L`analisi su base antropologica di questa festa tradizionale
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L`analisi su base antropologica di questa festa tradizionale
LA SEGAVECCHIA NON E’ LA “VECCHIA SEGATA” L’analisi su base antropologica di questa festa tradizionale ci permette di correggerne l’interpretazione corrente. La Segavecchia è una delle tante feste tradizionali romagnole di cui si è perso, nel corso dei secoli, il significato recondito dell’origine. La cultura popolare attuale rimanda l’origine della festa che si tiene a Forlimpopoli, in cui il fantoccio viene segato in due, al ricordo di una vecchia che in tempo di Quaresima contravvenne ai precetti religiosi mangiando ingordamente una salsiccia; nel caso della festa analoga che si tiene invece a Conselice, ad una fattucchiera colta nell’atto di eseguire un maleficio. Già lo storico di Forlimpopoli Alberto Aramini, riferendosi agli studi di Frazer, identificò correttamente l’origine della tradizione negli antichi riti di fertilità, ed in particolare colse un parallelo con il mito di Demetra, dea dell’agricoltura e del grano, e di sua figlia Persefone: Ade, signore degli Inferi, si innamorò di Persefone e la rapì; da quel momento Demetra smise di proteggere la terra, e le coltivazioni morirono. Grazie all’intercessione di Zeus si giunse ad un compromesso: Persefone sarebbe vissuta negli Inferi metà dell’anno ma ad ogni primavera sarebbe tornata dalla madre, sulla terra dei vivi. Nella figura di Persefone che passa tra gli Inferi e la superficie del mondo gli antichi greci vedevano il succedersi dei cicli stagionali. L’origine del mito della Segavecchia appare quindi quello della celebrazione del superamento dell’inverno e del ritorno della buona stagione: la vecchia immolata (in questo caso particolare “segata”) generava nuovi frutti grazie al suo sacrificio, rappresentati, nelle feste di oggi, dai dolciumi e dalla frutta secca contenuti all’interno del pupazzo. L’ipotesi di Aramini è certamente corretta, ma vale la pena di analizzare più approfonditamente l’origine di questa festa tradizionale perché in questo caso si è perso anche il corretto significato del nome stesso della festa; nell’accezione comune è abitudine ritenere che il nome derivi dal fatto di “segare la vecchia” come suggerito da quello che è l’azione caratteristica della sagra1. Vedremo come il nome abbia probabilmente una diversa 1 Ricordiamo come riti analoghi, sia nel significato che nell’azione fisica di portare alla luce dolcetti rompendo vasellame che li contengono, sia presente in altre popolazioni. Sono note molte feste analoghe definite generalmente come “festa della pentolaccia” in cui vengono distrutti recipienti dai quali escono dolciumi. Molto nota anche la festa messicana dei defunti, con caratteristiche pressoché analoghe. I origine, sempre analizzando, come ha fatto Aramini, i rituali religiosi delle popolazioni antiche. E’ proprio lo stesso Frazer a ricordarci2 come nell’antichità era abitudine serbare le ultime spighe del campo per realizzare un fantoccio chiamato, quasi universalmente, “la madre del grano” con il quale si compivano alcuni rituali che differivano solo per minimi particolari. Il simbolo della festa in un biglietto di invito del 1600. L’immagine è tratta da “La sega vecchia nelle collezioni Piancastelli” di Brunella Garavini. In Stiria, ad esempio, si raccoglievano gli ultimi steli del campo per comporre un fantoccio (la Madre, o la “vecchia”3) ed una corona. Il fantoccio così realizzato veniva bruciato mentre la corona era conservata dal capo del villaggio fino all’anno successivo, periodo in cui i chicchi delle spighe che la componevano venivano seminati, con l’evidente significato di “suggerire” una continuità al ciclo vitale della vegetazione. In Galizia esisteva un rito molto simile, salvo che la corona di spighe era consegnata ad una fanciulla, ed i chicchi della stessa venivano mischiati a quelli destinati alla semina dell’anno successivo. In Francia il fantoccio veniva vestito con una sciarpa bianca o blu ed adornato con fronde d’albero e fiori; al termine dei festeggiamenti seguenti la fine della mietitura il fantoccio veniva percosso e smembrato. In Germania il fantoccio non veniva distrutto ma, sebbene anche in questo vaso fosse soggetto a maltrattamenti, era conservato fino all’anno successivo; erano i chicchi delle spighe che lo componevano ad essere utilizzati per la nuova semina. Nelle campagne di Belfast il fantoccio era chiamato granny (nonnina) ed i mietitori lanciavano le falci alle ultime spighe rimaste nel campo (quelle che poi sarebbero servite per realizzare il fantoccio) cercando, con questa azione, di tagliare gli steli. Il nome utilizzato invece nelle Highland scozzesi era cailleack (vecchia moglie) ed in questa regione non applicare questo rito avrebbe portato al gort a bhaile (la carestia del podere). Ancora in Scozia, ma nell’isola di Islay, il simulacro della Madre del grano veniva conservato fino all’anno successivo. Nel Galles, fino a pochi decenni fa, nonostante ormai le macchine avessero sostituito le falci, gli uomini utilizzavano vecchi attrezzi per cercare di recidere con il lancio degli stessi lo stelo di una treccia realizzata con le ultime spighe del campo, analogamente a quanto abbiamo visto nel caso di Belfast; questa usanza si riscontrava anche in Bretagna. In altre zone della Scozia all’interno del fantoccio veniva posto un fantoccio più piccolo (kirn-baby) anch’esso realizzato con le ultime spighe. 2 FRAZER, J. : Il Ramo d’oro, Newton Compton, 2009, pag. 454 e seguenti. “Vecchia” evidentemente nell’accezione di “antica” Madre terra. In tutte le antiche religioni la “madre” terra è considerata antichissima, e quindi “vecchia” è un appellativo comune a molte culture. 3 II Analoghi riti si ricordano in Polonia e in Lituania, dove il simulacro aveva none di baba (vecchia). A testimonianza della diffusione di questa tradizione va ricordato inoltre che in tutti i luoghi menzionati i mietitori cercano di evitare di essere proprio loro a tagliare le ultime spighe; in questo caso il “vincitore” veniva sbeffeggiato e sottoposto a pesanti scherzi. Se poi usciamo dall’area europea troviamo riti analoghi tra gli indiani d’America, in Birmania, tra gli abitanti delle Celebes, salvo che in questi ultimi casi si utilizzava riso anziché grano, evidente adattamento alla realtà agricola locale. Potremmo continuare con altri esempi, ma riteniamo che quanto riportato sia sufficiente a dimostrare come il rituale avesse il significato universale di imprigionare l’anima del grano in qualcosa (il fantoccio) che veniva onorato prima di essere distrutto, secondo la stessa logica con la quale (come analizza perfettamente Frazer) gli antichi re latini venivano uccisi prima che morissero di morte naturale; infatti nel caso di morte naturale, la loro vecchiezza era messa in relazione con il loro spirito, che si riteneva perciò debole come debole era il vecchio re all’atto della morte. Se tale spirito finiva nel mondo dei morti assieme al corpo del defunto si sarebbe trasmesso al nuovo re: l’uccisione di un re ancora giovane garantiva la trasmissione al successore di uno spirito forte e vitale. Secondo i riti della nostra festa, quindi, l’anima del grano nel fantoccio rimaneva quella che esso possedeva nel momento in cui era stato colto, ossia quello del massimo rigoglio, e non quello dei chicchi pestati, frantumati, sfarinati e cotti: piantati nell’anno successivo cedevano la loro vitalità al raccolto successivo, sia che venissero accantonati o cedessero la loro forza vitale con un sacrificio. Era un modo di dare continuità al raccolto, di perpetuare nel tempo una caratteristica benefica (“la Vecchia non muore mai” era un detto degli Indiani d’America). Che si tratti di un rito analogo a quello dell’uccisione dei re illustrata da Frazer lo dimostra anche la riluttanza dei mietitori ad essere quelli che recidevano gli ultimi steli: ciò si spiega con la punizione che avrebbe potuto colpire l’uccisore che alzavano la mano sul re; pur nella necessità di ucciderlo per assicurare la continuità di uno spirito “forte ed in salute” si trattava comunque di offendere una figura simile ad una divinità, e quindi l’atto era coperto da innumerevoli tabù, che con il passare del tempo si trasformarono nell’atto di ricevere insulti e dileggio. Secondo questa logica i dolciumi contenuti nella Vecchia sono quindi i chicchi che “promettono” un raccolto abbondante anche nell’anno successivo; la presenza di un fantoccio più piccolo contenuto all’interno di quello più grande (il caso del kirn-baby delle tradizioni scozzesi) lega poi il concetto di fertilità vegetale a quello della fertilità umana, fornendo così al rito una valenza ancora più grande; inoltre questo fatto conferma ancora di più, nella simbologia madre-figlia, il rapporto con il mito delle due divinità, appunto madre e figlia Demetra e Persefone, come spiegato da Aramini. III Forse anche la tradizione di lanciare un pupazzo legato ad un palloncino (tipico della sagra di Conselice) in modo di procurare fortuna a chi lo ritrova, rimanda ancora una volta, alla tradizione di Persefone, e ricorda particolarmente la tradizione scozzese del kirn-baby. Così come la leggenda secondo la quale era invece una fanciulla ad essere destinata al patibolo, la quale, per non essere linciata dalla folla prima dell’esecuzione, si travestiva da vecchia (altra versione che viene data all’origine di questa festa e che cambiò il ruolo tra una donna giovane ed una vecchia) ci rimanda ancora alla commistione vecchia-giovane (o madre-figlia) e quindi ancora alle due figure Demetra e Persefone. A questo punto viene spontaneo ritenere che il nome di questa festa tradizionale debba intendersi non tanto come il ricordo di una “vecchia segata” quanto quello di un fantoccio (la Madre, o la Vecchia) realizzata con le ultime spighe mietute. E’ appena il caso di ricordare che nel dialetto romagnolo l’atto di mietere il grano si dice, appunto, sghè (segare). La perdita di memoria del’esatto significato del rituale, ma il mantenimento del ricordo di un termine (sghè) legato al rituale stesso ha probabilmente condotto a ritenere che dovesse riferirsi al modo in cui la vecchia doveva essere uccisa. Inoltre la religione cristiana ha contribuito alla cosa, sostituendo un concetto pagano (il sacrificio) ad una colpa più conforme ai dettami religiosi (l’aver mancato di rispettare il digiuno durante la Quaresima). D’altro canto spesso in antropologia un concetto si aggiunge ad un altro, dando luogo a significati entrambi validi. Non è da escludere, nel concetto del rito, un significato morale. Secondo il folklorista svedese Carl von Sydow, nella tradizione di quel paese nell’ultimo covone del grano si cela un essere mostruoso (lupo, strega, orco); egli vede questa tradizione come un’invenzione degli adulti nata per impedire ai bambini di correre e giocare nei campi e rovinare i raccolti (mito con finalità “propedeutica”, simile a quelle dell’anguana romagnola o della “donna della febbre” sarda)4. Sappiamo che tutte le volte che un sacrificio prevedeva la morte della vittima (uomo, animale o, come in questo caso, un simulacro) i meccanismi antropologici pretendevano la sua sparizione dalla vista degli offerenti, affinché si potesse pensare che il corpo era passato ad un mondo superiore assieme allo spirito. Per questo motivo era previsto che il sacrificato venisse bruciato, o affogato e lasciato alla corrente del fiume, sotterrato, o dilaniato fino a che ogni singolo brandello non avesse più niente in comune con il corpo originario. Non era sufficiente la semplice uccisione, ma il corpo doveva sparire. Nel nostro caso lo smembramento ha finito per nascondere la sua crudeltà nel desiderio di aprire il fantoccio per far apparire i dolciumi. Qualcosa va detto a riguardo della data in cui si tiene la festa. Tradizionalmente la Quaresima mal si adatterebbe ad un rito che, per quanto detto, doveva avvenire immediatamente dopo la mietitura. La differenza si spiega con l’azione del 4 VON SYDOW, C.: Geografy and Folk-tale Oicotypes, su Bealoideas - Antro,,,,, Review, 1934. IV Cristianesimo che, oltre a modificarne le motivazioni, per meglio allontanare il ricordo di un rito pagano, la spostò ad una data relativa ad una delle proprie celebrazioni. In tal modo un rito per favorire la fertilità fu trasformato in un esempio morale che rammentava come poteva succedere a chi infrangeva precetti religiosi. Alla luce di questi fatti può interpretarsi uno dei modi di dire più controversi tra quelli romagnoli, almeno per quello che attiene alla spiegazione dello stesso, ossia il motto: e’ bala la vêcia. Il detto è utilizzato per indicare, come tutti sanno, quel particolare fenomeno di tremolio dell’aria che si verifica nelle calde giornate estive, in prossimità del suolo. Per questo tutti gli oggetti che si trovano dietro questo strato di aria appaiono tremolanti, vibranti: in aperta campagna appaiono tremolare gli alberi all’orizzonte, il suolo sembra muoversi come la superficie di un lago (non per niente è il fenomeno che sta alla base della creazione dei miraggi che, nei deserti, fanno sembrare presenti specchi d’acqua dove in realtà non ve ne sono), a volte sembrano muoversi anche le nubi più vicine alla linea d’orizzonte. Le spiegazioni di questo modo di dire sono diverse, ma più o meno tutte fanno riferimento ad una persona (generalmente definita “la vecchia”) che a causa del ricordato effetto di tremolio dell’aria appare come se ballasse. Altre spiegazioni si riferiscono al “ballare” più come un barcollamento piuttosto che ad un tremolio, indotto dalla stanchezza e dallo sfinimento a causa della torrida temperatura di quel momento dell’anno. La prima spiegazione è da ritenersi forse più corretta, anche se è probabilmente (e per quanto si è detto sull’interpretazione del termine “vecchia”) il soggetto che balla non deve essere ritenuto una persona in carne ed ossa, ossia non è una “vecchia”, ma “la vecchia” (il covone). Il covone che sembra tremolare diventa allora, in questo modo di dire, la “vecchia” che balla. Interessante notare come il termine granny (nonnina) già ricordato sia molto simile al termine gregna, così riportato nell’Enciclopedia Treccani: Gregna. Ramicelli secchi, paglie, fascio di biade secche, unione di covoni. Dal latino CREMIA, che attiene al verbo CREMARE (bruciare). Vocabolo di probabile origine napoletana; a sua volta questo termine è molto simile al dialettale romagnolo fegna per indicare il pagliaio, che troviamo su “La nascita di Roma”5 di F. Talanti. L’intera frase scritta da Talanti recita: “… i l’acatë lughè dri d’na fegna …” (lo trovarono nascosto dietro ad un pagliaio). La somiglianza fonetica dei termini ci pare non potere essere casuale, il che ci fa apparire logico il percorso fegna > gregna > granny. A riprova di quanto questi termini siano legati alle operazioni della mietitura possiamo ricordare quanto Addis Sante Meleti ci fa notare su fegna6, ossia che sia nel Dizionario Latino Georges che nell’Oxford Latin Dictionary è registrato l’aggettivo latino feneus (o faeneus) il cui significato è “di fieno”. In latino il termine “mucchio di fieno” era quindi meta fenea, rimasto nel nostro dialettale come meda (mucchio tronco-conico di varie cose) compresa la “meta del circo”, il pilastro attorno al quale i cavalli invertivano il percorso. 5 6 TALANTI, F.: A dila s-ceta. Sonetti in dialetto romagnolo, Ediz. Del Girasole, Ravenna 1969, pag. 150. Addis Sante Meleti, comunicazione personale. V In Lombardia colui che “gregna” ha voglia di ridere e prendere in giro; a Bergamo si dice grignà per “deridere”; sempre in quelle zone esiste la metafonesi: me go òia de grignà (io ho voglia di ridere) senza dimenticare l’italiano “digrignare i denti”. E questo probabilmente chiude il cerchio. Non ci è difficile pensare che al rito di distruzione di un fantoccio (la vecchia-covone) fossero connessi atteggiamenti di allegria e festa, riti che terminavano in feste in cui l’aspetto ludico poteva sfociare in modi più vicini ad atteggiamenti dionisiaci ed orgiastici, nei quali sostanze inebrianti rivestivano una parte importante. In questa particolare situazione veder “ballare” gli oggetti non doveva essere una cosa rara. Il concetto degli spiriti come “elemento aereo” non è raro nelle tradizioni romagnole: si pensi al mazapégul inteso anche come un alito di vento (il fulet). E’ interessante che anche uno dei tanti spiriti della vegetazione presenti nella cultura anglosassone, John Barleycorn (John grano d’orzo) si sia via via trasformato in una figura immaginaria che tutela la trasformazione dell’orzo in birra e wisky. La storia del sacrificio del covone rappresentato da John Barleycorn si è perpetuata fino a noi in un canto popolare inglese del cinquecento, ripresa ai nostri giorni da un gruppo musicale moderno7. Ricordiamo che modo di dire non è solo romagnolo: si dice infatti “el bala la ecia” anche in Lombardia, e riteniamo che una ricerca estensiva in tutta Italia porterebbe a scoprire altre frasi molto simili dimostrando, ancora una volta, come il passato della nostra regione abbia salde connessioni storiche e antropologiche con tante altre parti del mondo. 7 Si tratta del brano John Barleycorm must die, del complesso rock inglese Traffic, brano del 1970. VI