’economia di mercato e infine non erano disposti a compromessi o al dialogo.
La seconda precisazione si attiene ad una differenza intrinseca tra i vari gradi di
adesione all’Islām. Gli abangan, sono una componente sincretica che unisce a questa
fede elementi di animismo e induismo. All’altra estremità troviamo i santri, i quali
aderiscono pienamente alla forma pura dell’Islām, seguono fedelmente i cinque
pilastri e bramano l’entrata in vigore della legge islamica e quindi la costituzione di
uno Stato Islamico. Per questa loro caratteristica estrema costituiscono un pericoloso
fattore disgregante, nonostante il loro numero conta su una ristretta minoranza. Infine,
la stragrande maggioranza dei musulmani non aderisce pienamente alla fede Islamica,
non adempiono le cinque preghiere giornaliere, il digiuno del Ramadan è più o meno
seguito, per le sue origini pre-islamiche. I più elevati livelli di osservanza si colgono
nell’effettuazione della circoncisione, nel matrimonio e nei riti legati alla morte. La
ragione della preponderanza di questa categoria di musulmani, va ricercata nella
scarsa, se non inesistente conoscenze dell’arabo, elemento essenziale per la lettura del
Corano e poter cosi recitare le cinque preghiere giornaliere.
Il governo di Suharto si concluse con le sue dimissioni, causate dall’aggravamento
della crisi di Timor-est e iniziò un periodo di crisi politica indonesiana appesantita
ulteriormente dal nuovo presidente Bacharudin Jusuf Habibie. La carriera del nuovo
capo indonesiano fu molto breve, in quanto venne accusato di appropriazione di fondi
pubblici e perciò precocemente destituito. Tuttavia, prima della sua estromissione al
potere, questi permise al popolo di scegliere il suo futuro tramite referendum e
dichiarò che il governo avrebbe accettato qualunque responso, ma i militari non
concordavano con questa dichiarazione del presidente e lo dimostrarono ampiamente.
Le forze armate non volevano assolutamente concedere l’indipendenza a Timor.est,
non perché esso fosse ricco, non perché fosse un importante punto geostrategico, ma
semplicemente per la paura delle ripercussioni che una simile concessione avrebbe
avuto sul futuro assetto indonesiano e sull’autorità che poteva essere messa in
discussione da altri gruppi minoritari, i quali, seguendo l’esempio di questo piccolo
lembo di terra, avrebbero potuto avanzare ulteriori istanze separatistiche. Nel 1999 si
tenne il referendum e nonostante i militari spaventarono e minacciarono la
popolazione, l’80% di essi votò per l’indipendenza; a questo punto, non poterono
certo accettare la sconfitta segnata dal referendum e ripresero le loro opere
terroristiche, facendo in modo cosi di eliminare e far fuggire tutti coloro che erano
legati al settore dei mass media, per poter compiere le loro angherie sulla minoranza
di Timor Est e non essere controllati o meglio spiati dall’occhio indiscreto dei
giornalisti. Il governo di Jakarta attuò una minima resistenza ai massacri che
avvenivano in questa zona dello Stato, questi continuarono fino a quando non
vennero accettati gli aiuti da parte dell’ONU tramite un contingente di pace. Con
l’arrivo dell’ONU iniziò a formarsi una collaborazione tra quest’ultimo e il Consiglio
Nazionale della Resistenza di Timor, “fino a diventare una sorta di governo
12
provvisorio.”7 La salita al potere di un presidente Islamico causò numerose
aspettative da parte dei musulmani i quali auspicavano una maggiore presenza della
propria fede all’interno delle istituzioni e della vita politica del paese, tuttavia Habibie
decise di continuare lungo il sentiero precedentemente percorso da Suharto, ossia
quello di mantenere l’equilibrio religioso, compiacendo i militari e garantendosi così
il loro prezioso appoggio. La sua figura si affacciava al panorama indonesiano in un
momento particolarmente difficile per il paese, il quale stava manifestando problemi
di ordine pubblico, altri relativi alla crisi economica, al processo di transizione e
assestamento democratico, non da ultimo infine le lacune di legittimità del suo
mandato. Per tutti questi motivi la politica di questo presidente sarà caratterizzata da
dei tentativi di bilanciamento tra le varie voci degli attori politici, interni ed esterni: le
sue scelte dovevano essere sempre ben ponderate da una logica di giochi di potere. La
lobby musulmana doveva essere accontentata in quanto poteva costituire la base del
suo potere, ma questa da sola non sarebbe bastata, soprattutto per la questione dei
finanziamenti da parte del FMI (Fondo Monetario Internazionale) e quindi
dell’occidente, per la ripresa economica. Allo stesso tempo però non poteva neanche
concedersi la possibilità di avere un atteggiamento troppo filoamericano, in quanto
aveva comunque bisogno dell’amicizia di paesi musulmani come ad esempio l’Arabia
Saudita, questa sua esigenza è testimoniata dalle pacate risposte dell’Indonesia
durante i bombardamenti americani del 1998 in Afghanistan, in Sudan e in Iraq, il
paese all’epoca si tenne infatti a distanza da eventuali critiche o prese di posizione per
gli accaduti. 8
Nel 1999 si svolsero nuove elezioni e salì al potere un islamico moderato
Abdurrahman Wahid; il nuovo Presidente era un musulmano e nonostante ciò era un
sostenitore del Panca Sila: “Senza il Panca Sila, noi cesseremo di essere uno stato. Il
Panca Sila è l’insieme dei nostri principi e vivrà per sempre. E’ l’idea dello stato che
ognuno di noi dovrebbe avere, un’idea per la quale lottare. E io difenderò questo
Panca Sila con la mia stessa vita. E sarò incurante di quale gruppo cercherà di
abusarne, sia che siano le forze armate ad apporre delle censure o se saranno i
musulmani a manipolarne i contenuti”9; questo nuovo capo sembrava cosi incarnare
lo spirito dei compromessi fino ad allora raggiunti tra i musulmani e il governo.
Queste tornate politiche furono caratterizzate da un incremento di partiti politici
partecipanti alla lotta elettorale con matrice islamica, ossia raggruppamenti che si
dichiaravano musulmani o che erano sorretti dalla comunità di tale religione; allo
scopo di distinguere queste due formazioni politiche sarà conveniente utilizzare le
due diverse terminologie di gruppi islamici formali e informali10. Con il primo
concetto si intende un partito politico che si richiama espressamente alla religione di
Maometto e che quindi accoglie all’interno della sua specificità partitica l’identità
musulmana, i due maggiori esponenti di questa categoria sono il PPP (Partai
Persatuan Pembangunan)11 e PBB (Perserikatan Bangsa-Bangsa)12. Alla seconda
7
Elisa Querci, Timor Est: nascita di un nuovo stato, in Crescita Economica e Tensioni Politiche in Asia
all’Alba del Nuovo Millennio, Il Mulino, Asia Major, 2000, p. 192
8
Sukma Rizal, Islam in Indonesian Foreign Policy, London, RoutledgeCurzon, 2003, pp. 84-90
9
Douglas E. Ramage , op. cit. , p. 45
10
Sukma Rizal, op. cit. p. 95
11
PPP - Partai Persatuan Pembangunan: United Development Party
13
categoria appartengono invece i partiti PKB (Partai Kebangkitan Bangsa)13 e PAN
(Partai Amanat Nasional)14: questo tipo di formazioni preferisce mostrarsi nello
scenario politico come portatore di una mentalità aperta alla collaborazione partitica,
e privilegia la leva del pluralismo religioso piuttosto che quella dell’Islam; resta
comunque di fatto che attingano anch’essi dalla base musulmana, ma a differenza
della prima categoria evitano di fare diretto riferimento alla religione coranica nel
loro programma politico. Questa scelta venne premiata nelle elezioni del 1999, in cui
furono proprio questi due partiti, ad aggiudicarsi la maggioranza di seggi tra le
formazioni religiose: come partiti islamici informali hanno un range maggiore di
possibilità di cooperazione, possono infatti ricorrere alla matrice comune culturale e
accordarsi con gli altri partiti formali, oppure possono anche scegliere la strada della
collaborazione col le altre formazioni secolari; è stato proprio grazie a questa
flessibilità che PKB e PAN sono riusciti insieme ad aggiudicarsi una porzione di
seggi superiore a quella degli altri partiti a formazione islamica PPP e PBB.15
Partito
PDI-P16
percentuale
33,7
GOLKAR
PPP
22,4
10,7
PKB
12,6
PAN
7,1
PBB
2
tipologia
Nazionalistasecolare
laico
Islamico
formale
Islamico
informale
Islamico
informale
Islamico
formale
seggi
154
120
59
51
35
13
Figura 1 – Distribuzione seggi in Indonesia nelle elezioni del 1999
Un’altra variabile da interpellare è la forte presa dei due partiti informali sulla
popolazione indonesiana: entrambi sono infatti sostenuti dalle due maggiori
organizzazioni musulmane, ossia Muhammadiyah e NU, rispettivamente sostenitori
di PAN e PKB.17 Nonostante dal punto di vista della distribuzione dei seggi le
elezioni del 1999 decretino la disfatta dei partiti a caratterizzazione religiosa,
osservando l’andamento della scelta presidenziale le due tuttavia parti si
riequilibrano. Il neo presidente, chiamato anche Gus Dur, esprimeva al meglio un
punto d’incontro tra l’asse secolare e quello prettamente religioso, si costituiva in
questo modo un nuovo centro politico che racchiudeva in se alcuni partiti a base
12
PBB - Perserikatan Bangsa-Bangsa PKB - Partai Kebangkitan Bangsa: National Awakening Party
14
PAN - Partai Amanat Nasional: National Mandate Party
15
Sukma Rizal, op. cit. p. 96
16
PDI-P - Partai Demokrasi Indonesia Perjuangan: Indonesian Democratic Party-Struggle
17
Sukma Rizal, op. cit. p. 97
13
14
islamica con orientamento modernista: l’Asse Centrale.18 La sua figura acquista
ancora più importanza per quelli che saranno i risvolti della sua presidenza:
musulmano moderato, presidente del NU e depositario convinto nella causa
democratica porterà l’Indonesia alla fase di transizione democratica. Nel 1999 si
tennero le prime elezioni libere (dopo la lunga parentesi del governo di Suharto a
partire dal 1955), primo passo necessario per la democratizzazione del paese;
purtroppo il suo mandato si distinguerà anche per un esercizio fallace del potere in
senso personale, relegando in un angolo la figura del vicepresidente Megawati
Sukarnoputri e conferendole solo un ruolo puramente accessorio. 19 Concentrandosi
però sulle prerogative positive del suo governo, si noterà che la politica estera
espressa da Gus Dur era soprattutto incentrata su due punti fondamentali:
l’equidistanza e l’equilibrio nelle relazioni internazionali; si voleva in questo modo
assicurare il non allineamento dell’Indonesia e la sua indipendenza,20 senza però per
questo ledere la sua sfera d’azione, che non restava dunque legata a priori ad una
scelta tra Occidente, Asia e Islam. Esplicitando la sua politica, Wahid iniziò ad
avvicinarsi ad Israele,21 grande alleato degli USA, contando sull’eventualità di usare
questo legame per un ulteriore rafforzamento del legame con gli statunitensi;
dall’altra parte però si proponeva la contributo economica con l’Asia, affermando
l’importanza che assumeva per il continente una simile politica ad ampiezza
regionale. Tra i suoi obiettivi immediati vi erano i maggiori paesi asiatici, quindi
Cina, Giappone e India, per raggiungere questo obiettivo si prodigò
nell’organizzazione di meeting, visite ufficiali e conferenze stampa, lanciando
messaggi a questi paesi. Infine, sempre allo scopo di onorare la sua politica di
equidistanza e buone relazioni con tutti i paesi, il presidente si rivolse anche ai paesi
del Medio Oriente, prestando però notevole attenzione alla formulazione dei principi
di collaborazione, ossia non facendo mai riferimento esplicito alla comunanza
religiosa che li legava.22 Questo limite è lo stesso che sempre si è riproposto e tuttora
si ripropone nell’esplicazione e nello sviluppo dell’indirizzo della politica estera. Il
fattore islamico, dato il suo radicamento nella popolazione indonesiana, costituisce
una variabile che deve essere sempre tenuta in considerazione per l’attuazione delle
linee politiche: a partire da Sukarno, tutti i presidenti hanno sempre dovuto tenerla
presente nei loro calcoli politici ed è per questo che si è arrivati all’attuazione del
principio precedentemente nominato della indipendenza e attività (debas-aktif):
principio che risolve il problema della duplicità degli interessi del paese, ossia
rispetto della identità islamica e della laicità dello stato, fusi insieme per riuscire a
perseguire gli interessi di politica estera. Nel 2001 in presidente Wahid sarà sostituito
dal leader nazionalista Megawati Sukarnoputri, tuttavia Gus Dur sarà ricordato come
il primo ad aver battuto la strada della transizione democratica in Indonesia,
18
Ivi, p. 99
Bertrand Romain, “Indonésie: les défis du nouveau président”, Politique Internationale, n°106, hiver
2004-2005, pp.391-417
20
Indipendenza dal punto di vista economico, in quanto l’Indonesia si sentiva troppo legata all’appoggio
del FMI, pertanto era necessario trovare nuovi investitori e nuovi appoggi sullo scenario internazionale
21
Yegar Moshe, “The Republic of Indonesia and Israel”, Israel Affairs, vol.12, n°1, January 2006, pp.
136-158
22
Sukma Rizal, op. cit. pp. 99-105
19
15
riuscendo a fondere la duplice identità del suo paese tramite il saggio bilanciamento
degli interessi nazionali, scindendo la sua posizione ufficiale di leader del NU in
favore della democratizzazione del paese: “leading proponent of secular democracy
in Indonesia whose views are often more nationalist than they are explicity Islamic,
Wahid strongly envisages the creation of a civil democratic society in Indonesia
where all citizens enjoy equal rights regardless of their religious, race, and other
origins, Wahid contends that democracy in multicultural and multi-religious society
such as Indonesia, […] can only flourish in an environment of religious harmony and
tolerance.”23
La salita al potere di Megawati fu orchestrata dallo stesso movimento politico che
aveva portato in auge Wahid, ossia l’Asse Centrale: secondo l’accordo la
neopresidente avrebbe dovuto sostenere la candidatura di un Vice-Presidente
islamico, ossia Hamzah Haz del PPP; questa intesa rappresentava la nuova situazione
che si stava formando in Indonesia, il leader nazionalista accordava il suo favore ad
un esponente musulmano in quanto la preponderanza nella scena politica di questa
religione stava crescendo sempre più. Si formava così l’era del matrimonio di
interesse tra nazionalismo e islamismo: la presidenza di Sukarnoputri sarà ancor più
caratterizzata dall’impronta dell’Islam e delle sue tematiche, come la nuova richiesta
di integrazione della Carta di Jakarta del nella Costituzione Indonesiana del 1945.
Questa rivendicazione procurò notevoli scosse al potere di Megawati, la quale aveva
all’interno del suo governo ben due partiti islamici: il PPP e PBB, entrambi
sostenevano tenacemente l’applicazione della suddetta carta, la quale avrebbe
significato la sottomissione di tutti i musulmani alla sharia, ossia la legge islamica,
tuttavia questa posizione non era comune agli altri partiti religiosi, come ad esempio
il PAN, che mirava piuttosto ad una politica reale e non dipinta di simboli. Secondo
questo partito l’inclusione della Carta di Jakarta non era infatti necessario, e preferiva
anzi lasciare ai musulmani la possibilità di autoregolarsi scegliendo liberamente se
sottostare o meno a tale legge; un simile atteggiamento era stata adottatao da altri
partiti laici come il Golkar, PDI-P (il partito del presidente) e PKB, i quali
ostacolavano maggiormente tale proposta. La vera sorpresa arrivò dalle due maggiori
organizzazioni musulmane: ad ulteriore dimostrazione della tolleranza e apertura
democratica dell’islam indonesiano, sia NU che Muhammadiyah si opposero
all’imposizione della sharia sui musulmani. Per quanto riguarda la politica estera,
anche il suo governo si basò sulla elaborazione di una rete diplomatica, a differenza
del suo predecessore però Sukarnoputri prediligerà intessere legami regionali nel
Sudest asiatico, con l’Asia Orientale e con paesi del Sud Pacifico. Tuttavia, a
differenza dei governi precedenti sia i rapporti coi paesi arabi-islamici, sia quelli con
il Medio Oriente saranno tralasciati in favore di una più stretta collaborazione con
23
Traduzione: “guida della democrazia secolare in Indonesia, le quali visioni sono più nazionaliste che
esplicitamente islamiche, Wahid sostiene fortemente la creazione di una società civile democratica in
Indonesia dove tutti i cittadini possano condividere pari diritti rispetto alla loro religione, razza e altre
origini, Wahid asserisce che la democrazia in una società multiculturale e multireligiosa come
l’Indonesia,[…] possa fiorire in un ambiente di armonia e tolleranza religiosa” vedi Sukma Rizal, op.
cit. pp. 118-119
16
USA, FMI e la Banca Mondiale, soluzione necessaria per controbilanciare l’appoggio
economico fornito dai primi e compensato dai secondi.
Le ultime elezioni svolte in Indonesia risalgono al 2004, in questa occasione si
utilizzò un nuovo sistema elettorale di nomina semi-diretta (atto a sostituire il
precedente metodo indiretto), sia per i membri dei corpi legislativi che per il
presidente e il suo vice. L’elettorato attivo aveva così a disposizione una lista aperta a
sistema proporzionale per il potere legislativo, il voto singolo non trasferibile per il
Concilio dei Rappresentanti Regionali, Dewan Perwakilan Daerah (DPD), infine il
sistema a doppio turno maggioritario per l’elezione del Presidente.24 Sarà il generale
Susilo Bambang Yudhoyono (SBY), a salire al potere come presidente, il suo
programma politico era totalmente incentrato nell’imprimere una decisa svolta
democratica al paese, per cui era precipuo attuare i seguenti cinque punti prioritari: i.
lotta alla corruzione tramite un movimento nazionale guidato dalla leadership
nazionale; ii. attuare fermamente lo stato di diritto; iii. investire nello sviluppo delle
risorse umane per il futuro; iv. adottare politiche economiche razionali miranti ad una
crescita per creare migliori occupazioni per la maggior parte del popolo; v.
consolidare il processo democratico.25 L’elezione di Susilo Bambang può apparire
inusuale all’occhio occidentale, normalmente le preferenze parlamentari
rappresentano e si riflettono nella scelta del Presidente dello Stato,26 in Indonesia
invece la comunanza dello stesso colore partitico non si manifesta, si era già
verificato con le elezioni di Wahid, ed ora si è ripresentato nel 2004. Controllando le
due tabelle (fig.2 - fig.3) è possibile rilevare le differenze di risultati ottenuti nelle
votazioni a livello legislativo nazionale e quelle a livello presidenziale. Il partito del
Golkar continua a dominare nelle elezioni legislative come in passato, la sua forza
però viene ancora una volta oscurata nelle presidenziali, dove sarà il partito
democratico Partai Demokrat (PD) di Susilo a primeggiare. Una spiegazione a questa
tendenza è da ritrovare nella diversa tempistica dello svolgimento delle votazioni: il
popolo cerca di equilibrare le scelte legislative con quelle presidenziali; inoltre il
sistema a doppio turno concede un ribilanciamento delle scelte facendo convergere
quindi in soli due candidati le possibili opzioni. La presidenza dei SBY, per evitare la
ripetizione di concetti verrà approfondita meglio nel paragrafo dedicato alla
democratizzazione, in questa sede verranno semplicemente forniti degli spunti per
l’analisi successiva, offerti da uno dei più attenti osservatori dello scenario politico,
sociale e difensivo dell’Indonesia: Harry Tjan Silalahi.27 Il nuovo sistema elettorale
grazie al suo metodo semidiretto permette al popolo di iniziare a familiarizzare coi
candidati, supportando così un primo nucleo di accountability e responsiveness ossia
quel rapporto che si instaura tra elettorato attivo e passivo, per mezzo del quale quei
rappresentanti capaci di rispondere positivamente alle aspettative del popolo votante
24
Legowo, T.A., “The 2004 General Elections”, The Indonesian Quarterly, vol. XXXII n°3, third
quarter, 2004, pp. 232-234
25
Soesastro Hadi, “ASEAN Economic Community: Ideas, Significance and Feasibility”, The Indonesian
Quarterly, vol. XXXI n°3, third quarter, 2003, pp. 321-328
26
Mi riferisco ai sistemi presidenziali, nei quali il partito maggioritario è anche il partito del Presidente
27
Harry Tjan Silalahi: è uno dei membri fondatori di “Centre for Strategic and International Studies”
(CSIS), già negli anni 50’ ha contribuito nell’elaborazione di politiche interne, anche tramite la
produzione di numerosi articoli in riviste, pubblicazioni e libri
17
saranno premiati con una rielezione nelle successive votazioni, viceversa accadrà
invece per coloro i quali non rispetteranno i punti del programma per il quale sono
stati eletti; secondo Silalahi dunque l’Indonesia sta compiendo numerosi passi verso
la democratizzazione, sarà però precipuo per i governanti mostrare la volontà di
attuare effettivamente dei cambiamenti, come una ulteriore crescita della
partecipazione popolare della società civile, uno sviluppo dell’imparzialità dello stato
di diritto e maggiore accountability delle istituzioni rappresentative.28
Primo Turno
Voti
%
Secondo Turno
Voti
%
Candidati
Partiti
Susilo
Bambang
Yudhoyono
Democratic Party
36,051,236
33.58
67,196,112
60.9
Megawati
Sukarnoputri
Indonesian Democratic
Party-Struggle
28,171,063
26.24
43,198,851
39.1
Wiranto
Golkar
23,811,028
22.18
-
-
Amien Rais
National Mandate Party
16,035,565
14.94
-
-
Hamzah Haz
United Development
Party
3,275,011
3.06
-
-
Totale
106,228,247
100.0
110,394,163
100.0
Figura 2: Risultati delle elezioni politiche presidenziali del 2004 in Indonesia29
28
Silalahi Harry Tjan, “Towards a new Political Environment”, The Indonesian Quarterly, vol. XXXII
n°3, third quarter, 2004, pp. 235-236
29
Fonte: KPU http://www.kpu.go.id/
18
Partiti
Voti
%
Seggi
Golkar (Partai Golongan Karya)
24,480,757 21.6
128
Indonesian Democratic Party-Struggle (Partai Demokrasi
Indonesia Perjuangan)
21,025,991 18.5
109
National Awakening Party (Partai Kebangkitan Bangsa)
11,994,877 10.6
52
United Development Party (Partai Persatuan Pembangunan)
9,248,265
8.1
58
Democratic Party (Partai Demokrat)
8,455,213
7.5
57
Prosperous Justice Party (Partai Keadilan Sejahtera)
8,324,909
7.3
45
National Mandate Party (Partai Amanat Nasional)
7,302,787
6.4
52
Crescent Star Party (Partai Bulan Bintang)
2,970,320
2.6
11
Reform Star Party (Partai Bintang Reformasi)
2,763,853
2.4
13
Prosperous Peace Party (Partai Damai Sejahtera)
2,425,201
2.1
12
Concern for the Nation Functional Party (Partai Karya Peduli
Bangsa)
2,398,117
2.1
2
Justice and Unity Party (Partai Keadilan dan Persatuan din
Indonesia)
1,423,427
1.2
1
19
United Democratic Nationhood Party (Partai Persatuan
Demokrasi Kebangsaan)
1,313,654
1.2
5
Freedom Bull National Party (Partai Nasional Banteng
Kemerdekaan)
1,230,455
1.1
1
Pancasila Patriots' Party (Partai Patriot Pancasila)
1,073,064
0.9
-
Indonesian National Party Marheanism (Partai Nasional
Indonesia Marhaenisme)
922,451
0.8
1
Vanguard Party (Partai Pelopor)
897,115
0.8
2
Indonesian Nahdlatul Community Party (Partai Persatuan
Nahdlatul Ummah Indonesia)
895,566
0.8
-
Indonesian Democratic Vanguard Party (Partai Penegak
Demokrasi Indonesia)
855,218
0.7
1
Freedom Party (Partai Merdeka)
841,821
0.7
-
Indonesian Unity Party (Partai Sarikat Indonesia)
679,296
0.6
-
New Indonesia Alliance Party (Partai Perhimpunan Indonesia
Baru)
672,952
0.6
-
Regional United Party (Partai Persatuan Daerah)
657,907
0.6
-
Social Democrat Labour Party (Partai Buruh Sosial Demokrat)
635,182
0.6
-
20
Totale
113,488,398
-
550
Figura 3 Risultati delle elezioni politiche legislative del 2004 in Indonesia30
2.1.2
Malaysia
La Malaysia è una Federazione composta da tredici stati ed è suddivisa in due blocchi
geografici costituiti dalla Penisola Malese, detta anche Malaysia Occidentale, e dal
Borneo Malese, ovvero Malaysia Orientale, quest’ultimo occupa la parte
settentrionale dell’Isola omonima. La sua popolazione, di cui 21,890 mila cittadini
malesi (ossia il 94,1%) si divide dal punto di vista etnico in Bumiputra31 65,1%,
cinesi 26.0% e indiani 7.7%, ma non solo, anche all’interno di questo territorio
coesistono diversi culti, primo tra tutti l’Islam, elevato a religione ufficiale dello stato
e professato dal 60,4% della popolazione32, accanto ad esso trovano tuttavia posto
Buddismo 19,2%, Cristianesimo 9,1%, Induismo 6,3%, una piccola parte ed
esattamente il 2,4%33 dei cittadini si divide tra animismo, Sciamanesimo, Bahá'ísmo,
Sikhismo, mentre il 2,6% ha mantenuto delle tradizioni cinesi non propriamente
religiose, come il taoismo e il confucianesimo che è per l'appunto un’ideologia.
La Malaysia è uno stato in evoluzione democratica, pertanto le sue strutture
istituzionali e politiche non sono ancora del tutto delineate, ma oscillano tra forme di
monarchia costituzionale, democrazia parlamentare e unione federale;34 inoltre la
realtà multiculturale e l’eterogeneità della popolazione non semplificano il quadro e
contribuiscono anzi a complicarne ancora di più i possibili sviluppi. Facendo un
piccolo passo nel passato coloniale della regione, lo scenario era notevolmente
diverso: infatti questo stato godeva di una grande eterogeneità etnica e l’Islam era una
religione tra tante, fu solo in seguito a delle politiche coloniali inglesi di trasferimento
di forza lavoro cinese e indiana che il panorama iniziò a cambiare. L’immissione di
nuovi lavoratori e soprattutto la preferenza degli inglesi ad adoperare questi due
gruppi etnici creò il discontento nella popolazione malese, la quale si sentiva (a
ragione) ingiustamente discriminata ed etichettata come forza lavoro secondaria,
secondo fallaci teorie razziali che sostenevano presunte peculiarità genetiche di
pigrizia proprie dei malesi. Non solo, il Regno Unito attuò anche una politica di
30
Fonte: KPU, annuncio del 5 maggio 2004, vedi Legowo, op. cit., pp. 232-234
Bumiputra: dopo l’inclusione delle province di Sabah e Sarawak nella Federazione della Malaysia i
malesi e le popolazioni indigene sono state raggruppate all’interno di questa categoria. Vedi
Kamarulnizam Abdullah, The Politics of Islam in Contemporary Malaysia, Bangi, Penerbit Università
Kebangsaan Malaysia, 2003, pp. 15-17
32
I dati si riferiscono al censo del 2000 ad opera del Dipartimento Statistico della Malaysia
33
Fonte: http://www.statistics.gov.my/english/frameset_census.php?file=pressdemo
34
Shanti Nair, Islam in Malaysian Foreign Policy, London e Singapore, Routledge and ISEAS, 1997, p.
15
31
21
divisione religiosa in diverse zone urbane secondo la quale i musulmani occupavano
le aree rurali, gli hindi detenevano le aree di coltivazione del caucciù, infine ai
buddisti spettavano i distretti industriali.35 Questo atteggiamento preferenziale unito
alla tipica politica del “divide et impera” furono la causa delle lotte intestine alla
società di allora, le quali conseguenze si ripercuotono tuttora negli attuali problemi di
integrazione in Malaysia: i malesi iniziarono a chiudersi nella loro identità
sottolineando le differenze culturali rispetto ai nuovi arrivati, e fu proprio in seguito a
questa presa di coscienza socio-religiosa che l’Islam si affermò come segno di
distinzione affondando le sue radici nella malayness36, ossia l’interiorità malese.37 La
paura di perdere la propria individualità e le proprie tradizioni spinsero i tre gruppi
etnici ad estremizzare i propri confini culturali, costruendo delle barriere tra il “se” e
“l’altro”: da una parte i malesi cominciarono cosi a richiedere la difesa dei propri
diritti che reclamavano in qualità di antichi proprietari e abitanti della regione e come
tali dovevano godere di un trattamento preferenziale da parte dell’amministrazione
coloniale, dall’altra parte cinesi e indiani esigevano il riconoscimento di uno status
paritario per aver abbandonato la propria terra al fine di servire gli scopi inglesi.38
Questa situazione perdurò fino alla Seconda Guerra Mondiale, quando l’occupazione
giapponese mutò le dinamiche interne ai rapporti tra i gruppi etnici: i nipponici, a
differenza degli inglesi, attuarono politiche discriminatorie nei confronti dei cinesi, i
quali nei casi peggiori divennero anche vittime di torture, mentre ai malesi venivano
accordati favori e spinti all’elaborazione ed espressione di programmi politici per la
propria indipendenza. La rottura decisiva tra i gruppi si verificò a conclusione
dell’occupazione giapponese, quando i cinesi richiedendo l’appoggio inglese
cercarono di ostacolare i movimenti indipendentisti che si stavano sviluppando tra la
popolazione malese.39 Negli anni 50’ si sviluppò un’ondata di politicizzazione
dell’Islam: il Regno Unito accortosi della forte penetrazione di questa fede all’interno
della società malese, decise di rivedere le sue posizioni e di adottare un’apertura verso
i musulmani, agevolando i pellegrinaggi verso La Mecca e permettendo
l’insegnamento islamico nelle scuole pubbliche vernacolari. Gli anglosassoni
speravano che, attraverso il conferimento di una certa autonomia e libertà ai
musulmani, fosse possibile mantenere un certo livello di pace sociale, ma la continua
immissione di manodopera cinese nella regione aveva portato questi ultimi ad essere
nel 1947 il gruppo dominante all’interno del territorio, con un 45%, mentre malesi
costituivano il 43,5% e gli indiani il 10%.40 A questo punto il piano si rivoltò contro i
35
Barbara Watson Andaya e Leonard Andaya, “A History of Malaysia”, London, MacMillan Asian
Histories, 1982, pp. 33-37
36
Malayness: in epoca coloniale l’identità malese era il fattore di distinzione tra le varie razze, ma con
l’indipendenza e l’acquisizione della cittadinanza malese questo criterio non era più sufficiente, è
proprio per questa ragione che in Malaysia religione e razza, a differenza di altri paesi, coincidono:
“Una volta che un individuo si definisce come malese, virtualmente si considera sempre
automaticamente musulmano” Vedi: Kamarulnizam Abdullah op.cit. pp. 65-66
37
Kamarulnizam Abdullah, The Politics of Islam in Contemporary Malaysia, Bangi, Penerbit Università
Kebangsaan Malaysia, 2003, pp. 29-33
38
Kamarulnizam Abdullah, op. cit. pp.32-33
39
Barbara Watson Andaya e Leonard Andaya, op.cit. pp. 42-49
40
Dovert, Stéphan e Madinier Rémy, Les musulmans d’Asie du Sud-Est face au vertice de la
radicalisation, Paris, IRASEC – Les Indes Savantes, 2003, p. 23
22
suoi stessi creatori: l’Islam, approfittando degli spiragli di emancipazione offertigli
dall’Inghilterra, divenne forza politica fondendosi al movimento nazionalista per
l’indipendenza malese. Già a partire dagli anni 40’ alcuni ulama avevano aderito a dei
movimenti congiunti tra il nazionalismo e ideali religiosi, la madre patria inglese non
aveva fatto altro che fornire loro la legalità d’azione. La prima formazione partitica
malese emerse nel 1946 col nome di UMNO (United Malays National Organization),
negli anni successivi il panorama politico cominciò a popolarsi di nuove forze: nel
1947 nacque Hizbul Muslimin, mentre il primo gruppo aveva finalità nazionaliste,
questo secondo partito mirava all’indipendenza tramite l’istituzione di uno stato
islamico (Darul Islam) rispondente quindi alla legge coranica. Il vero avversario
dell’UMNO sarà il PAS (Parti Islam Se-Malaysia)41 che accoglieva al suo interno un
raggruppamento di leader religiosi.42
Nonostante la forte presa della fede coranica sulla popolazione, sarà l’alleanza dei
tre gruppi etnici a vincere le prime elezioni federali del 1955, accanto alla UMNO
nacquero MIC (Malayan Indian Congress) e la MCA (Malaysian Chinese
Association), che rappresentavano rispettivamente il gruppo indiano e quello cinese.
Le tre organizzazioni diedero vita all’Alliance Party conquistando 51 su 52 seggi
disponibili nel consiglio legislativo, due anni più tardi verrà proclamata
l’indipendenza della Federazione Malese: inizialmente costituita da 11 Stati, nel 1963
si uniranno Sabah, Sarawak e Singapore.43 Nel 1957 entrò in vigore la Costituzione
del neo Stato, questa era stata oggetto di numerose discussioni, soprattutto sui punti
caldi relativi a cittadinanza, lingua, religione, ed eventuali privilegi per i malesi, alla
fine si giunse ad un compromesso politico nella quale il primo e l’ultimo punto
furono usati come merce di scambio per accontentare tutte le parti in causa secondo lo
schema “win-win”. Per quanto riguarda i primi due punti si decise di concedere la
cittadinanza a tutti coloro nati nel territorio a partire dall’indipendenza, e l’utilizzo del
malese Bahasa Malaysia come lingua ufficiale, con l’attenuante dell’inglese collocato
accanto ad essa in funzione di lingua franca. Le ultime due questioni furono quelle
più spinose. Ai Malesi vennero accordati dei privilegi, tuttavia per poterne godere
venne definito giuridicamente lo status di Malese, un individuo per essere
riconosciuto tale doveva corrispondere ai seguenti criteri: doveva essere musulmano,
parlare il Bahasa Malaysia abitualmente ed conformarsi alla Consuetudine malese.44
Infine, collegato a quest’ultima fonte di dissidio, l’Islam venne elevato a religione
nazionale, garantendo però allo stesso tempo la libertà di espressione per gli altri
culti, i non-musulmani tuttavia non avevano la facoltà di effettuare opere di
proselitismo nei confronti dei musulmani, mentre a questi ultimi invece non erano
fatti gli stessi limiti.45 Il primato religioso non significava automaticamente la
costituzione di uno Stato Islamico,46 era stato reputato necessario conservare le
41
PAS: venne fondato nel 1951, inizialmente assunse il nome di PMIP (Pan-Malayan Islamic Party) per
poi cambiare nell’attuale PAS
42
Shanti Nair, op. cit. pp. 15-19
43 L’inclusione di Singapore ebbe vita breve, nel 1965 questo Stato si separò dichiarandosi indipendente
dalla Federazione
44 Costituzione della Malaysia, 1957, art. 160, comma 2
45 Ivi, art. 3, comma 1
46 Ivi, art. 3
23
distanze tra l’elemento secolare e quello religioso, al fine di mantenere l’equilibrio
già precario all’interno della società civile.
Nei primi anni della sua esistenza la Federazione dovette far fronte a episodi
sanguinosi: in occasione delle elezioni del 1969 i partiti di opposizione cinesi
organizzarono delle parate dimostrative che degenerarono in manifestazioni aperte di
disprezzo verso i malesi, il giorno dopo (12 maggio) venne disposta una
contromanifestazione che diede luogo a lotte razziali, incendi, e uccisioni. Entrambi i
gruppi etnici diffidavano l’uno dell’altro, soprattutto a causa della Costituzione i nonmalesi si sentivano defraudati degli stessi diritti concessi agli antichi abitanti della
regione, mentre questi ultimi erano minacciati dal continuo aumento della presenza
sinica, il governo dall’altro canto non disponeva della necessaria risolutezza per
superare questi pregiudizi razziali.47 Il 1970 segnò un nuovo corso per la forza
Islamica, sarà infatti a partire da questo anno che venne inaugurata una nuova politica
economica, la DAB (Dasar Ekonomi Baru)48 la quale verteva sull’immissione
graduale dei bumiputra49 nel capitale delle imprese nazionali, precedentemente alla
NEP infatti, il potere economico era nelle mani dei cinesi: con questa misura si
voleva effettuare un tentativo per colmare il divario sociale tra i gruppi etnici.50 Data
l’identità tra l’essere malese (secondo la definizione della Costituzione) e l’essere
musulmano, il nuovo orientamento economico era ovviamente rivolto alla
valorizzazione delle suddette due specificità, grazie ad esso prese piede una fase di
risveglio islamico. Se infatti le posizioni chiave venivano assegnate ai bumiputra e se
questi erano in maggior parte musulmani, allora i quadri avevano in mano lo
strumento di empowerment della loro categoria etnico-religiosa.51 Allo stesso tempo
cominciavano a fiorire nuovi movimenti di rinascita islamica raggruppati sotto la
denominazione di dakwah: questo fenomeno prettamente malese, sorto in seno alle
nuove università istituite grazie alla NEP, deriva il suo nome dall’arabo da’wa che
letteralmente significa chiamata, e rappresenta un’esortazione all’umanità ad
abbracciare l’Islam.52 In questa sede mi limiterò a citare le tre organizzazioni che
maggiormente si distinsero nello scenario di questa corrente, successivamente
verranno analizzate nei paragrafi seguenti, ossia: Darul Arqam53, ABIM (Angkatan
Belia Islam Malaysia)54 e PAS (Party Islamic SeMalaysia).55 I movimenti interni alla
Dakwah non erano sicuramente immuni dalle vicissitudini internazionali ed anzi
attinsero forza nuova dall’ondata di islamizzazione sprigionata in seguito alla
Rivoluzione Iraniana, dalla corruzione culturale, dall’oil factor e dalla rapida
modernizzazione che stava sperimentando il continente asiatico.56 Il governo malese
47 Barbara Watson Andaya e Leonard Andaya, op.cit. , p. 49
48 DAB detta anche NEP (New Economic Policy)
49 Bumiputra: figli del suolo
50 Haneef Mohamed Aslam, “Islam and Economic development in Malaysia – A reappraisal”, Journal of
Islamic Studies, vol. 12 n° 3 september 2001, pp. 269-290
51
Dovert, Stéphan e Madinier Rémy, op. cit. pp. 23-25
52
Stark Jan, “The Islamic debite in Malaysia: the unfinished project”, South East Asia Research, vol. 11
n°2, July 2003, pp. 173-201
53
Darul Arqam – Casa Arqam
54
ABIM - Angkatan Belia Islam Malaysia – Movimento della Gioventù Islamica Malese
55
PAS - Party Islamic SeMalaysia – Partito Islamico Panmalese
56
Kamarulnizam Abdullah, op. cit. pp. 52-59
24
non era riuscito ad attuare gli obiettivi della NEP, soprattutto a causa dell’incapacità
dirigenziale delle agenzie preposte alla sua implementazione e alla corruzione che
regnava nella leadership, la dakwah approfitterà della situazione per infliggere dure
accuse all’integrità dell’autorità governativa, la quale aveva stretto dei legami con
associazioni di scommesse (lotterie nazionali e corse di cavalli, attività che erano
interdette ai musulmani). Ormai negli ambienti universitari regnava la disillusione e
la sfiducia nelle istituzioni, la NEP aveva creato opportunità di studio all’estero per
studenti malesi e questa apertura aveva però creato un senso di inferiorità per coloro
che intraprendevano tali viaggi si formazione: la mancata conoscenza delle lingue e la
differenza di stili di vita rafforzarono ancora di più il revival islamico, creando l’idea
che l’Islam fosse l’unico mezzo su cui gli studenti insoddisfatti potessero contare.
Oltretutto il contatto con altri studenti islamici all’estero produsse degli scambi di
idee e la successiva presa di coscienza che lo Stato Malese non fosse effettivamente
islamico e come tale avrebbe dovuto essere riformato, un’altra volta la dakwah si
avvantaggiava del panorama internazionale: l’Islam infatti non effettua distinzioni di
razza o lingua o cittadinanza, in quanto racchiude all’interno della sua bandiera tutti i
musulmani di qualunque nazione. Anche la sconfitta araba del 1967 contro Israele
concorse al rafforzamento del fenomeno: questa disfatta aveva incrementato la
solidarietà tra paesi islamici fin tanto da spingere la Malaysia a partecipare all’OIC
(Organisation of Islamic Conference), come membro e in qualità di paese a
maggioranza islamica era pertanto obbligata a supportare la causa del ritorno alla
Città Santa; inoltre negli anni 70’ la dakwah godrà anche di aiuti economici da parte
della Libia per sussidiare attività islamiche malesi. In questo periodo la federazione
iniziò a tagliare le relazioni con Israele, boicottando attività di import/export in questa
direzione, questo passaggio culminò con l’ingresso nell’OPEC nel 1973.57
A questo punto la presa musulmana sulla società civile, economica e politica era
totale, il movimento dakwah continuava a proliferare ed era talmente permeante che il
governo malese decise di porsi esso stesso come veicolo d’espansione dell’Islam,
accrescendo così la sua legittimazione al potere. A differenza dell’Indonesia di
Suharto, l’amministrazione malese cercò di seguire una politica di non-confrontation
e di accomodamento con la religione Coranica, laddove il governo indonesiano
ostracizzava l’affermazione dei movimenti musulmani, giungendo addirittura
all’abolizione di tutti i partiti tranne il GOLKAR e il PPP (che inglobava tutti gli
schieramenti islamici), la Malaysia invece si faceva esso stesso Islam.58 All’interno
della dakwah l’ABIM fu negli anni 70’ uno dei movimenti più attivi nel panorama
islamico, il suo obiettivo era quello di rinforzare il ruolo della fede in Allah
all’interno però di un contesto moderno. Poco avvezzi a pratiche missionarie,
preferivano concentrarsi sugli aspetti della vita di tutti i giorni del musulmano: i
valori islamici persi dovevano essere riscoperti con la pratica religiosa e con la
reintroduzione dei principi culturali applicati alla vita mondana; i loro programmi
puntavano perciò sull’educazione e sull’adesione al modello capitalistico occidentale,
a patto però di mantenere i valori islamici.
57
58
Ivi, pp.71-77
Hoffman Nathalie, “La Malaisie”, Questiones Internationales, n°10 nov/déc 2004, pp. 101-108
25
Nel 1981 un membro dell’UMNO salì al potere in qualità di Primo Ministro59:
Mahathir Mohammed, appena stabilito al governo impresse immediatamente un
indirizzo di islamizzazione, promovendo valori musulmani nella società malese;
l’anno successivo, nuova linfa venne infusa a tale processo tramite la collaborazione
di Anwar Ibrahim uno dei fondatori dell’ABIM, nonché frutto del movimento
universitario dakwah. La collaborazione di queste due figure introdusse una sferzata
di vitalità al programma del governo, fu proprio in questo periodo che ebbero luce
delle istituzioni atte all’implementazione dell’islamizzazione: la prima e più
importante fu un comitato consultivo islamico il cui ruolo era quello di vagliare che
ogni piano o politica varata dal governo non fossero contrari ai principi islamici60, ad
esso seguirono un collegio per la formazione di insegnanti musulmani (1982),
l’Università Internazionale Islamica (1983), la Banca Islamica (1984), la Fondazione
per lo Sviluppo Islamico (1984), la Compagnia di Assicurazione Islamica (1985),
senza contare l’introduzione dell’educazione islamica nel sistema scolastico
nazionale.61 Anche l’economia venne fatta permeare da ideali islamici, ritenuti la base
per lo sviluppo economico della regione: nei piani che vennero elaborati da questo
governo si elencavano gli obiettivi di ripresa economica, modernizzazione della
stessa e la riduzione delle disparità economico-sociali tra le etnie. Tuttavia il
fallimento della riduzione della povertà all’interno del paese creò delle crepe nella
credibilità dell’amministrazione pubblica, un altro movimento dakwah approfittò di
queste falde per incrementare la sua presa sulla società malese: il PAS. Questo
movimento era molto più radicale e rigido rispetto al precedente: auspicava la
creazione di uno stato musulmano rispondente solo e unicamente alla sharia, queste
sue posizioni estreme screditarono l’islamicità dello stato malese. Secondo il suo
punto di vista, le politiche di islamizzazione professate dal governo non erano reali, e
non potevano essere infuse dal vero spirito musulmano, in quanto non erano
rappresentate da uno Stato a Costituzione islamica; la nefasta combinazione
dell’insuccesso delle scelte economiche e delle critiche alla autenticità religiosa
contribuirono ad attrarre le simpatie del popolo verso questa organizzazione. Inoltre
nel 1982 questo partito sperimentò una trasformazione in seno alla sua composizione:
la vecchia guardia nazionalista venne estromessa e sostituita da una nuova leadership
costituita in maggior parte da ulama; questo cambiamento coincise con la crescente
adesione dei malesi musulmani all’addin ossia il dodus vivendi islamico, il quale
doveva permeare in tutte le sfere da quella privata a quella pubblica.62 Ritornando alla
NEP è tuttavia necessaria una precisazione: il sistema non aveva fallito
completamente, ma solo in parte; i suoi risultati infatti non si erano estesi a tutta la
popolazione, ma avevano creato una nuova categoria sociale accanto a quella cinese:
la middle class malese, che prendeva il nome di Melayu Baru (nuovi malesi). Questa
categoria aveva beneficiato di aiuti finanziari e dell’opportunità offerte dalle
59
In Malaysia il Primo Ministro è il Capo del Governo, mentre il potere esecutivo è esercitato dal
Governo
60
Haneef Mohamed Aslam, op. cit. pp. 278-279
61
Nair Shanti, op. cit. , pp. 33-35
62
Liow Joseph Chinyong, “Political Islam in Malaysia: Problematising Discorse and Practice in the
UMNO-PAS <Islamisation Race>”, Commonwealth & Comparative Politics, vol.42, n°2, july 2004,
pp. 184-205
26
università, sorte grazie alla NEP, diventava cosi essa stessa una classe borghese che si
collocava accanto alla presenza sinica che fin dal periodo coloniale aveva ricoperto
posizioni chiave nello scenario economico del paese e che adesso era pronta ad
usurparne il posto.63
Il periodo temporale tra la fine degli anni 80’ e per tutto il decennio dei 90’ fu
teatro di scontri ideologici tra il governo e il PAS: entrambi volevano essere
riconosciuti come i depositari del vero Islam; a tal fine questo movimento radicale
aveva anche tentato di prevaricare sullo stato attraverso la costruzione di un fronte
comune per la difesa dei valori della fede coranica: la Barisan Islamiah che
raggruppava al suo interno tutti i partiti malesi musulmani. Il biennio 1987-88
contribuì ad infliggere un altro colpo alla stabilità dell’UMNO, lotte interne alla sua
maggioranza divisero l’organizzazione in due fazioni, una quella di Mahathir veniva
reputata quella in cui l’Islam era maggiormente radicato, l’altra criticava la gestione
del governo da parte del Primo Ministro, il quale veniva accusato di prendere
decisioni unilateralmente senza consultare adeguatamente l’UMNO e di non aver
prestato un’appropriata attenzione al fallimento della NEP nei confronti del popolo
minuto. Fu per questi dissidi interni che, in seguito alla dichiarazione di illegalità
dell’UMNO effettuata dall’Alta Corte di Kuala Lumpur, si formarono due diversi
schieramenti: UMNO Baru con a capo Mahathir e l’altra UMNO Malaysia. Nelle
elezioni del 1990 e 1995 il PAS si alleò con Segamat, riuscendo così a conquistare il
controllo nello stato del Kelantan, un importante appello venne lanciato verso
l’elettorato: quello di utilizzare il proprio diritto di voto come parte del jihad per far
crollare il governo.64 Lo scontro passava dal livello regionale a quello nazionale, e
verteva sui finanziamenti alle scuole islamiche di Kelantan, sullo sviluppo economico
e sull’autorità dell’UMNO che era continuamente minacciata dai continui tentativi del
PAS di prevaricare sul governo. Questa situazione da una parte deteriorava
ulteriormente i già difficili rapporti tra governo centrale e periferia, mentre dall’altra
spingeva l’amministrazione di Mahathir all’elaborazione di nuovi programmi politici
per una maggiore inclusione dell’Islam. Un esempio della sopraccitata politica è
l’inaugurazione nel 1991 della Wawasan 2020 (Visione 2020), ossia un piano che
prevedeva la modernizzazione economica del paese da compiersi nell’arco di 30 anni
nel pieno rispetto dei valori islamici predicati dall’UMNO; in questo modo si
intendeva avversare i principi del diretto avversario del governo, il quale portava
avanti un Islam troppo rigoroso e fondamentalista. Fu inaugurata un’era di apertura
verso l’Occidente, dal quale si potevano ottenere tra l’altro nozioni tecnologiche utili
allo sviluppo economico, si puntava ad una rapida modernizzazione del paese
(sempre confacente ai principi islamici) il governo cercò anche di attrarre gli
investimenti esteri tramite agevolazioni dei tassi di interesse. I principi della NDE,
successa alla NEP, fecero sperimentare alla Malaysia degli interessanti trend di
crescita fino al 1997, anno in cui subentrò la crisi economica per numerose Tigri
63
64
Jan Stark, op. cit. 186-187
Noor Farish A. , “The localization of Islamist Discorse”, in Editor Hooker Virginia e Othman Norani,
Malaysia: Islam, Society and Politics , Singapore, ISEAS Series on Islam, Institute of Southeast Asian
Studies, 2003, pp. 197-235
27
Asiatiche.65 Questi risultati positivi fecero sperare nell’esistenza di una nuova via per
il progresso, un modello che avrebbe potuto servire per i paesi in via di sviluppo.66
Nel 2003 Mahathir si ritirò dalla carica di Presidente dell’UMNO, Abdullah Ahmad
Badawi gli succedette sia in questa carica che come Primo Ministro, la sua popolarità
e la ripresa economica gli procureranno la vittoria nelle elezioni del 2004
imponendosi anche sull’antico rivale PAS.
2.2
Islam e Politica
2.2.1 Pancasila
Il termine Pancasila nasce formalmente al concludersi della seconda guerra
mondiale, ma trae le sue radici in tempi molto lontani, quando non esisteva ancora
una discriminazione conflittuale tra le varie religioni all’interno degli antichi regni
asiatici, e non solo questo: le due grandi religioni monoteiste erano appena ai loro
albori. Dopo il crollo dell’occupazione giapponese in Indonesia, avvenuto nel 1945,
alcuni esponenti politici indigeni si mobilitarono per la creazione di uno stato
indonesiano. Ciò avvenne quando, in seguito alla riunione di un comitato nazionale
nel maggio del medesimo anno, due leader nazionalisti, Sukarno e Mohammed Hatta
ottennero la maggioranza del governo. Sukarno divenne il presidente del neonato
stato, Hatta il suo primo ministro ed insieme, dichiararono l’indipendenza dello stato;
dopo 15 giorni fu redatta anche una costituzione. Nonostante ciò, il riconoscimento
internazionale di tale indipendenza arrivò solo nel 1949. Nella compilazione della
legge fondamentale della nuova repubblica apparve subito evidente la necessità di
colmare le differenze culturali, etniche e religiose, che in un arcipelago formato da
ben 13.677 isole si erano formate e perpetuate nel tempo e nello spazio. Era
necessario trovare un motto che avrebbe funto da collante tra le popolazioni che, dal
momento della proclamazione della Repubblica di Indonesia, erano ormai divenute
un popolo. Data l’impossibilità di rendere omogeneo un cosi ampio gruppo, la
soluzione adottata fu quella di accettare le diversità e fare di queste l’asse portante del
nazionalismo indonesiano: “Unità nella Diversità”.
Ciò nonostante, sussistono tuttora, degli elementi che causano ancora dei dissidi
all’interno dello stato: le questioni di carattere religioso hanno una forte componente
disgregante. In Indonesia sono presenti cinque forme religiose, le quali sono stanziate
in precise parti del territorio del paese. L’Islām è la religione professata dalla
maggioranza degli indonesiani ed è quindi ampiamente distribuita, è inoltre
importante rilevare che a Sumatra vi è la più alta concentrazione di musulmani. Il
Sowell Thomas, Affirmative Action around the World – an empirical study, New Haven e London,
Yale University Press, 2004, pp. 55-77
66
Haneef Mohamed Aslam, op. cit. pp. 278-279
65
28
cristianesimo cattolico si trova nelle Molucche, nelle Isole di Flores, a Timor-Est e a
Est di Nusa Tenggara mentre quello protestante a Irian Jaya e a Nord di Sulawesi, .
Sebbene nella maggior parte dei casi non sia possibile distinguere tra tratti
caratteristici del buddismo e dell’induismo si potrebbe delimitare il primo nella zona
del Borneo Occidentale, mentre il secondo a Bali. Inoltre, vi sono anche presenti
forme sincretistiche che hanno connotati delle precedenti cinque e sono fuse tra loro
non solo tra loro, ma anche con culti animisti.
Sukarno, aveva già intuito il problema in seno al comitato del 1945. La sua idea
fu quella di creare un’ideologia nazionale che comprendesse al suo interno le cinque
religioni presenti in Indonesia. Questa dottrina fu il Panca Sila.
Kebangsaan (nazionalismo)
Kemanusiaan (umanismo o internazionalismo)
Kerakyatan (governo rappresentativo o “democrazia”)
Keadilan Sosial (giustizia sociale e prosperità)
Ketuhanan (monoteismo)
Questo era l’ordine iniziale dei cinque elementi, successivamente è stato cambiato a
seconda dei principi che si volevano evidenziare. Ora passeremo in rassegna il
significato di ognuno di questi precetti del Panca Sila67.
Il nazionalismo occupava il primo posto per sottolineare l’importanza dell’unione
di tutti gli indonesiani sotto la loro bandiera comune, a dispetto delle differenze
culturali, ideologiche e religiose. Elementi come la lingua franca, venivano utilizzati
come fattori aggreganti, a discapito di altri come l’Islām, che era invece visto come
una componente che minava la base dell’“Unità nella Diversità”. Questo principio
poggiava su un identico passato che risaliva al periodo degli antichi regni di Srivijaya
e di Majapahit e in epoca più recente alla loro esperienza comune sotto la
dominazione portoghese prima ed olandese poi. Lo scopo di questa posizione
prioritaria era quello di unire ulteriormente il popolo e cercare di appianare le
differenze ponendo in primo piano la condivisione del proprio passato, piuttosto che
porre in rilievo le divergenze che sorgevano. Il Panca Sila era già insito nel territorio
indonesiano, nonostante non avesse ancora un nome, era presente durante
l’induizzazione, l’islamizzazione e ogni qual volta vi era un nuovo arrivato che
portava con sé il proprio bagaglio culturale e religioso. La caratteristica di assorbire,
tollerare, imparare ed accettare nuovi saperi era nell’animo di un popolo che
aspettava ancora di essere identificato con un proprio nome: indonesiani. Allo stesso
tempo, si voleva riconoscere la preminenza di uno stato laico su uno stato islamico,
nonostante molti musulmani, i quali costituivano e tuttora costituiscono la fetta più
grande della popolazione, auspicavano il sorgere della seconda possibilità, si preferì
optare per questa diversa suddivisione di importanza degli elementi del Panca Sila.
L’umanismo e l’internazionalismo sono delle specificazioni del precedente, in
quanto il primo enfatizza l’aspetto della tolleranza: quindi l’Indonesia deve unire i
suoi cittadini sotto i suoi colori,68 ma non solo, con il secondo concetto, allo stesso
67
68
http://www.indonesia.nl
La bandiera Indonesiana è rossa e bianca.
29
tempo riconosce le differenze all’interno del suo vasto territorio e le ammette e
protegge da forme di intolleranza e discriminazione. Un altro aspetto di questo
principio è quello di voler attenuare il nazionalismo per non dover arrivare a
degenerazioni di quest’ultimo. L’Indonesia promuove la propria identità, ma rigetta le
eventuali forme di superiorità razziale che avrebbero potuto degenerare in conflitti
armati e minare le basi del neo-nato stato.
La volontà di avere un governo rappresentativo a volte viene anche chiamata
democrazia. Data la natura e i grandi poteri dei Presidenti Indonesiani, si ritiene più
corretto utilizzare la prima definizione piuttosto che la seconda, per non incorrere in
problemi espositivi e di confusione con la democrazia europea, si potrebbe anche
parlare di democrazia asiatica o orientale. Questo elemento fu utilizzato da Sukarno
per porre un freno all’avanzata delle richieste dei musulmani per uno Stato islamico.
Grazie a questo principio i musulmani per poter continuare a rivendicare il primato
della loro religione sulle altre e ottenere la realizzazione dei loro progetti sullo Stato,
dovevano riuscire a conseguire la maggioranza delle adesioni al loro credo,
aumentando ancora la loro opera di conversione. Solo in questo modo avrebbero
potuto assicurarsi la costituzione di uno Stato musulmano, ossia tutti gli indonesiani
dovrebbero credere nella fede islamica, cosi non sarebbero sorti dei conflitti interreligiosi causati dalle minoranze che si sentivano oppresse dalla preponderanza
musulmana.
La giustizia sociale e prosperità economica hanno come obbiettivi quelli di porre
le basi per una crescita di prosperità per la popolazione. Da una parte, questo va
ricercato sia da un punto di vista sociale, attraverso la protezione dei più deboli, ma
anche tentando di incentivare tutti al lavoro senza permettere che la tutela dei più
poveri o malati, o comunque cittadini in difficoltà, venga utilizzata come attenuante
remunerativa. Dall’altra viene promosso da una legislazione che non discrimini, ma
allo stesso tempo che protegga i più bisognosi. Lo scopo fondamentale è quello di
migliorare il livello di benessere in Indonesia.
L’adesione a una religione monoteistica è il principio sul quale si è insistito
maggiormente. Nella prima formulazione del Panca Sila non vi era alcun riferimento
all’adesione alla fede islamica, la quale, nonostante fosse quella con più adepti tra il
popolo indonesiano, non veniva menzionata come religione di stato. L’unica
indicazione era quella che la religione avrebbe dovuto essere una fede in un solo Dio.
Citare una determinata confessione religiosa avrebbe significato porre le altre in una
condizione inferiore e di subordinazione che avrebbe a sua volta causato spunti per
ribellioni interne.
L’ordine degli elementi è stato più volte modificato e anche completamente
rivoluzionato dai vari personaggi che di volta in volta volevano far prevalere dei
principi sugli altri. Una discussione molto accesa sopravvenne durante la stesura della
Carta di Jakarta69, la quale è prova di un compromesso tra i sostenitori di uno Stato
Islamico e i fautori di uno Stato laico. I primi chiedevano che nel preambolo della
suddetta Carta (i) venisse incluso l’obbligo per i musulmani di sottoporsi alla sharī‘a,
(ii) che il presidente indonesiano dovesse essere musulmano (iii) e che il precetto,
69
C. Van Dick, Rebellion under the banner of Islam – The Darul Islam in Indonesia, Leiden Olanda, The
Hague – Martinus Nijhoff, 1981
30
inizialmente relegato all’ultimo posto, venisse spostato al primo con l’aggiunta della
menzione alla religione islamica, invece di accennare l’adesione ad una religione
monoteista. I secondi, erano ovviamente su posizioni opposte. Questi erano
preoccupati per le ripercussioni di una simile scelta sulle minoranze che professavano
diverse religioni. A conclusione di varie riunioni e discussioni si decise per il
precedente ordine dei cinque principi. Questa soluzione mise in luce la possibilità,
quasi certezza, che, essendo l’Indonesia uno stato a prevalenza islamica, era quindi
conseguente che la scelta sarebbe ricaduta su un presidente musulmano. Allo stesso
modo non era possibile escludere uomini o donne di diversa confessione dalla lotta
per questo posto. Per quanto riguarda l’applicazione della legge islamica si preferiva
lasciarla nell’ambito del diritto consuetudinario. Infine, non ci furono accenni
all’Islām per non destare facili dissapori tra le religioni minoritarie e per rispettare il
principio democratico che non ammette intolleranze di alcuna sorta. Inizialmente
l’adesione a questa dottrina non venne reso obbligatorio, questo avvenne con la
deposizione di Sukarno e con l’avvento di un nuovo presidente: Suharto. La sua
presidenza dipese in gran parte dal colpo di Stato del 1965, avvenuto in seguito
all’uccisione di sei generali. Il Partito Comunista venne accusato di questo massacro e
tutti i comunisti vennero a loro volta eliminati dall’esercito, nella nuova espressione
politica del governo: l’Ordine Nuovo. Il Panca Sila, in questo nuovo contesto
politico, rafforzò la funzione di controllo e lotta al comunismo. Questa dottrina
prevede un ateismo di base; lo stesso Marx definiva la religione come “oppio dei
popoli” e questo veniva quindi concepito come un fattore da superare e da evitare. E’
per questo motivo che tutti i cittadini indonesiani devono professare una delle
religioni monoteiste presenti nello stato, la mancata adesione, avrebbe significato
quindi essere comunista. Il Panca Sila diventerà quindi lo strumento utilizzato dal
regime per controllare e, allo stesso tempo, dominare le religioni all’interno
dell’Indonesia.
2.2.2
Nahda’ul Ulama e Muhammadiyah
Le due organizzazioni chiave indonesiane, sono il NU e la Muhammadiyah, questi
due gruppi racchiudono al loro interno la maggioranza di musulmani in questo paese,
è per tale folta rappresentanza che entrambi hanno acquisito pian piano, e governo
permettendo, notevole importanza nello scenario politico dell’arcipelago. La
Muhammadiyah esemplifica l’ala modernista dell’Islam, fondata nel 1912 e seguendo
l’esempio dei padri fondatori del movimento riformista, ha scelto di liberare la pratica
religiosa da tutti gli elementi devianti e superflui, per tornare alla forma originale
della propria fede, riscoprendo i valori tramandati dal Corano e dalla Sunn, iniziando
cosi la ricerca di un rinnovamento a livello culturale e sociale che si adattasse alla
modernità. Dall’altra parte si pone invece il NU, criticando la troppa rigidità del
pensiero della prima organizzazione, riconosce il valore della tradizione e permette le
31
pratiche popolari e il culto dei santi, pratiche che invece vengono abolite e
condannate dalla Muhammadiyah.70
2.2.3
Movimenti Dakwah
Come in precedenza accennato, i movimenti dakwah proliferarono agli inizi degli
anni 70’in Malaysia in seguito ad un’ondata internazionale di revival islamico che
ebbe effetti anche all’interno della federazione. Questi movimenti sono uniti dal
comune intento di propagare l’Islam nelle diverse aree della società civile, per
permettere quindi una maggiore presa di coscienza dell’identità musulmana. Segni
della trasformazione della vita mondana si poterono osservare il venerdì, con una
crescita della presenza dei fedeli alla preghiera canonica, persino la forma di saluto
del comune buongiorno venne cambiato da “salawat pagi” a “assalamualaikum”
ossia la pace sia con te, anche i mass media proponevano la nuova visione islamica,
con la diffusione di programmi a tematica religiosa, infine i circoli pubblici e privati
divennero arene per la proliferazione della dakwah. che era Tre sono i più importanti
esponenti di questo fenomeno malese: Darul Arqam, ABIM e PAS.
Tra i tre movimenti quello che aveva la fama di essere il più moderato e il più
aperto alla penetrazione di nuove idee era l’ABIM, fondato nel 1971 da degli studenti
attivisti tra cui Anwar Ibrahim, diventerà una delle forze più attive nello scenario
politico, nonostante le sue dichiarazioni di organismo apolitico, in realtà i suoi leader
supportarono apertamente i candidati del PAS alle elezioni generali del 1979.71 Il suo
pensiero era influenzato sia da teorici classici dell’islamismo, quali Hassan Al-Banna
padre spirituale dei Fratelli Musulmani egiziani e Mawdudi, creatore di Jama’at
Islami pakistana, sia da pensatori più moderati come Ismail Raj Faruqi o il malese
Seyyed Naguib al-Attas. Il suo obiettivo era quello di spingere la società malese
all’evoluzione, non avversavano, infatti, né la modernizzazione né l’avvento di nuove
tecnologie nella società musulmana né tanto meno i rapporti con i paesi occidentali, e
favorivano anzi la formazione nelle università di questi stati. I leader di questo
movimento provenivano, infatti, da questi istituti occidentali, ed erano fermamente
convinti dell’infondatezza della teoria per la quale Islam e modernità siano l’uno in
antitesi all’altro, si opponevano peraltro a chi non accettava i mezzi di comunicazione
di massa o che come il Darul Arqam imponeva turbanti verdi e bianchi. Per quanto
riguarda gli aspetti riguardanti gli usi e costumi, tenevano un comportamento
rigorosamente consono alle norme del buon musulmano: astenendosi dal fumo,
dall’alcool da manifestazioni d’affetto in pubblico (verso le donne) e utilizzavano
l’abbigliamento tipico medio-orientale.
Darul Arqam, a differenza dell’ABIM, era un movimento unitario con almeno una
sede in quasi tutti gli stati nella Malaysia peninsulare, come setta neo-sufica seguiva
un proprio codice di comportamento che ne regolava la vita comune. Venne fondato
nel 1968 da Seikh Imam Ashaari Muhammad al-Tamimi e annoverava tra le sue fila
70
71
Dovert, Stéphan e Madinier Rémy, op. cit. , pp. 54-58
Kamarulnizam Abdullah, op. cit. pp. 15-19
32
soprattutto seguaci reperiti dall’ambiente universitario, il suo orientamento era per lo
più riformista e di tipo salafita, attingeva dalla idee della corrente wahabita
(probabilmente finanziato dall’Arabia Saudita). A differenza del PAS, non bramava
una trasformazione dall’alto dello Stato, ma si concentrava piuttosto sulla
popolazione musulmana e sugli stili di vita che questa avrebbe dovuto assumere.
Essendo un movimento salafita riprendeva i valori e il modus vivendi dei primi
compagni del Profeta, i salafi, alla continua ricerca dell’Islam originario, vennero
create delle comunità che riproducevano l’esistenza delle prime collettività islamiche:
gli uomini utilizzavano turbanti, mentre le donne vivevano in zone separate e
ricoperte di hijab neri; ogni aspetto della vita veniva ritrovato nel Corano, negli
hadith72e pertanto l’itjihad73 non era affatto necessaria (altro elemento di differenza
con l’ABIM che credeva in questa strumento del diritto). Arqam rifiutava ogni forma
di contatto con l’emisfero occidentale, del quale condannava lo stile di vita, la cultura
e soprattutto il secolarismo, tuttavia, e potrebbe sembrare un controsenso, non ne
rifiutava l’economia capitalista.74 Accanto al ritorno alle fonti dell’Islam questa setta
utilizzava anche pratiche sufiche come la “catena di trasmissione” che collegava tutti
i maestri sufi fino ad entrare in collegamento con Profeta stesso. Nel 1979 il suo
leader venne chiamato a spiegare la posizione del movimento riguardo alla questione
delle tariqat, ossia le mistiche sufi, e costui rispose ponendo l’accento sullo sviluppo
dell’illuminazione spirituale, come unico mezzo per raggiungere l’unione con
Allah.75 Nel 1993 venne bandito dallo Stato per gli insegnamenti devianti del suo
leader Ustaz Ashaari, il governo reputava sia la didattica che le metodologie
dell’Arqam dannose per l’unità del paese e come tali potevano compromettere la
sicurezza nazionale.
PAS si distingue dalle altre due organizzazioni islamiche per la sua natura
partitica, come tale questo movimento poteva partecipare più attivamente alla vita
politica e in quanto partito di opposizione cercava continuamente di scalzare
l’UMNO dal potere; a tal proposito si poneva come scelta alternativa per quei
musulmani stanchi della centralità del “malaismo”, che veniva selezionato come
elemento chiave e base del consenso creato attorno all’UMNO e sostituiva ad esso la
predominanza dell’Islam sugli altri principi. All’inizio della sua esistenza questo
partito non era fondato su idee radicali: il suo fondatore Haji Fuad Hassan era il capo
dell’Ufficio degli Affari Religiosi durante il governo dell’UMNO. Inizialmente i due
organismi non erano in netta opposizione, come accade ai nostri giorni, ma
rappresentavano due diverse sensibilità della fede coranica, il PAS era semplicemente
espressione di un Islam rurale e più tradizionale, e il governo ne aveva una
considerazione benevola, tale da spingerlo alla collaborazione. Successivamente il
PAS si trincererà in posizioni più rigide e tradizionaliste, auspicando e chiedendo a
gran voce la trasformazione del paese, guidata dall’alto al fine di proclamare lo Stato
Islamico: solo l’applicazione della sharia a livello nazionale conferirà alla Malaysia
l’approvazione di Allah. Sarà proprio a questo punto che il partito del governo e PAS
si proietteranno in una guerra di parole atta a decretare quale dei due schieramenti
72
hadith: insegnamento del Profeta
Itjihad: Interpretazione della dottrina islamica
74
Dovert, Stéphan e Madinier Rémy, op. cit. pp. 25-27
75
Kamarulnizam Abdullah, op. cit. p. 109
73
33
incarnasse al meglio il vero spirito dell’Islam; a questo scopo l’UMNO iniziò a
dipingere il suo avversario come movimento fondamentalista, fanatico, e misogino,
promovendo invece se stesso come moderno e progressista, in virtù di queste sue
caratteristiche propone una rivisitazione del concetto di jihad, abbandonando le armi
e prendendo in mano carta e penna per delineare una nuova politica economica per
combattere la povertà all’interno del paese. Ad onore del vero, bisogna però
puntualizzare che più della metà dei membri del PAS, che include tra le sue fila 800
mila unità, sono donne, inoltre il nuovo statuto del partito prevede che nella VicePresidenza una posizione venga occupata da una donna, senza contare che nelle
prossime elezioni vi saranno anche candidati in“rosa”.76 Vi sono poi degli analisti
controcorrente, come ad esempio L. John Esposito, secondo cui partiti di opposizione
islamici quali il PAS sviluppano delle tendenze favorevoli alla moderna democrazia
parlamentare e alla competizione elettorale.77
2.3
Il processo di democratizzazione
I due stati dell’area Insulindiana non hanno ancora raggiunto il pieno sviluppo
democratico, ma sono ancora nella fase della transizione, ossia quell’intermezzo in
cui le istituzioni politiche iniziano a subire delle modifiche, ma senza avere ancora
acquisito pienamente i caratteri propri del nuovo regime. La Malaysia ad esempio
viene catalogata da alcuni autori78 o meglio non viene catalogata né tra i regimi
democratici, né tra quelli autoritari, mentre ufficialmente dovrebbe essere una
democrazia parlamentare; questo a causa di alcuni aspetti democratici all’interno
delle sue istituzioni, controbilanciato da una leadership autoritaria che non lascia
ampi spazi all’opposizione.
Il pattern seguito da questi due stati sudest asiatici non si discosta molto dal
modello generale di decolonizzazione presente anche in Africa; la prima fase vede
una sorta di accondiscendenza verso le idee occidentali di democratizzazione, gli
intellettuali restano affascinati dai concetti di “autoderminazione dei popoli”, dai
principi di uguaglianza e libertà. Inizialmente le elite nazionaliste si fecero quindi
portatrici delle istanze democratiche, contrapponendosi in tal modo al vecchio
schema di autorità tradizionale locale; successivamente però si svilupperà nei
governanti una presa di coscienza dell’importanza dei valori tradizionali e la
76
Liow Joseph Chinyong, op. cit. pp. 190-193
Mahli Amrita, “The PAS-BN Conflict in the 1990s – Islamism and Modernity”, in Ed. Hooker
Virginia; e Othman Norani: Malaysia: Islam, Society and Politics, Singapore, ISEAS Series on Islam,
Institute of Southeast Asian Studies, 2003, pp. 236-259
78
Vedi Crouch in Verma Vidhu, Malaysia – State and Civil Society in Transition, Boulder e London,
Lynne Rienner Publishers, 2002, pp. 148-152
77
34
conseguente paura dall’allontanarsi da questi ultimi. Inizierà cosi un recupero della
cultura e della religiosità indigena ed un conseguente rifiuto dei valori importati dal
dominio coloniale.
Il caso dell’Indonesia è particolarmente esemplifico di questo modello: i
nazionalisti riuscirono a conquistare l’indipendenza e a portarla avanti facendo
appello a schemi di politica post-coloniale secondo lo stile democratico europeo; in
seguito con Sukarno si abbandonerà questa via, recuperando la propria identità e
tradizione, denunciando i valori sociali e politici occidentali e inaugurando una nuova
fase, quella della “Democrazia Guidata”. Con questo termine si intendeva cosi
definire un nuovo approccio alla democrazia, che fino ad allora aveva
un’impostazione propria della tradizione occidentale, quello asiatico: nel quale
l’autorità era basata su un governo e su principi politici tradizionali, come “gotongrotong” il consenso, “musjawarah” la mutua assistenza comunitaria e la discussione
mirata al raggiungimento dell’accordo. 79 Anche gli avvicendamenti politici malesi
finiranno per seguire lo stesso path dell’Indonesia. Negli anni ‘70 i gruppi e le
associazioni islamiche malesi assunsero un ruolo importante dal punto di vista
politico: pur mantenendo un orientamento reazionario e militante, iniziarono ad
ottenere un certo seguito negli ambienti universitari. Il loro programma era volto ad
un rinnovo islamico atto ad ottenere maggiori libertà di espressione, partecipazione al
processo politico e soprattutto la penetrazione del fattore islamico nella cultura
politica della società. Questo processo doveva partire dal futuro del paese, da quelle
che sarebbero diventate le nuove menti, solo così sarebbe stato possibile ribaltare
l’eredità del dominio coloniale: l’attuale forma di stato era il risultato di
un’importazione-imposizione di un modello occidentale su un paese a predominanza
islamica.80 La democrazia “alla occidentale” è stato il frutto di un processo europeo,
facente riferimento al background storico, culturale propri del vecchio continente,
modellato in base ai principi illuministi, giudaco-cristiani e come tale non può essere
un format da esportate tout court in qualsiasi zona del mondo: in Malaysia e
Indonesia oltretutto il fattore islamico costituisce secoli e secoli di fondamenta
mentali della popolazione, impossibili da spazzar via in pochi anni di dominazione
coloniale.
Nel periodo intercorso tra gli anni ‘80 e ‘90 si è assistito sia al crollo di numerosi
regimi post coloniali (di matrice autoritaria o dittatoriale), ciò non avvenne però nel
caso malese. Il partito dominante UMNO, captò i primi segni di cambiamento
reconditi nella società civile che diveniva sempre più attiva e consapevole: gli attivisti
che si schieravano contro l’attuale regime, erano riusciti a cooptare gran parte della
popolazione, ma avevano fallito nel guadagnare il consenso delle elite e non erano
stati capaci di trasformare il supporto popolare in forza politica. Mahathir al contrario
riuscirà ad accattivarsi le simpatie delle elite, ponendosi come interlocutore e
mediatore tra queste stesse: in questo modo fu in grado di mantenere il potere, di
79
Acharya Amitaw, “Democratization and the prospects for participatory regionalism in Southeast Asia”
in Ed. Kanishka Jayasuriya, Asian Regional Governance: Crisis and Change, London – New York,
Routledge 2004, pp. 127-142
80
Othman Norani, Islamization and Democratization in Malaysia in regional and global context, in Ed.
Ariel Heryanto, Sumit K Mandal, Challenging Authoritarianism in Southeast Asia: Comparing
Indonesia and Malaysia, London – New York, Routledge/Curzon, 200, pp. 117-144
35
guadagnarne la fiducia, allo stesso tempo di controllarle e raggrupparle sotto la
bandiera dell’UMNO.81 La sua mossa fu doppiamente vincente: da una parte ridusse
le paure delle svariate elite di essere escluse dal potere, intrecciando solidi legami con
esse ed il partito dominante e risolvendo i conflitti interni a questi gruppi grazie al
ruolo mediatore di cui si era fatto “carico” l’UMNO; in questo modo le elite non
avevano più interesse a sovvertire il potere preesistente, il regime dava loro delle
garanzie che gli attivisti politici non avrebbero potuto garantire, avrebbero potuto
rischiare riforme che le avrebbero depauperate di potere e privilegi; a conti fatti
avevano più da guadagnare che da perdere, il regime chiedeva loro solo lealtà, in
cambio non avrebbero dovuto scomodarsi a lottare con l’opposizione per ottenere
riforme, ma avrebbero ottenuto i cambiamenti come partner interno all’UMNO.
La comunanza della stessa fede religiosa non corrisponde imprescindibilmente a
pari risultati politici: le circostanze politiche e l’ambiente sociale costituiscono il vero
nucleo embrionale dello sviluppo e della definizione dello Stato-Nazione; negli anni
’90 il governo malese incoraggiava l’espansione dell’implementazione delle leggi
islamiche sia in campo civile sia penale per tutti i musulmani, mentre l’Indonesia
preferiva optare per uno stato laico, restringendo così il ruolo politico dell’Islam e
concedendo alla religione una funzione di guida etica e culturale. Entrambi i due stati
hanno sviluppato dei problemi in seno alla loro classe media, la quale non costituisce
un gruppo omogeneo con uguali interessi o mentalità, ma al suo interno varia tra
conservatori, modernisti, attivisti politici o apatici, e fin qui nulla appare
particolarmente differente dalle democrazie nostrane, ma la varietà si moltiplica
ulteriormente se si guarda al prospetto etnico e religioso.82 Il ruolo della classe media
risulta molto rilevante in letteratura: a partire dalle considerazioni di Hungtington, la
cosiddetta terza ondata di democratizzazione ha visto tra i suoi sostenitori più
vigorosi proprio individui appartenenti alla suddetta categoria sociale.83 Per questo
motivo procederò ad analizzare la funzione che ha assunto tale classe nei due paesi
della regione Insulindiana. In Malaysia si registra un elevato livello di partecipazione
sia nel processo elettorale che nei partiti politici da parte della middle class malese, la
quale ha accettato e fatto proprie le regole per la lotta politica in un regime
democratico, sia dal punto di vista dell’elettorato attivo che passivo, tuttavia la classe
media cinese invece fa registrare una presenza meno significativa se paragonata sia
agli indiani, che all’etnia dominante. Quest’ultima manifesta il suo attivismo politico
sia partecipando alle campagne elettorali in sostegno dei propri candidati, sia
finanziando i partiti da essi stessi preferiti: l’UMNO risulta essere l’organizzazione
politica che meglio coincide con gli interessi di questa classe sociale, mentre per
quanto riguarda il proletariato si identifica con esso solo dal punto di vista etnicoreligioso, ossia come malese.84 L’Indonesia invece registra dei migliori risultati: come
si può notare dalla mappa (fig. 4) e tabella (fig. 5) elaborate da Freedom House, le
81
Brownlee Jason, Authoritarianism in an Age of Democratization, Cambridge – New York, Cambridge
University Press, 2007, pp. 122-124
82
Heryanto Ariel e Mandal Sumit Kumar, Challenging Authoritarianism in Southeast Asia: Comparing
Indonesia and Malaysia, New York e London, RoutledgeCurzon, 2003, pp. 25-27
83
Embong Abdul Rahman, State-led Modernization and the New Middle Class in Malaysia, Hampshire e
New York, Palgrave, 2002, pp. 149-152
84
Verma Vidhu, op. cit. , pp. 156-157
36
viene infatti riconosciuto lo status di paese libero, questo a partire dalla fine degli
anni 90’ a conclusione del New Order imposto da Suharto, al termine di questo
nefasto periodo infatti, la sfiducia verso i cinesi e la conseguente minaccia palesata
dal comunismo cessarono in concomitanza con la caduta di questo presidente: i diritti
della comunità cinese iniziarono ad essere così riconosciuti grazie al processo di
democratizzazione. Questo passaggio, risultato di una (s)fortunata congiuntura di
valori incrociati (come la recessione post-crisi economica), venne sancito dalle
elezioni politiche del 1999, le prime a carattere multipartitico per questo paese dopo
44 anni di regime autoritario.85 Inoltre non è possibile trascurare due personaggi che
occuparono delle posizioni chiave nella caduta di Suharto: Abdurrahman Wahid e
Amien Rais. Entrambi supportavano il cambiamento democratico, ponendo
continuamente l’accento sulla compatibilità tra l’Islam e la democrazia, il loro
contributo si rivelò determinante sia grazie alla forza del loro messaggio, sia per il
periodo in cui questo messaggio veniva lanciato: la crisi del New Order era sempre
più profonda e le nuove leve musulmane iniziavano a mostrarsi partecipi alle idee di
Wahid e rais, ma non solo, anche i leader islamici erano favorevoli all’inversione di
marcia verso il nuovo regime; fu proprio questa combinazione di favori ottenuti da
diversi fronti che riuscì a prevenire nuove istanze volte alla creazione di uno stato
Islamico.86 Anche lo scenario internazionale dimostrava una tempistica propizia al
cambiamento: nel mese di luglio del 1998 un gruppo eterogeneo di artisti, scrittori
turchi e attivisti democratici si incontrarono in Turchia ad Abant, città che ospitava il
workshop sul tema “Islam and secularism”; in questa occasione venne elaborata una
fruttuosa Proclamazione, secondo la quale: “l’Islam ha un ruolo pubblico da giocare
ed è compatibile con la democrazia, senza dover per questo minare lo stato secolare”
e ancora “la democratizzazione della società deve includere la creazione di uno spazio
democratico che permetta l’esistenza di una maggiore libertà di religione sempre
all’interno dello stato secolare”.87 Questi attivisti erano consapevoli che l’unico
metodo per rispondere positivamente al crescente attivismo islamico e alle sfide che
quest’ultimo rappresentava, non potesse essere trovato tramite un’inflessibile e
aggressiva affermazione del secolarismo, bensì attraverso un progressivo processo di
democratizzazione all’interno del quale venisse necessariamente ritagliato uno spazio
per il dibattito e la negoziazione del ruolo pubblico e politico della religione.88
85
Papaioannou, Elias and Siourounis, Gregorios, Democratization and Growth, London Business School,
First Version: July 2003, November 2004, London Business School Economics Working Paper
http://www.iies.su.se/ESWM2004/papers/Papaioannou_paper.pdf
86
Carnegie Paul J. , “Indonesian Democratization and Islam”, Asian Social Science, vol. 3, n°10, october
2007, pp. 29-32, www.ccsenet.org/ass.html
87
Fonte: www.yazarlarvakfi.org.tr dal documento: “Islam and Secularism Workshop The Abant Final
Proclamation” 16 luglio 1998, libera interpretazione personale.
88
Othman Norani, op. cit. pagg.117-144
37
Ratings della Libertà in Insulindia
Indonesia
Edizione
Arco temporale
Malaysia
Jan.1973-Feb. 1974
1972-73
PR
CL
Status
5
5
PF
PR: Diritti Politici
5
5
I punteggi da 7 a 1
rappresentano
rispettivamente il
massimo e il
minimo livello di
libertà.
5
5
5
5
CL: Libertà Civili
5
5
5
6
5
5
5
5
6
5
7
6
7
5
6
4
4
4
3
4
PR
2
Jan.-Feb. 1975
1974
PF
3
1976-1980
1975-1979
PF
3
1981
1980
PF
3
1982-84
Jan.1981-Nov. 1983
PF
3
1984-88
Nov.1983-Nov.1987
PF
3
Nov.1987-Nov.1988
PF
4
1989-90
Nov.1988-Dec.1989
PF
5
1990-93
1990-1992
PF
5
1993-96
1993-95
NF
4
1996-98
1996-97
NF
4
1998-99
1998
PF
5
1999-2000
1999
PF
5
2000-03
2000-02
PF
5
2004
2003
CL
Status
3
F
3
PF
4
PF
4
PF
4
PF
5
PF
5
PF
4
PF
4
PF
5
PF
5
PF
5
PF
5
PF
5
PF
38
3
4
PF
3
4
PF
2
3
F
5
2005
2005-2004
3
2006-07
2005-06
4
4
PF
4
PF
4
PF
Figura 4 – Andamento dello sviluppo della Malaysia e Indonesia dal 1975 al 200789
Figura 5 - Mappa dei paesi liberi 2007 90
89
90
Fonte: Freedom House – http://www.freedomhouse.org
Fonte: Freedom House - http://www.freedomhouse.org
39
Attualmente la vera sfida per i paesi musulmani è costituita dalla contemporanea
presenza nella società civile di due principi: il conformarsi fedelmente all’Islam come
stile di vita e il far parte del mondo moderno; per permetterne la coesistenza sarà
necessario adempiere a due compiti: assicurare che la democrazia non è minacciata
dall’Islam, tutt’altro verrà ulteriormente perseguita all’interno dello stato secolare e in
secondo luogo perseguire degli studi sullo stato islamico atti a trovare il migliore
approccio tra il paese e al nuovo regime. A partire dalla crisi economica del 1997 e
dalle ondate di dissensi registrate sia in Indonesia che in Malaysia, questi due paesi
hanno portato avanti una politica di riforma91 capillare all’interno delle istituzioni
politiche, a testimonianza dell’aumento delle aspirazioni di maggiore libertà e
democratizzazione da parte dell’assetto civile. Il multiforme panorama indonesiano
rivelava una pluralità di movimenti islamici, i quali si collocavano in diverse
angolazioni rispetto al loro punto focale: l’Islam; ossia pur avendo la comune matrice
religiosa, adottavano allo stesso tempo diverse lenti per leggerne il contenuto: come
inquadrare la religione, il modo per attuarne i principi all’interno della società civile,
la volontà o meno di creare uno stato Islamico; tutti questi punti, sono oggetto di
continue discussioni e confronti tra i maggiori esponenti di organizzazioni disparate
quali: NU, Muhammadiyah, ICMI (Ikatan Cendekiawan Muslim Indonesia);92 un
orizzonte simile, caratterizzato dalla coesistenza di diversi movimenti in un ambiente
progressista e aperto permette lo sviluppo di opinioni sull’Islam e sul suo ruolo
politico;93 non solo, il principio cardine “Uniti nella Diversità” costituisce l’anima
della tolleranza dell’Islam indonesiano, in questa società multireligiosa a differenza di
altri paesi musulmani, come ad esempio la stessa Malaysia, il matrimonio
interreligioso è ammesso.94
Per quanto riguarda la Malaysia invece, la mappa non la considera completamente
libera, ma solo in maniera parziale, questo a causa delle ristrette libertà di
manifestazione e di espressione registrate nell’area; inoltre la federazione è appena
all’inizio del processo di transizione verso un regime democratico, infatti sono
presenti solo alcuni elementi nelle istituzioni propri di tale forma. Diversamente
dall’Indonesia, in questo paese si registrò una migliore propensione nei confronti
dell’Islam, a partire dagli anni ‘80 sia il partito dominante BN che quello di
opposizione PAS, attuarono delle politiche di Islamizzazione, quali l’espansione della
shar’ia sia in ambito legislativo civile, penale, che emendamenti alle leggi sulla
famiglia musulmana, questi ultimi influenzarono ampiamente i diritti delle donne e la
parità dei sessi; nel 1995 venne approvata l’automatizzazione dell’entrata in vigore
delle fatwa emanate dai muftì e dai “Consigli della Fatwa”95 sotto forma di legge. La
posizione di inferiorità femminile all’interno delle società e famiglie musulmane, è un
91
Questa politica di riforma, assunse il nome di Reformasi in entrambi i paesi, ma nonostante la
comunanza del nome, assunse diversi contenuti e sviluppi.
92
ICMI Associazione Indonesiana di Intellettuali Musulmani
93
Othman Norani, op. cit. p. 121
94
Cherie Nursalim, “Progress in Diversity: Fears and Hopes”, in Ed. Nguyen Thang D. e Richter FrankJürgen, Indonesia matters – Diversity, unity, and stability in a fragile time, Singapore, Times Editions,
2003, pp. 100-117
95
Fatwa Council sono degli organismi presenti in ogni Stato membro della Federazione malese
40
grande scoglio contro il quale si infrangono i tentavi di riforme democratiche negli
stati islamici: il principio di uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, insieme
con il divieto di non discriminazione (per motivi di sesso, religione, razza, colore)
rappresentano la base dello stato democratico; la situazione Mediorientale è
sicuramente più rigida rispetto ai due paesi qui presi in considerazione, infatti
nell’area insulindiana, il fattore discriminante è rappresentato soprattutto dallo status
sociale piuttosto che da quello di genere. Esempi di questa tendenza si possono
ritrovare in alcune ricerche effettuate nella regione sudest asiatica,96 secondo le quali
negli ultimi otto anni del XX secolo si è registrata una media abbastanza alta di donne
musulmane che studiavano all’università, si sposavano in età matura (avendo la
facoltà di scelta del proprio partner), e si annoveravano tra le fila della forza lavoro
del paese, occupando anche posizioni a diversi livelli nei settori dell’economia. La
crisi economica del 1997 accelerò l’attivismo femminista,97 che si proponeva come
partner del processo di reformasi, questo movimento non costituiva un fenomeno
isolato, bensì era eterogeneo e ad ampia portata, con un raggio di azione che si
estendeva nella regione sudest asiatica: con esponenti illustri e tristemente famosi
come Aung San Suu Kyi, in Birmania, Chandrika Bandaraneike Kumaratunga, in Sri
Lanka, e infine rispettivamente per Indonesia e Malaysia, Megawati Sukarnoputri, e
Wan Azizah Wan Ismail, moglie del Primo Ministro Anwar Ibrahim. In seguito
all’arresto di quest’ultimo vennero organizzati dei movimenti di protesta (femminile)
in favore dei diritti umani, contro lo stato e il trattamento che aveva riservato ad
Anwar. Un importante passo avanti verso una maggiore emancipazione delle donne
venne compiuto il 24 maggio 1999, quando una coalizione di quasi tutti gruppi e
organizzazioni femministe malesi realizzò un manifesto dal nome “Women’s Agenda
for Change” in preparazione delle elezioni del novembre 1999; in questa occasione si
posero le basi per la lotta al riconoscimento di uguali diritti, nonché si iniziò a sfidare
gli sforzi politici e religiosi di circoscrivere sempre più il ruolo delle donne all’interno
delle quattro mura domestiche. Nonostante non siano mancati passi verso una
parificazione dello status legale dei gender, purtroppo questi si sono sempre rilevati
fallimentari e vani: la legge del 1984 “Muslim Family Law Act”, risultato degli sforzi
riformisti risalenti agli anni ‘70, introduceva una serie di riforme per tutelare la
donna, in materia di diritto civile: diritto al mantenimento e custodia dei figli sia in
seguito al divorzio sia alla poligamia; data la natura di legge federale, l’atto doveva
essere approvato e rettificato da ogni stato membro, da qui ci furono numerosi ritardi
burocratici, causati soprattutto dalla mancanza di accettazione dello stesso, quando
finalmente venne approvato tra il 1989 e 1991 questo documento aveva mutato forma
e i suoi contenti erano stati svuotati di valore. I territori federali più sviluppati e
urbanizzati di Kuala Lumpur e Labuan furono gli unici ad approvare velocemente il
suddetto atto e a restargli fedeli, purtroppo a causa di ingenti pressioni da parte degli
islamisti anche queste due “pecore nere” si conformarono alla tendenza generale
retrograda e alla fine introdussero degli emendamenti che meglio sposavano la
96
97
Othman Norani, op. cit. p. 135
Melani Budianta, “The blessed tragedy – The making of women’s activism during the Reformasi
years” , in Editors: Heryanto, Ariel e Mandal Sumit Kumar , Challenging Authoritarianism in
Southeast Asia: Comparing Indonesia and Malaysia, New York e London, RoutledgeCurzon, 2003,
pp. 145-175
41
propensione a depauperare le donne da diritti e tutele legali. Nell’agosto del 1996
l’organizzazione SIS Sisters in Islam organizzò un workshop nazionale sul tema
"Islam and Women: the Question of Equality and Justice” e per tutto il 1996 insieme
ad un’altra associazione AWL Association of Women Lawyers si impegnarono in
meeting e discussioni con i membri di tutte le organizzazioni femministe presenti nel
paese, cercarono di coinvolgere anche leader politici (sia uomini che donne), membri
dell’Associazione degli Ulama Malesi, esponenti del diritto islamico, non facenti
parte della burocrazia Islamica, intellettuali pubblici, membri leader del PAS e infine
ONG islamiche. Questo attivismo servì come preparazione per un altro evento di
portata nazionale: nel gennaio del 1997 vari gruppi femministi situati in alcuni stati,
tra i quali anche Selangor, cercarono di ottenere nuovi cambiamenti alle leggi sulla
famiglia musulmana, questo movimento era capeggiato da NCWO National Council
for Women’s Organization, un’associazione partner del governo, da AWL e infine da
SIS; questa mobilitazione generale sfociò in un workshop nazionale e nella
produzione di due memoranda da sottoporre al governo federale. Questi due
documenti invocavano l’uniformità della legge in tutto il territorio federale e la
soppressione di applicazioni e di interpretazioni soggettive della stessa in favore di
un’amministrazione inter partes e di una giustizia paritaria per entrambi i sessi. Uno
strumento usato da SIS e da degli studiosi progressisti dell’Islam per avocare il diritto
alla libera interpretazione del Corano è per l’appunto l’ijtihad, secondo il quale il
Sacro Testo dovrebbe essere rivalutato secondo l’attuale periodizzazione nella quale
industrializzazione, modernizzazione e globalizzazione hanno indotto notevoli
cambiamenti negli stili di vita, e soprattutto nelle relazioni all’interno della famiglia,
come si rileva da un discorso98 del 2007 del leader di Sisters in Islam, Zainah Anwar:
“Women have begun to study the Qur'an for themselves, the traditions of the Prophet
and the rich juristic heritage of Islam to understand the religion better, and with this
knowledge and new-found conviction, have begun to stand up to fight for women's
right to equality, justice, freedom and dignity within the religious framework. Our
strength comes from our conviction and faith in an Islam that is just, liberating and
empowering to us as women. Groups like Sisters in Islam are reclaiming for
ourselves the Islam that liberated women and uplifted our status by giving us rights
considered revolutionary 1400 years ago - the right to own, inherit or dispose of our
own property, the right to divorce, the right to contract agreements - all introduced
by Islam in the 7th century. It is this ethical vision of the Qur'an that insistently
enjoins equality and justice, it is this liberating and revolutionary spirit of Islam that
today guides our quest to be treated as fellow human beings of equal worth and
dignity.”99 Secondo Zainah Anwar e SIS non sarebbe l’Islam ad aver condannato le
98
Islam and Women’s Rights, Zainah Anwar, Executive Director Sisters in Islam, Presented at
University of California, Berkeley and Los Angeles, Distinguished Visitor Program, 30 September – 6
October
2007,
http://repositories.cdlib.org/cgi/viewcontent.cgi?article=1037&context=international/uclacseas
99
“Le donne hanno iniziato a studiare autonomamente il Corano, le tradizioni del Profeta e il florido
patrimonio giuridico dell’Islam, in funzione di una migliore comprensione della propria religione;
grazie a questa rinnovata conoscenza e consapevolezza le donne musulmane hanno cominciato a
ribellarsi e a lottare per i propri diritti di uguaglianza, giustizia e dignità sempre restando all’interno dei
confini della religione. La nostra forza proviene dalla nostra convinzione e fede in un Islam giusto,
liberale e verso noi donne. Gruppi come SIS reclamano per noi stesse un Islam che liberi le donne e ne
42
donne ad una posizione di inferiorità nei confronti dell’uomo, bensì un’errata
interpretazione del Corano e la consuetudine di atteggiamenti derivanti da pratiche
culturali e valori propri di una società patriarcale; grazie all’avvicinamento delle
donne alla Parola di Allah queste hanno potuto scoprire messaggi nuovi alle quali non
erano state esposte durante i loro precedenti insegnamenti islamici. Il loro lavoro di
lobby politica si esplica attraverso strumenti plurimi, che spaziano dalla stampa di
interpretazioni alternative del Corano, a lettere all’editore delle maggiori testate
giornalistiche del paese, a memorandum indirizzati al governo, oltre ai temi già
precedentemente citati se ne annoverano altri come la nomina di giudici donna alle
Corti della Sharia, la patria potestà per entrambi i genitori, riforme alle leggi sulla
poligamia e soprattutto riforme alle leggi criminali della sharia; attraverso i
memorandum vengono cosi denunciate tutte le violazioni delle libertà fondamentali e
si suggeriscono quali cambiamenti dovrebbero essere effettuati e si indicano le leggi
che andrebbero emendate o addirittura abrogate. Il primo gradino per combattere la
cultura dominante tradizionale è rappresentato sicuramente dall’informazione, da qui
l’uso appropriato del mezzo mediatico, coadiuvato da due nuovi programmi di
educazione: il primo viene organizzato in sessioni mensili nei quali studiosi stranieri
dell’Islam progressista tengono dei seminari sui diritti umani, non solo negli ultimi
cinque anni sono stati elaborati training programs sul ruolo della donna e sui suoi
diritti allo scopo di attivare gruppi con un elevato potere di parola come attivisti dei
diritti umani, avvocati, leader femminili, giornalisti, giovani leader politici; il
secondo, più giovane è stato attivato due anni fa e il fruente viene individuato nelle
donne comuni “grassroot.” Naturalmente una simile presa di posizione è attaccata sia
dagli ulama sia da molti musulmani, vengono tacciate di essere un movimento
forgiato ad immagine e somiglianza dell’Occidente, di non avere quindi
un’educazione musulmana e di non parlare la lingua del Corano, per tutti questi
motivi non vengono ritenute qualificate ad elaborare tesi sull’Islam, ma la loro ancor
più forte risposta non lascia spazio ad ulteriore commento: “Within the context of
modernizing Malaysia, Sisters in Islam takes the position that if religion is to be used
to govern the public and private lives of its citizens, then everyone has a right to talk
about religion and express their views and concerns on the impact of such laws and
policies made in the name of Islam […]The democratization project in Muslim
countries today go must go hand in hand with the debate on the public role of Islam.
You cannot demand for more democracy, justice and respect for human rights on the
one hand in order to get rid of an oppressive state, and at the same time demand that
all these principles stop at the door of Islam.”100. Un’altra forte lacuna interna a
sollevi lo status, secondo i principi rivoluzionari di 1400 anni fa – il diritto di ereditare o di disporre
delle nostre proprietà , il diritto di divorziare e il diritto di stipulare contratti – diritti introdotti
dall’Islam del VII secolo.” Libera interpretazione personale.
100
Islam and Women’s Rights, Zainah Anwar, op.cit. pp. 18-20 “Nel contesto di una Malaysia moderna,
SIS afferma che se la religione viene usata per governare la vita pubblica e privata dei suoi cittadini,
allora tutti devono avere il diritto di parola sulla religione, di poter esprimere le proprie opinioni e
preoccupazioni nei riguardi di quelle leggi e politiche che vengono firmare sotto il nome dell’Islam
[…] l’attuale progetto di democratizzazione nei paesi musulmani deve andare di pari passo con il
dibattito sul ruolo pubblico dell’Islam. Non è certo ammissibile auspicare maggiore
democratizzazione, giustizia e rispetto dei diritti umani per disfarsi di uno stato oppressivo e allo
stesso tempo pretendere di poter lasciare quegli stessi principi al di fuori delle porte dell’Islam”
43
questo paese è la mancanza di competizione per la lotta al potere, soprattutto non c’è
parità di opportunità per i diversi gruppi etnici: questione che non solo causa
cronicamente violente rivolte in periodo di elezioni,101 ma ostacola anche
l’establishment democratico palesando sempre più i limiti della “democrazia
liberale”. Purtroppo sul piatto della bilancia coesistono sia la democrazia che
l’equilibrio interno, e la Melayu Baru pare essere divisa tra due fuochi: da una parte si
dimostra favorevole all’instaurazione del nuovo regime, al conseguente allargamento
della partecipazione politica, allo sviluppo sociale ed economico, ma allo stesso
tempo non è pronta a sacrificare l’ordine sociale del paese; al momento l’unico
garante sembra essere una leadership forte, pertanto questa classe si dimostra ancora
tollerante verso forme autoritarie. Tuttavia qualora la democrazia dimostrasse di
essere in grado di garantire essa stessa l’ordine interno, il nuovo regime non
troverebbe opposizione all’interno di questa classe, com’è per l’appunto dimostrato
dalle possibili soluzioni che vengono considerate per porre rimedio all’enorme potere
di cui gode il partito dominante, come ad esempio i tentativi di votare per
un’opposizione parlamentare più forte e una magistratura indipendente.102
L’Indonesia a prima vista potrebbe apparire come uno Stato garante di maggiori
facoltà alle donne, come dimostra per l’appunto l’elezione di Megawati Sukarnoputri
alla carica di Presidente, resta però da dimostrare quanto potere effettivo possa
disporre e quindi quanto non si tratti invece di un potere nominale e svuotato da ogni
contenuto. In questo paese la rottura dell’oscurantismo femminile iniziò durante il
dominio coloniale olandese, per proseguire alle prime luci dell’indipendenza e
ritornare con maggior impeto nel periodo post-reformasi, registrando una
partecipazione differenziata sia per ceti sociali sia per classi di età.103 Anche in questo
caso la crisi economica si era abbattuta soprattutto su quelle categorie più deboli:
donne, bambini e anziani, come dimostrano i dati del periodo nei quali si registrò un
aumento dei tassi di prostituzione, di violenza domestica sulle donne e di abbandono
dei bambini all’ambiente delle strade.104 Era giunto il momento di una presa di
posizione per porre rimedio (o perlomeno tentare) alla carestia: l’organizzazione
Suara Ibu Peduli (SIP)105 si schierò in prima linea per risolvere la situazione. A metà
febbraio 1998 un gruppo folto di attiviste, intellettuali e membri do varie
organizzazioni si incontrarono nella sede di una testata giornalistica femminile:
Jurnal Perempuan, Giornale delle donne, trovare una soluzione unanime fu molto
difficile, le attiviste avevano paura di suscitare le antipatie attraverso azioni dirette
come manifestazioni in piazza, affermando di non voler politicizzare troppo la loro
azione; d’altra parte soluzioni più moderate come la distribuzione di latte in polvere
gratuito pareva fornire un’ulteriore argomento in favore dell’identità donna-casa.
Infine SIP riuscì a raccogliere US$ 1,000 al fine di vendere delle piccole confezioni
di latte in polvere a prezzi minimi alle famiglie indigente, neomamme e bambini.
Venne anche organizzata una piccola manifestazione, con lo scopo di dar voce allo
sconforto e al tormento che le affliggeva, si trattava di un raduno pacifico, dove si
101
http://muse.jhu.edu/
Embong Abdul Rahman, op. cit. , pp. 161-167
103
Melani Budianta, op. cit. p. 151
104
Ivi. p. 150-153
105
SIP: Suara Ibu Peduli Voce delle Madri Preoccupate
102
44
pregava, si innalzavano striscioni, ma nonostante ciò nel giro di 15 minuti la polizia
intervenne facendo diradare le partecipanti e arrestando le promotrici dell’attività.106
L’importanza di questa azione era costituita dalla partecipazione attiva di donne che
si erano riunite per il bene della propria società a discapito di bandiere religiose, tra le
fila del movimento si annoveravano musulmane in panjab, cristiane donne e madri,
che usando il proprio abbigliamento religioso, mostravano la loro differenza,
comunicando un messaggio di pluralità pacifica, in un periodo in cui il loro paese era
attraversato da conflitti interreligiosi; ciò che le accomunava non era la medesima
religione, bensì la loro angoscia di madri, la loro speranza patriottica di una pace
imminente, che andava oltre le differenze culturali, superate dalla meravigliosa
immagine di donne che camminavano unite mano nella mano.107 L’emancipazione
femminile può essere infine ricapitolata da un breve excursus108 sugli avvicendamenti
dei ministeri sotto alcuni capi di Stato Indonesiani; a partire dalla legislatura di
Sukarno la carica di Ministro per gli Affari Sociali è sempre stata occupata da una
donna, a dimostrare quasi una sorta di eredità femminile, la prassi si confermò sotto
Wahid, ma venne interrotta nel nome di Megawati: quest’ultima affidò ad una donna
il Ministero del Commercio e dell’Industria aggiungendo anche un’altra istituzione
quella per l’ “empowerment” delle donne, che venne affidata per ovvi motivi a due
leader femminili. Per quanto riguarda l’attuale Presidente Susilo Bambang, costui
incrementò ulteriormente il numero di posti fino ad arrivare a quattro cariche,
rispettivamente i Ministeri: I) Women’s empowerment, II) Commercio, III) Salute e
IV) Programmazione dello Sviluppo Nazionale.109 Nonostante ci sia stato un
miglioramento nella distribuzione delle cariche, tuttavia rimane irrisorio rispetto alla
portata della popolazione, le donne scelte da SBY sono intellettuali e professionals,
ma il loro numero limitato causa una altrettanto ridotta partecipazione politica
femminile con effetti sulla qualità della democratizzazione, al contrario qualora si
decidesse di affidare sempre più incarichi alle donne (soprattutto quelle che le
riguardano direttamente) con relativa facoltà decisionale e altrettanta libertà di
accesso alla competizione, a dispetto delle barriere costituite dalla inadeguatezza
della soglia del numero di incarichi che possono essere affidati al sesso “debole”,
allora il livello di democrazia ne gioverebbe per tutto lo stato.
106
Melani Budianta, op. cit. p. 153
Ivi, op. cit. p. 154
108
Woodward, Mark R. , “Indonesia, Islam, and the Prospect for Democracy”, SAIS Review, vol.XXI,
n°2 , summer-fall 2001, pp. 29-37
109
Fonte: Documento: “Women Ministers in Indonesia’s Cabinet”, Image Indonesia, Vol. XI n°12,
Dicembre 2004, Indonesia, pp. 4-8
107
45
3. Dialogo con l’Occidente
Nel capitolo precedente sono stati presi in considerazione il ruolo dell’Islam nelle
società islamiche dei nostri due paesi, l’apporto che i movimenti musulmani hanno
dato alla creazione dell’indipendenza e la concezione della donna.; molto spesso si
parla di un “unico” Islam con il quale non sia possibile intraprendere relazioni, per i
più svariati motivi, dal ruolo centripeto occupato dalla religione, dalla posizione di
inferiorità della donna che risulta incompatibile con il concetto di democrazia, ma
soprattutto in seguito all’attentato alle Torri Gemelle del 11 settembre 2001 vigono le
più disparate teorie, secondo le quali non esisterebbe un Islam moderato, né tanto
meno un avvicinamento possibile con l’Occidente, oppure l’equazione per la quale
l’Islam debba essere irriducibilmente in opposizione alla democrazia e a tutto ciò che
l’Occidente rappresenta, tendendo inoltre a generalizzare e a estremizzare ancora di
più qualora si associ l’Islam solo ed unicamente al terrorismo. Questo capitolo verterà
sulle diverse modalità attraverso le quali è possibile instaurare un dialogo tra
Occidente ed Islam, quindi si procederà ad analizzare la cooperazione internazionale,
facendo riferimento a diversi profili quali: diplomatico, economico, assistenziale e da
ultimo sotto l’aspetto confessionale, arrivando a concludere la disquisizione con
l’esame delle arene religiose e degli incontri multi-culturali e inter-religiosi, sulle
quali nasceranno le mie riflessioni.
3.1 Cooperazione Internazionale
In questo paragrafo verranno prese in considerazione le relazioni tra l’area
Insulindiana e US fino alla strage dell’Empire State Building, in quanto in seguito a
questo tragico evento gli equilibri internazionali subiranno una drastica alterazione; i
rapporti commerciali instaurati tra due organizzazioni regionali: quella asiatica
dell’ASEAN e quella europea UE; da ultimo verranno analizzate le relazioni con
l’ONU contestualmente ai progressi compiuti da questi due stati nel campo dei diritti
umani.
46
3.1.1 Relazioni USA – Indonesia – Malaysia fino 11/09/2001
In seguito ai tragici eventi dell’11 settembre gli Stati Uniti hanno continuato a
guardare con un occhio di riguardo all’area del Sud-est Asiatico, soprattutto ai due
paesi caratterizzati da una popolazione maggioranza islamica moderata. In passato
l’Indonesia ha sempre giocato un ruolo importante negli interessi commerciali
americani, grazie alla sua posizione cruciale per il commercio lungo lo stretto di
Malacca, porta d’accesso all’Oceano Indiano e Pacifico, inoltre questo paese sotto
Suharto è stato un partner importante durante la Guerra Fredda, esattamente nella fase
del contenimento del comunismo nella regione Sudest Asiatica, infine oggi si
aggiunge a tutti questi elementi il fattore della lotta contro Al-Qaida: con la sua
popolazione, il suo Islam moderato e il suo ampio territorio, costituisce un importante
avamposto antiterrorista.110
Alle prime luci dell’indipendenza indonesiana, il neo stato causò notevoli
preoccupazioni al governo statunitense, l’incrollabile volontà di Sukarno volta ad una
posizione di “non allineamento” comportava, di fatto, un implicito allontanamento da
Washington: in un periodo nel quale il mondo si era diviso in due, affermare di non
volersi schierare con USA implicava un effetto contrario, per il quale “O sei con noi
[americani] o sei contro di noi.” Il primo Presidente Indonesiano da parte sua, era
fermamente convinto che l’unico modo per poter conseguire il suo obiettivo (ossia
uno “Stato indipendente e attivo”) fosse continuare a perseguire la via battuta dal suo
Vicepresidente Mohammad Hatta: secondo quest’ultimo, qualunque deviazione dalla
neutralità avrebbe comportato una perdita di potere per il governo ed una parallela
crescita dell’ingerenza esterna negli affari interni al neo-stato. Hatta si rifaceva alla
teoria di Wilson, secondo il quale ogni popolo godeva del diritto alla propria
autodeterminazione politica. Questa dottrina venne elaborata dal Presidente
Statunitense all’indomani dalla conclusione del conflitto mondiale, Hatta se ne servì
abilmente nel svincolarsi dalla presa americana nascosta sotto le spoglie di aiuti
economici per la ricostruzione del paese in seguito alla desolazione postbellica. La
nascita ufficiale dell’adozione di una politica estera, fondata sui principi
dell’indipendenza e dell’attivismo, è fatta risalire al discorso del 2 settembre 1948111
del Vice Presidente, a.k.a. Bung Hatta, elaborato come risposta alle istanze del
movimento comunista Front Demokrasi Rakyat (Fronte Democratico Popolare), il
quale reclamava di schierarsi con l’URSS in funzione anti-americana: “The stand that
we should take is to avoid being an object in an international conflict, but we should
remain a subject with the right to determine our own position, the right to fight for our
own cause.”112
110
Smith, Anthony L., “A glass Half Full: Indonesia-U.S. Relations in the Age of Terror”, Contemporary
Southeast Asia, vol. 25, n°3, 2003, pp. 449-472
111
Djiwandono J. Soedjati, “Indonesia’s Post Cold War Foreign Policy”, The Indonesian Quarterly,
vol.XXII n°2, 1994, pp. 90-102
112
Ivi, p. 92: “La situazione che dovremo sostenere è quella di evitare di divenire oggetto di una disputa
internazionale, dovremo altresì divenire un soggetto con il diritto di determinare la prora posizione e
con il diritto di lottare per la nostra causa. ” libera interpretazione personale.
47
La preoccupazione di Bung Hatta era il fantasma di un nuovo “colonialismo”,
ossia gli Stati Uniti avevano sì aiutato l’Indonesia a svincolarsi dal dominio coloniale
degli olandesi, ma a questo punto rischiava di cambiare semplicemente “padrone”.
Nel contesto della Guerra Fredda, Washington aveva utilizzato tutto il suo potere
persuasivo affinché l’Olanda desistesse dalle pretese sull’arcipelago; tuttavia l’iniziale
diffidenza del 1948 mostrata dall’Indonesia aveva fatto trasalire l’amministrazione
Truman. La rivolta presso la città di Madium del 18 settembre 1948 per opera di
truppe fedeli al Fronte Democratico del Popolo, le quali si scontrarono con altre
fazioni militari anticomuniste, creò terreno fertile per le due superpotenze
postbelliche; Muso Suparto113, simpatizzante sovietico e detentore delle redini della
sommossa, accusa pubblicamente il governo indonesiano di essere succube dei voleri
dell’Occidente e del Giappone, nonché di peccare di scarsa incisività nell’affrancarsi
dagli antichi “padroni” olandesi, asserendo: "For three years our government has
licked the boots of the Americans, with the result that the Americans are still
supporting the Dutch . . . Up to this moment this policy continues. We have got to fight
it."114 Questa rivolta si rivelò determinante nelle relazioni tra US e Indonesia, la paura
statunitense di perdere la pedina di Jakarta, era tale da far retrocedere le preferenze
occidentali verso l’Olanda in favore della regione Sudest Asiatica; nel novembre dello
stesso anno la Repubblica Indonesiana riuscì senza alcun aiuto esterno a neutralizzare
la rivolta, guadagnandosi la stima della potenza Atlantica; lo stesso Muso perse la vita
negli scontri, 35000 tra membri delle truppe e supporter comunisti vennero
arrestati.115 Fu in seguito a questo evento che nacque una sorta di “tiro alla fune”: la
rivolta nell’area aveva suscitato una tale preoccupazione a Washington da causare una
rivalutazione degli interessi Europei in favore di Jakarta; il Sudest Asiatico stava
diventando sempre più una zona calda della Guerra Fredda: lo stato di belligeranza
continua nella Korea del Nord, aggiunto alla presenza incalzante della Cina
Comunista, costituivano degli avamposti strategici per l’URSS e un’eventuale presa
della politica sovietica in Indonesia diventava un fantasma sempre più concreto per
Washington, tale da rendere il suo governo maggiormente disposto a concessioni
verso questa regione, sacrificando le pretese olandesi. Il gioco Indonesiano era
costituito dal palesare alla potenza americana una determinazione tale nel portare
avanti le proprie scelte da rendere l’appoggio statunitense inutile; d’altra parte
Washington poteva sempre “giocare la carta” del ritiro degli aiuti economici in favore
della ricostruzione olandese, questi due elementi, la paura di perdere la presa su
Jakarta e la certezza di poter rendere l’Olanda più tollerante, aumentarono le chances
per la riuscita dell’indipendenza indonesiana; per quanto riguarda quest’ultimo paese
113
Muso Suparto: insegnante Giavanese, nel 1925 accecato dalla rabbia verso i suoi capi olandesi, si
unisce ad un gruppo di studio marxista, divenendo cosi comunista, partecipa a dei movimenti di
protesta e viene in seguito incarcerato; riesce a scappare e si rifugia a Mosca, dove si trattiene per 23
anni, maturando così una radicata fede nella dottrina comunista. Al suo ritorno in Indonesia
organizza una ribellione comunista in una delle più grandi città nel cuore di Java.
114
Fonte: http://www.time.com/time/magazine/article/0,9171,799244,00.html articolo del 4 ottobre, 1948
“Time” Resurrection , libera interpretazione personale “Per tre anni, il nostro governo ha lustrato le
scarpe agli Americani, con il risultato che gli stessi Americani stanno ancora supportando gli
Olandesi… Fino ad oggi questa è la politica vigente. Dobbiamo combatterla.”
115
Gardner Paul F. , Shared Hopes, Separate Fears – Fifty Years of U.S.-Indonesian Relations, Boulder,
Colorado, WestviewPress, 1997, p. 79
48
la dipendenza economica degli ex-colonizzatori nei confronti degli Stati Uniti era
considerata come una debolezza da volgere in proprio favore.116 Entrambe le teorie
però si rivelarono discordanti con la realtà dei fatti, gli US infatti non potevano non
tenere conto dell’opinione generale europea, il suo progetto di aiuti economici per la
ricostruzione post bellica, Piano Marshall, era stato elargito a gran parte dell’Europa;
l’uso della minaccia della privazione di tali finanziamenti come deterrente per azioni
avverse all’Indonesia da parte dell’Olanda, avrebbe costituito un precedente troppo
scomodo, soprattutto in seguito alla risposta sovietica fornita attraverso il
COMECON, Consiglio di Mutua Assistenza Economica, che costituiva una valida
alternativa, nonché un futuro rivale all’egida americana. In questo nuovo scacchiere le
possibilità di manovra si facevano sempre più ridotte e l’aiuto finanziario non poteva
più essere un potenziale strumento di persuasione: la stabilità economica poteva essere
raggiunta solo attraverso la ricostruzione dei sistemi produttivi, delle città, la
conversione delle industrie e l’innalzamento dello status delle società europee per
affrancarsi (secondo il punto di vista statunitense) dall’eventuale dominio sovietico e
arrivare dunque alla tanto agognata indipendenza economica, vice versa qualora si
fosse verificata una situazione di instabilità, allora il rischio di una ondata di
diffusione del comunismo in Indonesia sarebbe stato maggiore.117 In secondo luogo la
ripresa del Sudest Asiatico poneva un altro tassello per i giochi di potere nell’ottica
della Guerra Fredda: la neo potenza Giapponese, uscita da poco dalla chiusura alle
relazioni estere, costituiva un possibile alleato o nemico per Washington, era quindi
cogente un’azione comune nella prassi della politica statunitense, volta al
contenimento del comunismo: ossia, onde evitare un avvicinamento tra i due colossi
asiatici (Cina e il sopraccitato Giappone), gli US dovevano creare un background di
stabilità e ricrescita nell’area insulindiana, situazione che avrebbe favorito rapporti tra
la regione Sudest asiatica piuttosto che con la Cina comunista, che avrebbe
assecondato quindi un possibile avvicinamento all’URSS. In terzo luogo,
l’approvvigionamento dell’area tra i due Oceani (Indiano e Pacifico) e il
finanziamento della ristrutturazione delle sue rotte commerciali, era letta in una
prospettiva di lungo termine di do ut des, che avrebbe visto i primi frutti durante il
periodo della crescita delle cosiddette Tigri Asiatiche. L’Indonesia e la Malaysia, cosi
come tutta la zona Sudest Asiatica beneficiarono ampiamente della politica
statunitense del contenimento: questa dottrina aveva applicazioni come in precedenza
citato in campo finanziario, ma anche in ambito di sicurezza globale, anticolonialismo,
cooperazione internazionale e promozione dei valori occidentali; quest’ultimo punto
fortunatamente non venne raggiunto.
La facciata di paladino della lotta al neocolonialismo costituiva un elemento
importante per accedere ai favori della suddetta zona: solo in questo modo i due paesi
insulindiani non si sentivano minacciati dalla presenza che si faceva sempre più
incombente sui loro cieli; soprattutto nei riguardi dell’Indonesia, l’immagine di
potenza antimperialista costituiva un forte elemento di stabilità in uno scenario
politico caratterizzato da labili equilibri: la coalizione anticomunista capeggiata dal
Vice Presidente Muhammed Hatta, sostenuta dal Partito Musulmano Masjumi e dal
116
Kivimaki, Timo, US-Indonesian Hegemonic Bargaining – Strength of weakness, Burlington, Ashgate,
2003, pp. 57-63
117
Kivimaki, Timo, op. cit. , p.62
49
Partito Nazionalista Indonesiano, la cui gretta resistenza era retta dalla credibilità
fornita dalla fallace immagine statunitense. Nel 1952 Washington rivelò il suo reale
obiettivo: inserire l’Indonesia all’interno della sua orbita di paesi satellitari, al fine di
creare lo scudo di contenimento dell’URSS; già nel 1950 l’eventualità di accettare
aiuti economici da parte degli USA veniva ostracizzata dalle forze indonesiane
dell’estrema sinistra, le quali accusavano il governo di voler deviare dalla rotta della
sua politica estera che si auto-dichiarava un paese indipendente e attivo. Washington
aveva premura di neutralizzare o per lo meno ridurre il potere di trattativa di cui
godeva la Repubblica Indonesiana, d’altra parte quest’ultima non aveva alcun
interesse a stipulare un accordo con US, in quanto la sua posizione neutrale tra i due
schieramenti le consentiva la possibilità di guadagnare aiuti economici senza dover
corrispondere qualcosa in cambio; al contrario il raggiungimento di un accordo
avrebbe creato problemi interni al governo, il quale avrebbe in primo luogo dovuto
ammettere di discostarsi dalla strada battuta dal Vice Presidente e in secondo luogo
avrebbe dovuto affrontare lotte intestine alla maggioranza parlamentare, con
l’ulteriore rischio di produrre delle scosse alla già modesta stabilità politica. Un primo
tentativo per raggiungere un accordo sulla stipulazione del Mutual Security Act, si
sviluppò trai Ministri degli Esteri dei due Stati, Cochran e Subardjo rispettivamente
per i governi di Washington e Jakarta; queste prime trattative vennero fraintese dal
pubblico indonesiano e vennero additate come una cospirazione che parteggiava per
gli interessi americani a discapito di quelli indigeni, conseguentemente a questa
reazione gli accordi vennero abbandonati e il caso passò alla storia sotto il nome di
“Affare Cochran”118 Il popolo indonesiano temeva l’esistenza di un accordo segreto
stipulato da Subardjo, che avrebbe legato l'arcipelago ad un’alleanza con l’Occidente,
limitandone la sovranità sul proprio territorio; iniziarono così a espandersi dei primi
sentimenti di anti-americanismo e nazionalismo. In seguito all’affare Cochran
seguirono mutamenti non solo interni alla società indonesiana, ma anche all’assetto
politico: un nuovo gabinetto, meno compiacente e sicuramente poco filoamericano,
venne nominato per procedere con le trattative al Mutual Security Act; la nuova
coalizione non solo aveva espulso dal suo interno le frange contrarie al comunismo
(Masjumi e PSI), ma aveva nel suo seno Ministri per i quali Washington nutriva dei
sospetti di connivenza con l’asse filosovietico. Occorsero cambiamenti anche
all’interno dell’amministrazione statunitense, nella quale al governo Truman successe
quello Eisenhower, quest’ultimo pose maggiore enfasi al contenimento del
comunismo, portando la dottrina del suo predecessore ad estreme applicazioni: la
neutralità veniva a questo punto osteggiata, così come Dante stesso nella sua Divina
Commedia, allo stesso modo per gli USA la “scelta di non scegliere” tra i paesi liberi
e quelli comunisti, veniva condannata come indifferenza assoluta ai destini del
mondo.119
La situazione si complicò maggiormente nel corso degli anni 50’, prima con la
crisi del potere di Sukarno, che era oscurato da una sempre più forte presenza del
Partito Comunista, il quale richiedeva l’appoggio del proprio esercito (che non gli era
precisamente favorevole) da una parte e di Washington dall’altra; per la prima volta il
118
119
Kivimaki Timo, op. cit. pp. 108-111
Gardner Paul F. , op. cit. p. 112
50
contenimento dell’URSS e ciò che essa rappresentava, veniva concepito non solo
come tutela agli interessi statunitensi, ma anche salvaguardia della sovranità
indonesiana, la quale si sentiva sempre più minacciata da tale movimento. In secondo
luogo la divisione esistente tra il Presidente Indonesiano e il suo esercito, diventava
sempre più profonda, fino ad esplodere nel 1955, quando al potere di Sukarno e al suo
partito nazionalista, i partiti di opposizione gli contrapponevano l’autorità del suo
Vice Presidente Hatta. Il Presidente doveva tentare di riconquistare il potere e l’unico
modo per raggiungere codesto scopo era quello di sciogliere il Gabinetto e dichiarare
la Legge Marziale, dando così all’esercito maggiore influenza e allo stesso tempo
guadagnandosene per certi versi l’appoggio. Fu proprio in questi anni che i rapporti
con gli USA iniziarono a destabilizzarsi maggiormente: le forze militari indonesiane
stavano guadagnando sempre più potere e Sukarno si sentiva sempre più costretto a
cercare nuove fonti di consenso: le trovò proprio nel Partito Comunista Indonesiano.
La nuova formula di governo del Presidente fu caratterizzata dalla cosiddetta
“Democrazia Guidata”, grazie alla quale Sukarno assumeva i pieni poteri dello Stato e
si poneva come garante di uno sviluppo consono agli interessi della massa popolare,
era ormai evidente che il suo potere fosse più propenso verso un orientamento a
sinistra dell’asse politico. L’esercito, sentendosi minacciato, iniziò un dialogo con
Washington al fine di ricevere supporto militare come tutela dall’incalzare del
movimento comunista, allo stesso tempo Hatta si dimetteva nel dicembre 1956 dalla
carica di Vice Presidente, a dimostrazione della rottura definitiva con Sukarno e a
sostegno dei movimenti separatisti di Sumatra e Sulawesi: il lancio della democrazia
guidata aveva accentrato i poteri all’amministrazione centrale e contestualmente aveva
accresciuto il dissenso dei territori periferici, i quali acclamavano con forza
l’affrancamento da Jakarta. A questo punto il Direttore della CIA dell’epoca, Allen
Dulles informò Washington della concreta possibilità di rivolta nella suddetta zona,
qualora Sukarno fosse riuscito a portare a termine il suo piano di accentramento
amministrativo; la situazione si rivelava proficua per l’amministrazione statunitense,
passando dallo malcontento popolare a quello militare nel marzo del 1957 si giunse
alla dichiarazione della Legge Marziale da parte del Comandante dell’Indonesia
Orientale con l’elaborazione di “Piagam Perjuangan Semesta Alam-Permesta” nella
quale si richiedeva un’autonomia regionale, il ritorno al potere duale di Sukarno-Hatta
e infine un cambiamento radicale nella leadership delle forze armate, sotto la minaccia
di intraprendere un camino di scontri per ottenere la secessione dalla Repubblica. 120
Gli scontri degenerarono con il tentativo di assassinare Sukarno e la sua famiglia
tramite un attentato dinamitardo a Cikini, in occasione di una cerimonia alla quale
prendevano parte i suoi figli; Dulles prontamente elaborò una relazione nella quale
spiegava lo svolgimento dei fatti e, nonostante non sapesse esattamente chi fossero le
menti dell’attentato, si sbilanciò nel far ricadere le accuse in capo al movimento
comunista o a delle frange impazzite islamiche; tuttavia, sebbene non ci fossero delle
prove di connessione con tale episodio, il partito Masjumi venne incriminato per
l’incidente (e bandito insieme al PSI) e i suoi membri furono costretti all’esilio in
qualità di rifugiati politici. La stessa immagine americana fu adombrata dalla vicenda:
anche in questo caso non esistono delle prove al riguardo, ma all’epoca si vociferò
120
Gardner Paul F. , op. cit. pp. 133-145
51
sull’esistenza di una connivenza della CIA o di un suo coinvolgimento
nell’attentato.121 L’opinione popolare si rivoltò contro l’intelligence e indirettamente
all’amministrazione Eisenhower, contro la quale vennero anche mosse accuse di aver
non solo aiutato finanziariamente i ribelli, ma di averne anche pilotato le decisioni; a
questo punto avvenne una rapida escalation per neutralizzare definitivamente le
rivolte: il centro di Sumatra venne presidiato dall’esercito indonesiano, vennero
requisiti gli armamenti bellici dei ribelli, mentre i leader del movimento furono
costretti a rifugiarsi nella giungla, la prima a cadere il nord di Sulawesi,
successivamente le forze della Repubblica si concentrarono nell’area meridionale in
cui i ribelli avevano acquisito una forza aerea attraverso la quale bombardavano
posizioni governative, in seguito vennero requisiti dei documenti da quali si evinceva
che gli aerei provenivano da Taiwan ed erano comandati da piloti cinesi e
americani.122 Ironicamente le ingerenze americane negli affari interni all’Indonesia,
suscitò l’esatto opposto degli obiettivi che avrebbe voluto raggiungere, creando una
via preferenziale per i rapporti tra Jakarta e Mosca, e facendo di quest’ultimo il
maggiore fornitore di armamenti per l’Indonesia.123 Verso la fine del regime di
Sukarno, i rapporti con US divennero sempre più distaccati, il presidente del Panca
Sila aveva finito per isolare il suo paese con le sue istanze e pretese di leadership nella
regione Sudest Asiatica, giungendo fino ad una definitiva rottura nel dicembre 1964
con l’uscita repentina dalle Nazioni Unite e iniziando un avvicinamento verso Pechino
che secondo i suoi piani sarebbe stato sancito dall’unione con altri paesi nella
Conference of the New Emerging Forces, CONEFO, organismo rivale dell’ONU.124
Al contrario dal suo predecessore, Suharto basò la sua politica sull’appoggio sul
finanziamento americano e sulla conseguente opposizione ai movimenti comunisti
interni all’Indonesia; il nuovo presidente contava molto sulle relazioni con
Washington, arrivando addirittura a farne la maggiore fonte di commercio e
investimento. Questa inversione di rotta, il cosiddetto “matrimonio di convenienza”
avvantaggiava entrambe le parti, l’unico elemento che li accomunava era la paura
dell’espansione comunista, per il resto Suharto poneva l’accento sulla stabilizzazione
del proprio potere, neutralizzando le autorità locali periferiche, mentre Washington
mirava sempre ad avere degli avamposti contro l’URSS.
Oltre alle trattative politiche ed economiche è ad uopo porre l’accento sulle
contrattazioni riguardanti la tutela dei diritti umani; soprattutto in seguito agli eventi di
Timor Est, Washington era particolarmente preoccupata per lo scarso livello di
protezione riconosciuta nei territori indonesiani. Nel quinquennio tra il 1974-1979, le
relazioni politiche tra questi due paesi erano incentrate soprattutto sulle trattative per
una definizione dei diritti umani; sebbene possa a prima vista parere poco consono
agli interessi statunitensi, la liberazione dei dissidenti comunisti, va letta nell’ambito
121
Abriyanto M. , “US Subversion in Indonesia”, The Indonesian Quarterly, vol. XXV n°1, 1997,
pp. 88-91
122
Gardner Paul F. , op. cit. p. 155
123
Masters Edward, “The Ups and Downs of US-Indonesia Relations”, in Editors Nguyen Thang D. ,
Richter Frank-Jürgen, Indonesia matters – Diversity, unity, and stability in a fragile time, Singapore,
Times Editions, 2003, pp. 185-197
124
Bunnel Frederick, “American <Low Posture> Policy toward Indonesia in the Months Leading up to
the 1965 <Coup>”, Indonesia, 25th Anniversary Edition, n°50, October, 1990, pp. 29-60
52
di una fase di distensione della Guerra Fredda, in un’epoca in cui agli US era
necessario imporsi come paladino universale dei diritti dell’uomo, senza distinzione di
alcuna bandiera o ideologia politica. Fino al 1975 Washington mantenne lo stesso
atteggiamento verso gli eventi di Timor Est, ossia vi era un tacito consenso
all’incorporazione indonesiana di questo territorio, e offriva i suoi uffici per il
raggiungimento di un accordo sulla questione tra i due paesi contendenti: l’Indonesia
da una parte e il Portogallo dall’altra.125 In quest’occasione Washington dovette usare
tutta la sua capacità persuasiva su due lati: da una parte per rasserenare l’opinione
della Comunità Internazionale nei confronti di Jakarta, dall’altra per convincere
Suharto alla necessità di scarcerare i prigionieri politici e di superare le obiezioni
sollevate dall’esercito e dai gruppi musulmani anti-comunisti sul rilascio; tuttavia nel
paese non esistevano solo forze avverse alla liberazione, ma sussistevano anche dei
gruppi giovanili orientati verso valori filo-occidentali, tra questi assunse importanza il
Centre for Strategic and International Studies, CSIS che era saldamente legato a dei
leader politici che simpatizzanti con gli interessi statunitensi. Infine nell’estate del
1975 l’ambasciata Indonesiana con sede a Washington venne cautamente avvertita
dell’eventualità che un paese non in regola sotto il profilo dei diritti umanitari non
avrebbe potuto beneficiare di appoggi da parte di uno stato democratico; questo
argomento risuonò particolarmente valido nelle “orecchie” di Suharto, portandolo a
elargire concessioni ai prigionieri politici, come il loro rilascio, in cambio di maggiori
aiuti militari per il suo paese e la conseguente diminuzione della stessa per gli Stati
vicini. 126 L’idillio del “matrimonio di convenienza” si dissolse verso la fine degli anni
80’ quando il potere sovietico veniva messo duramente alla prova dagli eventi in Iran,
Afghanistan e DDR, fino al suo sfascio nel 1990: l’Indonesia perdeva così la sua
posizione forte di testa di ponte contro l’espansionismo comunista e contestualmente
il suo potere di trattativa. Durante l’amministrazione Reagan il punto focale slittò da
aiuti economici, alla liberalizzazione come fonte primaria della stabilità dell’area
Insulindiana: ci fu un’inversione negli autori delle concessioni, non erano più gli US a
fornire aiuti economici, bensì Jakarta a dover elargire garanzie di allineamento e di
convinta adesione agli ideali liberali di cui Washington era il depositario; a tal fine
venne creata un’organizzazione ad hoc: USAID, US Agency for International
Development tra i cui scopi annoverava:
I)
II)
III)
IV)
V)
Progetti per la cooperazione allo sviluppo, al fine di
supportare l’investimento statunitense in Indonesia,
Strumenti per regolarizzare scambi commerciali,
Legislazione per i diritti della proprietà intellettuale,
Mercati finanziari
Infrastrutture per le comunicazioni
I cinque punti erano interrelati tra loro: per poter investire era necessario disciplinarne
i processi, gli investitori a loro volta per poter allocare le proprie risorse richiedevano
garanzie di sicurezza politica come forma di tutela dei propri mezzi, affinché i loro
125
126
Gardner Paul F. op. cit. pp. 282-293
Kivimaki Timo, op. cit. pp. 187-197
53
capitali non andassero persi durante la prima sommossa popolare. Jakarta si
dimostrava restia ad accettare gli aiuti di tale organizzazione, da parte sua temeva di
perdere controllo sulla gestione dei traffici all’interno del territorio, sia potere
decisionale, Washington tuttavia voleva monitorare da vicino le politiche economiche,
primo passo verso un efficace processo di liberalizzazione e sviluppo finanziario.
Un’altra motivazione della diminuzione delle influenze statunitensi e
dell’USAID nelle politiche economiche di Jakarta è ritrovata nella crescita di una
potenza vicina: il Giappone; questo nuovo colosso iniziò a porsi nei confronti
dell’area Sudest Asiatica come una valida alternativa agli aiuti americani. Da un
rapporto dell’USAID del 1991127 si evince che la somma elargita dagli US ammontava
a 86 milioni di $US, mentre quella dell’arcipelago nipponico vantava 2 bilioni di $US,
quest’ultimo stava ampliando la sua macchina economica, ampliando i settori di
investimento, mentre gli US dovevano distribuire le proprie risorse in diverse aree di
influenza “calde” come Taiwan, Korea del Sud e Hong Kong. L’Indonesia e la
Malaysia dal canto loro, erano in una fase di espansione industriale e di crescita
economica, ragion per cui non potevano più essere destinatari degli aiuti dei quali
precedentemente godevano in qualità di Paesi in Via di Sviluppo; il primo Stato in
passato stava godendo di liquidità economica per merito delle sue risorse petrolifere,
grazie alle quali poteva anche finanziare le importazioni necessarie per la sua
modernizzazione, con la caduta del prezzo “dell’oro nero” la spesa pubblica aveva
subito una contrazione con una conseguente privatizzazione di alcuni settori statali. In
questo contesto, Jakarta non potava più fare affidamento unicamente alle proprie
risorse, ma dovette fare un passo indietro in direzione statunitense, dimostrandosi ben
disposti verso le richieste d’oltre oceano, quali l’abbassamento delle barriere doganali,
la revisione della legislazione in materia di scambi e investimenti più favorevole agli
US, infine l’aumento della tutela ai beni e copyrights stranieri: in sintesi, tutte queste
concessioni richiamavano i punti focali dell’USAID. La crisi finanziaria che investì il
Sudest Asiatico nel 1997, distrusse anni di rapida crescita economica, segnando allo
stesso tempo l’inizio del declino di Suharto. Sarà il suo successore Habibie a compiere
i primi passi verso la risoluzione della crisi di Timor, annunciando la prossimità di un
referendum previsto per il 1999, il quale scatenerà in seguito ondate di violenza, ma
questo sarà trattato nel paragrafo 3.1.3 relativo ai diritti umani.128
127
128
Kivimaki Timo, op. cit. p. 209
Masters Edward, pp. 188-191
54
3.1.2 ASEAN-UE: esempio di cooperazione Sudest Asiatico-Occidente
L’ASEAN Association of Southeast Asian Nations, nasce nell’agosto del 1967
ad opera dei cinque paesi fondatori: Indonesia, Malaysia, Filippine, Singapore e
Thailandia successivamente si aggiungeranno nell’ordine: Brunei 1984, Vietnam
1995, Laos, Birmania 1997 e infine Cambogia 1999; l’organizzazione vanta tra i suoi
scopi l’accelerazione della crescita economica, la promozione del progresso sociale e
culturale, nonché presuppone rapporti pacifici tra i suoi membri. Nei primi anni della
sua nascita l’Associazione non fu molto produttiva, ad eccezion fatta della creazione
di una zona di pace, libertà e neutralità ZOPFAN nel 1971; il passo successivo venne
compiuto nel febbraio del 1976 a Bali dove venne organizzato un primo summit, in
questa occasione venne istituita la prassi di sviluppare incontri regolari tra i Primi
Ministri degli Stati Membri, allo scopo di elaborare e implementare successivamente
una strategia di sviluppo per la cooperazione economica. Tra le varie politiche attuate
in risultato degli numerosi incontri che seguirono il primo, due meritano
particolarmente la nostra attenzione: Preferential Trading Arrangements, PTA del
1977, attraverso il quale si ridussero i livelli tariffari tra membri ASEAN e nel 1992 la
creazione dell’AFTA ASEAN Free Trade Area la quale istituisce una tariffa comune:
Common Effective Preferential Tariff CEPT, secondo cui ogni stato membro deve
rispettare un limite di produzione in materia di manufatti e proventi agricoli; lo scopo
di questa politica era nuovamente quello di incrementare i rapporti commerciali
all’interno dell’area, ma non solo l’ASEAN già dalla sua nascita si poneva l’obiettivo
di espandere le sue relazioni anche oltre oceano; difatti Nella Dichiarazione
Costitutiva di Bangkok si faceva chiaro riferimento ad una predisposizione
dell’ASEAN alla cooperazione con organismi internazionali preesistenti che
vantavano scopi e obiettivi simili, era quindi implicito un riferimento alla CEE.
L’iniziale motivazione di questa collaborazione è da ritrovare nelle preoccupazioni
della Malaysia e Singapore, ex British Dominions, di perdere il loro rapporto di favore
con la loro ex madre patria, giacché la stessa Gran Bretagna entrò a far parte dell’
“Europa Unita”. D’altro canto anche la CE nutriva dei forti interessi nell’intraprendere
questo tipo di relazione: il Sudest Asiatico rappresentava l’area più stabile dei paesi in
via di sviluppo con le migliori potenziali e prospettive di crescita.129
L’Unione Europea rappresenta l’evoluzione della Comunità Economica
Europea, nata nel 1957 in un clima ancora memore degli orrori dei due conflitti
mondiali e alimentato da una comune ricerca di serenità e pace. Nel 1972 l’ASEAN
lanciò il progetto SCCAN, Special Coordination Committee of ASEAN Nations, al
fine di generare un proficuo dialogo con l’allora detta Comunità Europea; tramite
questo strumento l’associazione elevava la CE a primo partner riservandole cosi una
corsia preferenziale, pochi mesi più tardi venne istituito un altro organo: ASEANBrussel Committee ABC, al quale partecipavano gli ambasciatori accreditati a
129
Dent Christopher M, The European Union and East Asia: An Economic Relationship, London
Routledge, 1999, pp. 36-46
55
missioni diplomatiche relative alla CE per agire in qualità di sottoposti in Europa e
affiancare i lavori dello SCCAN, inoltre i membri dell’ABC intrattenevano regolari
rapporti con la Commissione Europea al dine di discutere su argomenti generali
stabiliti di volta in volta. Nel 1975 avvennero anche i primi scambi di comunicazione
tra ABC e COREPER,130 dando origine a quello che in seguito si costituirà sotto il
nome di AEMM ASEAN-EC Ministerial Meeting , con sede a Brussel, divenendo il
pilastro del dialogo polito tra le due regioni. I due Comitati vennero creati al fine di
istituire una cooperazione tra le due associazioni regionali, il primo passo in tal senso
avvenne dopo due anni dalla nascita del progetto SCCAN, tramite la costituzione di
un Gruppo di Studio formato da membri delle due organizzazioni, alla fine dei lavori
venne stipulato un Accordo di Cooperazione a Kual Lumpur nel 1980 nel quale si
sottolineava una un rapporto paritario nello sviluppo delle relazioni tra ASEAN e
CE.131 Punti focali dell’accordo riguardavano dei provvedimenti sulla cooperazione
allo sviluppo e alle relazioni commerciali, promozione degli investimenti, joint
ventures e altre tipologie di scambi e integrazioni tecnologiche. Negli anni ‘80
l’ASEAN ricevette offerte generose in termini di aiuti economici (anche forse troppo
elevati rispetto allo standard di vita del sudest asiatico),132 da parte dell’UE,
quest’ultimo divenne cosi il terzo paese estero per quantità di scambi con l’area
Sudest Asiatica registrando un 14,4% nel totale dei suoi traffici di import ed export,
mentre dal canto suo l’ASEAN era responsabile di un 3% di export verso UE e un
2,7% per l’import. I loro rapporti commerciali rispecchiano il classico schema NordSud, rispettivamente l’UE forniva prodotti a capitale intensivo, mentre l’ASEAN
n’esportava altri a caratterizzati dallo sfruttamento del fattore lavoro, da qui ne deriva
la dipendenza economica dell’area verso le importazioni europee prettamente
tecnologiche; tuttavia in questo decennio i loro flussi commerciali crebbero da
entrambi i lati rilevando un aumento dell’84% di esportazioni europee e un 44,7% per
quanto riguarda quelle asiatiche. Un altro dato importante relativo al livello di
integrazione e di cooperazione delle due organizzazioni è l’incredibile capacità di
compensare i due diversi tipi di produzione, uno europeo, come precedentemente
esaminato, basato sullo sfruttamento intensivo del fattore capitale K, l’altro, asiatico,
incentrato sull’uso intensivo del fattore lavoro L; è proprio grazie a questa
caratteristica peculiare asiatica che molte compagnie occidentali hanno espanso le
proprio sedi in questa zona, riallocandovi la loro forza lavoro; risulta infatti più
vantaggioso stabilire delle industri manifatturiere, ad esempio, in zone dove il fattore
L è sfruttato intensivamente e quindi più remunerativo sotto il profilo del profitto
imprenditoriale.
In seguito alla stipulazione dell’Accordo del 1980 nacquero delle tendenze verso
una collaborazione non più solamente a livello economico, ma soprattutto a livello
politico: questi erano gli anni di instabilità decretati dalla crisi del Vietnam e
130
COREPER: Committee of Permanent Representatives è un organo dell’Unione Europea, composto da
alti rappresentanti di ogni stato membro, le sue funzioni sono quelle di preparare i lavori del
Consiglio dell'Unione Europea e di svolgere compiti da questo stesso assegnati, inoltre ha potere di
proposta alla Commissione europea.
131
Connors Michael Kelly - Davison, Remy - Dosch, Jörn, The New Global Politics of the AsiaPacific, London e New York, Routledge, 2004, pp. 104-106
132
Dent Christopher M, op. cit. p. 49
56
dall’invasione sovietica dell’Afghanistan, argomenti che divennero oggetto di ampie
discussioni in seno ai AEMM con conseguenti previsioni di nuovi piani per
incrementare la collaborazione economico-politica. Nel primo caso, entrarono in
gioco numerosi interessi polico-strategici della Francia (spalleggiata sa Grecia e
Irlanda) la quale si dimostrava particolarmente favorevole all’invio interventi
umanitari nelle terre del Mekong, mentre alla fine della riunione venne comunque
negato a maggioranza l’invio di aiuti di qualsiasi natura civile e militare. Nel secondo
caso ci fu una comune presa di posizione nel condannare l’azione sovietica e
nell’auspicare un prossimo ritiro delle forze armate dall’Afghanistan, in questa
vicenda sostennero fortemente una violazione del diritto internazionale da parte della
potenza URSS.133
L’attacco alle due torri ha creato anche in questo caso un avvicinamento tra i due
schieramenti economici, la scelta di collaborare allo sviluppo della sicurezza
internazionale evitando l’isolazionismo, ha confermato le similitudini intrinseche
all’ASEAN e UE. Il numero crescente di accordi economici e sulla sicurezza
internazionale, fa prevedere un futuro di coesione tra Asia ed Europa, quest’ultima
inizia a guardare con interesse all’area del Sudest asiatico, in quanto prevede che la
zona assumerà pian piano un ruolo chiave grazie al suo veloce sviluppo economico.134
3.1.3 ONU, ONG e Diritti Umani
La modernizzazione degli Stati da un punto di vista economico e sociale ha
comportato anche un’evoluzione dal punto di vista giuridico, giungendo così prima ad
elaborare dei diritti civili e politici, per poi giungere alla protezione dei diritti
cosiddetti umani; questi ultimi sono quei prerogative che fanno capo all’individuo, la
categoria racchiude al suo interno svariati diritti, come quello alla vita o alla dignità
umana. Kofi Annan li definisce come segue: “Human rights are the foundation of
human existence and coexistence. Human rights are universal, indivisible and
interdependent. Human rights are what make us human. They are the principles by
which we create the sacred home for human dignity.”135 L’insieme di questi diritti è
stato trascritto in vari testi della giurisprudenza, come la Dichiarazione Universale dei
Diritti dell’Uomo in sede ONU e la Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione
133
134
135
Doidge Mathew, “Inter-regionalism and Regional Actors: TheEU-ASEAN Example” in Ed. Wim
Stokhof, Paul van der Velde, Lay Hwee Yeo, Yeo Lay Hwee, The Eurasian Space: Far More Than
Two Continents, International Institute for Asian Studies, Institute of Southeast Asian Studies,
Singapore, 2004, pp. 39-57
Bruun-Jensen Signe, Delman Jorgen, Van der Geest Willem, “Can the EU play a meaningful role in
Asian Security?”, NIAS nytt: Nordic Newsletters of Asian Studies, n°1Marzo 2006, pp. 20-21
Fonte: http://www.suhakam.org.my/en/hr_what_is.asp “ Diritti Umani sono il fondamento
dell’esistenza e coesistenza umana. I Diritti Umani sono universali, indivisibili e interdipendenti. I
Diritti Umani sono ciò che ci rende esseri umani. Sono i principi grazie ai quali è possibile la
creazione della sacra casa per la dignità umana”
57
Europea, solo per fare alcuni tra gli esempi più conosciuti nostrani. La prima
UDHR136 fu adottata dall’Assemblea Generale degli Stati Uniti nel 1948, è fondata su
quattro capisaldi: la libertà di parola e di professione di fede, infine la libertà di volere
e dalla paura; si divide in due parti, una dedicata ai diritti civili e politici nei quali si
ritrovano libertà dalla tortura punizioni inumane, crudeli e degradanti per la dignità
della persona (art. 5), libertà dall’arresto arbitrario, detenzione o esilio (art.9), libertà
di spostamento (art. 13), diritto alla libertà di associazione e assemblea pacifica
(art.20), diritto di partecipazione elettorale attiva e passiva (art.21), nella seconda
parte invece vengono elencati i diritti economici, sociali e culturali: diritto alla vita
familiare (art. 16), diritto ad una giusta e sana condizione lavorativa (art. 23), diritto
ad uno standard di vita adeguato alla salute e al benessere, nei quali vengono compresi
l’alimentazione, abbigliamento, cure mediche e housing (art. 25), diritto
all’educazione (art. 26) diritto a partecipare liberamente alla vita culturale della
comunità, infine di condividere i frutti dello sviluppo scientifico e i benefici derivanti
(art. 27).
In Malaysia l’applicazione dell’UDHR è subordinata alla Costituzione
Federale, ossia solo nella misura in cui non vi siano principi discordanti con
quest’ultima, i Diritti Umani potranno godere di una copertura giuridica. Questo è un
grosso limite per il livello di rule of law malaysiano, codesto stato si difende facendo
riferimento al principio all’autodeterminazione, per il quale (attraverso
un’interpretazione estensiva) non sarebbe legittimo imporre dei principi discordanti
con la Legge Fondamentale, affermando che potrebbe essere considerato come una
prevaricazione della sovranità e come intrusione negli affari interni al paese. Sebbene
abbia provveduto a dotarsi di uno strumento, quale la Commissione per i Diritti
Umani, UDHR, che all’atto 597 prevede quanto segue: “For the purpose of this Act,
regard shall be had to the Universal Declaration of Human Rights 1948 to the extent
that it is not inconsistent with the Federal Constitution”,137 tuttavia un certo livello di
tutela ai diritti umani viene concesso nella stessa Costituzione Malese, negli articoli
dal 5 al 13, i quali nominano i seguenti principi: diritto alla vita, alla libertà personale,
all’uguaglianza di fronte alla legge, proibizione della schiavitù e ai lavori forzati,
protezione contro leggi penali retroattive, proibizione di bandire un cittadino, libertà
di movimento, libertà di parola, di libera associazione e assembleismo, libertà di
religione e infine il diritto allo sviluppo economico. Un altro limite però viene allo
stesso tempo posto dall’UDHR, ossia: l’esercizio dei suddetti diritti deve essere
bilanciato e circoscritto nei limiti che solo la legge può delineare, potrà pertanto venir
ridotta la capacità d’azione di quei diritti che possano in qualche modo minacciare il
mancato rispetto dei principi di sicurezza o di libertà terze, per ragioni di ordine
pubblico, morale, benessere generale propri di una società democratica; ulteriormente
nessuno Stato, gruppo o individuo detiene la capacità legittima di intraprendere
qualsiasi sorta di attività, il cui scopo precipuo sia la distruzione diritti e libertà
compresi nella UDHR. L’iniziativa di costituire un’istituzione nazionale per i diritti
umani in Malaysia, si pone sul trend positivo degli anni ’90, decennio in cui questo
136
137
Universal Declaration of Human Rights
Per gli scopi di questo Atto, deve essere concesso attenzione alla Dichiarazione dei Diritti Umani del
1948, a patto che questo non risulti essere discordante con la Costituzione Federale.
58
paese ha partecipato intensamente alle attività del UNCHR, United Nations
Commission on Human Rights, venendo anche eletto come leader della delegazione di
varie sessioni in diversi archi temporali (1996-98 e 2001-2003). In questa sede è
necessario inoltre sottolineare il ruolo del leader della delegazione malese in sede
UNCHR, Tan Sri Musa, che già nel 1994 suggerì al governo l’opzione di creare
un’istituzione nazionale per la protezione dei diritti umani. Ad influenzare
l’avanzamento della proposta concorsero vari fattori: in primo luogo l’attenzione
internazionale crescente nei confronti dell’argomento, seguita dalla partecipazione
sempre più attiva del governo di Kuala Lumpur all’interno del sistema delle Nazioni
Unite, anche la società civile aveva influito nella decisione; quest’ultima nel corso
degli anni era divenuta sempre più attiva e partecipativa alla vita politica malese.
Questo mutamento era il risultato di una democratizzazione che penetrava sempre più
all’interno dell’area insulindiana, un elettorato dinamico che dimostra ampie capacità
di scelta, influenza fortemente l’operato dei partiti, incrementando quindi il grado di
responsability del governo. Nel 1999 venne finalmente emanato un decreto con il
quale si predisponeva il paese a dotarsi del suddetto organo, il quale avrebbe preso il
nome di: Human Rights Commission of Malaysia, il suo primo Presidente sarebbe
stato proprio il fautore della proposta iniziale: Tan Sri Dato' Musa bin Hitam. Al suo
interno, il SUHAKAM rispecchiava la diversità e il pluralismo della società malese,
dando ampio spazio alle varie componenti che avrebbero pertanto rappresentato i vari
interessi della Federazione. Al fine di facilitare e velocizzare i lavori dell’organismo,
vennero creati dei gruppi di lavoro su particolari argomenti, come ad esempio nel
settore dell’ educazione, delle riforme alle leggi, trattati, strumenti economici, diritti
economici, sociali e culturali; questi gruppi venivano istituiti di volta in volta allo
scopo di fornire competenza specifica e svolgere le funzioni efficacemente e in
maniera produttiva.
Accanto ai sistemi propri dell’ONU e dell’Unione Europea, esistono altri insiemi
regionali che hanno cercato di darsi un comune accordo sulla questione dei Diritti
Umani: in ambito Africano esiste, l’Unione Africana, mentre verso Oriente ritroviamo
Commissione Asiatica dei diritti umani (AHRC) e la Carta comune dell'Asean. Nel
campo dei diritti umani l’Indonesia ha avuto già alle prime luci della sua indipendenza
numerosi tremblements, passando da un primo trentennio in cui dominava la dittatura
militare, la quale fu interrotta da un golpe sanguinario al quale fece seguito una
persecuzione degli oppositori, che si prolungò tristemente nel tempo, registrando
elevati tassi di violazioni ai diritti umani, con esecuzioni e torture. Tuttavia, in tempi
più o meno rapidi, l’arcipelago è diventato (senza passare per un cambiamento
cruento), una democrazia riconosciuta anche dalla Freedom House. Le sfide alla
stabilità e alla durata dello Stato indonesiano non risalgono unicamente alla politica e
ai diversi Presidenti che si sono susseguiti dopo la caduta di Suharto, altre minacce
hanno natura interna ed esterna; nel primo caso la mente richiama immediatamente i
conflitti nati dai movimenti separatisti propri della regione dell’Aceh, o l’annessione
di Timor Est e la contesa della regione Papua-Nuova Guinea. Il primo caso costituisce
un esempio sulla nuova tendenza indonesiana su come affrontare i problemi interni,
passando da un modello prettamente autoritario ad uno democratico, attraverso la
59
continua ricerca del dialogo.138 I territori hanno una lunga storia di militanza, questa
zona già in passato aveva lottato contro i Portoghesi e gli Olandesi, per poi insorgere
nel 1953 in una ribellione, Darul Islam, che mirava alla creazione dello Stato
Islamico.139 L’eco di questa rivolta si espanse in tutta l’Indonesia creando, nella
maggior parte dei territori, ansia per lo sviluppo della rivolta, mentre le aree di
Sulawesi Meridionale e Java Occidentale fornirono appoggio morale e fisico al
tumulto, l’ondata di violenza di spense solo con la promessa del governo di garantire
uno statuto speciale alla regione, con ampi poteri di autonomia in ambito religioso,
educativo e per quanto riguarda le leggi consuetudinarie. All’epoca questa promessa
concluse le lotte, ma il mancato riscontro con la realtà fece scattare nuovamente la
leva della secessione: nel 1976 ci fu una nuova dichiarazione di indipendenza da parte
del leader del GAM140 Muhammed Hasan Ditiro, con successivi attacchi contro le
truppe governo; solo nel 1983 Jakarta riuscì a battere il GAM e il suo leader che
fuggiva in Svezia. Il movimento, tuttavia, non aveva abbandonato i suoi obiettivi e
dopo anni di silenzio il GAM era riuscito a dare forma al suo braccio armato AGAM,
per mezzo del quale lanciò nuove offensive nel 1989 e 1992, entrambe represse dal
governo. Questi saranno gli anni di numerose violazioni dei diritti umani da parte di
Jakarta; i soldati indonesiani utilizzarono immediatamente alcune delle lezioni che
provenivano dal contemporaneo esercizio bellico in Iraq: il divieto alle organizzazioni
umanitarie di intervenire o l'estrema difficoltà per i giornalisti di fare il loro lavoro se
non affiliati ai militari, esecuzioni extragiudiziarie, bombardamento della popolazione
civile.141 Uno spiraglio di luce si aprì finalmente sotto la presidenza Wahid, il quale
inaugurò un dialogo con il GAM attraverso il raggiungimento di un accordo tra i
rappresentanti dello stato e i ribelli, entrambe le parti firmarono un documento
chiamato “Joint Understanding for Humanitarian Pause of Aceh.” Attraverso questo
patto fu concesso l’ingresso agli aiuti umanitari e alle organizzazioni internazionali
che volevano prestare i loro servizi alla popolazione bisognosa, altri tentativi furono
intrapresi dal governo per raggiungere una qualche forma di intesa volta alla
risoluzione del conflitto, tuttavia il GAM restava fermamente ancorato nelle sue
opinioni, mostrando di non cedere alle offerte se queste non avessero incluso
l’indipendenza. Verso la fine del 2002 le due parti riuscirono ad accordarsi attraverso
COHA, Cessation of Hostilities Agreement, che implicava la formazione di un
Comitato costituito da membri scelti dal governo indonesiano e dal GAM, avente le
seguenti funzioni: monitorare l’andamento della chiusura delle ostilità, appurare la
persistenza di violazioni all’intesa punibili con sanzioni.
Per quanto riguarda le cause esterne, si può far riferimento alle pressioni
effettuate dall’ONU, UE e varie ONG per le violazioni dei diritti umani; a queste se
ne aggiunsero altre naturali come ad esempio il disastro del 2004 dello tsunami che
distrusse ampie zone della regione Sudest Asiatica, infine un elemento outsider: il
terrorismo islamico che si è abbattuto con tutta la sua forza nel paradisiaca isola di
138
Wanandi Jusuf, “Indonesia: a failed state?”, The Washington Quarterly, summer, vol. 25 n°3, 2002,
pp. 135-146
139
Wiryono Sastrohandoyo., “The Aceh Conflict: The Long Road to Peace”, The Indonesian Quarterly,
vol. XXXI n°3, 2003, pp. 262-267
140
GAM: Gerakan Aceh Merkeda, Movimento dell’Aceh Libero
141
Meuleman Johan, “From New Order to National Disintegration”, Archipel 64, 2002, pp. 81-99
60
Bali. Nella labile cornice si stagliano tuttavia dei notevoli risultati che
quest’arcipelago è riuscito ad ottenere: la legge elettorale grazie alla quale l’elezione
del Presidente avviene per opera della maggioranza del popolo (che giunge addirittura
in un momento di profonda crisi), la nascita di numerosi partiti,142 ma soprattutto un
punto di fondamentale importanza è costituito dalla riduzione dell’operatività
dell’esercito e il sradicamento del potere e dell’influenza di cui precedentemente
abusava. Nonostante i successi che il governo Indonesiano è riuscito a conquistare, è
necessario analizzare anche le grosse violazioni ai diritti umani da esso stesso
perpetuati, in modo tale da poter giudicare il livello di adeguatezza raggiunto dal
organo preposto al controllo dei Diritti Umani nell’arcipelago: Indonesia's National
Human Rights Commission; fu lo stesso Suharto a predisporre la sua istituzione, che
avvenne nel 1993 con decreto Presidenziale n°50.143 All’indomani dalla sua
istituzione, l’opinione pubblica internazionale nutrì forti dubbi nei confronti della
concreta efficacia del nuovo corpo, era più propensa a giudicare l’iniziativa in termini
di prestigio politico di Suharto piuttosto che ad una reale convinzione del Presidente
Indonesiano alla lotta ai crimini umani, oppure come mero strumento capace di
tutelare le violenze perpetuate dall’esercito nello zone calde (come il caso di Timor)..
La Commissione nei suoi numerosi atti, si pronunciò anche sugli eventi di Timor,
nella quale città istituì nel 1995 un ufficio avente lo scopo di monitorare lo sviluppo
della vicenda, grazie a questa testa di ponte riuscì a compiere delle ricerche e a
contraddire palesemente le relazioni finali elaborate dall’ABRI144
Qualunque fossero le vere intenzioni, dopo quattro anni dalla sua istituzione,
l’organo iniziava a dare i primi segni di una concreta lotta alla tutela dei Diritti Umani
e un elevato livello di indipendenza dal governo nel giudicare e condannare i casi che
di volta in volta le venissero proposti. Nonostante l’Indonesia faccia parte dei
principali strumenti volti alla tutela dei Diritti Umani, come “Convenzione
sull’Eliminazione di tutte le Forme di Discriminazione contro le donne, la
Convenzione sui Diritti del Bambino; la Convenzione Contro la Tortura; la
Convenzione sull’Eliminazione di tutte le Forme di Discriminazione Razziale; il Patto
sui Diritti Civili e Politici e il successivo sui Diritti Economici, Sociali e Culturali.
Oltre all’aver sottoscritto a tutti questi patti, ha anche provveduto a rafforzare l’azione
del suo organo attraverso l’istituzione di un altro commissioni nazionali volte alla
tutela della donna e del bambino. Questo mutamento alle tendenze autoritarie proprie
del governo Suharto, sono state man mano abbandonate, a dimostrazione di questo
changement la Costituzione è stata arricchita da nuove tutele, facendo dei diritti umani
un pilastro della nuova fase di democratizzazione, con una conseguente integrazione
dell’arcipelago nel “concerto internazionale” e una nuova concezione della Comunità
Internazionale nei confronti dell’Indonesia. La Commissione è guidata dal principio
del Panca Sila e dalle Convenzioni Internazionali dei Diritti Umani, nello specifico si
occupa di espandere la consapevolezza sulla tutela di tali diritti sia a livello nazionale
che internazionale, utilizza anche gli strumenti posti in essere dall’ONU elaborando
142
In precedenza gli organismi partitici ammessi erano quello del governo GOLKAR, ed altri affini i
quali dovevano godere dell’approvazione del regime
143
Documento: “Indonesia's National Human Rights Commission: A Step in the Right Direction?” di
Talwar Monika, Fonte: http://www.wcl.american.edu/hrbrief/v4i2/indo42.htm
144
ABRI: è la sigla delle forze armate indonesiane
61
ratifiche e approvazioni, un'altra funzione è quella di monitorare ed effettuare delle
indagini sul livello del rispetto dei diritti umani al fine di poter fornire delle opinioni e
suggerimenti al governo stesso; infine ha anche l’obbligo morale di incoraggiare la
cooperazione regionale e internazionale nella promozione e tutela dei diritti umani.
Tuttavia un limite della Commissione è costituito dalla mancanza di una funzione di
indagine attiva, ossia, una volta appurata la violazione, non ha potere di poter
giudicare e condannare abusi comprovati dalle sue ricerche; l’assenza di questa
capacità svuota in un certo senso di effettività l’azione di questo organo, limitandone
le possibilità che avrebbe di poter fare la differenza. La legalità della Commissione
trae la sua forza da un atto presidenziale, perciò molti osservatori giudicano ancora
cautamente tale organo, la qualità di “creazione dello stato” porta a temere la
possibilità da parte del Presidente di sciogliere l’ente, attraverso la semplice
emanazione di un nuovo decreto, non solo, un’altra causa della sua indipendenza
lacunosa è da ritrovare nei fondi statali dai quali trae finanziamento, facendo anche in
questo caso temere una dipendenza da tali fondi che potrebbero venir ridotti o
completamente annullati in qualsiasi momento, minando ulteriormente l’operatività
della Commissione. Non esistono nemmeno dei meccanismi legali atti a proteggere
l’integrità di quest’organo da commistioni con il governo o forme di clientelismo:
durante il regime di Suharto, ad esempio, ventuno membri furono scelti dallo stesso
presidente, in virtù dei legami che avevano intessuto con quest’ultimo, ma ancor più
grave è la rivelazione che numerosi di questi “raccomandati” si macchiarono di
violazioni nei territori di Timor. Questi suoi “anelli deboli” tuonarono durante le
ribellioni degli anni ’90, in cui l’esercitò compì abusi di ogni genere al fine di
neutralizzare le rivolte; tuttavia si deve apprezzare gli sforzi che la Commissione ha
effettuato per affrancarsi in qualche modo dalla nube governativa, non bisogna certo
dimenticare gli episodi in cui denunciò ingenti violazioni, rilasciando articoli che
colpivano l’opinione internazionale, e quindi, solo indirettamente Jakarta. Nel 1994 la
Commissione si adoperò nelle indagini dell’assassinio di un attivista di Timor Est,
Marsinah, suscitando gravi critiche da parte del Segretario di Stato, che accusava
l’organo di aver oltrepassato il limite dei suoi poteri con le sue dichiarazioni alla
stampa. L’anno successivo sarà la volta del sopraccitato scandalo dell’ABRI,
quest’ultimo aveva infatti “liquidato” l’assassinio di sei persone a Timor, con l’accusa
essere membri del FRETELIN e come tali sospettati di essere coinvolti nella manovre
di guerriglia; la Commissione invece appurò non solo che le sei vittime non fossero
coinvolte nelle rivolte, ma addirittura fossero state esse stesse oggetto di torture da
parte dell’ABRI. A partire dal 1986 si assiste ad un’escalation delle attività della
Commissione, la quale diventa sempre più incalzante : in questo anno propose al
governo l’abolizione la legge del 1963 sull’eliminazione delle azioni sovversive;
l’amministrazione centrale faceva spesso uso e abuso di questa norma, secondo il suo
testo, la neutralizzazione di frange sovversive che minacciavano la sicurezza e
l’armonia del paese era una forte elemento disgregante, tale da giustificare il ricorso a
numerose violazioni: era dunque permesso la condanna alla pena di morte per azioni
che distorcevano o deviavano dall’ideologia dello stato, oppure per chi sobillava il
popolo con la distribuzione di semplici libri; purtroppo in governo accolse il
suggerimento, senza però dargli un’effettiva applicazione. A partire dal 1998 si sono
susseguite numerose operazioni di promozione e di protezione dei diritti umani,
62
attualmente sta provvedendo a implementare il suo secondo piano nazionale per l’arco
temporale 2004-2009, nel quale è prevista la creazione di numerosi comitati
provinciali, regionali e agenzie con sede a Jakarta, questi nuovi avamposti avranno la
funzione di coadiuvare e coordinare l’azione generale del Commissione. Il ruolo
dell’Indonesia non si conclude all’interno dei suoi territori, ma si esplicita ancor più in
sede ASEAN, in questo contesto Jakarta svolge un ruolo di leadership e guida verso lo
sviluppo democratico della zona e per la promozione della tutela dei diritti umani.
3.2 11/9/2001 Una Nuova Sfida: Insieme contro il terrorismo
Gli eventi dell’undici/nove hanno cambiato completamente il panorama delle
relazioni internazionali e con esso la visione del globo terreste nei confronti
dell’orizzone musulmano: le immagini dei due aerei che scorrevano a ripetizione in
diretta mondiale, parevano il solito film apocalittico e invece era la dura realtà.
L’attacco alle due Torri, ha inflitto un duro colpo al cuore dell’Occidente, laddove
nessuno mai era arrivato; sebbene gli Stati Uniti abbiano combattuto numerose
guerre, queste tuttavia si svolgevano sempre in territori lontani dalla propria patria,
Al-Qaeda invece si è spinto fino alle porte Statunitensi, simbolo stesso della cultura
occidentale. In seguito a questo tragico evento gli US hanno rivisto ampiamente la
propria politica nei confronti dei territori musulmani, mentre nei riguardi dei due
paesi oggetto di questa analisi si è assistito ad un avvicinamento delle tre
amministrazioni, ma non solo, anche un’intensificarsi degli aiuti reciproci sia in
seguito a Kathrina che allo Tsunami asiatico, e ancor più è nata una speranza per il
futuro dell’Islam moderato, rappresentato proprio dall’Indonesia e dalla Malaysia.
L’Indonesia all’indomani dell’undici settembre condanna prontamente l’azione
di Al-Qeda e risponde elaborando un piano volto alla lotta al terrorismo, secondo il
quale per fornire effettività e proficuità all’azione, sarebbe necessario formare un
fronte comune con due elementi: braccio e mente, rispettivamente, forze di polizia e
ulama, che cooperano fianco a fianco per la neutralizzazione del movimento
terrorista. Il primo fattore si occuperebbe pertanto del fronte fisico con l’uso
ponderato della forza, mentre il secondo porterebbe avanti una politica sul piano
intellettuale ed ideologico, questo secondo approccio costituisce la chiave per la
svolta in quanto minerebbe le basi dell’ideologia di Al-Qaeda, e i suoi inni allo Jihad
come prova della fedeltà musulmana. La disapprovazione da parte degli ulama, ergo
da una fonte autorevole islamica, è più intrisa di valore rispetto a qualunque mezzo
militare, armato, o anche la stessa incarcerazione, tutte queste riposte generano solo
astio: la violenza alimenta altra violenza, e si rischia addirittura di creare nuovi miti
(propri dell’Islam sciita) ossia la figura del martire. La condanna al terrorismo, che
utilizza impropriamente alcune parti dei versetti del Corano per giustificare i suoi
scopi, da parte degli ulama, rende le basi del pensiero dei cosiddetti estremisti
63
islamici completamente infondate, tanto da depauperarli di qualsiasi autorità di poter
emettere giudizi religiosi, in quanto a detta degli ulama indonesiani “i terroristi hanno
frainteso e ancor più stravolto il messaggio originale della Parola di Allah.”145
Un’altra importante dichiarazione, effettuata dall’autorevole leader del NU e membro
della forza antiterrorista: Hasyim Muzadi, il quale annuncia il 22 novembre 2005
un’iniziativa che prevede la stampa di libri, redatti dalle più importanti organizzazioni
islamiche, allo scopo di opporsi alla fallace dottrina terrorista.146 Gli intellettuali
moderati, attorno ai quali ruota la maggioranza di musulmani indonesiani, chiedono
anch’essi una reinterpretazione legittima dei versetti Coranici; sarà proprio seguito a
queste due prese di posizione che il NU agirà concretamente spingendo
organizzazioni musulmane a provvedere alla stesura di codesti testi, il cui obiettivo
sarebbe proprio quello di confutare le teorie terroriste sul concetto di jihad. Purtroppo
l’Indonesia non è abitata solo dall’Islam moderato, al suo interno vi sono anche
alcune frange estremiste, che inizialmente sono nate sotto forma di intolleranze
religiose, con ambizioni separatiste, successivamente confluiranno in estremismi
internazionali; riprendendo il discorso del Presidente NU, questi accenna anche alle
idee di Imam Samudra147 proponendo addirittura la messa al bando dei suoi libri
inneggianti al terrorismo.148 Susilo Bambang Yudhoyono, pone l’accento su un punto
fondamentale nell’analisi della psicologia terrorista: ossia, tentare di ritrovare le basi
sulle quali tale consenso poggi. Il Presidente Indonesiano suppone l’esistenza di una
relazione direttamente proporzionale tra il livello di povertà e l’influenza terrorista:
laddove esista povertà e ignoranza, magari per mancata informazione da parte dei
mass media (che possono proprio non esistere o venire pilotati dal regime stesso), è
allora in questi che Al-Qaeda trova terreno fertile per poter impiantare le sue radici.149
La Malaysia, alla stregua dell’Indonesia attuerà lo stesso atteggiamento
ambivalente, elevandosi ad osservatore imparziale: condannando da una parte
l’attentato alle due Torri, ma allo stesso tempo e modo, riterrà illegittimo l’attacco
statunitense all’Afhanistan; la strategia adoperata in questo contesto da Mahathir, sarà
appunto quella di formare un fronte comune con le vittime di entrambi gli Stati.150 Il
suo obiettivo era quello di compiere una netta distinzione tra uno stato musulmano
moderato e i terroristi, infatti, la Federazione Malese detiene insieme all’Indonesia un
ruolo importante ai fini dell’immagine dell’Islam: entrambi sono due paesi a
maggioranza musulmana ed entrambi e pertanto vengono visti da Bush come “due
nazioni che si interporranno tra l’Occidente e gli estremisti nel ruolo di mediatori
145
Documento: “RI wages <<Two-Front War>> on Terrorism, Image Indonesia, Vol.13, n°12,
Dicembre 2005, Indonesia, p.20
146
Documento: “Second International Roundtable on <<Islam and Democratization in Southeast Asia:
Challenges and Opportunities>>”, Image Indonesia, Vol.XIII, n°1, Gennaio 2006, Indonesia, pp. 2729
147
Imam Samudra: scrittore molto popolare in Indonesia, e condannato a morte per l’attentato di Bali
148
Documento: “Ulema to Publish Books on Jihad”, Image Indonesia, Vol.13, n°12, Dicembre 2005,
Indonesia, p. 41
149
Documento: “Susilo’s Priorities in 2005 and his diplomatic skill”, Image Indonesia, Vol.11, n°12,
Dicembre 2004, Indonesia, pp. 2-3
150
64
pacifici”151 Il Presidente Statunitense si occupò personalmente di chiamare Mahathir
per ringraziarlo del suo gesto carico di empatia per le vittime del Trade Center e per
proporgli una collaborazione alla lotta contro il terrorismo. In quest’occasione
discussero anche le ripercussioni economiche che sarebbero derivate dall’episodio in
questione, accordandosi sulla tipologia di tattiche e di nuove forme di cooperazione
internazionale, necessarie per superare il periodo di crisi. A questo rinnovata vena
cooperativa seguirono numerosi incontri tra le due figure, Mahathir tuttavia tendeva a
voler evidenziare i problema di fondo del terrorismo: la Palestina; per poter sradicare
la forza prorompente dei talebani si rendeva assolutamente necessario passare per il
conflitto Israelo-Palestinese. Attuando questa politica Mahathir riusciva a dare risalto
alla sua figura di amico dell’Occidente, ma allo stesso modo dimostrava di non aver
tuttavia dimenticato la “spina nel fianco” dei paesi arabi. All’indomani dell’attacco
statunitense all’Afghanistan il Premier Malese non poté sottrarsi dal condannare tale
azione, non solo risultava sprovvista da obiettivi tattico-militari, ma mirava
ciecamente sulla popolazione afghana, che non era costituita unicamente da talebani;
gli US con questa prepotente risposta, si poneva quasi alla stessa stregua di Al-Qaeda,
Bush aveva ferito vittime civili estranee al terrorismo. Un nuovo atteggiamento si
evinceva nella prassi dell’amministrazione statunitense, post-settembre 2001, ogni
mezzo veniva ritenuto lecito per combattere ed estirpare il gene dell’Islam estremista;
la stessa Malaysia si mostrava preoccupata dal nuovo trend, in un memorandum del
2002, che il governo malese sottopose all’ambasciata US, si denunciavano trattamenti
e abusi verso prigionieri talebani nella base navale di Guantanamo, sita a Cuba. Un
altro esempio d’inversione di rotta, è fornito dalle numerose limitazioni per
ottenimento della carta verde necessaria per l’ingresso legale negli US, il governo
intendeva in questo modo innalzare delle barriere ai movimenti di musulmani
all’interno del proprio territorio: secondo questa norma, i musulmani di sesso
maschile tra i 16 e 45 anni dovevano attendere un minimo di venti giorni prima che le
loro domande fossero prese in considerazione; questo lungo periodo permetteva alla
CIA e FBI di analizzare le schede dei richiedenti; i legami che i due paesi man mano
intrecciavano, divenivano sempre più fitta in parallelo alla crescita
dell’interdipendenza dei loro stessi interessi.
L’insorgere del terrorismo a livello internazionale ha finanziato i vari focolai di
guerra presenti nell’area del Sudest Asiatico, contribuendo a trasformare piccole lotte
territoriali, in un movimento più ampio e organizzato. Nel gennaio 2002 il governo di
Singapore rilasciò delle preoccupanti dichiarazioni relative ad un gruppo terrorista
noto con il nome di Jamaah Islamiah, nelle quali svelava l’esistenza di alcune cellule
operative nell’area indonesiana e malese, quest’ultimo stato già nel 2000 aveva
accusato i primi colpi inferti dall’influenza di Al-Qaeda. Un gruppo partner di Osama
Bin Laden, Al Maunah, era riuscito ad attaccare e derubare un campo militare della
finanziato dalla Federazione Malese, mentre in tempi più recenti i “tentacoli” terrosti
si sono espansi anche all’interno di un altro gruppo militante: Kumpulan Mujahieed
151
Shansul A. B. , “Beyond 11 September: A Malaysian Response”, NIAS nytt: Nordic Newsletters of
Asian Studies, n°4 Dicembre 2001, pp 6-7
65
Movement (KMM), tra le varie accuse che gli si muovono, vi è quella di aver
minacciato la sicurezza pubblica attraverso uccisioni, sequestri e rapine in banca.152
3.3 Dialogo Interreligioso
Le tre grandi religioni monoteiste che ancor oggi sopravvivono, ossia l’Islam, il
Cristianesimo e l’Ebraismo affondano le loro radici nella stessa cultura, ma non solo
nascono anche negli stessi territori. E’ strano pensare come delle fedi che traggono
origine dallo stesso contesto siano poi arrivate a combattersi l’una con l’altra. Il
Cristianesimo aveva mosso un passo avanti rispetto all’Ebraismo, avendo
riconosciuto Gesù come figlio di Dio, i musulmani a loro volta hanno riconosciuto le
due religioni precedenti, aggiungendo un nuovo elemento: l’ultimo profeta mandato
da Allah per consegnare l’ultimo messaggio prima del Giudizio Finale. A
testimonianza della “parentela” tra le tre religioni del libro interviene un passo del
Corano153, che recita: “Coloro che credono [i musulmani], coloro che praticano il
giudaismo, i cristiani, i s sabées – coloro che credono in Allah e al Giorno del
Giudizio e compiono opere pie - , avranno la loro retribuzione dal loro Signore.
Costoro non dovranno aver paura, nè essere tristi”154 Questo versetto del Corano si
eleva a religione realmente universale, perché pone sullo stesso livello tutte le
religioni fondate su un libro sacro, garantendo a tutte queste le stesse possibilità di
salvezza, senza far per questo distinzione su quale Dio adorare, perché
fondamentalmente nonostante i mille nomi che gli si voglia attribuire, l’essenza della
fede è sempre racchiusa nella sua entità superiore.
Vorrei richiamare il pensiero di un grande pensatore contemporaneo tunisino
che, nel 1997, ha ricevuto il premio che la Fondazione Agnelli ogni anno assegna per
il dialogo tra le culture: Mohammed Talbi. Postula l’esistenza di due elementi propri
dell’Islam e altri due per l’Occidente, il primo occuperebbe una sfera sociologia che
si espande in un’area geografica più o meno determinata, ma che non implica la fede,
ma racchiude in se una cultura e una civilizzazione specifica, poi subentra
l’ingrediente religioso, come pura convinzione e fede; è importante sottolineare che
per Talbi i due fattori non si identificano sempre fondendosi l’uno con l’altro, in
quanto esiste la possibilità di un individuo che seppur nascendo nello spazio islamico,
non appartenga tuttavia a questo credo. Per quanto riguarda l’Occidente, accanto
all’elemento religioso, il quale ha comunque ispirato la cultura di quest’area
mondiale, pone un fattore di tipo tecnologico, definendolo come lo sfruttamento
intensivo della “terra” al quale corrisponde una cultura di tipo consumistica.
152
Sodhy Pamela, U.S.-Malaysian Relations during the Bush Administration: The Political Economic
and Security Aspects, Contemporary Southeast Asia, vol. 25, n°3, 2003, pp. 363-386
153
Borrmans Maurice, “Regards coraniques sur les chrétiens”, Ètudes, décembre 2004, , pp 652-657
154
“Ceux qui croient [les musulmans], ceux qui pratiquent le judaisme, les chrétiens les sabées – ceux
qui croient en Allah et au Dernier Jour et accomplissent oeuvre pie - , ont leur retribution auprès de
leur Seigneur. Sur eux nulle crainte et ils seront point attristés”
66
Entrambe le due religioni hanno subito un processo di “deislamizzazione” e
“decristianizzazione”, per la seconda un fattore importante è stata la
secolarizzazione,155 si è assistito su entrambi i fronti ad una perdita lenta
dell’elemento “convinzione religiosa”, con un abbandono dell’essere musulmano
credente, praticante per spostarsi verso l’essere musulmano come identità, creando
una confusione tra i due elementi in precedenza delineati. Si è registrata quindi, una
confusione tra Islam come convinzione e come civilizzazione: l’appartenenza alla
fede religiosa diventa a questo punto un segno identitario, una necessità per
l’inserimento sociale. La secolarizzazione nel mondo Occidentale ha dato adito ad
una separazione tra il sacro e la politica, rinchiudendo la fede nella sfera privata della
società, d’altra parte il Cristianesimo, contando nella figura di un capo religioso, il
Papa, come capo della comunità-Chiesa costituisce in ogni modo un punto saldo al
quale fare riferimento; lo stesso processo avviene nel Giudaismo: la poca integrazione
propria delle società ebraiche, le quali tendono a creare una comunità all’interno di
una comunità maggiore, perciò si verifica una sovrapposizione tra l’appartenenza
religiosa e quella sociale. Il problema di comunicazione nasce da questa asimmetria
culturale: la nostra società delimita il ruolo della religione alla sfera privata e risulta
pertanto difficile comprendere o condividere culture cosi diverse dalla propria; inoltre
esiste anche uno scompenso di tipo economico. Mentre l’Occidente si presenta in
zone economicamente sviluppate e assume una certa posizione “trionfalista”, l’Islam
nasce invece soprattutto in zone sottosviluppate, da questo differente background
derivano a loro volta interessi diversi. Secondo Talbi il mondo Occidentale dovrebbe
prendere atto dei propri limiti e Islam da parte sua dovrebbe capire quali sono le sue
possibilità, in modo tale da bilanciare maggiormente il quadro degli interlocutori, che
potrebbero sedersi al tavolo delle negoziazioni in posizione in qualità di “pari.”
Attualmente molti paesi musulmani sono produttori di petrolio, ma questa ricchezza,
essendo un bene privato non costituisce un beneficio per tutta la zona in termine di
popoli, e inoltre non crea un normale flusso di beni import-export, bensì un traffico
d’armi in cambio di petrolio.156
Come già accennato in precedenza, nella patria del multiculturalismo e del
sincretismo religioso, si è fatto ricorso all’ideologia del Panca Sila, in modo da
pacificare tutti i diversi credi e di farli convivere sotto la comune bandiera
indonesiana. Sotto il regime di Suharto, il troppo proselitismo cristiano venne in
qualche modo limitato, allo scopo di evitare sommosse e riuscire a mantenere
l’armonia e la tolleranza religiosa. La politica di armonizzazione delle diversità, ha
sempre optato per un scelta nazionalista, che poneva appunto l’accento
sull’appartenenza comune all’arcipelago, piuttosto che alla frammentazione
culturale.157 Nel 1969 il governo lanciò un piano quinquennale per lo sviluppo, in
questo piano si concedevano notevoli libertà di espressione alle varie confessioni
religiose site nel territorio, venne anche creato un organo ad hoc, il cui scopo fosse
155
Secolarizzazione: mi riferisco in questo caso al Cristianesimo, in quanto nell’Islam, data la fusione tra
l’elemento politico a quello religioso non è possibile parlare di questo fenomeno.
156
Talbi, Mohammed, “Islam et Occident ou-delà des affrontements, des ambiguities et des complexes”,
Islamo- Christiana, 1981, n°7, pp. 57/77
157
Raillon François, “Chrétiens et Musulmans d’Indonésie – Des logiques de confrontation”, Les Cahiers
de l’Orient, n°6, troisième trimestre 2002, pp. 94-103
67
quello di prevenire possibili contrasti tra le culture, proteggere e sviluppare la
tolleranza inter-religiosa, infine stimolare il dialogo. Qualche hanno più avanti, nel
1974, venne approvato un secondo piano, nel quale si creava una Commissione
Speciale all’interno del Dipartimento degli Affari Religiosi al fine di organizzare e
finanziare il progetto dal nome: “Dialoghi tra uomini di diverse religioni.” La
comunicazione inter-religiosa preferiva guardare alle somiglianze tra le diverse
culture piuttosto che nelle differenze, sotto questa nuova ottica, di enfatizzazione
delle similitudini, appariva il comune senso del sacro, e dell’azione umana: non era
necessario essere cristiano piuttosto che musulmano, il comportamento del “buon
fedele” richiama all’operato caratterizzato dai principi della bontà, giustizia,
generosità e al sacrifico come strumento ultimo per giungere alla salvezza.158 Lo
stesso Papa Giovanni Paolo II espresse lo stesso pensiero in diverse encicliche, in
particolare in quella del 1963 elenca quattro capisaldi che sorpassano i confini
imposti ai fedeli dei diversi culti, creando una sorta di “credo universale”. I quattro
principi erano: i) la verità che pone lo stesso diritto in capo tutti gli individui a
ricevere la giusta informazione; ii) giustizia ossia promuovere l’imparzialità
attraverso ogni singola azione umana e proteggere i deboli; iii) libertà caratteristica
propria dell’uomo, il quale è dotato di libero arbitrio; infine iv) amore, dono concesso
da Dio stesso e per il quale tutti gli individui fanno parte della stessa famiglia. Un
altro passo in favore del dialogo venne compiuto in occasione del Concilio Vaticano
II, in cui il principio della libertà religiosa venne assunto come punto di partenza per
una coabitazione dei vari credi, incoraggiando l’umanità alla tolleranza in funzione
della pace.159 Nel 1986 Giovanni Paolo II invitò i leader delle diverse religioni
mondiali per pregare insieme ad Assisi durante il World Day of Prayer for Peace,
altre importanti eventi raggrupparono nazioni per una cooperazione pacifica. Nel
luglio del 2005 si svolse a Bali un incontro tra l’Asia e l’Europa che diede vita alla
“Dichiarazione di Armonia Interreligiosa”, questo documento fu firmato dopo
l’attentato terroristico a Londra, per tradurre i valori di pace, compassione e tolleranza
in programmi educativi per formare le nuove generazioni, i media al fine di prevenire
la formazione di nuovi estremismi, marginalizzazioni e di stereotipi per le diverse
culture.160 Per quanto concerneva le politiche governative, i vari Stati membri della
Dichiarazione si impegnarono a sovvenzionare piani per la ricerca e sviluppo di nuovi
progetti per rafforzare il dialogo interreligioso ed educare la società ad accettare ed
imparare a confrontarsi con le diversità, accanto a queste proposte, fu anche concepito
l’intento di creare scambi culturali a tutti i livelli e gradi della società. La conclusione
della Dichiarazione con i complimenti dell’Assemblea verso l’Indonesia:161 “Noi
158
Fitzegerald Michael, “Christian Muslim Dialogue in South-East Asia”, Islamo-Christiana, 1976, n°2,
pp. 171/185
159
Ghd Arinze Francis, Cardinal, “Interreligious Dialogue at the Service of Peace”, Islamo-Christiana,
1976, n°2, pp. 171/185
160
Documento: Bali Declaration on Interfaith Harmony”, Image Indonesia, Vol.12, n°8, Agosto 2005,
Indonesia, p. 19
161
“We welcome the Indonesian initiative to establish an International Center for Religious and Cultural
Cooperation (the Jogja Center) and encourage this and other similar initiatives in other countries. We
congratulate the Government of Indonesia for initiating this Interfaith Dialogue and the excellent
arrangement of this important event. We are especially honored by the presence of the President of
Indonesia” libera interpretazione personale
68
acclamiamo l’iniziativa indonesiana di stabilire un Centro per la Cooperazione
Religiosa e Culturale (Jogja Center) e incoraggiamo questa o ulteriori iniziative in
altri paesi. Noi ci congratuliamo con il Governo d’Indonesia per aver promosso
questo “Dialogo Interreligioso e l’eccellente organizzazione dell’evento. Noi siamo
particolarmente onorati della presenza del Presidente Indonesiano.” Quest’ultima
frase soprattutto, segna l’ulteriore l’importanza assunta da questo paese sia come
leader dell’ASEAN, sia insieme alla Malaysia come veicolo del Dialogo con
l’Occidente.162
162
Fonte: http://ec.europa.eu/external_relations/asem/asem_process/bali_declar.pdf
69
4. Conclusioni
I due paesi a maggioranza musulmana presi in considerazione nella mia disquisizione,
non detengono quelle paventate caratteristiche che si vogliono costantemente e
ostinatamente accostare all’identità islamica. All’interno dei loro territori convivono
da secoli e secoli popolazioni appartenenti a diverse culture e religioni, il
multiculturalismo di cui godono queste due Nazioni e voglio sottolineare “godono”, in
quanto il livello di tolleranza e di fusione delle diverse tradizioni ha dato vita ad un
paese come l’Indonesia: culla delle differenze, che ha addirittura elevato le differenze
a bandiera nazionale “Uniti nella differenza”; questo potente collante unito alla
predominanza della popolazione musulmana sia davvero emblematico per capire la
cultura islamica. Nonostante la presunzione dei mass media di voler rinchiudere
questa meravigliosa religione, che non solo non pone le barriere che il Cristianesimo
le contrappone, ma anzi, ne riconosce la stessa validità facendo propria la stessa storia
degli ebrei prima e dei cristiani poi, l’Islam non condanna il Cristianesimo, tutt’altro
la eleva a religione del “Libro”, sulla linea del quale lo stesso Corano si porrà. In
passato i popoli arabi hanno sempre accolto gli occidentali nei loro traffici, senza
porre alcuna barriera di principio (come invece fecero i Cristiani), e quale religione è
più tollerante se non quella dove è la stessa comunità la “umma” a decidere e stabilire
le proprie regole, non sono forse principi democratici? In questo caso si può
certamente parlare di forme embrionali di democrazia diretta, dove un “assemblea di
saggi” è il corpo deputato all’elaborazione delle decisioni.
L’era in cui viviamo è impregnata di valori occidentali, internet ha sicuramente
accorciato le distanze fisiche, ma non quelle culturali, addirittura si stanno anche
sviluppando nuovi tipi di terrorismo, come il cyber-terrorismo che mira a colpire il
cuore della cultura moderna. Purtroppo l’evento delle due torri ha decretato l’inizio di
una nuova era in cui la grande potenza statunitense ha subito un duro colpo nei suoi
stessi territori. In seguito all’undici nove, la visione del mondo è notevolmente mutata,
e il tribunale globale ha condannato la cultura musulmana a carnefice dell’Occidente.
Io capisco la paura degli statunitensi di sentirsi costantemente minacciati da Al-Qaeda
dopo quel nefasto pomeriggio dell’undici/nove, tanto inatteso eppur annunciato, da far
inginocchiare in poche ore una nazione e riaprire allo stesso tempo, piccole e nascoste
tracce residue di quel “sopito razzismo dormiente” che portano una federazione
moderna e liberale a guardare con un insieme di paura e diffidenza verso quel
passeggero che sedendosi accanto a loro in aereo sente gli sguardi che gli cadono
addosso, come invadenti, ha come sua unica colpa quella di indossare un hijab; di
nuovo, capisco il terrore mondiale della ripetizione di ulteriori attentati, ma ormai si
sta rischiando, a mio modesto parere, di cadere in una psicosi di massa, in una caccia
all’uomo, dove l’identità musulmana diventa il target di discriminazioni e di accuse
infondate. L’appartenere alla fede Islamica non significa essere necessariamente dei
terroristi; purtroppo la società globale nella quale attualmente viviamo è talmente
intrisa dai valori occidentali che annebbia la visuale neutrale che dovrebbe assumere
70
la storia. Mi spiego meglio, i libri che ci propinano i professori alle Scuole Medie
Inferiori e Superiori assumono un’ottica di parte, nella quale, ad esempio, lo Stato
d’Israele è vittima degli attacchi da parte dell’Autorità Palestinese, ignorando che gli
stessi Palestinesi vivono anch’essi una situazione d’assoluto disagio, oltre alla miseria
con la quale devono continuamente confrontarsi, si aggiunge anche un conflitto per le
risorse idriche, nella quale gli indigeni hanno perso l’accesso libero all’acqua e hanno
visto man mano ridursi, per opera d’Israele, l’utilizzo di un bene necessario per la vita.
Non voglio certo mettere in dubbio le sofferenze causate dai ribelli Palestinesi al
popolo Israeliano, ma è necessario altresì fare luce sulle sofferenze che anche i
Palestinesi hanno subito per mano di Israele; un esempio che venne anche condannato
dallo stesso Consiglio di Sicurezza Onu, è l’attacco degli anni ’80 di Israele verso la
centrale nucleare Irakena: seppur glissando sul presupposto della liceità della difesa
preventiva, tuttavia il CdS condanna il bombardamento per motivi infondati in quanto
la costruzione della centrale nucleare non costituiva una minaccia per l’aggressore.
Questa breve parentesi all’interno del general topic a mio avviso è necessaria per
ribaltare la base della piramide secondo la quale, tutto ciò che è “occidentale,” e
quindi più vicino alla nostra cultura, sarebbe giusto, mentre il cosiddetto “altro”, nel
nostro caso, l’Islam, sarebbe sbagliato. Prese di posizioni così forti da portare dei
politici ad affermare frasi, in trasmissioni nazionali Italiane, del genere “non è
possibile instaurare un dialogo con l’Islam” e ancora “non esiste un Islam moderato”,
andrebbero ponderate maggiormente prima di venir così pubblicamente espresse,
perché rischiano di creare dei “falsi pregiudizi” che tuttavia albergheranno nella mente
di chi, ignorando ingenuamente la realtà dei fatti, non avrà la premura di controllare la
veridicità di date affermazioni.
L’immagine dell’Occidente “paladino della democrazia” rischia di venir messa
in discussione dalle discriminazioni religiose, di cui i musulmani sono ormai vittime.
Ormai non è più il colore della pelle l’elemento discriminante, bensì l’appartenenza o
meno alla fede islamica, l’essere rei di avere una cittadinanza ad esempio afgana o
libanese, questi sono i nuovi fattori che all’alba del XXI secolo costituiscono le nuove
frontiere razziste. A mio avviso, la dilagante propensione a collegare in maniera
simbiotica l’Islam al terrorismo, la discriminazione a priori, l’emissione di giudizi
solo in conformità all’appartenenza religiosa o nazionale, tutti questi elementi
costituiscono la base di nuove teorie razziste. A questo punto, mi chiedo se lo stesso
paladino della giustizia si eleva a giudice ed esecutore che futuro si potrà prospettare
per le generazioni future? Non sono dell’avviso che né violenza né continui attacchi
agli avamposti terroristi (ammettendo anche di riuscire a stanarli) siano proficui; fino
a quando il pregiudizio albergherà nella mente dei popoli, Al-Qaeda riuscirà sempre a
trovare l’humus ideale sul quale far attecchire e radicare i suoi tentacoli, solo il
continuo tentativo di instaurare un dialogo tra i popoli, coadiuvato da programmi
aventi i due scopi di abbattere le barriere che delimitano i confini con l’ “altro” e di
effettuare una campagna informativa su entrambi i lati, potranno produrre un fruttuoso
e pacifico scambio interculturale tra l’Islam e l’Occidente.
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