Schiavitù e resistenza nel Quilombo di Frechal

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Schiavitù e resistenza nel Quilombo di Frechal
Roberto Malighetti Schiavitù e resistenza nel Quilombo di Frechal
XXIV Convegno Internazionale di Americanistica - Perugia 10, 11 e 12 maggio 2002
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Schiavitù e resistenza nel Quilombo di Frechal
Roberto Malighetti
Università di Milano Bicocca
Illustrerò brevemente gli spazi di scambio politici, linguistici e storici con cui ho cercato (MALIGHETTI R.
1998) di definire l'identità nella comunità nera di Frechal (Maranhão, Brasile) riconosciuta ufficialmente come
Reserva Extrativista do Quilombo Frechal(1) da un decreto federale del 1992. Tale dispositivo ha dichiarato di
interesse ecologico circa 10.000 ettari, ingiungendo, dopo complesse vicende cariche di forti tensioni e
violenza, l’esproprio dell’area acquistata nel 1974 da un imprenditore di São Paulo responsabile di ripetuti
tentativi
di
espellere
forzatamente la popolazione
locale.
Il decreto riconosceva altresì,
per la prima volta in Brasile, i
diritti culturali dei discendenti
dei quilombolas, come sono
conferiti
dalle
Disposizioni
Costituzionali Transitorie del
1988. Nell'articolo 68 si
sancisce che «ai discendenti
delle comunità dei quilombos che
stanno occupando le loro terre
è riconosciuta la proprietà
definitiva, dovendo lo stato
emettere i rispettivi titoli a loro
nome»(2).
Portoghesizzazione del termine
bantu (quibundo) “kilombu”, che significa originariamente l'accampamento o la tenda, la parola quilombo è stata
usata nel XVII secolo per denotare i campi di concentramento degli schiavi dell'Africa occidentale, venendo
successivamente a definire i luoghi di fuga degli schiavi brasiliani. Partendo da questo senso giuridico, il
concetto ha attraversato la storia brasiliana, dalle disposizioni legali del periodo coloniale, alle politiche
repressive del periodo imperiale, dalle legislazioni provinciali dopo l’Indipendenza, alla legislazione
repubblicana fino alla Costituzione del 1988 che è riuscita a coniugare una grande liberalità di principi con la
mancanza di meccanismi per renderli applicabili. Come in molti altri casi, infatti, l'articolo 68 conferisce un
diritto che non fu mai regolamentato da norme che disciplinassero la materia. Così come è strutturato sembra
dimostrare la chiara volontà dell’Assemblea Costituente di impedirne l’applicazione, cosciente che una sua
libera interpretazione comporterebbe una vera e propria riforma agraria.
Per questo motivo, dopo aver cercato senza successo di chiedere, primi in Brasile, il riconoscimento di
"discendenti dei quilombos", gli avvocati della comunità, in concerto con la Procura Generale della Repubblica,
modificarono la strategia processuale, indirizzando la petizione al ministero dell’ambiente. Approfittando
della congiuntura favorevole, alla vigilia della Conferenza delle Nazioni Unite sull'ambiente e lo sviluppo sostenibile del
1992 a Rio de Janeiro, ottennero dal Presidente Collor l'emissione di un decreto di esproprio dell’area che
affidava al villaggio una «concessione del diritto all’uso» delle risorse naturali. Tale decreto fu poi convertito in
legge solamente il giorno precedente la sua caducità(3) in seguito all’occupazione della sede dell’Istituto
Brasiliano dell'Ambiente da parte della gente di Frechal in un drammatico susseguirsi di eventi, che
mobilitarono l’opinione pubblica e catalizzarono l’attenzione dei giornali locali e nazionali.
Il caso Frechal, in cui la costruzione dell'identità è passata attraverso un conflitto e un processo giudiziario, è
stato, dunque, facilmente comprensibile per mezzo delle teorie “oppositive” dell’identità(4). Attraverso tali
prospettive si è potuto attribuire all’identità una forte connotazione politica, risultante da processi favoriti
dall’esterno (avvocati e intellettuali, Caritas, Centro de Cultura Negro, Sociedade Maranhense de Defesa dos Direitos
Humanos) e fondati sulla competizione, contingente e circoscrivibile sul piano storico, per l'accesso alle risorse
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materiali e simboliche. La minaccia del fazendero ai confini strutturali e territoriali aveva, cioè, rafforzato i
meccanismi di circoscrizione identitaria, rivalutati in termini simbolici. In nome di un diritto alla propria
identità quilombola che faceva riferimento ad un'idea di "autenticità" culturale e mobilitando una simbologia
capace di legittimare le rivendicazioni e dare loro un peso giuridico, il popolo di Frechal si era trasformato da
oggetto di schiavitù, di discriminazione e razzismo, a soggetto etnopolitico.
Il definirsi quilombo da parte della popolazione di Frechal si è costituito come modello identitario fondato su
un tessuto simbolico primordiale. Tale modellizzazione sottolineava il legame con l'eredità culturale e
materiale di un passato eroico legato a un riferimento tangibile di appartenenza ad una comune origine e ad
un determinato territorio. Creava forme di continuità a partire dalla quali si erano costituiti fondamentali
livelli di identità che, a loro volta, diventavano fattori di storia.
Il linguaggio del quilombo è stato, così, il principio direttore che ha regolato la ripartizione del tempo e dello
spazio. Da un lato il tempo ha unificato l’origine e il destino in relazione a un territorio su cui vissero gli
antenati e per cui lottarono. Dall’altro la territorialità ha fondato l’identificazione, supponendo una tradizione
storica e culturale costruita attraverso il tempo(5).
La memoria nativa, nel processo di costruzione dell’identità, attingeva alla grande riserva della storia dotta
depositata nei documenti processuali. Per quanto era nelle loro possibilità e attraverso l’ausilio degli avvocati,
combinavano gli avvenimenti della grande storia ai significati locali: la storia universale si trovava
nell’avvenimento locale e a sua volta, la storia locale prendeva la forma e le pretese della “grande tradizione”,
diventando essa stessa storia universale o storia nazionale del Brasile. Il rimando principale era alla figura di
Zumbi e al quilombo di Palmares, per certi versi il luogo di riappropriazione e del riscatto della propria storia e
della propria identità(6).
Nel lavoro ho, dunque, proceduto ad analizzare molto cautamente i meccanismi di formazione
dell’etnogenesi, ponendomi il compito di decostruire il processo di costruzione dell’identità. Per questo fine
ho messo in relazione le concezioni costruttivistiche e processuali dell’identità(7) con la reificazione del
concetto operata dai nativi. Da questa prospettiva ho cercato di “mostrare”, wittgensteinamente, come l’opera
di cristallizzazione dell’identità fosse stata contingentemente elaborata nel corso della lotta contro il fazendero e
nell’acquisizione e produzione di documenti nella fase giudiziaria, filtro potentissimo nel processo di
costruzione dell’identità per mezzo di concetti sostanzialistici e essenzialistici come “territorialità”, “anzianità
di occupazione”, “genealogia” e “razza” e su meccanismi di eliminazione catartica delle impurità e delle
contraddizioni (KILANI M. 1994:208).
Nel corso di questo lavoro sono stato disturbato dai meccanismi sostanzializzanti impliciti nei processi di
costruzione identitaria, rimanendo, per certi versi, influenzato dalle categorie Vero/Falso dell’azione
giudiziaria. In qualche modo mi feci, cioè, sedurre dalla possibilità di verificare il contenuto della narrative a
fronte di una storia consegnata ai documenti processuali e con un sapere controllato e controllabile che mi
permettesse, altresì, di superare la frammentarietà dei discorsi. Nel tentativo di decostruire l’artificialità delle
loro costruzioni, finivo spesso per cercare di “smascherarne” il gioco strategico, facendomi prendere dal
fantasma del “disvelamento”. Analizzando i processi di reificazione venivo, così, risucchiato nella loro ricerca
di autenticità, colludendo con essa, trovandomi di fronte la cristallizzazione non solo del punto di vista
nativo, ma anche del mio. Queste due prospettive interagivano e finivano per assomigliarsi e rinforzarsi a
vicenda, specialmente nell’estrema valorizzazione che entrambi attribuivamo agli scritti processuali.
Basata sulle ricerche di documenti storici, la petizione degli avvocati articolava la tesi che le attuali “terras de
preto” o le “comunidades negras” erano tutte Remanescentes das Comunidades dos Quilombos e quindi eleggibili di
vedere riconosciuta la proprietà della terra sulla quale vivevano. Inferiva sostanzialmente la necessaria
presenza di quilombos a partire dalla grandissime concentrazione di schiavi nella regione maranhense(8).
Il documento prendeva come proprio riferimento fondamentale, come del resto tutte le concettualizzazioni
del termine quilombo la risposta del Re del Portogallo alla consulta do Conselho Ultramarino, del 1740. Questa
definizione considera giuridicamente come quilombo «tutte le abitazioni con più di 5 negri fuggiti, in parte
spopolate, anche senza costruzioni». Su queste basi giungeva alla conclusione che «bastava avere sei negri a
Frechal, anche senza luogo dove abitare e senza lavorare la terra... per rivendicare l’esistenza di una
reminiscenza quilombola» (Petizione p.58). Passava quindi a criticare la negazione dell’esistenza di quilombos
nell’area e delle pratiche insurrezionali degli schiavi da parte della produzione storiografica ufficiale. Ad essa
contrapponeva una serie di testimonianze documentali che partivano dal 1832: soprattutto i messaggi dei
presidenti e vice presidenti e le relazioni allarmate dei capi della polizia della provincia che testimoniavano la
rilevanza della lotta contro i quilombos nella Baixada occidentale.
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Accennava, inoltre, all’esistenza di un’importante e inaccessibile corrispondenza datata 20 aprile 1834
indirizzata dal Giudice di pace di Turiaçù al Vice Presidente della provincia del Maranhão, in cui veniva
esplicitamente citato un non ben localizzato “quilombo do Frechal”.
Il potere di evocazione di tali documenti, direttamente legato al prestigio accordato alla cultura scritta, ha
costituito un punto centrale dell’immaginario nativo e della strategia retorica locale, funzionando come
criterio di verità e come garanzia dell’autenticità del racconto. La memoria orale usava i documenti per
sviluppare i propri effetti retorici di persuasione e di verosimiglianza indipendentemente da verifiche, riscontri
e dalla stessa possibilità di mostrarli. Quello che contava non era tanto la designazione del contenuto quanto
lo stesso atto linguistico di designare.
La semplice invocazione di documenti irreperibili, spesso inesistenti e il cui contenuto era, in ogni caso, per lo
più sconosciuto, aveva una propria efficacia performativa e una propria autosufficienza (KILANI M. 1994). In
tal senso costituivano ciò che Kilani ritiene “referenze complete” (KILANI M. 1994: 243), che, avendo
definitivamente liberato il loro senso, diventano incontestabili. La loro semplice evocazione, che Kilani
definisce “incantatoria” (KILANI M. 1992: 307), era sufficiente a sortire un effetto persuasivo e a sostenere la
credenza in ciò che era enunciato(9).
Questa posizione dei documenti nelle narrative dei miei interlocutori, che attribuiva all’orale la fondazione
dello scritto (KILANI M. 1992: 307), eludeva la possibilità di passare dalla storia scritta a quella orale. Ciò si
sommava alla scarsa conoscenza che i miei interlocutori possedevano della loro storia. Lo stesso concetto di
quilombo era poco utilizzato nella comunità. Alcuni, soprattutto i più anziani, ne ignoravano il significato,
confondendolo con l’unità di misura (chilometro).
Difficile era soprattutto comprendere la mancanza di una cultura della lotta e della resistenza contro la
schiavitù. Soprattutto era assente la memoria di una società in cui gli antichi schiavi avessero lavorato liberi,
alternativa a quella delle piantagioni e della fazenda. Al contrario, i racconti erano ricchi di ricordi che
enfatizzavano la convivenza armonica con i padroni del passato.
Nelle storie di Frechal si narra che un proprietario, identificato in maniera diversa dai vari interlocutori fra i
differenti componenti della famiglia Cohelo da Souza, e collocato fra l'arrivo di Manuel Cohelo da Souza nel
1792 e la morte del Dott. Artur nel 1883, avendo ipotecato la fazenda, riuscì a far fronte ai propri debiti e a
non perdere la proprietà, grazie all'aiuto dei neri che aumentarono la propria produttività per risolvere
l’emergenza. In cambio la comunità ricevette in dono la terra(10).
Queste narrative sembravano riprodurre il mito del “bom senhor”, che ha caratterizzato per lungo tempo gli
studi sulla schiavitù brasiliana (FREYRE G. 1936), insieme alla falsa ideologia della “democracia racial”(11),
secondo cui il Brasile costituirebbe un esempio paradigmatico della equilibrata convivenza razziale.
In effetti gli avvocati e gli storici ingaggiati dal fazendero, utilizzarono ampiamente questi discorsi, fondando
la loro strategia processuale sulla negazione di attività insurrezionali da parte degli schiavi dell'area e in
particolare di Frechal. Dal loro punto di vista sembravano riprodurre l'argomentazione secondo cui il nero,
bloccato dall’ideologia razziale elaborata dai bianchi e sedotto dall’idea di “appartenere al sistema”, fosse
rimasto “historicamente neutro” (BASTIDE R. - FERNANDEZ F. 1959: 107), incapace di elaborare una propria
cultura alternativa e contrastiva. Per tale ideologia omologante dell’“abrasileiramento” e del
“branqueamento”, gli stessi dominati rifiutarono le loro matrici culturali, adottando come unico modello
quello che i bianchi crearono per discriminarli, partecipando al processo di rimozione del passato che li aveva
discriminati e che continuava a farlo. Con questo il nero non articolò una identità etnica in grado di creare
una ideologia contraria a quella creata dal bianco. La fagocitazione e l’integrazione della cultura nera,
folclorizzata all’interno della cultura nazionale come “afro-brasileira”, neutralizzò ulteriormente le possibilità
di mobilitazione sulla base di un’identità pericolosa in quanto antagonista(12).
Insoddisfatto da tali argomentazioni, che attribuivo a ciò che Florestan Fernandes definì più correttamente «o
preconceito de não ter preconceito» (FERNANDEZ F. 1965: 25), ho cercato di leggere i discorsi come segni la
cui logica soggiacente non rinviava ad un sapere positivo ma a un gioco di linguaggio. In tal senso le
contraddizioni, le dimenticanze, le esitazioni della memoria nativa non costituivano semplicemente
un’ignoranza della propria storia. Al contrario erano elementi costitutivi della memoria in quanto tale, non
solo produttrici di punti di vista sul passato ma anche e soprattutto segni della prospettiva del presente. Come
nel caso degli Ilgonot di Rosaldo (ROSALDO R. 1980), le vicende di Frechal diventavano intelligibili quando si
abbatteva la distinzione fra documenti e punto di vista nativo e si comprendeva come quest’ultimo si
appropriasse dei documenti, passando dalla ricerca della storia positiva allo studio del modo in cui la storia era
vissuta e manipolata quotidianamente e come le regole venivano wittgenstianamente seguite sul piano locale:
“storia viva”, secondo un’espressione usata, molto significativamente, da un mio interlocutore
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In tal senso la problematica identitaria poteva essere considerata un problema di relazioni razziali all'interno di
un ordine sociale e politico discriminatorio. Esprimeva la pertinenza dei membri al gruppo, capovolgendo le
identità negative prodotte da gruppi più potenti. L’identità era comprensibile come l’inversione simbolica di
caratteristiche imposte dalla società razzista e schiavistica(13).
Gli stessi termini “negro” o “nero”(14) erano stati trasformati in segni positivi di identità, non più subiti
passivamente, ma accettati con orgoglio e utilizzati come uno dei principali fattori di mobilitazione e
coesione. L’enfatizzazione dell’identità nera si fondava su una fierezza legata alla lotta contro la
discriminazione. Si inseriva in un elogio delle qualità culturali e nel riscatto dell’esperienza storica della
schiavitù che, a sua volta, era passata da elemento di vergogna a fattore di orgoglio.
Analogamente il termine “quilombo” da categoria di attribuzione formale negativa attraverso la quale si
classificava un crimine, era passato a essere utilizzato per la propria autodefinizione. Utilizzando il significato
giuridico del termine ne traduceva gli elementi costitutivi di negazione del sistema schiavistico e di rifiuto del
dominio della grande proprietà monocolturale.
Prima dell’articolo 68, nessuno aspirava, comprensibilmente, ad autodefinirsi quilombola. In Africa perché
significava cattura e deportazione. In Brasile perché era il segno di criminalità. Questo poteva spiegare le
reticenze e la mancanza di autodefinizione in termini di quilombo da parte delle comunità nere rurali e chiariva
le narrative identitarie degli attori sociali che utilizzavano prevalentemente il termine “terra de preto” per
definirsi. Successivamente alla promulgazione della Costituzione del 1988, le strategie dei militanti del
movimento nero e degli avvocati della comunità avevano ripreso il senso legale del termine quilombo,
estendendone il significato originario. La rivendicazione dell’identità quilombo la funzionava, così, come leva
per istituzionalizzare un gruppo prodotto per effetto di una legislazione colonialista e schiavista. Per la stessa
ampia applicabilità che originariamente possedeva, la definizione legale si prestava ad essere un utile
strumento per considerare quilombo tutte le comunità nere e di sollecitare l'esproprio delle terre a loro favore.
A partire dal suo contenuto storico, il termine ha così subito un processo di risemantizzazione che lo ha reso
applicabile alle situazioni contemporanee della popolazione afro-brasiliana. Gli stigmi del pensiero giuridico
(disordine, indisciplina sul lavoro, autoconsumo, cultura marginale) erano stati capovolti, reinterpretati e resi
positivi. In contrasto alla miopia della storiografia tradizionale i quilombos venivano considerati non solo una
manifestazione nazionale della lotta contro la schiavitù, ma veri e propri progetti di nuovo ordinamento
politico. I quilombos erano visti come forme di espressione del desiderio collettivo di libertà, sovversivo e
rivoluzionario, che permisero ai neri di esercitare la loro capacità di mobilitazione e organizzazione di una
società alternativa. Quindi non erano esperienze isolate o sopravvivenze del passato a cui prestare omaggio
nella memoria degli eroi che lottarono contro la schiavitù. Piuttosto erano considerati nuclei di resistenza
contemporanei fondati sulla proprietà collettiva della terra, un contrappunto alla logica di espansione
capitalistica nelle aree rurali.
In conclusione posso dire di aver cercato di mostrare come, nel caso di Frechal, il concetto di quilombo non
comprende un contenuto primordiale e intangibile omogeneo e coerente. Costituisce, piuttosto, un gioco
linguistico la cui funzione essenziale è l’identificazione e la classificazione di individui all’interno di uno spazio
sociale in continuo movimento. Finalizzata all’etnogenesi, la riorganizzazione della memoria storica si è
effettuata attraverso cesure cronologiche e la selezione di tratti che le esigenze e gli schemi ideologici dei
“contesti strutturanti contemporanei” avevano considerato rilevanti e “performativi”.
L’identità a Frechal si configura, cioè, come un prodotto caleidoscopico e contingente, fondato su
spostamenti, clonazioni, reti di legami tra luoghi che erano proiezioni, documenti inesistenti e discorsi
dimenticati, continuamente ricreato dall’interazione tra differenti interlocutori: comunità, entità esterne di
sostegno alla lotta, avvocati, giudici, il fazendero intellettuali e lo stesso antropologo.
In quanto oggetto teorico, l’identità é stata quindi costruita attraverso il modo in cui ho progressivamente
guadagnato accesso alla sua conoscenza, riflettendo sui miei modelli epistemologici, sulla mia esperienza
vissuta sul campo e sul rapporto dialogico con i miei interlocutori.
Il modello teorico e l’oggetto in realtà coincidono. L’identità é emersa come il prodotto di una negoziazione,
condotta “dal punto di vista dell’antropologo”, con le prospettive da me inscritte nella storia degli attori
sociali e nella temporalità che ha legato l’osservatore e l’osservato.
In quanto tale, l’identità ha rappresentato il ramo wittgensteiniano sul quale ero seduto e che non posso
recidere (WITTGNESTEIN L. 1954: 41). Come una sorta di ideal tipo weberiano, mi ha permesso di isolare nella
molteplicità e nella polisemia del dato empirico, alcuni elementi significativi, coordinandoli all'interno di
un'interpretazione. Per quanto prospettico, artificiale e relativo, ha costituito il «limite a cui non corrisponde
in realtà alcuna esperienza» (LEVI-STRAUSS C. 1977: 332) indispensabile per la comprensione. Precisamente
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quel limite «che apre dall’interno lo spazio della conoscenza possibile» (BORUTTI S 1996: 11). Senza questo
“fondo” che ci conferma nella nostra cultura, non avremmo dei punti di vista e comparazioni possibili
(BORUTTI S. 1996: 13).
Radicando l’antropologo alla propria cultura, tale limite mostra come l’esperienza dell’altro si realizza
solamente a partire da noi stessi. Il discorso sull’identità, nella sua bifocalità, ha così cercato di mettere in luce
la riflessività come caratteristica intrinseca al discorso antropologico esibendo il carattere negoziale e
processuale della costruzione del conoscenza antropologica: vedere gli altri attraverso noi stessi (e il nostro
codice disciplinare) e noi stessi attraverso gli altri.
Note
(1) Tale denominazione fu adottata dal Decreto Federale 536 del 20 maggio 1992 pubblicato nel Diario Ufficiale
dell’Unione struttura dell’Ibama come Reserva Extrativista di interesse ecologico e sociale, conformemente all’articolo 225
della costituzione il 21.5.1992, Sezione I, p.6316, per il quale Frechal andava a integrare la del 1988 base del dispositivo
previsto dall’articolo 68 degli e all'articolo 9 inciso VI della legge 6.938 del 31/8/1981 e nuova edizione legge 7.804 del
18/7/1989.
(2) Sulla Atos das Disposiçoes Consitucionais Transitorias: «aos remanescentes das comunitades dos quilombos que estejam
ocupando suas terras é reconhecida a proprietade definitiva, devendo o estado emiter-lhes os titulos respectivo».
(3) Decreto Estadual del 19-05-1994, conformemente all’articolo 225 della Costituzione brasiliana.
(4) COHEN, A., 1974; GLAZER N., MOYNIHAM D.P. 1975; NAGEL T. 1986; WILLIAMS B.F. 1989; SOLLORS W. 1989;
FABIETTI U. 1995.
(5) QUEIROZ S. 1981; VOGT C., FRY P. 1982; BAIOCCHI M. 1983; MONTEIRO M. 1985; GUSMAO N. 1989.
(6) Questa grande concentrazione di schiavi, localizzata fra Algoas e Pernambuco, aveva un governo centralizzato con a
capo le eroiche figure di Ganga-Zumba e di Zumbi, in una sorta di monarchia elettiva, come la definisce Edison Carneiro
(CARNEIRO E. 1947). Il Quilombo de Palmares già esisteva all'inizio del secolo XVII, come si evince dal fatto che il
governatore Diego Botelho preparò fra il 1602 e il 1608, una spedizione comandata da Bartolomeu Bezzerra per
eliminarlo. Crebbe moltissimo con la conquista olandese dato che la guerra mise in crisi la società e la vigilanza dei
padroni e si mantenne per tutto il secolo XVII, arrivando ad avere da 20.000 a 25.000 abitanti prima di essere distrutto
dalle truppe militari negli ultimi anni del secolo (FREITAS D. 1984).
(7) BARTH F. 1969; COHEN A. 1974; AMSELLE J.L. - M’BOKOLO E. 1985; CLIFFORD J. 1988.
(8) Il Maranhão, fu uno dei principali centri economici del paese dal XVIII fino a metà del XIX secolo e quindi uno
degli stati brasiliani che importarono il maggior numero di schiavi. La zona di Guimarães, municipio che fino al 1964
comprendeva anche l’area di Frechal, rappresentava una delle aree a maggior concentrazione di piantagioni, descritta
dalle fonti dell’epoca come particolarmente ricca e fertile (O Diario do Maranhão, 6-5-1857). Nel 1860 il numero di
fabbriche per trattare la canna da zucchero nell’area superava le 100 unità, collocando Guimarães al secondo posto nel
Maranhão, che ne totalizzava 410 (VIVEIROS J. 1954; LIMA L. 1981). L'istituzione nel 1682 della Prima Companhia do
Comércio do Maranhão (1682-1755) è considerata l’iniziò ufficiale dell’introduzione degli schiavi nel Maranhão
(AMARAL J.R. 1897; MEIRELES M. 1960; DIAS M. 1970). Tale traffico si intensificò il secolo successivo, con la nuova
Companhia Geral do Comércio do Grao-Para e Maranhão (1755-1778), che monopolizzò il commercio per i successivi
20 anni. Numes Dias sostiene che durante la sua esistenza il numero totale di schiavi venduti nel Maranhão fu di 10.616
(DIAS M. 1970). In generale, Castro (CASTRO A. 1892) ritiene che il flusso fu di 3.000 schiavi prima del 1755; 12.000 nel
periodo della Companhia do Comércio; 15.000 fino alla fine del XVIII secolo. I dati del censimento del 1799 indicano
31.722 neri e 18.573 mulatti (GOULART M. 1975). Frate Francisco de Nossa Senhora dos Prazeres (1891: 4-27) e José
Amaral (AMARAL J. 1897), stimano che nel 1818 la popolazione del Maranhão, senza contare gli índios, era di 160.000
abitanti e informano che il numero degli schiavi per ogni uomo libero era di due contro uno. Alfonso de Taunay riporta
che nel 1822 dei duecentomila abitanti del Maranhão, il 66,6% erano schiavi, la percentuale più elevata in Brasile.
Parimenti, Dunshee de Abranches afferma che nel 1822 vi erano 130.000 schiavi nel Maranhão, più della metà della
popolazione della provincia (DUNSHEE DE ABRANCHES D. 1941: 47). Di questi calcola che fra il 1812 e il 1820 ne
entrarono circa 36.500. Nel municipio di Guimarães, i dati di Marques (MARQUES C.A. 1870) indicano come nel 1870, su
una popolazione di 14.500 anime, 5.000 fossero schiavi.
(9) In questo modo agiva il documento fondamentale più volte citato dagli avvocati del processo. Mi riferisco alla
corrispondenza del 20/04/1834 indirizzata dal Giudice di pace di Turiaçù al Vice Presidente della provincia del
Maranhão, in cui si cita il quilombo di Frechal. Non sono mai riuscito a vedere tale documento.
(10) Questo caso straordinario di un latifondista che conviveva pacificamente con i negri del quilombos era enfatizzato
dalle storie che si narravano a Frechal. In effetti ebbi modo di trovare nei giornali dell’epoca che in pieno regime
schiavista i figli di Manuel Cohelo da Souza, Torquato e José iniziarono a lavorare con ex-schiavi e più tardi con coloni
portoghesi. Nel 1852 fecero un contratto con la corona portoghese per introdurre coloni liberi nella Fazenda di Frechal
e fondarono la "Colonia di S. Izabel" che nel 1864 contava 95 abitanti (59 portoghesi e 33 brasiliani). In un articolo del
1860 scritto in occasione della morte di Torquato, si parla della relazione armoniosa fra schiavi e proprietario
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“Publicador Maranhense, São Luis, 9 novembro 1860. Traduzione mia: «trattava i suoi schiavi con molta carità. Questi ,
nelle malattie , ricevevano da lui conforto e cure che alleviavano le loro sofferenze. E non solo nelle occasioni
sfortunate, ma anche nei momenti di salute, cercava sempre di alimentarli nel modo migliore possibile. Per questo si può
affermare che nell’area di Guimarães non ci fossero schiavi trattati altrettanto bene. Quando seppero della morte del loro
buon signore, non poterono trattenere le lacrime per il dolore che li affliggeva, e molti pianti si fecero in suo nome».
(11) PIERSON D. 1942; RAMOS A. 1946; BASTIDE R. - FERNANDES F. 1959; KLINERBERG O. 1966; SALLES V. 1971;
ETZEL E. 1976; DIEGUES J.M. 1980; CARDOSO C. 1982; GORENDER J. 1985; FINLEY M. 1991; MOTT L. 1995; LEITE I.B.
1996.
(12) RODRIGUES N. 1932; RAMOS A. 1943; CARNEIRO E. 1950; BASTIDE R. 1971; KILSON M. 1975; FREITAS D. 1980;
BORGES PEREIRA J.B. 1984; BERRIEL M. 1988; MOURA C. 1988; BACELAR J. 1989; FRY P. 1982; COSTA E. 1987;
CARNEIRO DA CUNHA M. 1985; MUNANGA K. 1986; CONSORTE J. 1991; O’DWEYER E.C. 1993.
(13) BANTON M. 1979; SEYEFERTH G. 1983; BALIBAR E. WALLERSTEIN I. 1990.
(14) A Frechal non veniva fatta alcuna distinzione fra i due termini preto e negro, usati interscambiabilmente.
Bibliografia
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