I racconti dei “BATTUTI”
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I racconti dei “BATTUTI”
I racconti dei “Battuti” PRE JACOMO detto CALIGO di Fabio Metz a cura del CENTRONOVE Circolo Aziendale di San Vito al Tagliamento n.2 - Dicembre 2004 E E ra pre Jacomo, detto in paese “caligo”, nel 1625 prete da due anni per l'ordinazione ricevuta nella cattedrale di Caorle non ritrovandosi, come da qualche tempo, nel 1623 in sede il vescovo di Concordia. Giovane di una qualche prestanza fisica, aveva un volto allungato, quasi tagliente, incorniciato da una chioma corvina mossa appena da qualche ricciolo cui si rannodava alle tempie, per scendere quindi verso il mento, una barbetta aguzza egualmente di colore scuro. Appena al di sotto delle narici, inarcati sul labbro superiore si disegnavano due lunghi baffi che s'andavano progressivamente affusolando ad entrambe le estremità. Illuminavano il pallore del viso due grandi occhi di un azzurro acquoso annidati in fondo a due profonde occhiaie ed attraversati di tanto in tanto da un certo tal quale lampeggiare che lasciava intuire una salute soggetta ad improvvisi assalti di febbre. Vestiva braghe nere e corsetto, del pari nero, appena alleggerito attorno al collo da un leggero rigiro bianco di lino da cui scendevano sul petto due piccole punte ornate di un accenno di pizzo. Gli pendeva dalle spalle un corto mantello, sempre di colore scuro, il cui bordo egli, mentre camminava, era uso nervosamente tormentare con la destra dalle lunghe dita di un bianco pallido ed affusolate. Ad arrivare al sacerdozio lo aveva aiutato lo zio pre Piero pievano di San Giovanni nei pressi di Casarsa. La preparazione era stata un affare di famiglia. Dalla bibliotechina dello zio aveva prelevato una grammatichetta latina, un libro di dogmatica ed uno dei casi di morale, una silloge di vite dei Santi oltre al Catechismo ai parroci del Concilio di Trento. Poche cose, ma sufficienti per un mestiere, quello del prete, ad esercitare il quale valeva soprattutto la pratica. Regola prima di quella pratica pre Piero gli aveva a più riprese ribadito essere quella di stare molto attenti a non contrariare il vescovo diocesano Matteo Sanudo. Poi che, gli spiegava, erano finiti nel dicembre 1584, con la morte del longevo vescovo Pietro Querini, i tempi durante i quali si poteva regolarsi secondo tradizione e secondo usanze e prassi locali. Dal 1586 era arrivato in diocesi quel Sanudo e le direttive del Concilio di Trento, per sua imposizione, erano diventate legge obbligatoria per tutti, a cominciare dai preti, secondo la codificazione che ne aveva data il sinodo diocesano tenuto in Portogruaro nel 1587. Era lo stesso suggerimento che a più riprese pure pre Antonio Candotto - uno dei due vicari che reggevano la cura delle anime in San Vito (l'altro aveva nome pre Bertrando Pellegrini, ma la gente lo chiamava pre Beltrando) e la cui casa, alcuna volta assieme a pre Piero, aveva preso da qualche tempo a frequentare - non si stancava di ripetergli. Era questa una frequentazione cadenzata a più riprese fra maggio e settembre, quando la stagione consentiva senza correre pericoli particolari a causa delle bizzarrie del tempo, l'andata ed il ritorno tra San Giovanni e San Vito. Pre Candotto, un omaccione massiccio rubizzo, a dispetto dell'apparenza che lo avrebbe lasciato immaginare ridanciano e cordiale, parlava poco e lentamente. Di fronte ad un boccaletto di vino, spesso piuttosto asprigno, ed alla minestra di avena o di orzo, tra un bocconcino di pane con un pochina di carne, più volte lo sguardo di pre Jacomo aveva incrociato gli occhi grifagni, nascosti - ma meglio si direbbe, quasi in agguato - al di sotto di due folte sopracciglia rossicce con qualche leggera striatura biancastra di pre Candotto. Avvertiva ogni volta una sorta di disagio accompagnato per altro da una tal quale ammirazione per quel vecchio prete, ispido ma concreto, che pur masticando le poche parole riusciva sempre suggerire qualche consiglio pratico cavato fuori da un'esperienza che si intuiva lunga e persino sofferta. L'ultima volta in cui s'erano visti, pre Antonio lo aveva consigliato, dati i tempi, di mettersi al riparo e di pensare al proprio avvenire. Il che voleva dire porre fine alla condizione di prete autonomo e di cercare di conseguire una qualche mansioneria semplice oppure qualche altro beneficio cui fosse pure annessa la cura d'anime. Aveva concluso il colloquio avvertendolo che il 21 aprile di quel 1625 il vescovo coadiutore e nipote del Sanudo, Matteo anche lui di nome, sarebbe stato in San Vito per la visita pastorale. Forse non sarebbe stato male - osservava pre Candotto - se di mezzo a tutti i preti che in quel giorno avrebbero fatto corona al presule, avesse pure lui trovato il modo di baciare l'anello vescovile e di farsi notare in tal modo al superiore. «Fai un po' tu, aveva concluso pre Antonio, risucchiando con un leggero fischio l'ultima goccia di vino dal bicchiere, ma non ti sognare mai e poi mai di incolparmi del fatto di non averti messo sull'avviso». Pre Jacomo, cavalcando verso San Giovanni, aveva pensato e ripensato alle parole di pre Candotto. Aveva valutato, sul ritmato trottare del cavallo, il pro ed il contro dell'ipotesi postagli di fronte. Ed alla fine aveva concluso che quel suo amico navigato aveva ragione o che, alla peggio, da parte sua avrebbe avuto ben poco da perdere. E fu così che pre Jacomo, la mattina del 21, sistematasi la barba, ripulitosi con più accuratezza del solito, sellato il cavallo e sistemata dietro la sella una sacca di fieno per assicurarne l'alimentazione, se ne venne bel bello in San Vito con la cotta bianca, per l'occasione lavata e stirata, morbidamente distesa sull'arcione ed il cappello a forma di croce ben calcato in capo: capi d'abbigliamento che pre Candotto gli aveva detto il vescovo gradiva moltissimo vedere addosso ai suoi preti. Tutta San Vito era in piazza. Le quattro campane della torre suonavano a distesa. Di fronte al portale della chiesa grande, alcuni addirittura con i piedi sulle tombe del cimitero abbracciante il tempio, si era disposta una decina di preti. Al cui centro di quella sorta di piccolo semicerchio stavano i due vicari pre Candotto con la stola rossa al collo (era di fatto vicario di settimana) e pre Beltrando. Pre Jacomo legò il cavallo in fondo alla piazza ad un anello di ferro infisso su un pilastro del portico degli Altan, gli mise di fronte la forcatella di fieno cavata dalla sacca, si infilò la cotta e, facendosi largo tra la folla in ragione del proprio stato, raggiunse il recinto del sagrato, oltrepassò i due pilastri sormontati da un paio di acuminate piramidi che segnavano il varco d'accesso e si aggregò ai colleghi. Pre Candotto, con un leggerissimo inchino del capo, accennò ad un saluto e con un appena percettibile movimento dell'indice della destra gli indicò il posto in cui avrebbe dovuto sistemarsi. Comparve alla fine dalla torre di San Nicolò la carrozza del vescovo che lentamente, costeggiando il lato meridionale della chiesa e girando attorno al campanile, raggiunse il cancello centrale del sagrato. A quel limitare si erano avvicinati, tutti riverenze, i due vicari. La porta della carrozza venne spalancata da un servitore che era smontato velocemente di cassetta ed il vescovo discese dal veicolo tirandosi dietro lo strascico paonazzo della veste talare. Era sua eccellenza illustrissima e reverendissima (siccome allora si diceva) ancor giovane, di piacevolissima figura, di incarnato roseo appena tendente al pallido, decisamente rotondetto, di abbondante capigliatura di un colorito tra il rossastro ed il marrone, con due baffetti disposti in orizzontale al di sotto di un naso allungato e secco ed un pizzetto ritagliante al mezzo il mento. La mozzetta violacea, ampia e ricadente dalle spalle sulle braccia, impreziosita dalla croce pettorale d'oro, assieme al sottostante lungo rocchetto assicuravano alla figura una solennità ed una gravità non disgiunte per altro da una qualche civetteria più degna di un laico che di un ecclesiastico. Tutta un'altra cosa questo vescovo, pensò subito pre Jacomo, rispetto all'omonimo zio. Lo aveva visto due o tre volte, ma l'immagine gli era rimasta impressa negli occhi: secco come un chiodo, pelato, con una barbetta caprina ad incorniciare un mento volitivo, piccolo di statura, impositivo e qualche volta persino arrogante, con due occhietti di un marrone scuro mobilissimi ed indagatori. Lungo il vialetto aperto tra le sepolture, monsignore, con passo lento e solenne, raggiunse il portale maggiore della chiesa. Pre Candotto gli porse da baciare la croce d'oro e d'argento, lo incensò e quindi gli porse l'aspersorio d'argento. Il vescovo tutti benedisse con larghi gesti della mano, restituì l'aspersorio al vicario e con un sorriso intonò il Benedictus avviandosi con i preti all'interno della chiesa. Pre Jacomo lasciò che tutti, laici compresi, entrassero nella parrocchiale. Non che si sentisse a disagio - molti erano i confratelli e gli uomini che conosceva - ma si percepiva in qualche modo quale un pesce fuor d'ac- qua, un corpo estraneo. E non era certamente in quel contesto, pensava tra sé e sé, che egli avrebbe potuto avvicinare proficuamente sua eccellenza. Meglio aspettare e vedere quello che sarebbe successo. Fu così che decise di lasciare che nella chiesa grande il presule cantasse la messa e celebrasse poi, secondo la prassi di rito, le esequie per i defunti nell'adiacente cimitero. Si sfilò la cotta che piegò sul braccio sinistro, fece un giretto per il nucleo del paese - semideserto - compreso nel giro delle fosse, si fermò all'osteria per un bicchiere di vino reso per altro più aspro dal sentir sibilare alle sue spalle da parte di un gruppetto di avventori: «Come xelo che 'sto prete no 'l xe a tignirge su la coa al so paron», diede un occhiata a che il cavallo avesse ancora del fieno da mangiare. Quindi ritornò di fronte alla chiesa grande. Pre Candotto lo aveva avvertito che il vescovo, dopo aver visitato la parrocchiale, sarebbe passato, quale prima tappa del giro ispettivo in paese, alla chiesa ed all'adiacente ospitale di Santa Maria dei Battuti. Ed é in questa direzione che pre Jacomo, senza fretta, diresse i suoi passi. Del resto, era difficile non individuare quella tappa dell'itinerario di visita del presule. Bastava guardare. Ad attendere la visita di monsignore sul porta della loro chiesa di Santa Maria c'era, salvo i giustificati per malattia oppure per le magagne ingenerate dall'età, tutta la fraterna dei Battuti - i due camerari dell'anno in testa - con le cappe bianche, fresche di bucato e debitamente rammendate, la croce astile in argento dorato inalberata, il cappellano, bardato di cotta e stola, pre Francesco Mioni. Davanti a tutti i confratelli più giovani, dimentichi della gravità del comportamento dei più anziani, tutti eccitati, impegnati a spintonarsi, con qualche brontolio piuttosto vivace, sul portale maggiore della chiesa, tesi a riguardare verso la piazza nell'attesa di veder spuntare il corteo vescovile. In seconda fila i confratelli più vecchi, tutti barbuti, con le mani rimboccate nelle ampie maniche della cappa, intenti a colloquiare tra loro più con gli sguardi ed il movimento delle sopracciglia che con le parole, con un'aria di annoiata a sufficienza per questa cerimonia fuori programma che sembrava venire a disturbare i riti ed i ritmi di giornate tutte da spendere in più redditizie faccende private. Annunziata dai rintocchi delle quattro campane del campanile, finalmente dalla parrocchiale prese l'avvio la piccola processione che doveva accompagnare il vescovo alla visita della chiesa e dell'ospitale di Santa Maria. Dietro la croce d'argento dorato della chiesa dei Ss.Vito e Modesto sfilavano la fraterna del Santissimo abbigliata di bianche tonache, il clero, con le cotte e la berretta nera, i due vicari parrocchiali, i chierici con il turibolo e la navicella dell'incenso, il piccolo gruppo di preti che accompagnava il vescovo visitatore. Alla fine veniva il Sanudo, con la mitra gemmata in capo ed il pastorale d'argento nella sinistra nel mentre la destra si alzava ad intervalli a tracciare ampie benedizioni. Lo seguivano il cappellano personale, il cancelliere di curia, due canonici convisitatori e qualche altro prete se non annoiato quanto meno distratto e svagato. Il percorso era breve, fatto nel sole ed accompagnato dal rintoccare assordante dei bronzi. La piccola folla di confratelli si aprì all'apparire di monsignore sulla soglia e questi, aspergendo di nuovo tutti di acqua lustrale, entrò nel tempio. Con una qualche fatica e non senza qualche brontolio i confratelli presero posto sulle bancate che si allineavano lungo le pareti della navata. Da quella sorta di spalti guardavano la breve pattuglia che si assiepava, quasi a difesa, attorno a monsignor Sanudo fermo al centro della chiesa. Il vescovo alzò lo sguardo dinnanzi a sé. Contemplò per un attimo la cappella grande con la sua decorazione pittorica e la pala lignea sistemata sull'altare, poi i due altaroli sistemati a fianco dell'arco santo dedicati quello di sinistra allo Spirito Santo e l'altro di destra a Santa Caterina, girò lo sguardo sulla navata e si dichiarò soddisfatto del come la fraterna riuscisse a gestire ed a mantenere in quella straordinaria efficienza la chiesa. Un'approvazione che i due camerari ed il cappellano, incollati alle spalle di monsignore, si affrettarono a comunicare, subito ricambiati con inchini e sorrisi, ai confratelli disposti sulle bancate. Anche per questa volta siccome già era avvenuto nel 1610, sembrava davvero che non insorgessero grossi problemi con l'autorità diocesana per modo che si sarebbe potuto procedere nel solco della normale amministrazione. Al seguito del vescovo, anche pre Jacomo intanto era entrato nella chiesa. Per ultimo. Aveva lasciato passare avanti, di fatto poi che di proposito, tutti mettendosi di lato al portale. Per fortuna la chiesa era ampia e molta gente si era dispersa all'esterno sulla strada. Qualche gruppo addirittura aveva preso a sciamare nelle vie adiacenti o stava per riguadagnare la piazza. Con la berretta in mano, aveva varcata la soglia e si era accomodato sulla bancata di legno che stava addossata alla controfacciata, sul lato di sinistra dell'entrata. Il brusio era piuttosto intenso. Si era accomodato vicino al un uomo che dimostrava di avere all'incirca una sessantina d'anni, rivestito di un camiciotto di color senape, che, facendogli riverenza, si era ritratto alquanto sul sedile onde il posto avesse a risultare maggiore. Per un pochino di tempo i due erano rimasti in silenzio guardando tutto quell'agitarsi di cappe bianche ed ascoltando quell'ostinato, ancor che, sommesso cicalare. Poi l'uomo, guardandosi dapprima d'attorno per sincerarsi che altri non avessero ad ascoltarlo, aveva principato a chiedere a pre Jacomo donde venisse e perché lì si trovasse. Pre Jacomo aveva guardato attentamente il suo interlocutore. Nonostante la giovane età aveva imparato - giusto altro suggerimento di pre Candotto - a pesare le parole quando gli fosse capitato di dover far parola con persone di cui nulla sapeva a cominciare dal nome. Disse dunque che era un prete - cosa che non poteva sottacere dato l'abito che indossava - e che veniva da un paese limitrofo e che era lì per fare riverenza al vescovo. Nulla di più. Guardò il suo interlocutore per un attimo, giusto il tempo per cercare di capire quale l'effetto di quelle laconiche risposte. L'uomo teneva gli occhi fissi dinnanzi a sé fissando la volta affrescata del presbiterio. Poi, sottovoce, senza staccare lo sguardo dai dipinti, cominciò a ricordare di quando suo padre gli raccontava di aver visto iniziare quelle pitture nel 1535, del compiacimento che avevano suscitato nel patriarca di Aquileia Marino Grimani tanto che aveva voluto l'ascrizione tra i “cittadini” di San Vito del pittore, di come anche lui da giovane avesse conosciuto, Pomponio Amalteo, il pittore: un signore già avanzato in età, piuttosto corpulento, dal portamento solenne, molto ricco, ancora in attività fino a pochi giorni dalla morte. «Un bel funerale, sospirava, con tanta gente, ma senza sfarzo. Immaginarsi: due sole torcette ai fianchi del feretro. Roba da non credere, per un uomo di quella fama e di quelle fortune economiche. Ed in merito si mormorava, nel mentre ai primi di marzo 1588 si accompagnava il cataletto dalla chiesa grande a quella di San Lorenzo per la sepoltura nella tomba di famiglia, che Pomponio avesse voluto essere sepolto con un abito di tela grossolana infilato sopra la sola camicia, ma per altro verso non avesse voluto lasciare nemmeno uno spicciolo alla chiesa riservando ogni suo bene a quella serqua di figlie che era riuscito a mettere al mondo grazie alla seconda moglie. Altri tempi, comunque. Allora, quando era vivo il maestro, venivano fin da Udine per vedere questi affreschi. E lui alle volte li accompagnava nella visita e spiegava il significato delle varie scene e raccontava anche qualche piccolo aneddoto rapportato alla stesura di quei dipinti. Adesso la bottega di Pomponio era gestita dal genero, quel traccagnotto venuto da Portogruaro a che s'era accucciato in casa grazie al matrimonio con la figlia del maestro, madonna Quintilia. Ma era oramai tutta un'altra cosa». Pre Jacomo ascoltava attento chiedendosi chi diavolo fosse quell'uomo che gli sedeva a fianco e come mai sapesse tutte quelle cose. Stava per chiederglielo, quando dovette alzarsi di scatto per non essere investito da un gruppetto di confratelli che si spingevano l'un l'altro per raggiungere l'uscita. Non ci volle molto perché capisse che la visita del vescovo alla chiesa ed alla sacrestia doveva essere finita ed i confratelli assieme ai curiosi, si affrettavano in qualche maniera a precedere il presule all'esterno della chiesa onde fare ala al suo passaggio. Nella confusione non si era accorto che il suo uomo era scomparso quasi risucchiato dalla piccola folla vestita di tonache bianche. Aspettò al suo posto che la chiesa sfollasse. Per ultimo, con le gote un pochino arrossate e senza più la mitra in capo ed il pastorale tra mano - oggetti che un pretuccio saltellante a fianco del presule tutto orgoglioso recava tra le mani - veniva il Sanudo. Si fermò un attimo sulla soglia, si fregò gli occhi con una mano quasi per abituarli alla luce del sole, alzò lo sguardo al campanile forse perché infastidito dall'ossessivo rintoccare della campane, disse qualche cosa, allargando le braccia, all'orecchio del suo cancelliere ed a quello dei due camerari della confraternita, quindi piegò sulla destra, radente il muro della facciata della chiesa, verso il portone attraverso quale si accedeva all'interno dell'ospitale. Pre Jacomo, nonostante ci fosse passato molte volte dinnanzi ed avesse letto, giusta la scritta dipinta sul portale d'entrata, come quell'istituto avesse ad assistere i poveri di San Vito ed i pellegrini, in ospitale non aveva mai posto piede. Era fermamente convinto che quei disgraziati gli avrebbero fatto impressione e del pari era persuaso di non essere in grado di riuscire in nessun modo di recar loro alcun aiuto. Lasciò perciò che i confratelli ed il vescovo entrassero dal portale nel cortile interno dell'ospitale. Lo spazio era abbastanza ampio per contenere la piccola folla. Il cortile che si apriva al di là del portale d'accesso non era troppo grande, ma nemmeno troppo ridotto. Al centro si trovava il pozzo; a meridione si apriva, al di là di un muretto, l'orto; a tramontana la fabbrica dell'ospitale; ad occidente la chiesa e ad oriente si distendeva un segmento della muraglia di cinta della città. Pre Jacomo, camminando lungo il muro della chiesa e superando la concimaia, aveva raggiunto il muricciolo dell'orto. Sua eccellenza si era fermata al centro del cortile ed andava fittamente confabulando con i camerari ed il cappellano. Stando al gestire, era intuibile che questi gli andassero illustrando l'articolazione e gli usi delle fabbriche nonché i servizi che all'interno delle stesse la fraterna era in grado di assicurare. Poi il vescovo si mosse ed entrò nell'ospitale seguito dai soliti due camerari, dal cappellano, dai due canonici convisitatori e dal cancelliere. Pre Jacomo si sedette sul muretto dell'orto e prese ad osservare i gruppetti di confratelli che di volta in volta si radunavano e si scioglievano nel cortile dell'ospitale. Era un brulicare costante sul quale galleggiava un brusio omogeneo di voci accordato su un tono piuttosto sommesso accompagnato da un gesticolare continuo ma, soprattutto, controllato. Tutt'intento a riguardare il panorama, pre Jacomo non s'era accorto di come, felpato, gli si fosse sistemato di fianco quell'uomo che aveva già incontrato in chiesa. Quando girando lo sguardo, incrociò quello del suo vicino, ebbe per un attimo un lieve sussulto. «Di nuovo» gli sfuggì di bocca. «Sì» garantì con un sorriso appena accennato l'uomo. Seguì un momento di imbarazzo a togliere dal quale e l'uno e l'altro sembrava avesse fatto apposta il Sanudo riemerso dalla visita alle stanze del'ospitale. Nel silenzio che era seguito alla sua comparsa nel cortile egli, il presule aveva scandito con voce forte e sonora di non intendere più di dover vedere ospitate le donne nella loro stanza in condizioni tali che il luogo di decenza, costituito da una tavola aperta al centro al di sotto della quale si apriva una piccola fossa senza scolo, avesse ad ammorbare l'aria in quella maniera che appena qualche momento prima aveva potuto constatare. D'ora in poi le donne avrebbero dovuto essere ricoverate in un locale ricavato al primo piano, dotato di idonea latrina, mentre quel vano a pian terreno - una volta bonificato con l'interramento del servizio avrebbe potuto benissimo prestarsi alle riunioni della confraternita. Pre Jacomo tutto osservava spiando il momento opportuno, ora che gli impegni della visita si andavano esaurendo, per poter avvicinare il vescovo. «Dice bene lui, che in paese ci viene ogni tanto e soprattutto non viene mai a controllare se quanto disposto venga mandato ad effetto, proclamava a mezza voce l'uomo. Bisogna stare qui dentro per capire come vadano le cose o meglio, come spesso non vadano affatto bene. Non é che non manchi la frequenza. I malati ed i pellegrini vanno e vengono. Anzi di questi ultimi tempi il flusso é andato aumentando per le stagioni che restituivano di anno in anno raccolti piuttosto miseri. Per di più - rinfrescando la tristissima memoria dello scampato pericolo della peste del 1576 - con una qualche insistenza i pellegrini provenienti dai paesi di Tramontana dal alcun tempo avevano ripreso a parlare di un nuovo contagio che sembrava andasse diffondendosi al di là delle valli del Natisone, in quella parte della Slovenia povera e montuosa, tagliata fuori dalle vie di comunicazione e dal giro dei commerci. Ma i cui abitanti ostinatamente scendevano a cercare lavoro e residenza in quella terra veneta che si distendeva, verso Udine, a valle di Cividale». Pre Jacomo non capiva gran che di quel discorrere abituato com'era alle chiacchiere di cortile di San Giovanni. Eppure provava una sorta di sottile interesse per quell'argomentare in bilico fra la memoria personale, la cronaca e la valutazione. Chi era quell'uomo? Si decise a chiederglielo. «Sono il priore di quest'ospitale, rispose, mi chiamo Domenico Schinella, vengo da Meduno ed ho sulle mie spalle la gestione dell'assistenza che questo istituto presta in nome e per volontà dei confratelli Battuti. Faccio quello che posso e, se devo dire la verità, sono anche stufo di questo mestiere che, con mia moglie, esercito per eredità di mio padre il quale a sua volta lo aveva ereditato dal mio nonno. I compiti sono sempre più gravosi e poco remunerati e per di più i tempi sono ormai difficili. Neanche in San Vito la vita é quella di un tempo, continuava ostinato il priore. Nulla dell'immagine esteriore della città é mutato, anzi qualche nuovo palazzetto ha abbellito il circuito compreso all'interno delle mura e difeso dal fossato. Eppure la sensazione diffusa é quella di un lento impoverimento degli abitanti della Terra e degli adiacenti borghi. Non a caso si va vociferando di un aumento di quanti al locale banco feneratizio degli ebrei vadano recando non solo preziosi, ma anche oggetti di uso comune di cui si avevano a privare allo scopo di far fronte ad un lievitare delle spese a compensare le quali non riuscivano più a sopperire le entrate. Se non mi crede, venga un pochino con me - soggiungeva il priore, avviandosi verso una stanzetta adiacente al camerotto degli uomini, all'interno della quale si ritrovavano un certo numero di registri e di quinterni - e guardi un pochino qui». E così dicendo, traeva dallo scaffale un registro pergamenaceo di una certa consistenza, ricoperto da tavolette in legno rivestite di cuoio rosso, che prendeva a sfogliare. «Guardi, guardi. Lasciti su lasciti, fin dal Trecento in poi, a favore degli ospiti dell'ospitale senza chiedere nulla o ben poco in cambio della remissione dei peccati. Guardi - e con il dito andava sottolineando la riga vergata sotto il mese di settembre - guardi qua come questo buon Domenico di Sedegliano, venuto ad abitare in San Vito, abbia lasciato quaranta pecore accontentandosi della celebrazione di una sola messa all'anno a refrigerio dell'anima sua. Oggi non é più così. Giusto per citare un caso recente, Filomena Amalteo con suo testamento del 1612 aveva obbligato i camerari a celebrare quattro messe all'anno a fronte dell'esborso di 25 ducati, ma tutti un pochino si cercavano di comperare una fetta di paradiso sborsando un certo numero di ducati quasi si trattasse di un banco feneratizio gestito da quei furbacchioni di ebrei accasatisi in via Codamala». Pre Jacomo lo ascoltava zitto zitto. Il priore si rigirava tra le mani il libro di pergamena. Sembrava come preso davvero da un'infinita stanchezza, mentre riguardava di fronte a sé in un imprecisato punto dell'orizzonte. «Vede, vostra riverenza - disse, dopo una lunga pausa, fissando gli occhi negli occhi di pre Jacomo - qui succede che alle riunioni della fraterna oramai vengano in pochi, annoiati e soprattutto anziani. Dell'ospitale si interessano poco per non dire nulla. A loro basta che io faccia quello che posso e che per i casi estremi si chiami il chirurgo o il fisico della Comunità di San Vito Lodovico Franceschinis ed il cappellano della fraterna. Nelle stanze degli ammalati non ci vanno più. Se vengono in frotta, é quando si esce in processione, dietro la croce grande ed il gonfalone, tutti ravvolti nelle loro cappe bianche, ma senza più calare sul volto il cappuccio. Ci mancherebbe altro! Devono farsi ben vedere e ben notare, tant'é che durante il percorso si inchinano e salutano a destra ed a sinistra. E poi quando si imbandisce il pranzo per il rinnovo delle cariche. A quei signori - continuava implacabile Domenico - piace impiegare i denari delle rendite per le funzioni, magari di pompa ancor più solenne di quelle della chiesa grande, per comperare arredi che facciano fare bella figura alla fraterna, per moltiplicare le rendite a dimostrazione della potenza del sodalizio». Tirò per un momento il fiato, si rassettò il gabbano e tutto rosso riprese: «Volete un altro esempio della decadenza di questa fraterna? Guardate che cosa accade al momen- to delle sepolture di quanti passano a miglior vita qui nell'ospitale. Mio padre in proposito mi raccontava di come - e si era all'inizio del Cinquecento - ancora si riusciva a trovare qualche confratello disposto a venire a portare il cataletto fino alla chiesa e da questa alla fossa. Adesso tutto si é maledettamente complicato. Non solo nessun confratello si presenta al suono della campana, ma ci si sono messi di mezzo anche i tre campanari che, dopo aver scavata la fossa, non si muovono, con le loro pale, dal campanile aspettando che qualcun altro abbia a trasportare la salma all'estrema dimora. È già di fatto successo che il cadavere di qualche povero diavolo privo od abbandonato dai parenti, deceduto in ospitale, sia rimasto per una giornata disteso sul pavimento della chiesa di Santa Maria, coperto appena da un lenzuolo, nell'attesa che le intermediazioni fra i camerari della fraterna e i giurati del Consiglio - da cui dipendono quei renitenti e fiscali campanari - siano riuscite a sbloccare la situazione. No, davvero, le cose non andavano bene». Scuoteva il capo messer Schinella proprio quando, di nuovo, le campane riprendevano a suonare per annunciare il mezzogiorno. Tra una chiacchiera e l'altra il tempo era trascorso. I confratelli erano sciamati verso l'uscita e solo qualche gruppetto sostava ancora intorno alla vera del pozzo. Il priore appoggiò le mani sulle ginocchia, inarcò la schiena, puntò i piedi e lentamente si restituì in posizione eretta. Pre Jacomo, poi che più giovane, in un attimo gli fu a fianco. Si sfilò la cotta che ripiegò sul braccio destro, si lisciò la barbetta e guardò, con occhio interrogativo, il priore. Il quale alzò gli occhi al cielo, si lisciò la veste sul petto, tossicchiò e disse: «Così va il mondo, mia reverenza». «Proprio così va il mondo», rispose pre Jacomo a corto di fantasia spostando la cotta dal braccio destro a quello sinistro. Attraverso l'androne, superato il portale, uscirono entrambi sulla strada. Alcuni confratelli, gli ultimi ancora indugianti sul posto, li informarono che sua eccellenza illustrissima e reverendissima si era già avviata, con i vicari ed i preti, a palazzo Altan per il pranzo. Anche il priore prese congedo. «Devo dare da mangiare ai miei quattro ricoverati» farfugliò accennando ad una goffa riverenza. Pre Jacomo, rimasto solo in mezzo alla strada, sentì come un nodo chiudergli la gola. Certo: si era fatto prete per levarsi dai campi di San Giovanni; non aveva mai pensato ad un impegno particolare che andasse al di là della celebrazione delle funzioni religiose e della gestione di un ruolo particolare all'interno di una eventuale comunità parrocchiale. E pur tuttavia avvertiva, nonostante il primaverile tepore della giornata, come un senso di freddo e di smarrimento. Sensazione che il silenzio ormai generale andavano ingigantendo. Ma fu un attimo. Con un leggero brivido, si riscosse. Si guardò attorno, mosse qualche passo lentamente verso la piazza, poi accelerò e si diresse verso il cavallo che paziente lo attendeva. Distese la cotta sull'arcione, raccolse la sacca del fieno oramai vuota, si inerpicò sulla sella e dette una pacca leggera sul collo dell'animale. «Amico mio, così va il mondo! E non lo cambieremo né tu né io. Forza, torniamo a casa. Per il beneficio, torneremo fra qualche giorno a vedere che cosa di nuovo mi suggerirà pre Candotto. Per oggi, basta così». Fabio Metz