n. 23 – 1 dicembre - Pro Civitate Christiana

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n. 23 – 1 dicembre - Pro Civitate Christiana
Rivista
della
Pro Civitate Christiana
Assisi
70
ANNO
periodico quindicinale
Poste Italiane S.p.A. Sped. Abb. Post.
dl 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46)
art. 1, comma 1, DCB Perugia
€ 2.70
23
1 dicembre 2011
quanto vale
un’ora
di lavoro?
l’Iran
e la bomba
atomica
ritorno
alla politica
rivoluzione
demografica
un’opportunità
d’argento?
politica italiana
il governo del non fare
Lampedusa
senza parole
Religioni ad Assisi
l’incontro
le attese, gli snodi
inserto
la scuola nell’era
della tecnologia
digitale
integrazione
il diavolo
e la sua coda
TAXE PERCUE – BUREAU DE POSTE – 06081 ASSISI – ITALIE
ISSN 0391 – 108X
vita di
Rocca?
la
sono i suoi abbonati!
anche nel 2012
Rocca
per vivere conta su di te...
ricordati di rinnovare
il tuo abbonamento
Rocca
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sommario
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Ci scrivono i lettori
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Anna Portoghese
Primi Piani Attualità
Giovanni Sabato
Notizie dalla scienza
46
Vignette
Il meglio della quindicina
50
Raniero La Valle
Resistenza e pace
Ritorno alla politica
52
Maurizio Salvi
Medio Oriente
L’Iran e la bomba atomica
55
Romolo Menighetti
Oltre la cronaca
Il liberista
56
Ritanna Armeni
Politica italiana
Il governo del «non fare»
57
Roberta Carlini
Economia
Quanto vale un’ora di lavoro?
58
Tonio Dell’Olio
Camineiro
Yasunì
58
Fiorella Farinelli
Integrazione
Il diavolo e la sua coda
59
Stefano Cazzato
Lezione spezzata
Il re porta la parrucca
59
Oliviero Motta
Terre di vetro
Cecità
60
Pietro Greco
La scuola nell’era della tecnologia digitale
Le nuove grammatiche della fantasia
Inserto
Testo di Luca Zanchi - Foto di Daria De Benedetti
Lampedusa senza parole
Cristiana Pulcinelli
Rivoluzione demografica
Un’opportunità d’argento?
Claudio Cagnazzo
Assalto ai grandi magazzini
Compro dunque esisto
60
61
62
63
Giuseppe Moscati
Nuova antologia
Jean Marcel Adolphe Bruller (Vercors)
E la grande letteratura passa anche per il silenzio
Marco Politi
Religioni ad Assisi
L’incontro, le attese, gli snodi
Carlo Molari
Teologia
Una nuova preziosa sintesi storica su Gesù
Lilia Sebastiani
Il concreto dello spirito
L’urgenza e la pazienza
Lidia Maggi
Giobbe
La morte desiderata
Filippo Gentiloni
Vizi & virtù
Paolo Vecchi
Cinema
Faust
Roberto Carusi
Teatro
Il cinema e la scena
Renzo Salvi
Rf& Tv
Italialand
Mariano Apa
Arte
Severini
Alberto Pellegrino
Fotografia
Due saggi
Alberto Pellegrino
Satira
L’Italia s’è desta
Giovanni Ruggeri
Siti Internet
Netnografie
Libri
Carlo Timio
Rocca Schede
Paesi in primo piano
Giamaica
Luigina Morsolin
Fraternità
Togo: due pozzi per Ountivou
Numero 23 – 1 dicembre 2011
70
ANNO
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ROCCA 1 DICEMBRE 2011
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Questo numero
è stato chiuso il 19/11/2011 e spedito da
Città di Castello il 22/11/2011
4
ci scrivonoi lettori
quindicinale
della Pro Civitate Christiana
Qualcosa che
non va
Gli interventi
qui pubblicati
esprimono
libere opinioni
ed esperienze dei lettori.
La redazione
non si rende garante
della verità
dei fatti riportati
né fa sue
le tesi sostenute
Vi siete accorti che fino a
poco tempo fa non si parlava quasi mai di miliardi di
euro? Era una parola tabù
derivante anche dal fatto
che un miliardo di euro
equivale a millenovecentotrentasei miliardi duecentosettanta milioni di lire. Una
parola quasi impronunciabile e che crea imbarazzo,
se non timore. Ma ora, se ne
parla come fossero noccioline. D’altra parte per somatizzare le cose basta che diventino pane di tutti i giorni e, avendole vicino, si accettano fino a diventarne indifferenti. In questo caso,
però, ci siamo in mezzo fino
al collo, o meglio ci sono
dentro i nostri figli. Naturalmente avrete capito che sto
parlando di debito pubblico. Le ricette che ci vengono imposte per uscire dalla
grande crisi sono tutte
uguali, ma sono anche giuste? Certo molti economisti
dicono: vi è andato bene
fino ad ora di vivere al di
sopra delle vostre possibilità e creare debito, ora è il
momento di pagarlo! Noi, i
più, abbiamo sempre lavorato e faticato e non abbiamo creato debito, ma ricchezza. Sono altri che hanno creato il debito e hanno
vissuto senza lavorare o arricchendosi alle spalle dei
più: evasori, corrotti, mafie,
falsi invalidi, ecc., ecc... Il discorso in generale è abbastanza complesso, ma cerchiamo di renderlo più facile, almeno per sommi
capi, e vediamo se quello
che hanno domandato e
stanno domandando alla
Grecia, e presto domanderanno all’Italia, è giusto o in
parte sbagliato. Creiamo la
storia di un tizio che chiameremo sig. Rossi.
Ebbene il sig. Rossi viene
chiamato dalla sua banca:
«Caro sig. Rossi, la sua posizione debitoria è molto
alta e non crediamo lei possa far fronte alle rate per
sanare il debito che ha con
il nostro istituto».
«Lo so che sono molto
esposto, ma in questi ultimi tempi cerco di rispar-
ricchire i ricchi! Che ci sia
qualcosa che non torna?
Roberto Tonon
San Donà di Piave (Ve)
Vorrei
ma non posso
Cara Rocca, è bello scriverti per nome, considerandoti come un insieme compatto, identificabile, ma sapendo che contieni spunti e anime diverse, e rispettose della diversità.
Scrivo un bel po’ in ritardo,
dopo essermi resa conto che
avrei dovuto disdire l’abbonamento per tempo, e non aspettare i solleciti: non leggo le comunicazioni con la dovuta attenzione, e me ne scuso! So
che è in arrivo un numero in
contrassegno, ma vi segnalo,
non senza dispiacere, che non
intendiamo accettarlo. O, meglio: non fa parte delle spese
che ora come ora possiamo
permetterci.
Il nostro abbonamento è
scaduto alla fine di agosto,
e abbiamo dovuto, speriamo solo per quest’anno, sospendere anche questo abbonamento, che era rimasto
l’unico di cui ci permettevamo il lusso.
Negli anni scorsi avevamo
denaro per svariati abbonamenti: nessun quotidiano,
ma periodici come Rocca,
Valori, Altraeconomia, Nigrizia, Altroconsumo, e avevamo anche tempo per leggere
e capire, da ognuna di queste riviste, gli argomenti più
scottanti, quelli personalmente più avvincenti, quelli
su posti e temi lontani.
Il tempo che stiamo vivendo ci pone nella difficoltà di
affrontare persino le spese
necessarie per la vita quotidiana (io pensionata, mio
marito tecnico autonomo di
software, una figlia sposata, e la seconda figlia quasi
laureata); la sobrietà con cui
cerchiamo di vivere ci ha
sempre permesso di concentrare le spese su quello
che riteniamo importante
per la vita, ma ora non basta più. La legalità che abbiamo sempre rispettato,
pagando le tasse al centesimo, ora ci si ritorce contro,
chiedendo anche quello che
non guadagniamo. E le prospettive sono affidate alla
speranza che confidiamo risieda nelle mani di Dio.
Non vorrei dare l’impressione di un lamento da scaricare sul mondo: sono convinta
che nel nostro modo di vivere occidentale, molte cose
«ovvie» sono in realtà un lusso, e non fa male a nessuno
di noi azzerare un po’ le nostre tabelle di valore, remunerando secondo giustizia il
prodotto della terra e il lavoro, senza sprechi ed eccessi.
Vorrei solo salutare Rocca –
spero proprio provvisoriamente – testimoniando una
piccola parte della realtà italiana che così bene il giornale si sforza di descrivere
ed animare: non la realtà
assoluta, beninteso, ma
semplicemente quello che
va accadendo nel tessuto
fine delle case italiane, quelle che finora hanno visto le
difficoltà solo in Tv. Come
noi, appunto.
Grazie per l’attenzione e per
la fedeltà, sperando di rileggervi presto.
Lettera firmata
Minzolini parla
alla Nazione
Domenica sera, per la prima
volta (sic), ho avuto la ventura di ascoltare uno dei famosi editoriali di Minzolini.
Mentre la sua faccia progressivamente invadeva lo schermo, mi sono detto: il momento è grave, questo signore è
pur sempre il direttore della
testata giornalistica della prima rete pubblica e forse avrà
qualcosa di veramente importante e urgente da proclamare. A parte alcune banalità –
gli auguri a Monti, un invito
a tutte le forze politiche a fare
la loro parte e così via discorrendo – il succo dell’intervento è stato una ramanzina ai
cittadini che inveivano contro il premier dimissionario
eroicamente immolatosi per
il bene della Patria. Non solidarizzo con chi oggi si accalca fuori i palazzi del potere...
ma posso capire. E sono d’accordo con Minzolini quando
– improvvidamente – afferma
che Berlusconi non può esse-
re lui il solo capro espiatorio
dell’italica tragedia: infatti la
lista dei saccheggiatori è lunga assai e ancor più vasta è la
platea dei beoti plaudenti
spettatori dello sconcio spettacolo offerto da quell’eterna
corte di nani e ballerine. Ma
perchè Minzolini appunta i
suoi strali contro quegli anonimi vocianti cittadini? Forse lo fa per rassicurare il disorientato popolo di destra?
Di fronte alle urla e ai fischi
(come per Craxi prima della
fuga) e col Paese che frana,
Minzolini sta lì a dire: non
dubitiate, la vostra fede non
vacilli!
O, più prosaicamente, il suo
è solo l’ennesimo attestato di
riconoscenza nei confronti
del Generoso. Penso che perfino gli elettori di destra si
meriterebbero qualcosa di
meglio. E non mi riferisco
solo a Minzolini.
Gaspare Bisceglia
Napoli
Ed è già domani!
Aprendo le finestre, stamane, ho visto un cielo «sempre più blu» ed ho sentito
sulla mia pelle un sole più
caldo che mai.
Anche la nebbia depositata
nel fondo orizzonte della
piana del Fucino era, pur
essa, meno nebulosa...!
Sto per andare in parrocchia
e, di sicuro, in questa prima
«Domenica di Risorgimento», il suono delle campane
sarà più melodioso e sinfonico. In macchina acolterò
l'Alleluja di Hendel che porto sempre con me ma che in
questi ultimi tempi è stato
censurato dal lutto.
Un lutto, comunque, non
del tutto andato.
Passato il terremoto restano i terremotati.
Ma dalle macerie del Cainano (da Caino più che da Caimano...) la nostra indomita speranza farà sorgere a
nuova democrazia questo
Paese mai nato.
Oggi 13 novembre 2011... ed
è già domani.
Buona Domenica a tutte e a
tutti.
ROCCA 1 DICEMBRE 2011
miare in tutti i modi. Ormai
vado a mangiare la pizza
solo una volta al mese, e le
ferie le ho ridotte ad una
sola settimana all’anno. E
poi, lei deve ricordare, che
il debito non è solo mio, ma
lo ho ereditato da mio padre e dal nonno».
«Noi capiamo tutto, mai lei
deve fare ulteriori sacrifici
per abbassare il suo debito
nei nostri confronti. Abbiamo anche visto che il suo
stipendio non aumenta. In
questi ultimi anni aumentato solo dello zero/virgola,
troppo poco per pensare di
poter rientrare dal debito.
Deve anche capire che, essendo lei a rischio, la nostra
banca ha deciso di tutelarsi
e aumentare il tasso
dall’1,50% al 6,50%».
«Ma se credete che non riesca a pagare le rate, come
farò a pagarle se diventeranno molto più onerose?».
«Sicuramente abbassando
il suo standard di vita e cercando di risparmiare su tutto. Cerchi di non ammalarsi e non faccia studiare i
suoi figli, ma li mandi a lavorare».
«A parte che i miei figli sono
ancora giovani, ma dove lo
trovano un lavoro se io devo
lavorare anni e anni in più
prima di andare in pensione? E poi lo sa che lo stato
mi ha tassato ancora di più
e si parla di un taglio agli
stipendi?».
«Ci dispiace, ma deve fare
tutto il possibile se non vuole fallire e allora sì che sarebbero guai!».
Tassativamente il sig. Rossi
deve pagare il suo debito,
ma anche aumentare il suo
stipendio, ma anche consumare per far crescere l’economia, ma anche essere
sempre sorridente per rasserenare gli investitori, ma
anche...
Naturalmente il sig. Rossi
diventerà sempre più povero e forse non riuscirà a pagare il suo debito e sarà sempre di più un peso per la società. Mentre dall’alto le banche lucrano, le multinazionali che gestiscono i fondi
pensione lucrano, i grossi
capitalisti lucrano, la borsa
e i titoli di stato e gli stessi
stati vengono gestiti da loro.
Noi ci impoveriamo per ar-
Aldo Antonelli
Antrosano (Aq)
5
ROCCA 1 DICEMBRE 2011
a cura di
Anna Portoghese
primipiani
ATTUALITÀ
6
Rio de Janeiro
nel principale
bunker
dei narcos
Grecia
indignazione
e
sgomento
Da oltre 30 anni la Rocinha
era la favela-bunker in mano
dei narcotrafficanti. Ora non
più. La bidonville più emblematica di Rio de Janeiro,
dove circa 120 mila abitanti
vivono in baracche di mattoni e lamiere, e che sovrasta
la zona più elegante della città, è stata occupata il 13 novembre dalle forze di sicurezza dello Stato, senza sparare
e senza ricevere nessuna pallottola. Gli abitanti si sono
rinchiusi in casa nello sconcerto e con interrogativi per
ora senza risposta, mentre
serpeggia il dubbio che, come
ha dichiarato con pessimismo alla stampa un giovane
di Rio, «La corruzione non si
arresterà e il pericolo di droga proseguirà».
Intanto il governo ha voluto
dare un segnale di vicinanza
ai cittadini più indifesi dal
crimine, oltre a voler ripulire l’immagine della capitale
di fronte agli stranieri. Si è
trattato di uno sforzo spettacolare: oltre 3000 paracadutisti e altri militari di corpi
scelti, affiancati da elicotteri
e blindati hanno preso il controllo della zona con intelligente gradualità, e sono riusciti a catturare il 10 novembre «Nem», pseudonimo di
Antonio Francisco Bonfim
Lopez, uno dei capi narcotrafficanti più ricercati mentre tentava di sfuggire all’accerchiamento nascondendosi nel cofano di un’automobile. In Rocinha era il capo
dei trafficanti di cocaina,
marijuana, droghe sintetiche.
Avrebbe avuto da 120 a 200
uomini armati a sua disposizione e guadagnato un milione di dollari al mese, la sua
cattura è stata per molti «uno
choc».
Uno choc di pace, come è stato chiamato, che libera dai criminali e restituisce la città ai
cittadini, e a questi, speranza
di futuro riscatto.
È vero che come tutte le grandi crisi, anche quella greca
non è scoppiata all’improvviso. Questa volta, sul fondo di
una violenza sociale endemica, dell’incuria e del clientelismo della classe politica, si
è innestata la crisi economica disastrosa, la bancarotta.
L’ineguaglianza, oggi motore
nel mondo di tutte le indignazioni, è diventata portatrice
di ribellione, soprattutto nei
giovani, ma anche di sgomento, perfino di suicidi. Lungi
da noi l’idea che l’Europa attuale raggiunga il primato di
persone che pensano di togliersi la vita, come, pure, si
scrive (Le Monde, 14 novembre), resta però molto inquietante la situazione delle statistiche. Le vetrine spaccate,
i disordini sono una faccia
dell’indignazione per la crisi.
A questa fanno riscontro altri dati sullo sgomento che
viene provocato in alcuni soggetti, fino alla soglia del suicidio.
Lo scorso giugno, il ministro
della sanità Andreas Loverdos ha annunciato al Parlamento greco che il numero
dei suicidi nel Paese era aumentato del 40% nel primo
semestre di quest’anno, comparato con quello del 2010.
Uno studio dell’Istituto di ricerche dell’Università di Atene ha permesso di stabilire
un rapporto tra situazione
economica (valutata come
«indigenza economica personale») e tentativi di suicidio.
L’inchiesta telefonica, condotta un mese fa su un campione di 2.256 persone che
avevano tentato il suicidio,
rilevava un tasso aumentato
del 36% in rapporto a uno
studio similare del febbraioaprile 2009. Tra indignazione
e sgomento l’Europa cammina: quando arriverà un nuovo mattino?
Napoli
l’acqua
torna
pubblica
«È un momento di gioia e di
festa per Napoli, perché è diventata la capitale italiana
dell’acqua pubblica», dice padre Alex Zanotelli, il noto missionario comboniano impegnato nella nostra società civile, alla notizia della ripubblicizzazione del servizio idrico napoletano. Il Consiglio
comunale del 26 ottobre scorso ha approvato, infatti, il
cambiamento della gestione
del servizio idrico della città:
l’Arin (Azienda risorse idriche
Napoli) viene convertita in un
nuovo ente di diritto pubblico, la «Acqua Bene Comune
Napoli». «Si tratta della effettiva attuazione del voto referendario e della volontà di 27
milioni di cittadini in una
grande città», «il primo storico passo», scrive il Forum italiano dei movimenti per l’acqua pubblica, «ci aspettiamo
adesso che tutte le altre città
seguano l’esempio napoletano
e che oltre alla ripublicizzazione si vada nella direzione
di una rete di partecipazione
dei cittadini e dei lavoratori
nella gestione del servizio idrico integrato».
ATTUALITÀ
Francia
in dialogo
con i cristiani
omosessuali
Strasburgo
l’Ue
dichiara guerra
alla mafia
Guatemala
un ex-militare
alla
presidenza
Un articolo del settimanale
cattolico francese «La Croix»
del 25 ottobre si occupa degli omosessuali, prendendo
spunto dalla diocesi di Nizza che «ha voluto nominare
un sacerdote per progettare
l’accompagnamento dei cristiani omosessuali».
L’articolo dibatte il tema dell’accoglienza ecclesiale «per e
con» le persone omosessuali. Questione complessa che
– come scrive il teologo morale Frigato – «interpella tutti ad un confronto serio ed
equilibrato perché gli omosessuali sono persone in carne ed ossa, fratelli e sorelle
al pari degli eterosessuali».
Anche in Italia, per conoscere questo spesso maltrattato
mondo sociale, non pochi uffici pastorali diocesani hanno avviato franchi incontri e
confronti con gruppi e singoli, nella convinzione che la
comunità cristiana debba riconoscere, al di là di ogni
pregiudizio e incomprensione, che il Signore chiama tutti a seguirlo oltre le rispettive tendenze sessuali.
Il Parlamento europeo si mobilita contro la mafia. Il 25
ottobre i deputati europei
hanno approvato la creazione
di una commissione anti-mafia che rappresenta un primo
passo, e potrebbe preludere a
una svolta. L’iniziativa è dovuta a tre deputati italiani: Rosario Crocetta (gruppo socialista) sotto protezione della
polizia per la sua lotta a «Cosa
nostra» di Gela, Rita Borsellino (gruppo socialista) sorella del giudice Borsellino assassinato a Palermo, Sonia
Alfano (gruppo liberale), figlia
di un giornalista siciliano
pure ucciso. Per Crocetta,
l’adozione del testo «costituisce una rivoluzione culturale»; «l’Europa prende finalmente coscienza che la mafia
non è un problema nazionale, ma un fenomeno che corrompe tutti gli stati europei».
Largamente ispirato alle misure che negli ultimi trent’anni sono state introdotte in Italia, il testo sottolinea l’importanza di una migliore rintracciabilità dell’origine di grossi
fondi e della loro trasparenza.
Il 6 novembre, il generale di
riserva Otto Perez Molina ha
vinto, col 55% dei voti, il secondo turno delle elezioni in
Guatemala.
Uno dei paesi più violenti, il
Guatemala: 18 assassini al
giorno e un tasso annuale di
48 omicidi ogni 100mila abitanti. Molina ha promesso di
usare «la mano dura» contro
la criminalità . Ha anche assicurato di adoperarsi a migliorare le condizioni sociali dei 14 milioni di guatemaltechi, il 51% dei quali vive
nella povertà con meno di 2
dollari al giorno. L’opposizione gli rimprovera violazioni dei diritti umani durante la guerra civile (19601996), quando ci fu un massacro degli indigeni maya e
nel 1980, quando fu chiamato in causa per la morte del
capo dei guerriglieri. Tuttavia, l'aver firmato nel 1996
gli accordi che misero fine
alla guerra civile, gli valse il
titolo di «generale della
pace».
Assisi
il Fai riapre il bosco di san Francesco
ROCCA 1 DICEMBRE 2011
Il Fondo per l’ambiente italiano (Fai) salva e apre il bosco di
Assisi. Si tratta di un bosco di 64 ettari che digrada alle spalle
della Basilica di san Francesco, collocato in un contesto di
cultura, spiritualità e bellezza particolarmente suggestivo. Il
Fai aveva ricevuto questo «dono» dalla banca Intesa san Paolo
nel 2008 e si è subito preoccupato di renderne fruibile il godimento agli ospiti che Assisi vede affluire nelle sue mura e che
ora potranno muoversi anche fuori. È stato, quello del Fai, un
lavoro di complessivo recupero, di messa a dimora di nuove
piante ad alto fusto, ripulitura del sottobosco e sistemazione
di piante pericolanti e di tracciati di antiche strade, di restauro architettonico dei vecchi edifici e di ruderi tra i quali la
duecentesca chiesa di Santa Croce, il Mulino, i resti di una
torre trecentesca Del bosco, incastonato come il tesoro in uno
scrigno, è stato bello riscoprirne il segno anche negli sfondi
della pittura di Giotto.
7
ROCCA 1 DICEMBRE 2011
a cura di
Anna Portoghese
primipiani
ATTUALITÀ
8
Afghanistan
la battaglia
delle
miniere
Tibet
la successione
del
Dalai Lama
La ricchezza potenziale delle
risorse minerarie del Paese
permetterebbe all’Afghanistan l’autosufficienza economica. Rame, oro, cobalto, ferro, litio, terre rare... prendono però in questo momento
strade diverse da quelle del
rafforzamento all’economia
nazionale per diventare oggetto della cupidigia dei diversi Stati stranieri. L’assenza di infrastrutture stradali,
ferroviarie ed energetiche,
l’insicurezza specialmente
del sud e dell’est pachtum,
escludono uno sfruttamento
a breve termine, sicché, al ritiro delle truppe straniere
previsto per il 2014¸ non è
difficile prevedere che succeda la battaglia delle miniere. L’Afghanistan nella sua
storia è stato appunto un
campo di manovre geopolitiche.
A proposito di queste sue miniere, è notizia di queste settimane una formidabile scoperta archeologica, a Mes-Aynak, a 40 km da Kabul, nella
provincia di Logar, probabilmente la seconda riserva di
rame del pianeta. Qui sono
stati scoperti dei pezzi datati
tra il secondo secolo avanti
Cristo e il secondo della nostra era, periodo che conobbe l’età d’oro dell’arte grecobuddhista. eredità del tempo
di Alessandro Magno. Circa
500 reperti sono stati già esumati e in parte trasferiti a
Kabul; anche gli storici europei li stanno esaminando con
grande interesse perché servirebbero a scoprire l’articolazione all’epoca del cammino del rame, di quello del
buddismo e di quello della
seta. Lo sfruttamento di tale
miniera di rame nel 2007 fu
ottenuto dalla compagnia cinese Metallurgical Corporation of China (Mcc), associata a Jiagxi Copper Company
Limited (Jcl) che attualmente la gestiscono.
I lettori ricorderanno come nello scorso 10 marzo il Dalai
lama, guida suprema del buddismo tibetano, abbia deciso di
separare la sua funzione religiosa da quella politica, mantenendo la prima e affidando
la seconda, ossia la guida del
governo tibetano in esilio, a
Lobasang Sangay, un quarantenne giurista, nato in India e
laureatosi ad Harvard. E alla
guida spirituale chi succederà
ora? Hanno il compito di trovare un successore al Dalai
lama – che rappresenta per
milioni di buddisti la quattordicesima reincarnazione del
«bodhisattva», il Buddha supremo della compassione – i
principali lama e il governo tibetano, oggi in esilio a Dharamsala, in India. Ma il governo cinese sta tentando di estendere sul controllo sul Tibet anche alla scelta del successore
spirituale, rendendola addirittura un «diritto». A questo punto i Tibetani cercano un sostegno internazionale, anche perché è notorio come in gioco
non ci sia solo la libertà religiosa di sei milioni di persone, ma
il controllo del «Tetto del mondo», di un’area enorme con
grandissime riserve minerarie
e dove la Cina possiede un numero imprecisato di basi missilistiche. Considerata però l’influenza economica della Cina,
conoscendo le minacce di ritorsioni contro qualunque paese
accetti contatti formali con il
Dalai lama, la speranza di tale
esplicito coinvolgimento esterno è vana. Oltre all’indifferenza politica, il Tibet si misura
con le tensioni generazionali. Il
Dalai lama si è sempre opposto alla violenza nella lotta all’autodeterminazione, ma le
nuove generazioni sono stufe di
essere considerate «una tribù
esotica» e compiono gesti estremi come quello del monaco cinese di vent’anni del monastero di Kirti, che si è dato fuoco
per protestare contro l’inasprimento della repressione cinese. È del 15 ottobre, purtroppo, la notizia dell’ottavo rogo
giovanile del 2011.
Nicaragua
personalizzazione
del
potere?
Come si rilevava dai sondaggi, è stato rieletto il 6 novembre al primo turno alla presidenza del Nicaragua l’ex-guerrigliero Daniel Ortega. È al
suo terzo mandato presidenziale, mentre le opposizioni
rumoreggiano. Sergio Ramirez, vice presidente del governo sandinista dal 1985 al
1990, non esita a dichiarare
all'inviato di Le Monde (8 novembre): «Siamo sul cammino di una dittatura di stile
demagogico». Da parte sua,
Ortega, che ha compiuto 66
anni, e che gestisce il potere
in modo personale e familistico, non ha nascosto le sue
intenzioni di restare alla presidenza fino alla morte. Gli
osservatori politici hanno anche rilevato dei brogli elettorali, ma senza risultati. Questa volta attribuiscono il successo al fatto di avere Ortega
risolto l’annoso problema dell’elettricità nel Paese con i
fondi dello sponsor politico ed
economico del venezuelano
Chavez.
notizie
Per la pubblicazione
in questa rubrica occorre inviare l’annuncio un mese prima della data di realizzazione dell’iniziativa indirizzando a:
a.portoghese@
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seminari
&
convegni
RECAPITI UTILI
DELLA
PRO CIVITATE
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ROCCA
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813231
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(redaz.)
[email protected]
(uff. abbonam.)
Mosca. Dopo un’opera di restauro durata sei anni, il mitico teatro Bolshoj ha riaperto
con Verdi, la Messa da requiem, diretta con grande successo dal Maestro da poco eletto alla Scala di Milano, Daniel
Barem Boin. È stato ricordato, a proposito dell’Italia, come
«in un periodo di crisi con pochi precedenti» gli italiani debbano «ritrovare i propri valori, ossia arte, teatro e cultura».
Bergamo. Concorso sul tema:
«Pace: Tra rassegn-azione e
rivol-uzione», raccolta di vignette e disegni, indetto dall’Istituto d’istruzione Superiore Statale «Andrea Fantoni»
di Clusone in collaborazione
con la Consulta provinciale stu-
dentesca di Bergamo. La partecipazione è gratuita e aperta
a tutti i giovani in età compresa tra i 14 e i 23 anni. Informazioni Istituto «A. Fantoni» «segnidipace», via Barbarico, 27,
24023 Clusone (Bg), e-mail:
[email protected]
Milano. Il 6 novembre più di
150 persone si sono incontrate per assistere e partecipare
alle preghiere per la pace di
cristiani, musulmani, ebrei,
buddisti e induisti. L’evento è
stato organizzato dal «Forum
delle Religioni» del capoluogo
lombardo che successivamente ha incontrato a Palazzo
Marino il sindaco Giuliano Pisapia per chiedere un «civico
luogo di confronto e dialogo
sulle questioni del pluralismo
religioso». (da Nev)
Londra. Il primo ministro
della regione scozzese Alex
Salmond ha annunciato il 28
ottobre che nel 2016 si terrà
nella sua regione un referendum per l’indipendenza della
Scozia. Salmond, leader del
Scottish Nacional Party, parla dell’indipendenza dal Regno Unito come di «un sogno
realista».
Nigeria. Secondo un nuovo
Rapporto di Amnesty International diffuso il 10 novembre,
riguardante l'inquinamento
petrolifero nel Delta del Niger,
la Shell deve impegnarsi a pagare un miliardo di dollari per
bonificare la regione.
30 novembre. Roma. Il collettivo «Il Ponte Magico» presenta «D-jail, Voci dal carcere»,
testi dei detenuti per otto brani musicali in Cd, «un viaggio
poetico nella difficile realtà
carceraria, attraverso parole
che raccontano rabbia e amore, sogno e dolore». Parole e
musiche di Federico Carra,
Maurizio Catania, Guglielmo
Fulvi, Rita Gisi, Terry Gisi. 0re
18,30 presso Città dell’altra
economia, Largo Frisullo (Testaccio). Informazioni: Associazione «Il ponte magico»,
w w w. i l p o n t e m a g i c o . i t ;
[email protected]
3 dicembre. Milano. «Il movimento femminile cattolico
nelle fonti e nella storiografia»
è il tema di un convegno di
studi storici, organizzato dall’archivio «A. Romani» e dal
gruppo Promozione Donna di
Milano. È articolato in tre sezioni condotte da eminenti
specialisti: linee storiografiche, fonti archivistiche e letterarie; Sezione Coari; Testimonianze. Sala cripta dell’Aula Magna, Università Cattolica, Largo Gemelli 1, 20123
Milano, tel. 02 72342278;
[email protected].
4 dicembre. Conversano
(Ba). All’Oasi S. Maria dell’Isola, nell’ambito dei Corsi
prematrimoniali organizzati
dalla Consulta per la Pastorale Familiare della Diocesi
Conversano-Monopoli, la
psicologa e psicoterapeuta
Rosella De Leonibus relaziona sul tema «Diventare don-
na, diventare uomo: dall’amore per sé all’amore per
l’altro/a». Ore 9 – 17,00. Informazioni: Michele Di Donna tel. 0804767897; e-mail:
[email protected]
[email protected]
11 dicembre 2011. Polignano a Mare (Ba). All’Abbazia
di San Vito. Un incontro con
gli amici dei Volontari della
Cittadella per continuare la
riflessione su «Spezzare la
Bibbia», all’ascolto della biblista Rosanna Virgili sul
tema «Procreare». Il programma inizia alle ore 10
con la Celebrazione Eucaristica curata da mons. Vito
Benedetti. Dopo il pranzo la
ripresa del dialogo fino alle
ore 17,30. Informazioni: Cittadella – Via Ancajani 3,
06081 Assisi – tel. 075 813231;
De Giosa 3475257041 – Bitelli 3384123637 – Pellegrini 347
965743 [email protected]
[email protected]
[email protected]
[email protected]
14 dicembre e 1° febbraio.
Perugia. Due appuntamenti
del «Caffè filosofico»: il primo
sul tema: «Che fai: ti auto-inganni?», conversazione con
Patrizia Pedrini; il secondo
su: «La filosofia incontra gli
scacchi» con Andrea Tortoreto. Ore 18, 00, Caffè dell’Accademia, Via dei Priori, Perugia.
28 dicembre-1° gennaio.
Camaldoli (Ar). Incontro di
riflessione per giovani dai 20
ai 30 anni su: «Tobia uscì per
mettersi in cammino».
Preghiera, dialogo, approfondimenti, liturgie monastiche,
relazioni del biblista Luca
Mazzinghi e del monaco Matteo Ferrari. Informazioni: Foresteria Monastero di Camaldoli, tel. 0675 556013;
[email protected]
28 dicembre 2011-5 gennaio 2012. Torino. Corso di
Esercizi spirituali guidati da P.
Massimiliano Preseglio, passionista, sul tema: «Viaggiavo
attraverso i giorni della mia
vita» (Tb 1,3). Informazioni:
Suore del Cenacolo, Piazza G.
Gozzano 4, 10132, Torino, tel.
011 8195445. E-mail: casa.
spiritualita@suoredel
cenacolo.191.it
2-7 gennaio. Casale Monferrato (Al). Corso intensivo annuale di Ebraico biblico con
Paolo De Benedetti e Nicoletta Mennini. Informazioni: Biblia, via A. da Settimello 129,
50041 Settimello (Fi), tel. 055
8825055; e-mail: [email protected]
Sito: www.biblia.org
5-8 gennaio 2012. Roma.
Convegno di spiritualità organizzato dall’Associazione «Ore
11» sul tema: «Volti degli uomini, volto di Dio». Nelle giornate, meditazioni di Carlo Molari, relazioni di Paolo Ricca,
Felice Scalia, Vito Mancuso.
Proiezione intervista a fratel
Arturo Paoli. Introduzione e
conclusioni di Mario De Maio.
Sede: Hotel Summit, via della
Stazione Aurelia 99, 00165
Roma. E-mail: oreundici@ore
undici.org tel. 06 39887428.
ROCCA 1 DICEMBRE 2011
ATTUALITÀ
9
ATTUALITÀ
Nanopericoli esagerati
notizie
dalla
scienza
Mangiando con l’argenteria o indossando
vecchi gioielli di rame, si mettono in circolazione e si assorbono nanoparticelle in
quantità. Lo mostra su «ACS Nano» James
Hutchison, dell’Università dell’Oregon, con
un’analisi di inedito dettaglio delle superfici di oggetti quotidiani al microscopio elettronico.
Lo studio mostra che le nanoparticelle hanno un comportamento molto dinamico,
cambiando forme e taglie in poche ore in
presenza di umidità o altri agenti comuni, e
gli oggetti di uso comune ne liberano in
quantità. La ricerca era centrata soprattutto sull’argento, ma alcune prove su oggetti
di rame hanno dato esiti analoghi, facendo
pensare che i risultati siano generalizzabili.
Nel dibattito su come regolamentare i nuovi prodotti delle nanotecnologie, un timore
è che le particelle di dimensioni ultramicroscopiche possano avere effetti tossici non
prevedibili semplicemente in base al materiale di cui sono composte, perché particelle così piccole interagiscono con l’organismo
in modi del tutto peculiari. Lo studio attutisce questi timori, dimostrando che siamo
esposti da sempre alle nanoparticelle e che
queste sono molto variabili nelle loro proprietà.
ROCCA 1 DICEMBRE 2011
La psicoeredità di Steve Jobs
Giovanni
Sabato
10
La diffusione di iPhone e iPad, e tutti gli altri smartphone e tablet, permetterà agli psicologi di superare un limite finora insanabile dei loro esperimenti: il fatto che gli studi che pretendono di definire caratteristiche universali della natura umana sono condotti quasi immancabilmente su studenti
universitari occidentali. Lo afferma su «Plos
One» un vasto team internazionale di psicologi.
Una semplice ricognizione dei lavori di psicologia sperimentale mostra che la stragrande maggioranza è condotta sugli studenti
statunitensi o europei che gli sperimentatori hanno sottomano nelle università. E diversi studi hanno dimostrato che questi giovani occidentali di buon livello economico
e culturale sono tutt’altro che rappresentativi della varietà di vedute, emozioni e pensieri della popolazione mondiale. Per esempio alcune classiche illusioni ottiche, considerate conseguenza dei meccanismi universali con cui l’occhio e il cervello umano interpretano il mondo, in realtà non si manifestano in varie culture non occidentali.
Ancor più divergenti sono gli esiti dei test
cognitivi di funzioni più complesse. Perciò
per questi studenti è stato coniato l’appellativo Weird (Western, Educated, Industrialized, Rich, and Democratic), acronimo di
«occidentali, istruiti, industrializzati, ricchi
e democratici», ma che significa anche «strani».
Esperimenti su scala planetaria – spiegano
gli psicologi, con prima firma Stephane Dufau dell’Università di Marsiglia – erano già
stati tentati via internet, ma con esiti per
varie ragioni non del tutto efficaci. Le App,
i software scaricabili dal web per i dispositivi mobili, si stanno invece provando validi. Per dimostrarlo, gli studiosi ne hanno
prodotta una in sette lingue che riproduce
un classico test lessicale per studiare i processi della lettura: i partecipanti vedono sequenze di lettere e devono dire il più in fretta possibile se sono parole di senso compiuto. In quattro mesi il test è stato eseguito da
oltre 4.000 partecipanti di svariati paesi (per
reclutarli con mezzi convenzionali sarebbero occorsi tre anni e costi ingenti), e i dati
raccolti si sono mostrati di buona qualità.
Lo stesso, dicono gli psicologi, emerge da
test simili condotti da loro colleghi. I dispositivi mobili sembrano quindi rendere possibili esperimenti psicologici su grande scala, che facciano emergere fenomeni che
sfuggono su piccoli numeri di partecipanti,
e davvero universali.
Vaccino antimalaria
«A meno di qualche disastro imprevisto, fra
poco più di tre anni avremo un vaccino contro Plasmodium falciparum», il più pericoloso fra i cinque plasmodi della malaria.
Così il «New England Journal of Medicine»
commenta lo studio che, sullo stesso giornale, sancisce per la prima volta l’efficacia –
seppur parziale – di un vaccino non contro
un virus o un batterio ma contro un parassita. Il vaccino RTS,S/AS01, somministrato
a 6.000 bambini tra i 5 e i 17 mesi di sette
paesi ad alta incidenza malarica, nel primo
anno ha dimezzato sia il rischio generale di
malaria sia quello di malaria grave; la protezione scende al 35% se si considera l’intera popolazione vaccinata, che include anche i piccoli fra le 6 e le 12 settimane di età.
Il vaccino è rivolto a neonati e bambini piccoli, ed è sviluppato dalla casa farmaceutica GlaxoSmithKline e sostenuto dalla Fondazione Bill e Melinda Gates. Vari altri vaccini sono in via di sviluppo, ma questo è di
gran lunga il più vicino alla meta. L’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), con
una mossa irrituale che testimonia le aspettative, ha già preannunciato che potrebbe
raccomandarlo per alcuni paesi africani fin
dal 2015 se al completamento dello studio,
nel 2014, la validità sarà confermata. Le verifiche mancanti, oltre a una valutazione più
completa dell’efficacia, riguardano la durata della protezione e un esame più accurato
dei rischi: pur non dando effetti avversi gravi, il vaccino sembra aver aumentato febbri
e convulsioni, di cui andranno valutate frequenza e pericolosità.
il meglio
della quindicina
vignette
ATTUALITÀ
da IL CORRIERE DELLA SERA, 5 novembre
da IL CORRIERE DELLA SERA, 8 novembre
da L’UNITÀ, 14 novembre
da IL CORRIERE DELLA SERA, 11 novembre
da L’UNITÀ, 14 novembre
da IL CORRIERE DELLA SERA, 15 novembre
da IL CORRIERE DELLA SERA, 17 novembre
ROCCA 1 DICEMBRE 2011
da IL CORRIERE DELLA SERA, 5 novembre
11
cittadella convegni
23 - 26 dicembre 2011
giornate di spiritualità
NATALE: voce del verbo accogliere
– liturgie e riflessioni con don Tonio Dell’Olio e i Volontari della Cittadella
– mostra Il sacrificio di Gesù Cristo nell’arte contemporanea
– visita ai presepi lungo le vie della Città e ai presepi viventi nei dintorni di Assisi
30 dicembre - 1 gennaio 2012
incontro al nuovo anno
in dialogo con Carlo Molari
– venerdì 30 dicembre, ore 18 1a conversazione
– sabato 31 dicembre, ore 12 liturgia eucaristica di fine anno
ore 18 2a conversazione
– veglia di preghiera in attesa del 2012, dopo il ‘cenone di san Silvestro’
– a mezzanotte, in un momento di festa, scambio degli auguri
– domenica 1° gennaio, ore 12, solenne liturgia eucaristica
– l’incontro si conclude con il pranzo di Capodanno
5 - 7 gennaio 2012
generazioni in dialogo/2
la politica tra deserto e primavera
i nuovi spazi della democrazia
La Costituzione da sola non basta. È sicuramente la garanzia dei valori e dei principi ispiratori che attendono di essere tradotti
in scelte politiche chiare ed efficaci per la vita dei cittadini e delle cittadine. Senza una partecipazione ampia e diffusa, un
coinvolgimento responsabile di tutte le forze vive del Paese, una volontà chiara di estendere gli spazi partecipativi a tutti i
livelli… anche la Costituzione rischia di rimanere lettera morta. I partiti non esauriscono tutta la possibilità di partecipazione alla
vita democratica e non svolgono a pieno il loro compito se non garantiscono e favoriscono l’apertura di spazi di partecipazione
democratica. La società civile rivendica la titolarità di un altro modo di fare politica e chiede di essere ascoltata.
L’evento vuole porre a confronto esperienze di partecipazione dal basso e promuovere un dialogo costruttivo e propositivo
in grado di rilanciare il primato della politica a più livelli.
Favorendo il dialogo tra i vissuti di generazioni differenti, si vuole prendere coscienza delle criticità e nello stesso tempo ci si
propone di promuovere il passaggio di consegna delle pratiche politiche che maggiormente nel tempo hanno favorito la
crescita della democrazia.
ROCCA 1 DICEMBRE 2011
Generazioni in dialogo 2 è:
Visioni:
teatro e cinema in dialogo con gli autori
Le parole che contano tavole rotonde, dibattiti e conversazioni con i protagonisti di una nuova politica
Scripta manent:
presentazione di libri e dialogo con gli autori
Speaker’s corner
come in Hyde Park 5/10 minuti per presentare proposte, esperienze, idee, iniziative, campagne.
Spazio Libero
uno spazio a disposizione per lanciare messaggi, idee, proposte, critiche.
Stand
presentazione di associazioni, organizzazioni sociali, comitati…
partecipano: Luciana CASTELLINA, politica, scrittrice; Tonio DELL’OLIO, di Libera International; Raniero LA VALLE, giornalista e scrittore; Flavio LOTTI, coordinatore nazionale ‘Tavola della Pace’; Roberto MANCINI, filosofo, docente all’univ. di
Macerata; Roberto NATALE, presidente Federazione Nazionale Stampa.
Inizia giovedì 5 alle 17, termina sabato 7 alle 13; contributo spese € 30,00 per giovani, € 40,00 per adulti.
soggiorno: in Cittadella, dalla cena del 5 al pranzo del 7: € 100,00 (in camere 2-3 letti con servizi); € 85,00 (in camere
con servizi comuni); un pasto € 14,00; presso l’ Ostello della Pace: € 20,00 notte e colazione.
Informazioni iscrizioni soggiorno
CITTADELLA OSPITALITÀ – via Ancajani 3 – 06081 ASSISI PG – tel.075/812308-075/813231 – fax 075/812445
[email protected]; http://ospitassisi.cittadella.org; www.cittadella.org
12
RESISTENZA E PACE
Raniero
La Valle
iù che un cambio di governo, è stata
la fine di un regime. Se il regime non
fosse finito, non si sarebbe potuto
fare alcun governo Monti, e non ci
sarebbe stato altro che andare alle
elezioni a combattere all’arma bianca mentre l’Italia, inghiottita dal gorgo dei
mercati, avrebbe rischiato di andare a fondo. Infatti era un dogma del regime caduto
che il capo eletto dal popolo non potesse essere sostituito altro che dal popolo, che la
maggioranza come un solo uomo dovesse
sostenere il governo per l’intera legislatura,
che qualunque tentativo di dar vita a una
nuova maggioranza e a un nuovo esecutivo
dovesse essere bollato come un golpe.
L’interpretazione berlusconiana della democrazia era quella di un regime del capo, che
grazie all’investitura o all’unzione dei cittadini, incorporava in sé tutto il popolo, ne ricapitolava in se stesso la sovranità, faceva di
questa sovranità un potere superiore ad ogni
altro potere, e si considerava sciolto da ogni
legge: un potere «sciolto», cioè assoluto.
L’onesto regime rappresentativo e parlamentare italiano veniva così, mediante lo strumento di una legge elettorale iniqua, forzato a trasformarsi in un regime pseudo-presidenziale, che in mancanza delle regole proprie di un governo presidenziale, diventava
piuttosto un regime pseudo-cesariano.
La buona notizia è che questa metamorfosi
del regime politico italiano, perseguita per diciassette anni, è fallita. La Costituzione ha resistito, la divisione dei poteri ha retto, la Corte Costituzionale ha cancellato leggi incompatibili con il nostro ordinamento, la magistratura ha continuato a esercitare il controllo di legalità, il Parlamento ha avuto un guizzo di dignità mettendo alfine in minoranza il
governo, il presidente della Repubblica ha
mantenuto la sua autonomia con una equità
e una fermezza che gli sono venute buone
quando ha dovuto fare il «deus ex machina»
della crisi. La battaglia promossa fin dal 1994
da don Giuseppe Dossetti per difendere la
Costituzione messa sotto scacco dalla destra
al potere, è stata vittoriosa. Se infatti Berlusconi ha perduto, a vincere non sono stati solo
i suoi avversari, è stata la Costituzione. Il clima da fine del regime che si respirava nei sacrosanti festeggiamenti popolari per la sua
caduta, diceva che non solo finiva una leadership divenuta ormai intollerabile sia all’interno che all’estero, ma finiva l’umiliazione
P
di una democrazia fatta cadere nell’impotenza, nella volgarità e nella corruzione.
I costi sono stati altissimi. Quelli più palesi,
che hanno morso nella vita delle persone, sono
stati i costi economici, l’impoverimento, il precariato, la disoccupazione e da ultimo il rischio
del crack. Ma altri costi sono stati altrettanto
gravi, hanno inciso nella cultura, nella vita morale e anche nella vita religiosa del Paese. Il
culmine simbolico del degrado è stato raggiunto nella sentenza di Roberto Formigoni (Cl):
«a un governante non si deve chiedere quante
‘fidanzate’ ha, ma se i treni arrivano in orario». Etica pubblica contro treni in orario: non
è un grande baratto, almeno qualcuno con una
Messa scambiava Parigi.
Ora possiamo tornare alla politica: perché
c’è più politica nel governo «tecnico» Monti
di quanta ce ne sia stata in questi anni, impedita da maggioranze bulgare alle Camere
e da vincoli di obbedienza. Il cambio di governo è stato in effetti una grande operazione politica, e il ritorno della politica consiste oggi nel fatto che possiamo ricominciare
a pensare al bene del Paese.
Ora, finito il regime, bisogna porre mano a
che non ritorni. Già il ripristino della serietà
ai vertici del sistema, l’adozione di uno stile
di rigore e di gravità – rispetto alla portata
dolorosa dei problemi da affrontare – manifestano un tale salto di qualità che sarà difficile vi si voglia rinunciare. Ma soprattutto
occorre metter alcuni paletti che rendano
impossibile la ripetizione dell’esperienza passata: la legge sul conflitto di interessi, la rottura dei monopoli mediatici, pubblicitari e
televisivi, una Rai rigenerata, la riapertura
del sistema elettorale a finalità di effettiva
rappresentanza, sia riguardo alla scelta degli eletti, sia riducendo a proporzioni accettabili – non da «legge truffa» – eventuali premi di maggioranza e sbarramenti. E, tra tutte, la misura più simbolica ed efficace per
impedire il ritorno a un leaderismo demagogico, sarebbe quella di vietare per legge
che nei contrassegni elettorali figurino nomi
di persone; il regime populista e plebiscitario che in questi anni si è avuto in Italia, è
cominciato infatti col culto delle personalità portato fin dentro i simboli elettorali, per
cui l’elettorato è stato portato a credere che
si dovesse designare un padreterno, e non
votare per una politica, per un programma,
per un partito, per una cultura politica, per
un’opzione morale.
❑
13
ROCCA 1 DICEMBRE 2011
ritorno alla politica
MEDIO ORIENTE
l’Iran e la bomba atomica
Maurizio
Salvi
n continuo accavallarsi di speranze e timori ha caratterizzato il 2011
che sta per chiudersi nell’Africa
maghrebina e in Medio Oriente, un
complesso di sentimenti che con
ogni probabilità segnerà anche
l’anno prossimo, perché la promessa trasformazione seguita alla cosiddetta ‘primavera
araba’ è ben lungi dal trasformarsi in realtà.
Che si parli di Tunisia od Egitto, di Libia o
Yemen, nessuno è in grado di dire con chiarezza in cosa consiste il ‘nuovo’ che i sommovimenti popolari e non hanno generato.
La confusione è grande, da un lato con le
aspirazioni a libertà democratiche come
sono concepite in Occidente, e dall’altra il
ritorno discreto sulla scena dei movimenti
religiosi islamici. Per non parlare poi delle
persistenti tensioni che scuotono la Siria,
dove palesemente è in marcia il meccanismo
libico di abbattimento del regime al potere.
È sorto un Consiglio nazionale siriano che
riunisce gran parte dei movimenti di opposizione. Ma c’è però la complicazione che in
questo caso, almeno per il momento, non è
pensabile un intervento militare della Nato
per le difficoltà che incontrerebbe in Consiglio di sicurezza dell’Onu una mozione che
lo richiedesse, vista la cautela di Russia e
Cina al riguardo.
Ma se la violenza dovesse appesantirsi, e se
il presidente Bashar al Assad non riuscisse a
provare in modo inconfutabile che la violenza ha origini non legate alle disposizioni da
lui date alle forze di sicurezza siriane, allora
davvero potrebbe ripetersi un intervento,
magari di nuovo della Nato, simile a quello
che ha portato all’uccisione di Muammar
Gheddafi. Intanto Damasco è stata sospesa
dalla Lega Araba, organismo che però sembra sempre più influenzato dai regimi più
conservatori.
U
ROCCA 1 DICEMBRE 2011
l’obiettivo finale
ragionamento, dopo la facile eliminazione
dei presidenti di Tunisia e Egitto (Ben Ali e
Hosni Mubarak) e quella più faticosa del leader libico, l’attenzione è adesso concentrata
sulla Siria, con la speranza di poter contagiare ad un certo punto anche l’obiettivo finale: l’Iran di Mahmud Ahmadinejad. A dare
consistenza a quest’ultima parte del discorso è venuto il dibattito sviluppatosi con la
pubblicazione l’8 novembre di un Rapporto
della Agenzia internazionale dell’energia atomica (Aiea) riguardante le attività realizzate
da Teheran nel campo del nucleare, in cui
non si esclude che si stiano facendo sforzi
per la costruzione di una bomba.
In realtà già alcuni giorni prima che i particolari del Rapporto fossero divulgati, Israele aveva avvertito per bocca prima del presidente Shimon Peres e poi del ministro della
Difesa Ehud Barak che «un attacco militare
contro i reattori nucleari dell’Iran è sempre
più vicino, giorno dopo giorno». La minaccia è piaciuta a molti, ed ovviamente soprattutto a quanti considerano l’Iran un inaffidabile «Stato canaglia» da «ridurre all’impotenza» ma fortunatamente ha suscitato
anche numerose perplessità a Washington e
nelle capitali europee, per le evidenti catastrofiche conseguenze che avrebbe una simile decisione. Leon Panetta, il nuovo titolare del Pentagono, non ha criticato direttamente Tel Aviv per l’avvertimento, ma ha sostanzialmente bocciato un possibile attacco
perché potrebbe avere «un grave impatto»
sulla regione con «conseguenze indesiderate». I suoi collaboratori si sono poi peritati
di precisare che anche se l’attacco vi fosse
esso, a parte la reazione che susciterebbe,
potrebbe ritardare i progetti iraniani in campo atomico al massimo di tre anni, convincendo la sua leadership a fare tutto il possibile per costruire veramente il pericoloso
ordigno.
l’ipotesi sanzioni economiche
Ora, secondo alcuni analisti lo scossone che
ha messo in fibrillazione tutto il Grande
Medio Oriente è stato ispirato dalle Cancellerie occidentali molto preoccupate nel perdurare della crisi del controllo delle fonti
energetiche, o perlomeno non dispiace certamente ad esse. Proseguendo con questo
14
The Economist, portavoce della comunità
finanziaria conservatrice, ha manifestato
molte perplessità sul Rapporto della Aiea,
sostenendo che in pratica non ha fornito
prove definitive sulle ambizioni di Teheran
in campo nucleare militare. Il settimanale
dubbi sul rapporto Aiea
È interessante notare che sempre Haaretz
ha consultato sul contenuto del Rapporto
della Aiea lo specialista finlandese Olli Heinonen, che l’anno scorso ha lasciato dopo
27 anni l’incarico di vicedirettore dell’organismo e che ora insegna nell’Università di
Harvard, negli Stati Uniti. Il documento, ha
risposto ad una domanda del giornale israeliano, «non contiene molte informazioni
nuove». E, ha aggiunto, al massimo «mostra
che i progressi (iraniani) sono lenti e che il
processo appare impantanato nel collo di
bottiglia rappresentato dall’arricchimento
dell’uranio».
Responsabili di Tel Aviv, comunque, dopo
aver preso conoscenza del contenuto del rapporto dell’Aiea hanno addirittura accusato
il Premio Nobel ed ex direttore dell’organi-
smo, l’egiziano Mohamed ElBaradei, di essere una sorta di «agente iraniano» per aver
negli anni scorsi trattenuto materiale che
appare ora nell’ultimo resoconto dell’Agenzia atomica. Va detto che in una intervista
concessa in aprile al settimanale tedesco Der
Spiegel lo stesso ElBaradei aveva formulato
una denuncia esattamente speculare: responsabili americani ed europei avevano occultato documenti importanti, insinuando che
«essi non erano interessati a negoziare con
il governo di Teheran ma a cambiare il regime con tutti i mezzi necessari».
Di ben diversa opinione sembra invece essere il nuovo direttore della Aiea, il giapponese Yukiya Amano, a leggere un documento
messo a disposizione da Wikileaks e pubblicato dal quotidiano The Guardian. In un resoconto al Dipartimento di Stato il rappresentante americano nell’Aiea Geoffrey Pyatt
scrisse il 16 ottobre 2009, tre mesi dopo l’elezione di Amano ai vertici dell’organismo, che
quest’ultimo «era solidamente vicino agli
Stati Uniti in ogni decisione strategica chiave, dalla designazione degli alti funzionari
interni fino alla gestione del programma presumibilmente nucleare dell’Iran». «È molto
alto il grado di convergenza – insistette Pyatt
– fra le sue priorità e la nostra agenda all’interno dell’Aiea».
due pesi e due misure
Il quadro della questione non sarebbe completo se al termine di questa analisi non ricordassimo che Israele possiede armamenti
nucleari – fra 200 e 400 bombe secondo diverse stime – e che come la Corea del Nord
non ha sottoscritto il Trattato di non proliferazione nucleare per cui non è tenuto, a differenza dell’Iran, a ricevere gli ispettori dell’Aiea. E facciamo ricorso un’ultima volta al
quotidiano Haartez dove il ‘columnist’ Gideon Levy ha saggiamente ricordato che «ci
sono paesi che hanno il permesso ed altri a
cui è vietato possedere armi nucleari». Bisognerà anche tenere a mente che le Grandi
Potenze, da parte loro, violano il quarto capitolo del Trattato dell’Onu sugli armamenti
nucleari che le impegna a smantellare gli
arsenali atomici. Infine l’invito è anche a riflettere sui due pesi e due misure che vengono adottati a livello internazionale per trattare gli argomenti che generano tensione. In
questo ambito, per Israele e gli Usa, l’Unesco è «cattiva» perché ha ammesso la Palestina come Stato di pieno diritto, mentre
l’Aiea è «buona» perché avverte circa il pericolo nucleare iraniano.
ROCCA 1 DICEMBRE 2011
ha anche esaminato nel concreto la possibilità dell’attacco militare israeliano, ipotizzando che esso possa puntare a tre obiettivi:
«L’impianto di arricchimento dell’uranio di
Natanz (una struttura sotterranea corazzata che dovrebbe essere ripetutamente colpita); il reattore ad acqua pesante di Arak e il
reattore ad acqua leggera costruito dai russi
a Bushehr.
La conclusione è che comunque non sarebbe una «soluzione finale» e che questo implicherebbe una reazione militare iraniana
e dei suoi alleati nella regione che sono
Hezbollah in Libano e Hamas a Gaza che
infiammerebbe la regione. A parte questa
ipotesi, apparentemente, per gli Usa ed i paesi vicini ad Israele resta soltanto la scelta di
nuove sanzioni economiche in ambito Onu,
una opzione che non trova grande entusiasmo a Mosca e Pechino. E in fondo anche
Washington riflette sulla loro opportunità,
dato che esse comporterebbero una nuova
tensione nei prezzi del greggio a livello internazionale.
Il quotidiano israeliano Haaretz del 10 novembre ha ragionato a voce alta su questo
dilemma, sostenendo che «molti funzionari
del governo statunitense temono anche che
l’imposizione di nuove e dure sanzioni siano interpretate da Teheran come una dichiarazione di guerra, e questo aumenterebbe
l’influenza in Iran degli elementi più estremisti e potrebbe incoraggiare una ondata di
attacchi terroristici contro obiettivi americani e occidentali». E ancora: «E non sarebbe impossibile una severa replica iraniana
mirante a minacciare il libero transito delle
petroliere nello Stretto di Ormuz. Attraverso di esso passa il 40% del greggio che consuma il mondo».
Maurizio Salvi
15
POLITICA ITALIANA
il governo
del «non fare»
ROCCA 1 DICEMBRE 2011
Ritanna
Armeni
16
i vorrà del tempo, forse anni, per
fare un bilancio di quel che è stato Silvio Berlusconi per l’Italia. Ci
vorranno storici e analisti capaci
di discernere, di orientarsi, di distinguere per dare un giudizio, se
non veritiero, almeno vicino alla verità su
quello che, senza dubbio, è stato il più importante fenomeno politico degli ultimi 20
anni. Sull’uomo che per quasi due decenni ha deciso del destino politico del paese.
Il giornalista politico può solo offrire un
primo sguardo, e cercare di andare all’indietro, oltre la lenta agonia di queste ultime settimane, oltre il defatigante tira e
molla scandito dalle notizie sullo spread e
sui titoli in Borsa, oltre lo spettacolo di
deputati che trasmigrano da un gruppo
parlamentare ad un altro, oltre il degrado
che ha investito il governo e il suo presidente negli ultimi mesi per chiedersi: che
cosa è stato, che cosa ha fatto Silvio Berlusconi per l’Italia in questi diciassette
anni? Quali leggi fondamentali sono state
approvate? Quali modifiche ha apportato
nella struttura del paese? Quali idee proclamate è riuscito a rendere concrete?
C
Come ha modificato la vita degli italiani?
Perché una cosa si può affermare con certezza: due decenni di egemonia politica
sono sufficienti a realizzare cambiamenti,
a modificare il volto del paese o, almeno,
a dare qualche risposta ai problemi più
urgenti.
Pensate a quel che è avvenuto in Italia nei
vent’anni precedenti a quelli berlusconiani, dal 1974 al 1994. Vado a memoria: riforma sanitaria, riforma delle pensioni,
diritto di famiglia, lo Statuto dei lavoratori, legge sul divorzio e sull’aborto. L’Italietta
si è trasformata in uno dei paesi più avanzati dell’occidente. Settima potenza industriale, ma anche paese capace di recepire
le domande della società, di diventare
moderno.
Tornate, magari se non siete abbastanza
anziani sui libri di storia, ai decenni ancora precedenti, dal 1954 al 1974, agli anni
della ricostruzione, quando l’Italia era ancora povera e si accingeva al grande salto
del miracolo economico, troverete la nazionalizzazione dell’energia elettrica, la
programmazione economica, la nascita del
Welfare. Anche in quegli anni grandi cam-
il paese immobile
Ora pensateci: per che cosa saranno ricordati i governi di Silvio Berlusconi o comunque questi anni in cui la sua visione del
mondo e dell’economia e della società è
stata egemone? In quali provvedimenti si
è concretizzata la sua visione del mondo?
Non ne troverete. Non si possono paragonare certo le astiose affermazioni e leggine di Brunetta e Sacconi sul mercato del
lavoro allo Statuto dei lavoratori, né la programmazione economica del primo centro sinistra ai proclami su liberalizzazioni
mai attuate, o ai tagli lineari e indiscriminati che ad un certo punto il ministro del
Tesoro ha attuato per fare cassa.
Certo, Berlusconi ha dispiegato la sua azione politica all’interno di un quadro istituzionale quello della seconda Repubblica
(dopo «mani pulite» per intenderci) caratterizzata dal bipolarismo, dalla cosidetta
alternanza, ma ha piegato anche questa
novità, basti pensare al «porcellum», con
la possibilità di designare i deputati da
parte dei partiti, alla gestione personale,
aziendale del suo partito, e del suo governo. È stato un bipolarismo che non ha impedito la frammentazione nè il trasformismo. Negli anni del berlusconismo il nostro paese ha conosciuto una riforma rilevante come quella del federalismo fiscale,
ma credo che storicamente questa riforma,
anche nei suoi intenti ben poco solidali,
vada intestata alla Lega piuttosto che a Berlusconi o alle altre forze politiche.
Il punto vero, che lo storico non ha potuto
ancora raccontare, ma che il cronista politico ha potuto osservare è che in questo
ventennio non è stato fatto nulla di concreto, né nel bene né nel male. Ricordate
la promessa di un milione di posti di lavoro? Ricordate la pensione minima a mille
euro al mese? E, ancora, la liberalizzazione delle professioni, un mercato del lavoro fluido e flessibile, un’amministrazione
dello stato efficiente, un Welfare sicuro e
non sprecone, una rete industriale priva
di lacci e laccioli capace di espandersi
malgrado la globalizzazione? Al di là del
giudizio di merito questi provvedimenti,
esprimevano un’idea di società, un proget-
ROCCA 1 DICEMBRE 2011
biamenti, sofferti, discussi, ma reali.
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ROCCA 1 DICEMBRE 2011
POLITICA
ITALIANA
18
to che non è stato minimamente realizzato. Ed erano, parevano credibili, perché
fatte da un imprenditore, un uomo che
aveva promesso di estendere al paese quanto aveva fatto nelle sue aziende. Mai nella
storia d’Italia c’è stato un tale divario fra
le promesse fatte, le idee sostenute e quel
che è stato effettivamente realizzato.
Senza aspettare gli storici, che lo dimostreranno più compiutamente e con maggiori
dati, già oggi si può affermare che per quasi
vent’anni, più di una generazione, l’Italia
è rimasta ferma, alle sue leggi, ai suoi ordinamenti, senza alcun intervento vero che
la mettesse in connessione dinamica con
il resto dell’Europa e del mondo fino agli
ultimi due anni di governo, caratterizzati
solo dagli scandali e dalla insistita riproposizioni delle leggi «ad personam» per
impedire il corso di una serie di vicende
processuali riguardanti il premier.
Non è possibile – come si sa – rimanere
fermi nella corrente. Se non la si contrasta, inevitabilmente si va indietro. Ed è
quello che è avvenuto in questi anni. Non
si è fatto nulla e la situazione è tragicamente arretrata. Valga per tutti l’esempio
sul lavoro e sulla condizione giovanile. Di
fronte alla globalizzazione, alla competitività degli altri paesi, si è verificata una
massiccia precarizzazione del lavoro che
riguarda soprattutto i giovani e una riduzione dell’occupazione. La mancanza di un
intervento del governo sia sul piano della
crescita che su quello della protezione sociale delle fasce più deboli ha aggravato
una situazione già grave e ha fatto arretrare il paese. Fino al disastro che constatiamo ogni giorno quando vengono resi noti
i dati sullo spread e sulla borsa e viene addirittura minacciato (ed è minaccia concreta) il fallimento del paese. Fino al depauperamento, a dir poco preoccupante,
del sistema democratico. I mercati hanno
deciso al posto del governo nazionale, la
Bce ha imposto all’Italia le sue proposte di
risposta alla crisi, la politica è stata estromessa nelle decisioni importanti dai centri finanziari.
Anche questo è stata la conseguenza del
«non fare».
L’immobilità politica non ha significato
però una immobilità sociale ed economica. E neppure immutabilità culturale, saldezza dello spirito del paese, nella sua etica pubblica e nell’immagine di sé. Il ventennio berlusconiano, in realtà, ha registrati molti cambiamenti, forse maggiori
e forse peggiori di quelli che gli osservatori, anche i più critici possano ora indicare.
una vita libera e luccicante
Se tutto questo è vero e, negli anni prossimi, quando gli spiriti delle contrapposte
fazioni si saranno placati, potrà essere dimostrato che l’egemonia berlusconiana si
è pienamente dispiegata sul piano culturale, dei costumi, dei modi di pensare. Qui
l’intervento c’è stato ed è stato pesante anche se ha conosciuto varie fasi.
Nella prima, quella dell’illusione, quella in
cui, per intenderci, venivano fatte mirabolanti promesse di ricchezza, gran parte del
paese è stato conquistato dall’idea di una
vita libera e luccicante in cui tutti potessero arricchirsi senza sforzo e in cui bastasse liberarsi dal lacci di uno stato oppressivo e quindi da ogni legame con gli altri per
raggiungere attraverso il proprio individuale merito il benessere agognato. L’illusione è durata poco, ma quel che è bastato
per distruggere una rete culturale di solidarietà, a cominciare con quella nei confronti dei più poveri, degli immigrati.
il rapporto con le donne
Nella seconda fase, quella più recente, che
possiamo definire del «degrado» l’intervento, davvero pesante è stato quello sul rapporto con le donne. Qui il ruolo del premier è stato diretto e devastante. Abbiamo
assistito in questi anni alla riproposizione
da parte di un uomo pubblico, presidente
del Consiglio, di un modello maschile e di
un modello femminile che ha riportato il
paese indietro di parecchi anni. E di un
rapporto fra il sesso e il potere che forse
c’è sempre stato, ma che è stato mostrato
ed esaltato con compiacimento e sicurezza. I danni sono stati enormi. Evidenti sul
piano dell’etica pubblica, della concezioni
del rapporto dei sessi. Ma sbaglierebbe chi
pensasse che questo non ha avuto e non
ha niente a che fare con la crisi complessiva, economica e sociale che oggi sta attraversando il paese. Essa, si è detto, almeno
al cinquanta per cento è una crisi di credibilità che riguarda la politica e chi la dirige, cioè il presidente del Consiglio. Essa è
stata profondamente minata dal suo rapporto con le donne, dalla sua arretratezza
e dalla sua volgarità. Nessun uomo pubblico può oggi per fortuna permettersi quel
che si è permesso Berlusconi provando a
cambiare l’Italia a sua immagine e somiglianza. È stato un intervento pesante, forse il più pesante, ma alla fine anche quello
è risultato determinante nella sua caduta.
Ritanna Armeni
OLTRE LA CRONACA
Romolo
Menighetti
dello stesso Autore
LE IDEE
CHE DIVENTANO
POLITICA
linee di storia
dalla polis
alla democrazia
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pp. 112 - € 13,00
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crivo poche ore dopo il varo del governo di Mario Monti, che dovrebbe arginare la drammatica crisi economica, finanziaria e di credibilità
che sta squassando l’Italia. Mi auguro che riesca nel suo intento, soprattutto per proteggere il lavoro e i risparmi dei ceti medio-bassi.
Ciò detto, aggiungo che il quadro entro il
quale la crisi e l’intervento di Monti si iscrivono, va molto al di là del contingente.
Per cercare di capirne di più partiamo dall’attore principale, Mario Monti.
Il professore è un liberista. Laureato in
Economia alla Bocconi, si specializza a
Yale con il premio Nobel James Tobin, il
padre della tassa sulle transazioni finanziarie. Insegna economia a Trento, Torino e poi
alla Bocconi, di cui diventa prima Rettore
e poi Presidente. Commissario europeo ai
servizi finanziari e fiscali. È interlocutore
dei circoli finanziari internazionali, e ciò fa
dire a Pannella e alla Lega che è «uomo dei
poteri forti», ma lui afferma di conoscere
un solo potere forte, l’Europa. In realtà, dice
uno dei suoi più stretti collaboratori, Sandro Gozi, ha un forte profilo di indipendenza, e lo dimostra, tra l’altro, la vittoriosa
battaglia intrapresa contro la Microsoft, che
accusa di abuso di posizione dominante.
È stato consulente della Goldmnan Sachs,
una delle più grandi e affermate banche del
mondo, finita nel mirino dell’ente governativo statunitense preposto alla vigilanza
della Borsa valori per sospetta frode. Dal
2010 è presidente europeo della Commissione Trilaterale. È anche membro del Comitato direttivo del gruppo Bliderberg.
Cos’è la Trilaterale? È un’associazione fondata nel 1973 da un gruppo di cittadini nord
americani, europei e giapponesi. Un forum
permanente di dibattito che approfondisce
i grandi temi comuni alle tre aree interessate, e che fornisce contributi intellettuali
utili alla soluzione dei problemi affrontati.
Cos’è il gruppo Bliderberg? È un incontro
annuale, per inviti, di 130 partecipanti circa, i cui nomi sono resi pubblici. Vi partecipano personalità del campo economico,
politico, bancario e militare. Trattano temi
globali. Nulla si sa all’esterno circa il contenuto delle discussioni. Si dice che influen-
S
zino decisioni chiave nello scenario internazionale, a partire dal trattato di Roma del
1957. Possono favorire l’ascesa di politici
vicino agli interessi delle multinazionali. A
Bill Clinton e a Tony Blair venne data la
possibilità di tenere un discorso al meeting,
un anno prima delle elezioni che li videro
vincitori.
Entrambi i gruppi, si dice, rientrino nella
fantomatica Teoria del complotto, la teoria
che attribuisce la causa ultima di un evento o di una catena di eventi a una cospirazione.
Ciò detto, non è azzardato ipotizzare essere Monti il rappresentante del pensiero economico liberista che interviene a salvare
l’Europa capitalistica, alla quale Berlusconi non riesce più a dare sufficiente garanzia di esecuzione dei propri indirizzi. È
un’impresa difficile e impopolare, dalla
quale però dipende la sopravvivenza dell’attuale sistema politico. Questo manderebbe
allo scoperto un tecnico per non compromettersi e per non bruciare i propri esponenti in caso di insuccesso.
È questo il «peccato strutturale», entro il
quale il personalmente corretto e competente Monti deve agire. Egli è un liberale
alla Stuart Mill, che per primo, nel Diciannovesimo secolo, tentò di coniugare libero
mercato e profitto con le esigenze dei lavoratori e della povera gente. Infatti, una delle sue parole chiave più spesso ripetute in
questi giorni, è equità.
Comunque, anche se Monti riuscisse a salvare l’Italia, il nodo di fondo continua a restare il capitalismo: questo dimostra ancora una volta di non essere il migliore dei
sistemi economici possibili, come invece
pretende. Anzi, si svela ancor più come sistema predatorio, che per sopravvivere e
continuare a fare profitti deve conculcare
diritti dei cittadini e decurtare salari dei lavoratori.
A fronte di questo capitalismo in crisi, e
perciò più spietatamente incattivito, le opposizioni pare non riescano ad approntare
un minimo di alternativa. Eppure questa
va cercata e resa operante. In caso contrario dovremo ciclicamente affrontare crisi
analoghe.
❑
19
ROCCA 1 DICEMBRE 2011
il liberista
ECONOMIA
quanto vale
un’ora
di lavoro?
Roberta
Carlini
nna ha ventidue anni, e l’anno
scorso ha voluto sposarsi. Con
Giovanni, che fa il giardiniere e
sistema le tenute dei villeggianti
del Circeo, ha trovato una casetta, o meglio una mezza casetta ritagliata tra le ville: camera cucina e
bagno, un piano terra con un po’ di giardino. Pagano 450 euro al mese. Da qualche
tempo anche Anna si è messa a lavorare,
in un negozio di frutta e verdura. Statisticamente, fa parte di quel piccolo esercito
di donne che prima erano considerate, nei
conti dell’Istat, «inattive», e adesso sotto i
morsi della crisi sono tornate sul mercato
del lavoro, a cercare un posto a qualsiasi
condizione. Ed eccole, le condizioni di
Anna: una promessa di contratto futuro
(dunque per ora lavoro nero), paga di tre
euro all’ora, orario variabile, nella media
sulle sei ore al giorno.
A
tre euro all’ora
ROCCA 1 DICEMBRE 2011
Ha fatto scandalo, nell’Italia delle crisi e
dei default, ma anche del benessere ostentato e del potere economico mondiale rivendicato, il crollo della casa di Barletta,
che ha svelato sotto di sé la realtà di un
laboratorio tessile al nero nel quale le operaie morte erano pagate quattro euro l’ora.
La paga di Anna non è molto lontana da
quella delle tessili pugliesi. Un osservatore straniero, che venisse a vedere le nostre
tragedie ben più profonde di quelle degli
spread dei Btp, chiederebbe: ma quant’è il
minimo legale in Italia? Risposta: non c’è.
20
Non c’è un minimo salariale di legge da
noi, ci sono i minimi dei contratti nazionali ma non c’è una soglia di decenza universale che valga per tutti e tutte.
Però andiamoli a vedere, i contratti nazionali e quel che prevedono. Il primo che viene in mente, poiché è l’unico nel quale la
paga viene misurata in ore, è quello del
comparto «colf e badanti». Per loro, la paga
minima contrattuale dipende dalle mansioni, dal maggiore o minore grado di autonomia decisionale e di responsabilità
nella gestione della casa: per il livello più
basso la paga minima è di pochissimo superiore ai 4 euro, ai quali vanno aggiunti i
contributi che il datore di lavoro deve versare. Salendo un po’ più su nella scala del
lavoro, tra quei grandi settori che l’Istat
monitora sotto la voce «retribuzioni contrattuali», troviamo nel gradino appena
immediatamente più alto i lavoratori, per
la maggior parte lavoratrici, delle pulizie:
ossia quelle che le pulizie le fanno fuori
dalle case, nei condomini, negli ospedali,
nei grandi uffici, nei vagoni ferroviari... La
loro paga contrattuale, a stare alle tabelle
dell’Istat, è di 9,34 euro all’ora lordi. Attenzione: il fatto che siano contate al lordo (cioè comprensive di tasse e contributi) e conteggiando nella paga anche la tredicesima, fa sì che quella cifra sia molto
superiore a quella che materialmente arriva nelle tasche dei lavoratori. Che è almeno di un terzo più bassa. Perciò, per
avere un’idea realistica di quanto si guadagna in Italia, possiamo dire che tra i «fortunati» che hanno un contratto il livello
ROCCA 1 DICEMBRE 2011
più basso è sui sei euro netti all’ora.
Si potrebbe pensare che si tratta di una
categoria assai poco protetta, non fortemente sindacalizzata, né specializzata.
Però andando più su nelle classifiche Istat,
e arrivando a coloro che un tempo facevano da «pilota» a tutto il convoglio della contrattazione, ossia i metalmeccanici, non è
21
ECONOMIA
che facciamo un grande balzo: 12,69 euro
all’ora la paga lorda. È chiaro che in questa media ci sono valori alti e bassi, e un
operaio fortemente specializzato in una
fabbrica che richiede molti straordinari
guadagnerà ben di più; ma c’è anche chi,
pur in tuta blu, guadagna di meno. Nella
media di tutti i lavoratori contrattualizzati nel settore privato in Italia (escludendo
dunque quelli che lavorano senza contratto collettivo, tutti i contratti parasubordinati, nonché le finte partite Iva, e ovviamente escludendo il sommerso), il livello
della paga dell’operaio è di 12,40 euro all’ora, quella dell’impiegato di 15,52 euro
l’ora. Al netto, siamo sui nove euro per gli
operai, sui 12 per gli impiegati.
si può essere poveri lavorando
ROCCA 1 DICEMBRE 2011
Ora, è vero che quasi nessuno si fa i conti
sul suo stipendio in ore: conta avercelo, il
lavoro, e portare a casa un reddito a fine
mese. Ma i dati appena citati fanno saltare sulla sedia. Fanno toccare con mano
quanto abbia colpito, negli anni, la progressiva svalutazione del lavoro, della sua
importanza e della sua dignità. Dietro la
grande crisi in cui siamo immersi c’è anche questo. Anzi, soprattutto questo. Anche se l’emergenza quotidiana si chiama
spread – parola entrata nel gergo comune,
che sta a indicare in sostanza quanto è rischioso investire in un paese –, l’emergenza più lunga, quella che ci portiamo dietro
da anni, è in quanto è diventato rischioso
lavorare in questo paese. Perché il lavoro
non ti mette più in salvo: perché è precario, perché può saltare da un momento all’altro, ma anche e soprattutto perché è
pagato poco. E questo, mentre tutto il resto è pagato molto, gli spazi pubblici gratuiti si restringono sempre di più e sempre più spesso dobbiamo aprire il portafoglio per pagare beni e servizi che un tempo erano gratis, a disposizione di tutti.
Insomma, il lavoro non ti mette più in salvo rispetto al rischio della povertà. Anche
noi abbiamo imparato a declinare
un’espressione, i «working poors», i lavoratori poveri: mentre prima erano poveri
quelli che non avevano un lavoro e dunque un reddito, adesso si può essere poveri lavorando. Mentre parallelamente abbiamo importato anche un altro fenomeno,
quello dei «working rich», i lavoratori ricchi (o i ricchi che lavorano...): espressione
che indica il fatto che la nuova ricchezza è
soprattutto di alcuni «mestieri», che hanno a che fare con il grande giro dell’élite
finanziaria.
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bassa produttività e forti ritardi
Qualcuno dirà (soprattutto tra gli economisti): se il lavoro è pagato poco, è perché vale poco. «Bassa produttività», è il
termine. E c’è del vero in questo – anche
se parallelamente ci si dovrebbe chiedere
a quale alta produttività corrispondessero gli stipendi dei top della finanza che ci
hanno portato al crollo. C’è del vero, e ha
a che fare con i ritardi di innovazione tecnologica delle nostre aziende, con il fatto
che si è investito pochissimo, con la mancanza di un’idea di lavoro forte che potesse sostituire quella del lavoro nella
grande industria. Nessuna Anna accetterebbe di andare a lavorare per tre euro
all’ora in un negozio, se nella sua stessa
zona ci fosse una fabbrica che le offre un
lavoro con un contratto, le ferie, la malattia, la gravidanza. In assenza, non resta che stare a casa (e il 56% delle donne
italiane lo fa), o spostarsi per trovare condizioni migliori, in altre parti d’Italia o
magari all’estero: cosa che è successa in
vasta scala negli anni prima della crisi, e
che continua a succedere, soprattutto per
le fasce del lavoro più qualificato e le donne con più alta istruzione.
la catena spezzata
Ma c’è anche l’altra faccia della medaglia.
Ammesso (e non concesso) che i salari siano bassi solo perché il lavoro è poco produttivo, resta il fatto che a redditi bassi
corrispondono bassi consumi, dunque
poca domanda (e povera) di beni e servizi,
dunque aspettative assai scarse delle imprese sui ritorni degli investimenti. È l’antica catena di Ford che si è spezzata: se
pago bene i miei operai, compreranno anche più macchine, dunque farò più profitti. Un meccanismo che si è rotto, nella corsa al ribasso del costo del lavoro mondiale: nella quale ciascuno spera di comprimere i salari dei suoi operai e vendere i
prodotti agli operai (ben pagati) di qualcun altro. Può funzionare, per qualcuno,
oppure può andare male per tutti – e a
quanto pare negli ultimi tempi sta prevalendo la seconda ipotesi. I tre euro all’ora
di Anna (e i quattro delle operaie di Barletta che non ci sono più, e i pochi spiccioli in più della massa dei lavoratori italiani)
ci ricordano che tutto ciò non funziona;
ma anche se funzionasse non sarebbe accettabile, da una Repubblica che vanta in
Costituzione di essere fondata sul lavoro.
Roberta Carlini
CAMINEIRO
Yasunì
I
to un fondo presso l’Onu in cui però finora sono finite tante promesse e pochi spiccioli. Cile e Perù hanno donato 100 mila
dollari ciascuno e l’Italia ha «promesso»
che cancellerà 35 milioni di dollari di debito contratti dall’Ecuador. In totale, secondo il capo dei negoziati del progetto, Yvonne A-Baki, l’Ecuador ha racimolato circa
40 milioni di dollari, una somma ancora
lontana dai 100 milioni previsti per la fine
del 2011. Anche questo progetto è vittima
della crisi eppure dalla sua realizzazione
dipende una parte della salute, della qualità della vita, dei disastri ambientali del
futuro.
il volontariato nel tempo
della crisi
Sarebbe una strategia infame pensare al
volontariato per ridurre i costi del lavoro
e contare su manodopera a buon mercato
o gratuita. La crisi in corso deve adottare
il volontariato come volano di coesione
sociale, sorgente di cultura di solidarietà,
indice di responsabilità nella comunità,
presidio di legalità. Nel tempo della crisi il
movimento di volontariato è chiamato a
giocare un ruolo fondamentale e, per questo, lungi dal divenire terreno di sfruttamento, deve essere sostenuto e promosso.
Lo diciamo mentre volge al termine l’anno del volontariato promosso dall’Unione
Europea che ha prodotto molta riflessione sul tema ma poche misure a sostegno
dell’attività e della cultura del volontariato stesso. Eppure siamo convinti che ci
sono due modalità per vivere la crisi. L’egoismo del «si salvi chi può» e la solidarietà
che ci permette di venirne fuori insieme.
Per chi si iscrive a questo secondo partito,
il volontariato rimane una proposta e uno
stile di vita, un’opportunità e un’occasione di crescita. Il controcanto a una crisi
che è innanzitutto etica.
23
ROCCA 1 DICEMBRE 2011
Tonio
Dell’Olio
l «Proyecto Yasunì Itt» potrebbe diventare una bandiera. Qualcosa di più
di un modello e un buon esempio da
seguire. È una proposta dell’Ecuador
che finora è rimasta abbastanza inascoltata, isolata. Per alcuni è una idea
di scarto perché minaccia l’economia mondiale anche se sostiene l’ecologia globale.
Lo Yasunì è un immenso parco di 100 mila
chilometri situato nella zona amazzonica
nella regione orientale dell’Ecuador e, a
sentire gli esperti, è l’area con la maggiore
biodiversità al mondo. Si contano 1.500
specie differenti di alberi, 567 di uccelli,
173 di mammiferi, oltre 100 mila specie di
insetti. Finora questa regione è stata preservata anche dalla devastazione edilizia
ma da qualche tempo c’è una minaccia
molto più seria che grava su questa terra:
è stato scoperto il petrolio. Si calcola che
dall’intera area si estrarrebbero 800 milioni di barili di oro nero. Lo sfruttamento di
questa risorsa sarebbe stata «una boccata
d’ossigeno» per un Paese tanto povero
come l’Ecuador ma il ministro dell’ambiente Alberto Acosta nel 2007 lanciò un’idea
originale. Calcolando che l’attività estrattiva e il conseguente disboscamento sarebbe stato un danno non solo per le popolazioni indigene che abitano lo Yusanì, ma
per tutto il pianeta che avrebbe ricevuto
400 milioni di anidride carbonica in più,
ovvero un contributo determinante per il
cambiamento climatico, propose un piano internazionale. Il governo dell’Ecuador
rinuncia a questa ricchezza ma chiede alle
nazioni più ricche della terra di versare
nelle casse dello stato 3,5 miliardi di dollari in 13 anni. Chiede esattamente la metà
di quanto guadagnerebbe dalla vendita del
petrolio! Insomma si propone ai governi
del mondo di rinunciare a comprare petrolio e di acquistare aria pulita. Di adottare qualche ettaro di quella foresta per
preservarla dallo sfruttamento e garantire
la biosfera. Per questa ragione è stato aper-
ROCCA 1 DICEMBRE 2011
Fiorella
Farinelli
T
utti uguali a scuola i figli di genitori italiani e quelli di genitori stranieri? Più uguali, certo, che in altri ambiti del vivere sociale. Ma è
nei dettagli, si sa, che si annidano
il diavolo e la sua coda. Basta, per
esempio, un banale viaggio di istruzione
all’estero, o un progetto europeo di scambio tra scuole, per scoprire improvvisamente che Ahmed o Svetlana, compagni
quotidiani di banco e di avventure, questa volta non saranno dei nostri. Nell’area
di Schengen in verità possono andare, per
brevi periodi, anche gli «extracomunitari», ma non quando sia pendente il rinnovo del permesso di soggiorno. Carta da aggiornare ogni anno immancabilmente,
con procedure dai tempi incerti, sempre
più lunghi del prescritto, e problematiche
se nel frattempo ai genitori sia capitato
di non avere più un lavoro regolare (più
di 600.000, in questi anni di crisi, i permessi perduti per questo motivo) o di non
poter certificare qualcuna delle numerose condizioni cui è sottoposta la «regolarità».
che fatica diventare cittadini!
È il guaio di non essere riconosciuti come
24
«cittadini», anche se in Italia si vive da sempre perché è qui che si è nati o si è arrivati
da piccoli, prima dell’età della scuola. Prima, qualche volta, di aver imparato a camminare e a parlare. Non importa. La legge
italiana prescrive che solo con la maggiore età si acquisisce la facoltà di richiedere
la cittadinanza, e solo se si può documentare una residenza regolare ininterrotta per
tutti e diciotto gli anni precedenti. Una
regola che vale, paradossalmente, anche se
i genitori la sospirata cittadinanza dovessero averla intanto già acquisita.
Quanti sono oggi i ragazzi cosiddetti di
«seconda generazione»? Un numero imponente, e in crescita continua. Più di 500.000
su un milione di minori figli di genitori
stranieri. La maggioranza degli iscritti alle
scuole dell’infanzia e alla primaria, più del
40% di quelli iscritti alla media, più di un
quarto di quelli delle scuole superiori, ma
i numeri si impennano da un anno all’altro.
Cosa pensano di questa situazione? Come
incide sul loro vissuto, sulle speranze nel
futuro, sul giudizio su di noi e sull’Italia?
Sono insofferenti, ci dicono tutte le indagini, della denominazione stessa di «immigrati», che ritengono a ragione assolutamente inadatta a rappresentare la loro
INTEGRAZIONE
il diavolo
e la sua coda
della Fondazione Agnelli, rifiutano di restare inchiodati al destino dei padri e delle
madri, contano su diplomi e qualifiche
professionali. Che miscuglio di risentimenti e rancori potrà nascerne se le speranze
verranno deluse, e se continuerà ancora a
lungo questa loro ostinata esclusione dalla cittadinanza?
l’Italia sono anch’io
Il 9 settembre scorso ha preso il via la
campagna «L’Italia sono anch’io» per raccogliere, entro la fine di febbraio, le firme necessarie per proporre due leggi di
iniziativa popolare, una sul diritto di cittadinanza dei figli di genitori stranieri
nati in Italia, l’altra per il voto amministrativo per i migranti regolarmente residenti. La campagna, promossa da diciotto organizzazioni fra cui Acli, Arci,
Caritas italiana, f-Cei, Tavola della Pace,
Sei-Ugl, Cgil e G2Seconde generazioni –
la più importante associazione di riferimento attiva in molte città italiane – viene dopo l’insuccesso della proposta di
legge presentata alla Camera nel 2009
dagli onorevoli Granata (finiano) e Sarubbi (cattolico del partito democratico).
Proposta bipartisan, sottoscritta da cin-
ROCCA 1 DICEMBRE 2011
vicenda personale, e ancora di più di quella di «stranieri». Perché anche se non rinnegano le loro origini, gli affetti familiari,
la lingua e la cultura dei genitori, per molti di loro è il paese in cui sono nati, cresciuti e di cui parlano la lingua, il luogo
che sentono come proprio, e in cui immaginano anche il loro futuro. Identità bivalenti, in bilico tra appartenenze diverse, ma
più di metà – secondo l’indagine Cnel 2011
della Fondazione Agosti – ha frequentazioni «miste», mentre lo stesso vale solo per
l’86% dei coetanei italiani.
E tutti aspirano a lavori migliori di quelli
dei padri, in linea, se sono studenti, con i
titoli di studio che conseguiranno. Tant’è
che quando superano gli ostacoli dei deficit linguistici e i condizionamenti economico-sociali delle famiglie, hanno comportamenti scolastici particolarmente impegnati e determinati, come rivelano gli insegnanti. E affollano, proprio come i giovani operai italiani degli anni settanta, i
corsi serali degli istituti tecnici e professionali con cui rimediare ai fallimenti della prima volta (40% di abbandoni precoci
nella scuola secondaria superiore, contro
il 17% degli studenti italiani) o con cui
conciliare studio e lavoro.
Vogliono crescere, sottolineano le analisi
25
ROCCA 1 DICEMBRE 2011
INTEGRAZIONE
26
quanta parlamentari di tutti i gruppi politici esclusa la Lega, con cui si chiedeva
il superamento dello ius sanguinis, secondo cui la cittadinanza si acquisisce,
come fosse un patrimonio ereditario,
solo da genitori già cittadini, e l’introduzione dello ius soli, che invece la riconosce automaticamente, salvo esplicita rinuncia dei genitori, a chi nasce e risiede
nel paese. La via, insomma, seguita da
sempre dalla Francia e adottata recentemente anche in Germania, prima inchiodata come noi al «diritto del sangue».
Ma i buoni esempi, e i lungimiranti argomenti, non sono serviti. La proposta è stata rapidamente stoppata , liquidata dall’arrendevolezza della maggioranza di governo alle fiere contrarietà dei leghisti, e anche dai timori di parte dell’opposizione di
alienarsi, con una battaglia forte e aperta,
qualche consenso del proprio bacino elettorale. Tempi troppo bui per incrinare facilmente la cappa di piombo di politiche
emergenziali durature, e rinvigorite dall’impatto crudele della crisi sull’occupazione e sul welfare. Ora ci si riprova, con un
impegno diretto anche di parte del Pd, ma
è evidentemente molto alto il rischio che
la raccolta delle firme resti un’iniziativa di
sola testimonianza.
Anche se il 15 novembre, nel corso di un
incontro al Quirinale dedicato ai «nuovi
cittadini italiani», è sceso apertamente in
campo con argomenti profondi e convinti
lo stesso Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.
Si moltiplicano, intanto, perché le seconde generazioni corrono verso il 10% di un
bacino giovanile sempre più ridotto rispetto alla popolazione più anziana, gli studi e
le riflessioni. Ce ne sono di quelle che mettono soprattutto l’accento sui processi di
convergenza, tra gli adolescenti italiani e
quelli con back ground migratorio, degli
stili di vita, dei modelli di consumo, delle
passioni e abitudini comuni, Facebook e i
cellulari, moda, musica, sport, palestre e
tifoserie calcistiche. Anche, dice il Cnel, lo
scarso interesse per la politica, la lontananza dal sindacato, la freddezza rispetto al
volontariato.
Se tensioni ci sono, effettive o potenziali,
si tratta di conflitti culturali o, come per
tutti gli adolescenti di qualsiasi nazionalità, di conflitti generazionali? Se lo chiede,
per esempio, lo studio della Fondazione
Agosti, che ha però il limite di analizzare
solo i ragazzi di provenienza straniera che
frequentano le scuole superiori, non quelli dei corsi di formazione professionale,
non quelli ingoiati dal lavoro nero o pre-
cario.
Più nuovi e interessanti gli studi che concentrano l’attenzione su alcuni specifici
settori e nazionalità. I ragazzi di famiglia
araba, per esempio, e musulmana, che
sono un terzo circa dell’universo, egiziani,
marocchini, maghrebini. In «Ragazzi della moschea», un lavoro recentissimo di Vladimiro Polchi, il difficile equilibrio tra
identità e appartenenze diverse, e la propensione a vedere comunque il proprio
futuro qui in Italia, è turbato dal contrasto tra ciò che sta succedendo nei paesi di
origine – il risveglio democratico, e il grande ruolo giocato dai giovani – e la percezione di un’Italia sempre più difficile, chiusa, xenofoba, vecchia, in declino.
L’«italian dream», la visione di un paese
aperto, che promette benessere e democrazia, quella che ha affascinato i loro padri e
le loro madri e spinto le ondate migratorie, si rivela oggi debole e faticoso. Meno
attraente, delle folle giovanili che dall’altra parte del Mediterraneo stanno aprendo orizzonti del tutto nuovi.
Allora la stessa proposta dell’«integrazione» suona male. Fioccano critiche e prese
di distanza. «Una parola che non mi piace, come se avessi qualcosa che mi manca;
semmai è il contrario, pur sentendomi italiana io ho qualcosa di più visto che sono
anche egiziana». «Integrare significa sommare, unire, mantenendo quello che sono
e cercando di imparare le novità positive:
ma se per integrarmi devo togliermi il velo,
questa non è integrazione».
le ragazze pakistane
Accanto a queste inquietudini, intessute
anche dell’indignazione per i contrasti sulle
moschee e per le diffuse ostilità nei confronti dei musulmani, ci sono però anche
tensioni diverse. Soprattutto delle ragazze
delle comunità più chiuse e maschiliste,
come quella pakistana. Qui l’Italia può
sembrare ancora un paese solare, che promette libertà inedite, ma sarà davvero così
con il lavoro che manca e le stesse italiane
costrette a disoccupazione e sottoccupazione? I «pensieri grigi» di una crisi che
sembra non debba avere mai fine, di un
paese in precipitoso crollo di credibilità internazionale, contagiano anche loro. Non
è una buona notizia. Anche se conferma
che sono ormai parte del nostro mondo,
permeati e permeabili dai nostri punti di
vista. Con-cittadini, evidentemente, anche
in questo.
Fiorella Farinelli
SPE
il re porta la parrucca
P
Un po’ di filosofia analitica, può
essere un buon punto di partenza
per una riflessione sul linguaggio
e sulle sue trappole...
Analitica nel senso de psicanalitica? Stamo a fa già a psicanalisi in pedagogia, e ce
se mette pure lei co filosofia?
Analitica nel senso di analitica. Avrete sentito sicuramente parlare di uno dei suoi
esponenti più importanti, un pensatore
bizzarro ma grandissimo, Ludwig Wittgenstein, carattere difficile, personalità geniale
e sregolata...
Certo che sti filosofi so tutti strani... uno
se beve er veleno, l’artro dice mazza e corna daa borghesia e poi è più borghese de
l’artri... uno se suicida... n’artro se voleva
sposà poi nun se sposa perché c’ha na crisi
mistica...
Ma adesso non è di Wittgenstein che voglio parlarvi, che pure una crisi mistica l’ha
avuta, ma di uno dei padri dell’analisi, uno
che le crisi mistiche non sapeva nemmeno
cosa fossero. Vorrei parlarvi di Bertrand
Russell, il quale sosteneva che una proposizione è vera se le corrisponde qualcosa
nella realtà.
Ma parla arabo sto Rass...
Al contrario, pensava che la chiarezza fosse uno degli scopi della filosofia ma che
molte espressioni che crediamo vere sono
ambigue, false o insensate. E che noi dobbiamo scoprire l’inganno. A tal proposito
faceva un esempio: prendiamo il re di Francia e chiediamoci se è completamente cal-
vo o se ha i capelli (anche pochi, non è necessario che sia un figlio dei fiori).
Professò, se è vera l’una è falsa l’artra. O ce
l’ha o nun ce l’ha, i capelli!
Per Russell erano entrambe false. Perché
secondo voi?
Professò, sul libro ho letto che il re poteva
portare la parrucca e quindi...
Sì, ma quella è una provocazione di Russell, la cui risposta è che non possiamo dire
nulla del re di Francia (né che è calvo, né
che ha i capelli, né che porta la parrucca)
semplicemente perché non esiste un re di
Francia.
Me piace stà filosofia sintetica.
Analitica, analitica!
No, dicevo sintetica perché con poche parole ce fa capì!
Attualizziamo il ragionamento di Russell
e chiediamoci se è vera la seguente affermazione: il precedente governo aveva abbassato le tasse.
O le aveva abbassate o nun le aveva abbassate, professò, a parte che un giorno dicevano na cosa e l’artro giorno ne dicevano
n’artra. E nun se capiva mai qual era la
verità.
Appunto qual era la verità?
Professò ho capito tutto, so un grande de
’a filosofia, st’anno me deve da mette almeno nove, altro che Rass..., e chi so?
Kant? La risposta potrebbe essere: che il
governo portava la parrucca oppure che
non esisteva un governo!
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ROCCA 1 DICEMBRE 2011
Stefano
Cazzato
rofessò che famo oggi?
TERRE DI VETRO
cecità
ROCCA 1 DICEMBRE 2011
Oliviero
Motta
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giù un’altra picconata. L’ennesimo
colpo al nostro welfare è stato tentato nelle settimane scorse ai danni delle persone cieche e ipovedenti. Come se non bastasse aver azzerato il fondo per la non autosufficienza, attentato alle pensioni d’invalidità e ridotto al lumicino i fondi per gli interventi sociali dei Comuni.
Il ministero dell’Interno ha tentato di azzerare i contributi previsti per l’erogazione di servizi destinati alle persone cieche e
ipovedenti e in tutta Italia alcune centinaia di associati all’Unione italiana ciechi –
peraltro «disobbedendo» al loro presidente, che aveva mostrato cautela circa una
manifestazione di piazza – hanno fatto sentire la loro voce di protesta scendendo in
strada. È successo a fine ottobre, in seguito al sostanziale azzeramento dei contributi previsti da due leggi degli anni ’90, finalizzati all’erogazione di servizi per i ciechi e gli ipovedenti. Il taglio ai fondi – ha
fatto sapere l’Uic – significherà la cancellazione dei servizi erogati, con «la conseguenza di far tornare i ciechi e gli ipovedenti, un universo di circa due milioni di
persone, indietro di almeno 50 anni».
Rileggiamo con attenzione l’ultima frase:
la conseguenza di far tornare indietro i ciechi di almeno 50 anni. Vuol dire tornare a
prima della stagione dei diritti, riandare a
quando le famiglie se la dovevano cavare
da sole o affidarsi alla carità delle istituzioni private (quasi sempre religiose).
«Mi rifiuto di pensare – ha affermato Tommaso Daniele, il presidente nazionale – che
il ministro Maroni, titolare del ministero
che ha operato i tagli, sia a conoscenza di
un provvedimento così iniquo: spero, invece, che si tratti di una svista di un funzionario ignaro delle finalità delle leggi 24/
1996 e 379/1993».
«Se così non fosse – ha continuato Daniele
E
– dovrei pentirmi di aver creduto per anni
nella giustizia sociale, nella solidarietà, nel
bene comune, nel valore delle istituzioni e
ammettere quello che comunemente si
dice: che la classe politica opera solo in
funzione del tornaconto del proprio elettorato. I ciechi e gli ipovedenti sono consapevoli della gravità della crisi che attraversa il nostro paese, ma non sono disposti a pagare due volte: una volta come cittadini, un’altra come disabili. Infatti, essi,
non appena appresa la notizia, mi hanno
tempestato di telefonate invitandomi a
mobilitare la categoria per far sentire forte la loro indignazione. Nonostante i miei
dubbi circa l’opportunità di scendere in
piazza in un momento così critico del nostro paese, alcune centinaia di essi hanno
disobbedito e oggi sono in piazza per ottenere che un provvedimento così iniquo sia
cancellato». «È chiaro – conclude Daniele
– che se questo non dovesse avvenire, la
lotta si farà più dura e i due milioni di ciechi ed ipovedenti scenderanno in piazza
tutti insieme per gridare: Vergogna! Vergogna!».
A questo siamo: persino i ciechi scendono
in piazza. E noi, gente regolare? Niente.
Sembra quasi che i fondi dedicati a chi
fatica o non vede più del tutto siano affare
«privato» o di lobby limitate. Quasi che
dedicare attenzione e cura (delle quali i
soldi sono solo segno e strumento) ai più
deboli non abbia significati più ampi e profondi, non riguardi anche il modo di concepire la cittadinanza e l’umanità comune.
Farsi carico delle fatiche dei più fragili
della società è invece l’essenza stessa della
(nostra) civiltà.
Dimenticarlo vuol dire trasformarsi in cittadini e istituzioni cieche.
Non c’è peggior cieco di chi vuol chiudere
gli occhi.
LA SCUOLA NELL’ERA DELLA TECNOLOGIA DIGITALE
le nuove grammatiche
della fantasia
Pietro Greco
A
vviso (è il caso di dirlo) ai naviganti:
stiamo entrando, come la Alice di
Lewis Carroll, in un mondo sconosciuto e ricco di paradossi. Situazione tipica di ogni grande e inatteso attraversamento. Di tutte le grandi transizioni
epocali.
Il paese delle meraviglie in cui siamo entrati è
quello delle nuove tecnologie informatiche dei
computer, di internet, dei mobile phone, del WiFi, dei video game, degli i-Phone, degli i-Pod,
degli i-Pad, dei tablet, dei social network, di Facebook, di Twitter, di YouTube (si parla inglese,
almeno per ora, in questo universo).
Un insieme di nuove tecnologie che disegna un
nuovo universo cognitivo. In cui un flusso multidirezionale, enorme e senza precedenti di informazione scritta, sonora e per immagini consente (potenzialmente) la comunicazione di
tutti con tutti, abbattendo ogni barriera di tempo e di spazio, creando una nuova e più vasta
dimensione della società umana.
Il nuovo universo cognitivo è, con ogni probabilità, il sistema più complesso in cui il nostro
universo fisico si sia imbattuto nel corso della
sua storia, lunga 13,7 miliardi di anni o giù di
lì. Un numero enorme di agenti (potenzialmente 7 miliardi, praticamente almeno 2 dotati di
spiccata intelligenza ma occorrerebbe dire di
una serie di spiccate intelligenze) e, probabilmente, di libero arbitrio che hanno la possibilità di intessere tra loro infinite interazioni comunicative in tempo reale.
Come e più di ogni altro sistema complesso, il
nuovo sistema cognitivo ha una sua dinamica
non lineare, caotica, imprevedibile. E, soprattutto, può generare «fenomeni emergenti», che
non sono riducibili alla semplice somma delle
proprietà degli elementi del sistema ma appartengono al loro insieme.
Quel qualcosa che alcuni chiamano «mente collettiva» e altri semplicemente civiltà umana, non
è riducibile alla semplice somma dell’intelligenza di un certo numero di uomini, ma è un «fenomeno emergente» di un certo numero di uomini
organizzati che hanno tra loro un certo tipo di
relazioni e formano una certa comunità.
Le «primavere arabe» sono state «fenomeni
emergenti» generati da milioni di volontà individuali (più pane, più libertà) mediate e autoorganizzate attraverso Twitter e i telefonini (sorry, i mobile phone). Le «primavere arabe» sono
una delle manifestazioni più evidenti, ma non
l’unica, di come l’insieme delle nuove possibilità tecniche sta generando una nuova forma di
democrazia. Se si vuole, sta generando una
maggiore domanda di democrazia.
Eccoci, dunque, alla prima domanda connessa
all’ingresso nel nuovo universo cognitivo: la connessione inedita e continua di tutti con tutti farà
nascere (sta già facendo nascere) una nuova «intelligenza sociale»? Siamo, ciascuno di noi, i
neuroni di una nuova ed emergente «mente globale»? Costituisce, questa nuova «mente globale», un nuovo salto dell’evoluzione culturale? E
nel far parte, in maniera più o meno cosciente,
di questa «mente globale» come cambia la nostra mente individuale (e, magari, come cambia il nostro cervello)? Come cambiano i nostri
comportamenti, culturali e non?
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ROCCA 1 DICEMBRE 2011
giornalista scientifico, scrittore
Fondazione Idis-Città della Scienza, condirettore Scienzainrete
LA SCUOLA NELL’ERA DELLA TECNOLOGIA DIGITALE
la nuova trasmissione
dei caratteri culturali acquisiti
Tuttavia, proprio poiché siamo neuroni
dotati di autocoscienza e di libero arbitrio,
possiamo – dobbiamo – anche chiederci
come, in questo nuovo e promettente e
paradossale universo cognitivo nel quale
ci ritroviamo, può e deve avvenire la trasmissione dei caratteri culturali acquisiti
(il sapere, i valori)? O, detta in altro modo,
che tipo di scuola dobbiamo organizzare
per i nostri figli?
Nel nostro cervello individuale i neuroni
si scambiano informazioni attraverso un
semplice e lineare impulso elettrico. Il nostro cervello – e quella sua proprietà emergente che chiamiamo mente – organizza
con modalità non lineari queste informazioni e le trasforma in «conoscenza».
Nella società umana pre-digitale, gli uomini si scambiano le informazioni che contribuiscono all’evoluzione culturale dell’intera comunità mediante un processo relativamente lineare, top-down: da chi sa a
chi non sa. Succede, non sempre in maniera controllata, nella vita quotidiana e
lo chiamiamo esperienza. Succede, in maniera più organizzata e sistematica, in
ambienti chiusi e circoscritti: e lo chiamiamo scuola.
Come procedono la trasmissione dei caratteri culturali acquisiti e l’evoluzione
culturale nella società digitale? Ovvero:
quale scuola possiamo e dobbiamo organizzare?
Si tratta, ovviamente, di domande aperte.
Nessuno, penso, ha una risposta definitiva. Anche se molti la stanno cercando. E
tutti – come Alice cascata all’improvviso
in un nuovo e bizzarro mondo – si imbattono, appunto, in una serie di paradossi.
Tra cui possiamo individuarne tre piuttosto significativi. Che, con sintesi giornalistica e dunque eccessivamente semplificatrice, possiamo identificare come: il «paradosso dell’esploratore bianco», il «paradosso di Thamus» e il «paradosso dei neuroni».
il paradosso dell’«esploratore bianco»
ROCCA 1 DICEMBRE 2011
Il primo paradosso, quello che abbiamo
definito «dell’esploratore bianco», riguarda il fatto che noi adulti, ultratrentenni,
siamo tutti immigrati digitali. Siamo qui a
parlare di un nuovo universo – un universo cognitivo – dove siamo approdati di recente. E abbiamo il compito (forse la presunzione) di analizzarlo, di descriverlo e
di elaborare delle mappe efficienti da pro30
porre a chi in questo universo invece ci è
nato, ai nativi digitali.
Spesso, quando ci assumiamo questo compito, non ci comportiamo come suggerisce Lewis Carroll e come si comporta Alice – sempre pronta a meravigliarsi, ad apprendere dai nativi e, pertanto, a comprendere il paese in cui è capitata – ma ci comportiamo, appunto, come quegli «esploratori bianchi» che giunti nel «nuovo mondo» non solo lo hanno analizzato e descritto con i propri criteri di europei, ma hanno voluto imporre ai nativi, con le buone e
troppo spesso con le cattive, la propria
cultura e i propri valori.
Incapaci, noi come gli «esploratori bianchi», di provare meraviglia e di comprendere che lì, nel «nuovo mondo», valgono
altre regole, altre griglie cognitive, altre
griglie valoriali. Incapaci di accorgerci di
essere degli alieni che perturbano l’intrinseca armonia di quel «nuovo mondo» che
(perché) non capiamo.
Fuor di metafora. Per noi – generazione
nata con la prima televisione, rigorosamente in bianco e nero e con un solo canale, con i primi razzi che partivano verso
lo spazio, con la macchina da scrivere in
casa e con il telefono accessibile solo in
una cabina fuori casa mediante un centralino con gli spinotti – l’insieme evolutivo
fatto di computer, internet, telefoni cellulari, video game, Wi-Fi, i-Pod, i-Pad, tablet,
social networks, Facebook, Twitter, YouTube costituisce un «nuovo mondo».
Facciamo fatica a comprenderne le logiche, le dinamiche, le regole. Facciamo fatica a esplorarne le potenzialità. Le utilizziamo, le nuove tecnologie, ma con le modalità cognitive con cui usavamo, al meglio, le vecchie. Utilizziamo il cellulare
come il vecchio telefono, il computer come
la vecchia macchina da scrivere. Siamo
lenti, in senso tecnico: impieghiamo un’ora
a inviare un sms e non capiamo come nostro figlio, per inviare un messaggio analogo, impieghi appena un secondo. Siamo
lenti, in senso metaforico: non abbiamo
abbastanza domande rispetto alle risposte
potenziali che le nuove tecnologie possono offrirci. Siamo lenti in senso cognitivo:
continuiamo a pensare in maniera seriale
e lineare, mentre nel nuovo mondo ci si
muove in maniera parallela e non lineare.
Siamo sconnessi (rispetto a questo nuovo
mondo), anche quando siamo connessi (a
internet). Vogliamo governarlo. Ma con le
regole del vecchio mondo.
D’altra parte la nostra formazione è avvenuta in un tipo di sistema in cui il flusso
della comunicazione è continuo, lineare,
il paradosso di Thamus
Narra Socrate all’amico Fedro che un giorno Thamus, re in una grande città d’Egitto, abbia invitato a corte Theuth, il dio col
bernoccolo dell’invenzione. Thamus è curioso di conoscere il dio che ha inventato i
numeri, e poi il calcolo aritmetico, e poi la
geometria, e poi lo studio del cielo, l’astronomia. Ma è soprattutto curioso di conoscere il dio che, da ultimo, ha inventato
l’alfabeto. Theuth, soddisfatto, illustra al
re, una per una, quelle sue creazioni e promette che le farà conoscere agli Egiziani.
Di ciascuna, però, Thamus, re pignolo e
un tantino diffidente, vuol discutere pregi
e difetti.
Giunto, dunque, all’alfabeto, Theuth spiega: «Questa scienza, o re, renderà gli Egiziani più sapienti e arricchirà la loro memoria, perché questa scoperta è una medicina per la sapienza e la memoria».
Ma il re risponde: «O ingegnosissimo Theuth, una cosa è la potenza creatrice di arti
nuove, altra cosa è giudicare quale grado
di danno o di utilità esse posseggano per
coloro che le useranno. E così ora tu, per
benevolenza verso l’alfabeto di cui sei inventore, hai esposto il contrario del suo
vero effetto. Perché esso ingenererà oblio
nelle anime di chi lo imparerà: essi cesseranno di esercitarsi la memoria perché fidandosi dello scritto richiameranno le cose
alla mente non più dall’interno di se stessi, ma dal di fuori, attraverso segni estranei: ciò che tu hai trovato non è una ricetta per la memoria ma per richiamare alla
mente. Né tu offri una vera sapienza ai tuoi
scolari, ma ne dai solo l’apparenza perché
essi, grazie a te, potendo avere notizie di
molte cose senza insegnamento, si crederanno di essere dotatissimi, mentre per la
maggior parte non sapranno nulla; con
loro sarà una sofferenza discorrere, imbottiti di opinioni, invece che sapienti».
Per fortuna l’invenzione della scrittura non
si è rivelata una catastrofe per l’umanità,
come prevedeva il diffidente re egizio. Ma
l’errore di Thamus non è stato quello di
prevedere che il nuovo, potente strumento di comunicazione avrebbe rotto i vecchi equilibri del sapere. E di formazione
del sapere. Cosa che in realtà ha fatto. L’errore di Thamus è stato quello di non prevedere che, dopo aver scompaginato le carte, il nuovo strumento di comunicazione
avrebbe ricreato un nuovo equilibrio. E che
la sapienza dell’uomo si sarebbe ricomposta ad un diverso livello. A un livello superiore.
L’errore di Thamus è di non aver colto l’ine-
ROCCA 1 DICEMBRE 2011
con approccio top-down. Il nostro modello pedagogico era Alberto Manzi, straordinario maestro che ha magnificato l’antico modello della lezione frontale facendola passare, persino esaltandola, in televisione.
Negli ultimi due decenni, tuttavia, sono
nati qui sulla Terra oltre 2 miliardi di
bambini. I più grandi oggi hanno, appunto, vent’anni. I più piccoli stanno emettendo i primi vagiti. Nessuno tra costoro ha conosciuto l’Unione Sovietica e i
venti della guerra fredda. Tutti hanno conosciuto Nelson Mandela unicamente
come un uomo libero. Per loro il volo di
Gagarin e lo sbarco sulla Luna sono vestigia del passato. Nessuno tra questi giovani ha visto una televisione in bianco e
nero. Pochi guardano ancora la televisione. E pochissimi tra loro hanno parlato
attraverso un telefono fisso, collegato
con un filo alla rete. Per loro internet,
ma anche l’Aids o gli Ogm o il Gps sono
sempre esistiti.
Loro sono sempre vissuti completamente
immersi in un mondo tecnologico rapidamente evolutivo fatto di computer, internet, telefoni cellulari, video game, Wi-Fi,
i-Pod, i-Pad, tablet, social networks, Facebook, Twitter, YouTube. Non conoscono
altro mondo che questo. Non conoscono
alcun altro modo di muoversi nel mondo
che questo.
Loro vivono nel nostro stesso mondo tecnologico, ma in un diverso universo cognitivo.
Loro sono zappiens, come dicono Wim
Veen e Ben Vrakking: interconnessi e creativi. Una ne pensano e cento ne fanno.
Letteralmente. Sono multitasking: mentre
studiano ascoltano musica, inviano sms,
con l’occhio fisso all’aggiornamento della
chat. L’apprendimento avviene per «quanti
di informazione», per bit, non per flussi
continui. Immagine, suono e scrittura formano, al contrario, un continuo. Per noi
sono dimensioni differenti. Per i giovani
zappiens imparare è giocare. E nel loro
mondo non si impara se non si gioca. Se
non si giocano più partite contemporaneamente. Nei video game agiscono in mondi virtuali e apprendono come comportarsi nel mondo reale.
Loro vivono nel paese delle meraviglie e
non ne conoscono altri. Siamo noi che
dobbiamo comprendere e adattarci alla
nuova realtà. Anche e soprattutto se vogliamo contribuire a governarla.
Perché non è sempre una realtà desiderabile. Come ci insegna il prossimo paradosso.
31
LA SCUOLA NELL’ERA DELLA TECNOLOGIA DIGITALE
ROCCA 1 DICEMBRE 2011
ludibile ambiguità, la carica distruttiva e
insieme la capacità creativa, che accompagna ogni grande innovazione tecnica. E,
quindi, anche ogni grande innovazione
nella tecnica del comunicare.
Le nuove ICT (information and communication technologies) – computer, internet,
telefoni cellulari, video game, Wi-Fi, i-Pod,
i-Pad, tablet, social networks, Facebook,
Twitter, YouTube – rappresentano nel loro
insieme una recente, grande innovazione
nella tecnica del comunicare. Per certi versi
paragonabile all’invenzione della scrittura o all’invenzione della stampa. Grazie
anche a questa innovazione, negli scorsi
anni abbiamo lasciato la società industriale
per entrare nella società dell’informazione e della conoscenza. Di più. Grazie a
questa innovazione la comunicazione si
pone quale paradigma fondante della nuova società globale in un’economia di flussi
immateriali: la società e l’economia della
conoscenza.
Come il saggio e diffidente re Thamus,
molti prevedono (e, anzi, già vedono) antichi equilibri, culturali e sociali, disfarsi
all’impatto con le nuove, potenti tecnologie. Come Thamus, per esempio, alcuni
psicologi, come Vittorino Andreoli, temono che «genererà oblio nelle anime dei zappiens», perché «essi cesseranno di esercitare la memoria, fidandosi della navigazione richiameranno le cose alla mente non
più dall’interno di se stessi, ma dal di fuori, attraverso segni estranei»; ciò che gli
informatici hanno trovato «non è una ricetta per la memoria ma per richiamare
alla mente». Né voi insegnanti che pensate di utilizzare le nuove tecniche offrirete
«una vera sapienza ai vostri scolari, ma ne
darete solo l’apparenza perché essi, grazie
a voi, potendo avere notizie di molte cose
senza insegnamento, si crederanno di essere dotatissimi, mentre per la maggior
parte non sapranno nulla; con loro sarà
una sofferenza discorrere, imbottiti di opinioni, invece che sapienti».
Non è del tutto infondata la paura di Thamus rinnovata da Andreoli. Rompere vecchi e consolidati equilibri produce macerie. Fa male. Mentre non sempre, o almeno non sempre immediatamente, dopo il
terremoto si verifica la ricostruzione e si
ricompongono i nuovi equilibri a un livello superiore.
E in effetti il terremoto della comunicazione mediata attraverso l’elettronica e l’informatica sta sconvolgendo le solide procedure istituzionali che hanno caratterizzato la
società industriale moderna. Sotto l’incalzare di computer, internet, telefoni cellula32
ri, video game, Wi-Fi, i-Pod, i-Pad, tablet,
social networks, Facebook, Twitter, YouTube, si ricompongono nuove procedure, i cui
profili non sono, per ora, molto chiari.
Assistiamo, per esempio, alla progressiva
mercificazione dell’informazione. Ciò avviene perché nella logica economica (che
alcuni confondono con la logica elettronica) la conoscenza non è perseguita per se
stessa, ma è legittimata dal suo rendimento. E, quindi, è sempre più considerata
come una merce. Peraltro in una società
in cui il consumo è subentrato al lavoro
quale elemento fondante.
Nella società dell’informazione, l’informazione è ridotta a un bene di consumo. Nella società dell’informazione, dunque, i
mezzi di comunicazione – anche i nuovi
mezzi di comunicazione come computer,
internet, telefoni cellulari, video game, WiFi, i-Pod, i-Pad, tablet, social networks, Facebook, Twitter, YouTube – rischiano di
non «offrire più sapienza» a chi li usa, ma
«solo l’apparenza della sapienza», così che
essi, gli zappiens, «potendo avere notizie
di molte cose senza insegnamento, si crederanno di essere dotatissimi, mentre per
la maggior parte non sapranno nulla; con
loro sarà una sofferenza discorrere, imbottiti» come sono di merce-notizie, «invece
che sapienti».
L’analisi è inquietante, ma non è ancora
completa. Continuiamo, come Thamus, a
interrogare il dio dell’innovazione.
Le nuove tecnologie informatiche non hanno abbattuto solo vecchie categorie. Hanno anche creato un nuovo spazio. Quello
che lo scrittore di fantascienza William
Gibson ha chiamato cyberspace. E che un
gruppo di architetti e filosofi, riunitisi a
Austin, presso la University of Texas, nel
1990 ha definito «ambiente interattivo virtuale generato dal computer». O meglio,
generato da una rete sempre più estesa e
interconnessa di computer.
Anche in questo caso, qualcuno pignolo e
diffidente come il vecchio re Thamus, si è
fermato a osservare gli effetti negativi immediati, le macerie, prodotti dall’impatto
della formidabile innovazione con i vecchi equilibri della comunicazione e, se volete, della sapienza. Si tratta di effetti reali, veri. Mica inventati. Che potremmo riassumere in tre grandi categorie: la perdita
della fisicità, la crescita del rumore, la tendenza all’omologazione e alla integrazione.
Qualcuno vede le nuove comunità virtuali
che si sono create nel cyberspace e già immagina che in futuro, un futuro già iniziato, la rete ci catturi. Totalmente. Definitivamente. Che i zappiens vivranno tutti,
biamo ora chiederci cosa fare per evitare il
grande errore del lucidissimo re. Come fare
per evitare il paradosso di considerare l’invenzione della scrittura una catastrofe per
l’Egitto e per la sapienza degli Egiziani.
Beh, considerato che l’alfabeto non può
essere disinventato, l’unico modo per evitare di incorrere nell’errore di Thamus, è
di impadronirsi della tecnica della scrittura e di cominciare a scrivere cose sapienti.
Come hanno fatto, non senza difficoltà, i
nostri antenati.
Considerato che computer, internet, telefoni cellulari, video game, Wi-Fi, i-Pod, iPad, tablet, social networks, Facebook,
Twitter, YouTube non possono essere distrutti e che la rete mondiale di computer
non può essere destrutturata, considerato
che noi adulti siamo entrati da immigrati
in un universo digitale da cui non possiamo più uscire, l’unico modo per evitare di
considerare le nuove tecnologie informatiche una catastrofe per il mondo e per
l’umanità è di impadronirsi delle tecniche
digitali e di dare, ciascuno, il proprio piccolo o grande contributo a ricostruire, al
più presto e al più alto livello possibile,
l’equilibrio della comunicazione e l’equilibrio del sapere che sarebbe stato sconvolto (o che potrebbe essere sconvolto) dai
nuovi media.
Questo, e non altro, è il nostro compito.
il paradosso dei neuroni
Il sistema evolutivo formato da computer,
internet, telefoni cellulari, video game, WiFi, i-Pod, i-Pad, tablet, social networks, Facebook, Twitter, YouTube che ci consente di
comunicare se non tutto con tutti, certo
molto con molti. Consente, dunque, di creare una rete di relazioni sociali molto più estesa e molto più complessa che in passato.
Ma costituisce davvero un nuovo universo
cognitivo?
O, detta in altro modo, ha bisogno di un
altro cervello?
Ancora. Il cervello dei nativi digitali è diverso – da un punto di vista strettamente
neurofisiologico – da quello di noi, immigrati digitali e, a maggior ragione, dal cervello degli stranieri digitali, ovvero di coloro che, per una ragione o per l’altra, non
hanno accesso alle nuove tecnologie ICT?
Inutile dire che la ricerca sul rapporto tra
mente, cervello e ambiente culturale è di
antica data. E che ha prodotto numerosi
risultati empirici che, tuttavia, hanno ancora bisogno di essere inquadrati in una
teoria, ammesso che lo possano mai essere. Non è questo il luogo per passare in
ROCCA 1 DICEMBRE 2011
come cervelli in una vasca, con un corpo
decorporalizzato, in un mondo senza materia, in un’oasi telematica al cospetto di
puri miraggi. Di ombre ad alta definizione
che si muovono in un laboratorio di metafisica platonica. Le immagini, vagamente
poetiche, sono un po’ esagerate. Ma, se non
quello della perdita totale della fisicità,
molti sostengono che il rischio di un certo
sfilacciamento dei rapporti col mondo che
si tocca per chi, come i zappiens, vive in
rete, esiste.
Molti, ancora, sostengono che l’unica cosa
reale, nel mondo virtuale del cyberspace, è
il rumore. Chi vi si addentra, si imbatte in
una quantità di informazione così grande, e così poco strutturata, da essere, nel
concreto, inutilizzabile. E in questo oceano di rumore, come avrebbe detto Thamus,
è la sapienza dei zappiens ad annegare. In
verità il rumore in rete è davvero cospicuo.
E il rischio di esserne frastornati non è
banale.
Il terzo e, forse, il principale dei rischi che
corrono i zappiens è l’omologazione culturale e, di conseguenza, l’integrazione in
un unico e piatto «universo simbolico». Si
riuscirà nel cyberspace a trovare un posto
alle diversità culturali, alle tante sapienze,
del pianeta? Il problema non è solo e non
è tanto quello dell’omologazione linguistica, che pure c’è (in rete si parla inglese,
ma i cinesi stanno già lavorando affinché
domani si parli cinese). Il vero problema è
quello della omologazione a un unico paradigma culturale. Già, perché, la globalizzazione dei flussi di informazione, ampliata dalla rete, non è democratica di per
sé. Diventa democratica se il flusso è realmente bidirezionale (anzi, multidirezionale), se tutti hanno la concreta possibilità
non solo di ricevere, ma anche di immettere informazione. E, soprattutto, se «la
partecipazione dell’individuo non si limita al ruolo di osservatore voyeuristico» ma
è davvero partecipazione attiva.
Gran parte della popolazione del mondo –
5 miliardi di persone su 7 – hanno enormi
difficoltà se non una vera e propria impossibilità ad accedere alla rete. È il digital
divide. E non distingue solo il mondo ricco da quello povero. Attraversa anche i singoli paesi. Per questo, come vedremo, il
problema del digital divide è parte dei moderni diritti di cittadinanza.
Bene, dopo aver riconosciuto, cercando di
avvicinarci per quanto possibile alla lucida diffidenza di Thamus, i rischi, reali, che
corriamo tutti quali membri della nuova
società dell’informazione; riconosciuti i rischi, specifici, che corrono i zappiens; dob-
33
LA SCUOLA NELL’ERA DELLA TECNOLOGIA DIGITALE
ROCCA 1 DICEMBRE 2011
rassegna questi risultati. Tuttavia vale la
pena ricordare che proprio nei giorni scorsi
due neuroscienziati inglesi – Jérôme Sallet e Matthew Rushworth, dell’antica università di Oxford, in Gran Bretagna – hanno pubblicato sulla rivista Science i risultati di una ricerca nel tentativo di rispondere proprio alla domanda che abbiamo
posto prima: il cambiamento delle dimensioni dell’ambiente sociale nel quale viviamo modifica, fisicamente, il nostro cervello?
La risposta è sì. Sallet e Rushworth, in realtà, hanno studiato questa relazione sui
macachi. Verificando che c’è un rapporto
diretto e lineare tra la dimensione dei gruppi in cui vivono le scimmie e il volume di
materia grigia che c’è nel loro cervello, anzi
in specifiche aree del loro cervello, in particolare nei lobi frontali e temporali. I due
ricercatori hanno anche verificato che più
grande è il volume di materia grigia, maggiore è il successo sociale delle scimmie. Il
macaco dominante ha, in genere, più materia grigia degli altri competitori.
Lo studio non risolve il problema di cosa
causa cosa. Se sono certe caratteristiche
neuroanatomiche del cervello a favorire la
costituzione di gruppi di dimensioni maggiori o se, viceversa, è il vivere in gruppi
sociali più grandi che determina lo sviluppo di alcune strutture cerebrali.
Noi sappiamo, tuttavia, che in certi casi è
l’esperienza che determina l’evoluzione del
cervello. È dimostrato, per esempio, che
le aree cerebrali che si attivano quando un
professionista suona un violino o un pianoforte sono del tutto diverse da quelle che
si attivano quando un dilettante suona il
medesimo brano con il medesimo strumento.
Lo scorso 19 ottobre Ryota Kanai e Geraint
Rees, dello University College di Londra,
hanno pubblicato sui Proceedings of the
Royal Society B uno studio sul cervello degli umani, in cui dimostrano che c’è una
correlazione tra il volume di materia grigia (ovvero dalla quantità di neuroni) e la
partecipazione a gruppi estesi su Facebook. Sì, hanno cercato di rispondere proprio alla nostra domanda: vivere in questo
nuovo universo di relazioni sociali, vivere
in questo nuovo universo cognitivo richiede una nuova mente e persino un nuovo
cervello?
La risposta è sì. Chi frequenta Facebook
ha un cervello diverso da chi non lo frequenta. E l’intensità con cui vive nel nuovo universo è in relazione diretta con i cambiamenti cerebrali. Ancora una volta, però,
non è chiaro se persone con più materia
34
grigia tendono a formare reti di relazioni
digitali più estese o se, al contrario, è la
partecipazione a reti digitali estese che favorisce lo sviluppo di materia grigia.
Nulla vieta che ci sia un rapporto coevolutivo. Come ha dimostrato a livello filogenetico Robin Dunbar, il «processo di encefalizzazione» è in stretto rapporto coevolutivo con il «processo di socializzazione»:
nel corso dell’evoluzione biologica il volume del cervello dei primati e degli stessi
membri del genere Homo è aumentato in
maniera abbastanza lineare con il numero dei membri dei gruppi sociali costituiti. Homo erectus o, dopo Homo sapiens ha
un cervello più grande e costituisce gruppi più grandi di scimpanzé, australopitecine o anche di Homo habilis. Secondo
Dunbar lo sviluppo è stato, appunto, di tipo
coevolutivo. Un cervello più grande ha consentito la costituzione di gruppi più numerosi e la necessità di governo delle relazioni in gruppi più estesi ha consentito lo
sviluppo di cervelli più grandi.
È interessante notare, sostiene Dunbar, che
lo sviluppo delle zone cerebrali connesse
al linguaggio – come le aree di Broca o di
Wernicke – si è avuta quando i membri del
genere Homo hanno iniziato ad associarsi
in gruppi così estesi che non era più possibile utilizzare i vecchi tipi di comunicazione fisica tra individui, come il grooming.
A ben vedere è stata quella la prima forma
di passaggio da una comunicazione sofisticata di tipo materiale a una forma di
comunicazione sofisticata immateriale.
Di recente Giacomo Rizzolatti e i suoi colleghi a Parma hanno scoperto i «neuroni
specchio». Sono neuroni che si attivano sia
quando un individuo – una scimmia o un
uomo – compie un’azione (per esempio
muove un braccio per afferrare una banana) sia quando la vede compiere. Non abbiamo la possibilità di addentrarci nel
mondo dei neuroni specchio. Ma il gruppo Rizzolatti ha dimostrato che essi giocano un ruolo determinante nell’apprendimento, nello sviluppo del linguaggio (gestuale e orale) e nell’empatia, nella capacità di comprendere le intenzioni dell’altro. In altri termini avere relazioni con gli
altri aumenta sia la conoscenza sia l’intelligenza sociale.
A questo punto possiamo svelare il paradosso – anzi, i paradossi – dei neuroni. La
partecipazione ai social networks e, più in
generale, alla «vita digitale» immateriale
sembra determinare un cambiamento fisico del cervello. Ma, viceversa, sembra
anche che i cervelli fisicamente più predisposti partecipano in maniera più piena
le nuove grammatiche della fantasia
Nell’anno 1970 un giornalista italiano,
Gianni Rodari, riceve il premio Andersen,
il massimo riconoscimento per chi si occupa di letteratura per l’infanzia. E nel suo
discorso di ringraziamento spende più di
metà del tempo parlando del signor Isacco Newton. Strano, vero?
Niente affatto. Era il discorso più naturale che potesse fare. Era un discorso che
può insegnarci qualcosa. Che può insegnarci a insegnare. E cercheremo di dimostrarlo.
Molti critici ormai riconoscono la grandezza assoluta di Gianni Rodari, anche in
mancanza di un capolavoro assoluto. Alcuni lo collocano non solo tra i grandi della letteratura per l’infanzia, ma tra i grandi della letteratura tout court (anche se il
suo nome raramente compare nei manuali
universitari). Pochi però – anzi, a dir la
verità, nessuno finora – ha sottolineato
come alla base della sua proposta ci sia
un ménage à trois tra letteratura, filosofia
e scienza. O meglio, ci sono la (critica alla)
scienza e la (critica alla) tecnologia.
Eppure la sua «vocazione profonda» per
la filosofia della natura e per la filosofia
della tecnica Rodari l’ha espressa, per così
dire, in intenzioni e in opere. Ovvero l’ha
teorizzata e negli ultimi vent’anni, della sua
vita, l’ha fatta intimamente percolare in
tutte e ciascuna delle sue opere.
Basta, d’altra parte, dare un fugace sguardo alla sua sterminata letteratura per rendersene conto. All’inizio degli anni ’50 i
protagonisti delle sue prime (e bellissime)
favole sono Cipollino, Pomodoro, il Principe Limone.
Personaggi, per così dire, «frutta e verdura».
Espressione del mondo che Rodari, giornalista e scrittore comunista, ha ancora
come riferimento. «Quei personaggi mi
piacevano: mi ricordavano i miei primi
anni all’«Unità», quando lavoravo in cronaca, e mi occupavo di questioni alimentari, e ogni giorno facevo il giro dei mercati, guardavo i prezzi, e parlavo con commercianti e massaie, e scoprivo tanti problemi nella borsa della spesa della gente»,
ricorderà in Storia delle mie storie.
Ma tra la fine degli anni ’50 e l’inizio degli
anni ’60 i luoghi e i protagonisti delle sue
fiabe cambiano. Diventano affatto diversi.
I luoghi non sono i mercatini rionali, ma i
pianeti più lontani e lo spazio cosmico. I
personaggi non sono quelli «frutta e verdura», ma astronauti, robot, scienziati.
Persino i pulcini, sono pulcini cosmici.
Perché a un certo punto Rodari passa da
Cipollino al Pulcino Cosmico? Dal mercato di quartiere ai laboratori scientifici?
Dall’aritmetica del fruttaiolo alla matematica degli insiemi. La causa prossima è ovvia. Perché dopo il lancio dello Sputnik del
1957 il cielo comincia a popolarsi di razzi,
di satelliti artificiali, di astronauti. È una
successione rapida, impressionante.
Tutti colgono la novità: il mondo sta cambiando. Lo spazio sembra ridursi a cortile
di casa. Con le nuove tecnologie e le vecchie risse. Ma pochi colgono la profondità
del nuovo. Se il mondo cambia, cambia
l’uomo.
Gianni Rodari è tra i primi ad accorgersi
che la novità introdotta dalla tecnoscienza è epocale. Un autentico spartiacque. E
da quel momento inizia a scrivere, come
sostiene nell’introduzione a Il Pianeta degli Alberi di Natale pubblicato nel 1962, per
«i bambini di oggi, astronauti di domani».
Egli avverte che i bambini di oggi – i bambini nati intorno alla metà degli anni ’50 –
sono in una condizione affatto nuova. A
differenza dei loro genitori, sono destinati
a diventare astronauti, useranno le nuove
tecnologie per viaggiare nello spazio.
Rodari sente che la sua è una generazione
di «immigrati spaziali» chiamata a trasmettere conoscenze e valori – a insegnare – ai «nativi spaziali».
ROCCA 1 DICEMBRE 2011
alla «vita digitale» immateriale. Tra questi due corni dell’evoluzione culturale fisicità e virtualità non si gioca solo il rapporto tra «immigrati digitali» e «nativi digitali». Ma si gioca, in maniera tutta da scoprire, anche la capacità di apprendimento
scolastico dei «nativi digitali».
Tenuto conto che il ruolo della genetica –
dati i tempi dell’evoluzione biologica – è
minimo, mentre è massima la plasticità del
cervello umano: ovvero la capacità dei singoli di adattarsi in tempo reale all’ambiente che cambia.
Cosicché non dobbiamo temere il nuovo
universo cognitivo in cui siamo immersi.
Il nostro cervello – a maggior ragione quello dei «nativi digitali» – è capace di accettare la sfida. Così come il cervello si trasforma se un violinista dilettante diventa
professionista – ovvero quando lo stimolo
da discontinuo e poco sistematico, diventa continuo e sistematico), è capace anche
del contrario: adattarsi a un flusso di informazioni discontinuo e multidirezionale. Il nostro cervello è capace di adattarsi
a percorsi formativi lineari che richiedono un’alta capacità di concentrazione a
percorsi formativi discontinui, che richiedono la capacità multitasking.
35
LA SCUOLA NELL’ERA DELLA TECNOLOGIA DIGITALE
ROCCA 1 DICEMBRE 2011
Quella dei «bambini di oggi, astronauti di
domani» è una prospettiva che Gianni
Rodari giudica realistica. Egli immagina
davvero che di lì a qualche lustro lo spazio
sarà ridotto a cortile di casa dell’umanità.
Ma è anche una metafora. Una potente
metafora che ci parla di una transizione,
appunto, più grande e più profonda. Gianni Rodari percepisce che il mondo sta entrando in una nuova era, che la società
umana sta entrando in una nuova dimensione: l’era e la società che Norbert Wiener proprio in quegli anni va definendo
dell’informazione e della conoscenza. Si
tratta di una transizione epocale. La terza
grande transizione nella storia dell’umanità: paragonabile a quella che 8.000 anni
fa ha trasformato le società fondate sull’economia della caccia e della raccolta in
società fondate sull’economia della coltivazione e dell’allevamento; e a quella che
meno di tre secoli fa ha creato una società
fondata sull’economia industriale.
In questa transizione la scienza assume un
ruolo da protagonista. Perché l’era della
conoscenza è caratterizzata sia dalla produzione incessante di nuova conoscenza (e
niente più della scienza produce in maniera incessante nuova conoscenza) sia dall’innovazione tecnologica (e niente più della
nuova conoscenza prodotta dalla scienza
alimenta l’innovazione tecnologica). La
scienza percola nella società e la rimodella.
La novità è senza precedenti. E dunque,
sostiene Gianni Rodari, anche (e soprattutto) chi scrive per l’infanzia ne deve tener
conto. Nulla, infatti, è più come prima.
«L’idea che il bambino d’oggi si fa del mondo è per forza tutt’altra da quella che se ne
può essere fatta, da bambino, il padre stesso da cui lo separano pochi decenni», scrive nella sua Grammatica della fantasia pubblicata nel 1973.
Aveva ragione. Ha più che mai ragione. I
nostri figli, tra la fine del XX secolo e questo inizio del XXI secolo, si stanno facendo un’idea del mondo in maniera affatto
diversa rispetto a quella che ne siamo fatti
noi padri, tra la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni ’60 del XX secolo.
E noi stessi, allora, primi bambini con un
futuro da astronauti, ci siamo fatti un’idea
del mondo in maniera completamente diversa rispetto a quella che avevano maturato i nostri padri, trent’anni prima, tra la
fine degli anni ’20 e l’inizio degli anni ’30.
Mentre quella dei nostri padri non era
molto diversa da quella dei nostri nonni e
dei nostri bisnonni.
I nostri figli, nati agli sgoccioli del XX secolo e in questo inizio del XXI, sono vissu36
ti (e vivono tuttora) non solo in case ipertecnologizzate – televisioni con decine di
canali, play station, iPod e soprattutto
computer connessi con la grande rete globale – ma in un universo cognitivo completamente diverso.
Un bambino oggi è naturalmente in condizioni di fare operazioni diverse, forse
anche cognitivamente più complesse, rispetto a quelle realizzate dal padre qualche decennio prima e dal padre del padre
nella generazione precedente.
Nulla, dunque, più della scienza e della
nuova tecnologia collegata alla scienza ha
modificato il modo in cui le nuove generazioni si fanno un’idea del mondo.
È per questa intuizione (e per come l’ha
trasmessa) che Gianni Rodari appartiene
a pieno titolo ai quei grandi poeti e scrittori, espressione della vocazione più profonda della letteratura italiana, che da
Dante a Galileo, da Leopardi a Calvino,
hanno cucito incessantemente le fila di
quell’ordito che tiene insieme la letteratura, la filosofia e la scienza.
È questa intuizione che noi tutti dobbiamo cogliere, io da giornalista e scrittore,
voi da insegnanti: dobbiamo reinventare
la grammatica della fantasia e della trasmissione della conoscenza. È importante, ma non decisivo, il tipo di strumenti,
nuovi o antichi, che utilizziamo. Quello che
è importante è raccontare ai bambini, agli
adolescenti, ai giovani e anche agli adulti
sia il mondo nuovo in cui ci hanno sbarcato la scienza e la tecnologia sia il nuovo
modo di pensare il mondo nell’era della
scienza e della tecnologia.
Tenendo conto che gli oggetti di cui parliamo – i computer come li conosciamo oggi,
il web come lo conosciamo oggi, i mobile
phone, il Wi-Fi, i video game, gli i-Phone,
gli i-Pod, gli i-Pad, i tablet, i social network,
Facebook, Twitter, YouTube – già domani
saranno oggetti del passato. Quello che resterà sarà la necessità di imparare ad agire
criticamente in un mondo tecnologico in
così rapida evoluzione da sbarcarci continuamente in nuovi universi cognitivi.
Eccola, dunque, la nuova dimensione. Siamo sbarcati nell’era del «multiverso cognitivo» degli infiniti universi cognitivi. In cui
siamo tutti «immigrati» e nessuno è «nativo». Siamo tutti astronauti esploratori.
Dobbiamo evitare l’errore di comportarci
come i nostri padri, esploratori bianchi, e
imparare, come Alice (e come Rodari) a
elaborare le nuove «grammatiche della fantasia».
Pietro Greco
Lampedusa senza parole
C
he Lampedusa sia luogo di confine è risaputo. Al limite dell’Europa dal punto di vista politico, emersione di terra africana sul piano geologico, quest’isola convive da sempre con la sua condizione di frontiera.
Ma esiste un’ulteriore linea di demarcazione che percorre quest’isola in modo più o
meno visibile, più o meno esplicito, ed è
un confine antropologico e linguistico che
delimita zone inaccessibili all’ascolto e al
racconto, e soprattutto all’informazione.
Frontiere fra il «noi» e il «loro» oggetto di
sorveglianza armata, ma soprattutto blindate da una circolare del Ministro dell’Interno Maroni (prot. n.. 1305 del 01/04/
2011), che vieta alla stampa l’accesso ai
centri di Prima Accoglienza Temporanea
(Cpt) così come ai Centri di Identificazione ed Espulsione (Cie) sul resto del territorio nazionale.
Così quando un nuovo sbarco riversa centinaia di migranti sulle coste lampedusane, dando il via all’efficiente operazione di
conteggio, primi accertamenti medici, accompagno ai servizi igienici, e infine trasporto al Centro di Contrada Imbriacola,
l’occhio della macchina da presa e gli obiet-
tivi dei fotografi sono tollerati purché si
mantengano entro la distanza minima
imposta al fine di non intralciare le manovre di attracco e primo soccorso – bene
allora fotografare i migranti da una certa
distanza, ma guai a parlare con loro, anche quando ci si attenga al margine imposto, guai a chiedere loro un semplice –
Come stai? o Come ti chiami? Da dove vieni? Gli addetti alla sicurezza non lo consentono. Restano quindi solo le immagini,
fatte di visi spaventati, di corpi sfibrati,
disidratati dalle lunghe traversate in assenza di acqua e cibo. Primi piani drammatici, o panoramiche su volti che si sommano a creare una moltitudine nella quale
l’identità muta, spogliata della possibilità
di raccontarsi, è sostituita dall’identificazione e dall’enumerazione.
Sui giornali, anche quelli teoricamente
capaci di rivolgere uno sguardo critico circa le politiche immigratorie volute dalle
istituzioni italiane ed europee, il messaggio giungerà viziato dall’impossibilità di
presentare i migranti se non come massa,
come cifra depersonalizzata anziché come
narrazione.
E tali resterebbero se non fosse per l’instancabile lavoro di associazioni, Ong,
37
.
ROCCA 1 DICEMBRE 2011
testo di Luca Zanchi foto di Daria Benedetti
LAMPEDUSA SENZA PAROLE
come Terre des Hommes, Save the Children, Medici senza Frontiere, e in particolare per il ruolo rivestito dalle molte donne che ne fanno parte. Sono queste ultime
che munite di badge lasciapassare e magliette delle rispettive associazioni, attraversano un confine che oltre a essere fisico è comunicativo, tentando con il proprio
ascolto una faticosa integrazione delle
dure, spesso violente, dinamiche dell’immigrazione e della permanenza nel Cpt.
Laura e Marta raccontano
ROCCA 1 DICEMBRE 2011
Laura Verduci, 32 anni di Palermo, mediatrice culturale di Terre des Hommes, ci
racconta dei giovani minorenni alloggiati
presso la ex base Nato Loran, situata all’estremità occidentale dell’isola, circondata da scogliere a picco sul mare. Un luogo
panoramico per un turista, eppure invivibile per i giovani migranti che le dicono
«Laura, il mare è troppo vicino... la guerra
è troppo vicina, fate in modo di portarci
lontano da qui, la Libia è troppo vicina...».
Prosegue Laura «Giusto questa mattina
due ragazzi arrivati ieri mi dicevano: ma
come veniamo trasferiti nelle comunità?...
Mi avranno chiesto venti volte se la nave
era sicura... e io ho ripetuto loro che era
una nave grandissima, per le vacanze dei
ricchi. E uno di loro mi ha chiesto: ma c’è
un punto della nave in cui io possa mettermi per non vedere il mare?... e mi ha fatto
una gran tenerezza...».
Ma malgrado le possibili rassicurazioni
ricevute, le loro notti insonni tormentate
dal rumore del mare o da incubi, si protraggono ben oltre le 2-4 notti di prima
accoglienza cui sarebbero deputati i centri, estendendosi spesso fino al mese e
mezzo, e quello che dovrebbe essere un
luogo di passaggio diviene un limbo.
Se non fosse per i resoconti che Laura affiancata da Marta Bellingreri, 25 anni di
Palermo, interprete di Terre des Hommes,
raccoglie e invia due volte a settimana all’organizzazione, nulla resterebbe di queste presenze quasi fantasmatiche.
E invece Laura e Marta ci raccontano di
come i ragazzi si siano organizzati per rastrellare un po’ di terriccio dal terreno della base, e aggiungendovi acqua ne abbiano fatto sculture (una lumaca e una tartaruga) da regalare loro prima di partire.
Purtroppo non è possibile fare fotografie
degli altri lavori realizzati dai ragazzi, tan38
chiusura totale all’informazione
Di fatto si è verificato un cortocircuito comunicativo tale da rendere difficile portare «dentro» a un centro un libro o un paio
di scarpe, impossibile per un fotoreporter
e un giornalista accedervi per ascoltare, e
rischioso per le operatrici delle Ong e delle altre organizzazioni portar «fuori» le
verità cui hanno assistito – queste ultime
entrando in conflitto diretto con le autorità perderebbero infatti l’opportunità di
continuare a operare dall’interno.
Manca l’informazione, o meglio, manca la
libertà di un certo tipo d’informazione: ci
dice Laura, «Ho visto moltissimi giornalisti cercare lo scoop, e invece penso ci si
debba ‘de-giornalizzare’, essere cauti, avere a cuore non solo le storie dei migranti
ma anche quelle dei lampedusani. Prendere coscienza delle conseguenze del veicolare la notizia in un certo modo. La dinamica dello scoop va contro le necessità di
una narrazione reale e la tutela di migranti
e lampedusani. Lampedusa è un’isola di
confine e gli immigrati arrivano dagli anni
80, è un posto di mare aperto, di pescatori.
Finché l’altro non lo vedi è clandestino. Allontanare le due alterità è funzionale alla
creazione di un’Italia paurosa e razzista. Al
contrario la vicinanza sarebbe in grado di
attivare le dinamiche della pietà».
Tornando in aereo a Roma, Daria De Benedetti, fotoreporter che mi ha accompagnato sull’isola nella speranza di poter dare
un volto alle storie eventualmente raccolte, mi confida «Arrivata a Lampedusa ho
incontrato una chiusura che ha superato
qualunque altra situazione vissuta in precedenza nel mio lavoro di fotoreporter. In
qualsiasi paese esistono resistenze e ostacoli all’accesso dell’informazione, ma in
questo caso la chiusura è stata totale, venendo io tenuta lontana, impossibilitata a
realizzare qualunque scatto fotografico che
in ogni caso non avrebbe avuto alcun senso se non accompagnato da una storia».
È un mondo, quello di Daria, di un certo
giornalismo etico, che assieme alla realtà
delle organizzazioni umanitarie come quella di Laura e Marta, anela alla comunicazione e all’ascolto dei vissuti, gli unici fattori in grado di trasformare fredde operazioni di prima accoglienza e identificazione, in occasioni di autentica integrazione.
E invece restano brandelli di fatti che sono
facile oggetto di distorsione e manipolazione mediatica. Dice Daria: «Il margine
di libertà condizionata offerto sull’isola ai
fotografi di fatto alimenta un circolo vizioso – quello che inculca la paura dello
straniero, del ‘clandestino’ – parola che rifiuto. Dovremmo parlare di migranti, soprattutto nell’attuale momento di guerra.
A questi non si può negare asilo, mentre
invece attualmente si cerca di generarne
la paura e a questo fine funzionale è la distanza fabbricata dai provvedimenti e dalle
politiche di Maroni e dell’attuale governo».
Non resta che denunciare, deponendo i titoli facili, fatti di numeri e propizi agli allarmismi pre-elettorali, una inaccettabile
politica disumanizzante che sta imponendo di non dare voce al vissuto dei migranti. Eppure se vi è una lezione, appresa dagli orrori della seconda guerra mondiale,
impressa a chiare lettere nelle Costituzioni d’Europa, è proprio la necessità di non
tornare a ridurre l’altro al numero, integrando le ragioni della funzionalità, della
sicurezza e dell’economia, con quelle dell’umanità e della pietà.
ROCCA 1 DICEMBRE 2011
tomeno è possibile dotarli di altri strumenti
(colori, pennelli, pennarelli fogli) perché
qualunque fornitura deve passare per Lampedusa Accoglienza, la società appaltatrice dei servizi ai centri, e questo impedisce
che la donazione, il contributo gratuito,
attraversino il confine fra il fuori e il dentro di questi non-luoghi.
E così Laura e Marta ci mostrano le piccole fototessere che un paio di ragazzi hanno donato loro come ricordo, e ci raccontano orgogliose di essere riuscite a introdurre un libro (Alice nel Paese delle Meraviglie) nella Base e di averlo potuto leggere... o di come hanno insegnato a cantare
Bella Ciao ai ragazzi (al momento dell’imbarco, quando finalmente hanno lasciato
l’isola, sul pontile della nave da crociera
che li avrebbe portati a Livorno, un paio
di loro gliel’hanno ricantata come saluto...).
Ma queste poche, devastanti immagini
sono solo scorci che le ragazze ci offrono
non tanto per farci intravedere la realtà dei
centri, quanto per darci una misura del
vuoto informativo, dell’ignoranza e della
distanza antropologica prodotte dalle politiche immigratorie del nostro paese, con
le relative conseguenze mediatiche.
Luca Zanchi
39
RIVOLUZIONE DEMOGRAFICA
un’opportunità d’
Cristiana
Pulcinelli
P
iù che cambiamento, si dovrebbe
parlare di una vera e propria ‘rivoluzione demografica’: nel 2000, nel
mondo c’erano circa 600 milioni di
persone con più di 60 anni, nel 2025
ce ne saranno 1,2 miliardi e 2 miliardi nel 2050. Inoltre le donne vivono più
a lungo degli uomini virtualmente in tutte
le società. Di conseguenza nella fascia di
popolazione molto anziana il rapporto fra
donne e uomini è di 2 a 1.
L’età media è salita in modo vertiginoso:
in Giappone è addirittura raddoppiata dal
1950 ad oggi, raggiungendo i 44,6 anni.
L’Italia è poco al di sotto con un’età media
della popolazione di 44,3 anni. Il fenomeno è dovuto a due fattori: da un lato più
persone vivono più a lungo, dall’altro i tassi
di fertilità continuano a scendere. Risultato: una società diversa. Come si prepara il
mondo degli affari e del lavoro? Un rapporto dell’Economist Intelligence Unit
(una società di ricerca che fa parte del
gruppo dell’Economist) sponsorizzato dalla compagnia di assicurazioni Axa prova a
rispondere a questa domanda. Il titolo del
rapporto è significativo: A silver opportunity? (Un’opportunità d’argento?). Si parla infatti dei rischi e delle opportunità che
derivano dal cambiamento demografico a
cui stiamo assistendo.
La Bmw per la verità ha già cominciato.
L’azienda automobilistica ha fatto partire
nel 2007 un progetto in uno stabilimento
pilota per capire quali modifiche sono necessarie nell’ambiente di lavoro quando gli
impiegati sono più in là con gli anni. Per
far questo, l’impianto pilota ha impiegato
operai con età media uguale a quella che ci
sarà in Germania nel 2017. I cambiamenti
apportati non sono grandi, ma significativi. Le piattaforme su cui lavorano gli operai sono state fatte in legno invece che in
cemento per ridurre l’impatto sulle articolazioni; sono state inserite sedie negli ambienti di lavoro per permettere agli operai
di sedere durante alcuni compiti che normalmente vengono invece eseguiti in piedi;
sono stati dati in dotazione occhiali con lenti d’ingrandimento per i lavori di precisione; sono state aumentate le rotazioni dei
turni per evitare l’affaticamento del personale. In tutto la Bmw ha apportato circa 70
modifiche, per un costo complessivo di
40.000 euro. In compenso, la produttività è
aumentata del 7%, nessun difetto è stato
riscontrato sulla catena di montaggio e l’assenteismo è diminuito in modo sostanziale. Risultati simili a quelli che si ottengono
con lavoratori di 5-10 anni più giovani.
stabilimento pilota per anziani
L’Italia, paese dei paradossi, pur avendo la
più alta incidenza degli anziani sulla popolazione è anche uno dei paesi con tasso di
occupazione dei lavoratori anziani più basso, come scrive Enrico Pugliese nel libro «La
terza età» (Il Mulino 2011). In Italia quindi
tra gli anziani c’è meno gente che lavora
rispetto agli altri paesi europei. Tuttavia,
anche qui dovremo porci prima o poi il problema. Che, come spesso accade, ha due
facce. Le imprese infatti devono anche ripensare i prodotti e i servizi da vendere a
consumatori più in là con gli anni.
Se da un lato, infatti, le aziende dovranno
preoccuparsi di avere una forza lavoro
meno efficiente e gli stati di pagare più
pensioni e più cure sanitarie, d’altro lato –
ROCCA 1 DICEMBRE 2011
I ricercatori dell’Economist Intelligence
Unit hanno interpellato i dirigenti di alcune aziende europee, asiatiche e nordamericane. Si tratta di aziende impegnate in
settori diversi: servizi finanziari, telecomunicazioni, servizi sanitari, farmaceutica,
ma per tutti il problema principale è capire come comportarsi con una forza lavoro
più anziana. La storia della Bmw, a questo
proposito, è emblematica. Tra i paesi occidentali, la Germania è uno di quelli con
l’età media più alta: si calcola che nel 2025,
oltre un tedesco su cinque avrà più di 65
anni. Una transizione demografica con cui
anche l’industria dovrà fare i conti.
40
nuovi consumatori
tà d’argento?
si legge nel rapporto – una popolazione più
anziana è una popolazione che consuma
più di quanto risparmi. Se consideriamo
il ciclo di vita economico di un individuo,
vediamo che il lavoratore più giovane non
risparmia molto, al contrario è portato a
chiedere prestiti. Le persone tra i 35 e i 55
anni, invece, sono nel periodo della vita in
cui si tende a guadagnare di più ma anche
a risparmiare di più. Dopo il pensionamento, la bilancia torna a pendere dalla parte
dei consumi. Inoltre, gli anziani nei paesi
ricchi del mondo sono sicuramente più in
salute i quelli dei paesi in via di sviluppo,
specialmente quelli che fanno parte della
generazione del baby boom che oggi si
stanno avvicinando alla pensione. Persone in buona salute e con una maggiore disponibilità sia di soldi che di tempo: l’ideale per chi cerca nuovi consumatori.
E infatti, negli ultimi vent’anni i consumi
tra gli europei dai cinquant’anni in su sono
cresciuti tre volte più velocemente che tra
il resto della popolazione, secondo il National Endowment for Science, Technology and Arts del Regno Unito.
chiamento della popolazione è tipicamente accompagnato da un aumento del carico
delle malattie non trasmissibili, come quelle
cardiovascolari, il diabete, la malattia di
Alzheimer e altre patologie neurodegenerative, tumori, malattie polmonari croniche
ostruttive e problemi muscoloscheletrici.
Come conseguenza, la pressione sul sistema sanitario mondiale aumenta.
Le malattie croniche impongono alla popolazione anziana un peso elevato in termini economici a causa proprio della lunga durata di queste malattie, della diminuzione della qualità della vita e dei costi
per le cure. Si prevede che le spese pubbliche per l’assistenza sanitaria potrebbero
aumentare, nel periodo 2000-2050, da 0,7 a
2,3 punti del Pil. Secondo il rapporto «Stato di salute e prestazioni sanitarie nella popolazione anziana» del Ministero della
Salute, la popolazione anziana oggi in Italia determina il 37% dei ricoveri ospedalieri ordinari e il 49% delle giornate di degenza e dei relativi costi stimati.
invecchiare è un privilegio e un costo
Eppure, ci sarebbe un altro vantaggio dell’invecchiamento ancora da scoprire. Come
spiegano Chiara Saraceno e Manuela Naldini in «Conciliare famiglia e lavoro» (Il
Mulino 2011) «L’invecchiamento della popolazione non ha portato solo a un aumento dei componenti anziani potenzialmente
fragili nella rete familiare. Ha anche portato a un aumento dei potenziali carer familiari: mogli e mariti anziani, ma ancora in
buona salute, che possono teoricamente
prendersi cura in tutto o in parte del coniuge più fragile, nonne e nonni in salute e attivi che possono teoricamente dare una
mano ad accudire nipoti (poco numerosi)
non ancora autonomi». Le risorse degli anziani sono ancora tutte da scoprire. Certo,
dicono le autrici, passare dalla possibilità
teorica alla pratica dipende da molte cose.
In primis, dalle politiche sociali del paese.
ROCCA 1 DICEMBRE 2011
La salute è un tema centrale in una società di anziani. Tanto che l’Organizzazione
mondiale della sanità ha dedicato una sezione speciale del suo sito a questo argomento. «Invecchiare è un privilegio e una
mèta della società», è uno dei messaggi
proposti dall’Oms. Certo, un privilegio che
riguarda soprattutto i paesi ricchi: in Europa, ad esempio, una persona su 5 ha più
di 60 anni, mentre questo rapporto scende
a 1 su 20 in Africa.
Tuttavia, come in altre aree in via di sviluppo, il processo di invecchiamento della popolazione in Africa è più rapido che nei
paesi ‘sviluppati’, quindi c’è meno tempo per
adottare le necessarie misure per far fronte
alle conseguenze dell’aumento della popolazione anziana, fra cui l’aumento della frequenza di patologie croniche tipicamente
legate all’invecchiamento. Infatti, l’invec-
risorse da scoprire
Cristiana Pulcinelli
41
ASSALTO AI GRANDI MAGAZZINI
compro
dunque esisto
Claudio
Cagnazzo
n fila. Disperatamente in fila. Come
le truppe allo sbando della Grande
Guerra, di tanto Neorealismo, in attesa della scodella del pasto. Con una
differenza: la sconfitta segnata inesorabilmente nei volti dei soldati, la sete
di vittoria, invece, dipinta nei volti dei cittadini indisciplinatamente spalmati davanti ai grandi magazzini romani che avevano messo in liquidazione, a prezzi stracciati, beni di consumo dei più vari. Dalle
lavatrici ai computer, passando per i più
sofisticati strumenti di comunicazione moderni. Pad o Phone, o comunque si chiamino. Un delirio antropologico, capace di
fermare interi quartieri di una città. Come
la pioggia torrenziale, o l’esondazione del
Tevere, ma per fortuna senza pericoli per i
corpi. Con qualche pericolo, però, presente e futuro per le menti.
I
trionfo della merce
ROCCA 1 DICEMBRE 2011
Una impressionante fiumana, mossa secondo alcuni dal bisogno. Dalla mancanza di soldi e quindi dalla possibilità di comprare senza spendere troppo. Possibile che
sia così. Di certo per qualcuno che avesse
bisogno di una lavatrice o un frigo, non
più beni voluttuari, ma ormai coessenziali
al nostro vivere quotidiano. Qualcuno non
in grado persino di comprare a certi prezzi qualche ricambio. Che so, un tubo di
scarico. Un piano frigorifero. Scene da
anni 50. Scene del nuovo secolo, da capitalismo finanziario in crisi. Altri hanno
letto nell’evento non il segno di una crisi
totale, da miseria, ma semplicemente una
variabile della sana tendenza italiana al
risparmio. Qualcosa di simile ai bollini per
42
i punti, che tante massaie raccolgono. Non
siamo poveri insomma, ma risparmiare
comunque e dovunque, è come una missione. Altri ancora, infine, ci hanno visto
la corsa ormai irrefrenabile verso i gadget
tecnologici. Il segno di un mondo che non
riesce più a comunicare direttamente e
che, chiuso negli spazi della tecnologia
comunica di sé e del mondo senza dover
ricorrere al confronto diretto con l’interlocutore. Solitari e tecnologizzati, come
forse erano in gran parte le persone in fila,
in un giorno di ottobre romano. E magari,
aggiungiamo noi, forse eravamo di fronte
anche semplicemente a numerosi appassionati di brillanti novità. Come un tempo
per la moto, o la lambretta. Semplicemente dei curiosi inappagabili. Una serie di congetture decisamente suffragate, tutte, da
qualche evidente indizio. Non ultimo le stesse parole degli intervistati dalle varie Tv, o
persino la facies di alcuni di loro. Secondo
gli schemi di una fisiognomica rivisitata per
l’occasione. Congetture a cui però ci preme
aggiungerne un’altra, meno evidente, ma,
secondo noi, addirittura più cogente. E cioè
la necessità di rassicurazione che l’esercito
in fila, evidentemente, mostrava.
merce come feticcio
Rassicurazione per la paura magari della
povertà, di tornare ai tempi della penuria
post bellica. In fondo frigo, lavatrice, lavastoviglie, computer e nuovi strumenti, ancora più sofisticati, nel loro attestarsi continuo e profondo nei vani delle case, nelle
cucine odorose, nei salotti, a far mostra di
sé, con la loro modernità, tra divani di trenta anni fa e la immancabile vetrinetta da
tenenza tifosa coltivava. Comprare, anche
quando i soldi scarseggiano, per cercare
un’unità fittizia nella gioia di chi quella
merce gratificherà, figli, compagni, amici
o, alla fine te stesso, che una qualche gioia
effimera dovrai pure procurartela. Comprare per riscattare sentimenti bruciati.
Comprare perché di fondo dietro ogni realtà, materiale o spirituale, che sia, apparente o no, si avverte che non c’è nulla, se
non il vuoto. Comprare in continuazione
per dare solidità al proprio mondo, che ha
perso, diciamolo, qualsiasi sacralità. Per
tutti, credenti, atei, agnostici o indifferenti. La sacralità che avvertivi quando nasceva un figlio e sentivi la presenza della vita
che continuava come qualcosa di straordinario. La sacralità persino dell’amicizia
che appariva un legame stretto da qualcosa di immateriale che trascendeva tutti. La
sacralità del sogno che vedeva proiettare
sul futuro la tua, la nostra immagine, come
in una sfera magica e piena di sorprese.
La sacralità del vivere, che poteva esserci
anche senza riconoscere il sacro della divinità. La sacralità nei gesti e nelle cose
che si è perduta. E che noi cerchiamo di
riprenderci attraverso l’unico modo che ci
è rimasto, circondando gli oggetti, la merce dunque, di un valore superiore. Chiedendo a lei di colmare le nostre paure.
Cercandola anche dove essa è più ordinaria, come in certi grandi magazzini, purché ci dica che la nostra vita abbia ancora
un senso. Che ciò che facciamo ci fa esistere. Che rinnovando gli oggetti, rinnoviamo anche noi stessi e riconquistiamo appunto il diritto di esistere.
ROCCA 1 DICEMBRE 2011
modernariato, stanno esattamente a mostrare la nostra avvenuta integrazione nella società dei consumi. Il nostro partecipare alla festa della merce che dilaga. Comprare a prezzi stracciati per non apparire
straccioni. Unire l’utile con il dilettevole.
Un’occasione imperdibile per gente spaventata da un mondo ormai incontrollabile. Da società atomizzata, in cui l’anonimato regna sovrano, persino nei luoghi di
lavoro, o tra le mura di casa. Comprare per
essere tra gli altri, come gli altri. Rassicurazione anche dunque da manuale di psicologia sociale, ovvero dalla paura di non
essere omogenei al mondo circostante. Che
il vicino di casa ti possa giudicare. Che un
parente in visita possa dirti «ma non hai il
televisore?». Che il compagno di classe di
tuo figlio arrivi magari con un computer
portatile, mentre il tuo fanciullo, che ami
apparentemente tanto, non possiede neppure un computerino di terza mano. Paura di esserci dunque, ma da invisibile, come
se in fondo non ci fossi, perché la cornice
del tuo quadro vitale non esiste o si è frantumata. Comprare per esistere ancora.
Comprare per non morire negli sguardi di
chi ti circonda. Rassicurazione infine dalla paura di vivere senza più punti di riferimento. Surrogare con l’acquisto comunque di merce, le tradizioni che spariscono.
La famiglia che sembra appassire nella
mente e nei cuori della gente. Le vacanze
al mare che univano per 15 giorni più di
un anno insieme senza parlarsi. Gli amici
del bar che sono scomparsi per rifugiarsi
nei tinelli a guardare la tv. Lo stadio la domenica, che non si frequenta quasi più e
se lo si fa, non si ritrova quell’humus da
complicità paesana che la comune appar-
Claudio Cagnazzo
43
.
NUOVA
ANTOLOGIA
Jean Marcel Adolphe Bruller (Vercors)
e la grande letteratura passa anche per il silenzio
Giuseppe
Moscati
N
essun dubbio: lo scrittore, incisore
e illustratore francese Jean Marcel
Adolphe Bruller (Parigi, 1902–
1991), meglio noto con lo pseudonimo di Vercors, rimarrà sempre
l’autore dell’eccezionale Le silence
de la mer. Nonostante abbia scritto altri testi
di narrativa, saggistica e teatro di un certo
interesse, è a quelle 96 pagine – pubblicate
per i tipi delle clandestine Éditions de Minuit di Parigi nel 1942 – che il nome di Bruller-Vercors sarebbe rimasto legato a doppio
filo. Novantasei pagine che sarebbero diventate la bandiera della Resistenza, il simbolo
della Liberazione.
al di qua e al di là del silenzio
ROCCA 1 DICEMBRE 2011
Eppure gli altri libri di Bruller, discendente di
emigrati ebrei, meritano attenzione: il romanzo breve Le armi della notte (’46), il racconto
fantastico Animali snaturati (’52), le autocaricature di 21 ricette di morte violenta (’22)...
Quest’ultimo mette in evidenza l’eleganza del
tratto del disegnatore satirico Bruller: è una
gustosa e fine presentazione di minacce di
possibili suicidi che, nascendo con l’intento di
vincere le resistenze di una ragazza di cui l’autore è innamorato, hanno dell’incredibile, dello spettacolare, dell’esilarante. E poi varie altre illustrazioni, libri per ragazzi, adattamenti
teatrali, un libro di «memorie apocrife» come
Moi, Aristide Briand (’81), sul socialista indipendente che all’indomani della Prima guerra
mondiale rappresentò la volontà politica di
riappacificare francesi e tedeschi anche in vista degli Stati uniti d’Europa. Del ’57 il ‘congedo’ dal Partito comunista francese con un pamphlet molto ironico dal titolo P. P. C., acronimo di Pour prendre congé, del ’79 il saggio politico Basta con le menzogne!.
Il cammino verso la stella (La marche à l’étoile
del ’43) prende le mosse dall’esperienza del
padre che, appena quindicenne, aveva raggiunto a piedi la Francia dei suoi genitori dall’Ungheria. Le armi della notte citato prima
torna sulla tortura psicologica subìta dalle
vittime del nazismo, protagonista un superstite del campo di concentramento di Hochsworth ossessionato dal «degrado morale»
che non lo fa sentire più uomo.
con il silenzio fin dentro le ossa
Come anticipavo, Il silenzio del mare è diventato da subito un piccolo classico, un capolavoro della letteratura di guerra. Si tratta di
44
.
un libretto nato quasi per caso, fatto tradurre
in inglese e paracadutare in tantissime copievolantino, per volere di Charles De Gaulle in
persona a mo’ di sprone per i soldati, da aerei
francesi che sorvolavano l’Inghilterra. In Italia lo abbiamo conosciuto grazie alla splendida traduzione di Natalia Ginzburg (Rocca n.
12/2011).
Un grande successo che, tradotto in tante lingue, avrebbe fatto presto il giro del mondo e
quindi un libro assai amato, ma anche molto
criticato, se non altro per quel suo presentare
il lato umano, anzi umanissimo, dell’ufficiale
tedesco che si stabilisce a casa del protagonista, che vive con sua nipote e che coincide
con l’io narrante. E molte saranno le lettere
di superstiti che chiederanno all’autore di
cambiare la fine del racconto o di scrivere un
altro capitolo della storia...
È il 1940 e le truppe tedesche occupano la
Francia: parecchi scrittori scelgono di protestare con il silenzio e depongono la penna;
tra questi anche Bruller. Quando nasce l’idea
di una rivista di resistenza clandestina, «La
penseè libre» d’ispirazione comunista ma senza preclusioni di partito, che possa raccogliere le voci della rabbia e del dissenso – come
pure della denuncia degli intellettuali che invece avevano optato per il collaborazionismo
(1) –, Bruller non sta a guardare. Si unisce
subito al suo amico fraterno Pierre de Lescure e al figlio di questi, attivandosi per raccogliere quante più adesioni possibili tra amici
e colleghi. Ma soprattutto scrive, per il numero d’esordio della rivista, Il silenzio del mare.
Il giorno in cui va a portare il manoscritto
per la stampa, però, ha una sorpresa amara:
gli agenti della Gestapo hanno forzato le porte della sede di «La penseè libre», perquisito
e sequestrato tutto! È così che per poco il racconto si salva e verrà pubblicato, a due anni
dall’occupazione tedesca, da quelle Éditions
de Minuit che sarebbero diventare l’organo
di stampa della resistenza francese.
Werner von Ebrennac, l’ufficiale tedesco che
in una notte di novembre non particolarmente
fredda va ad abitare presso la casa dei due
francesi, è un uomo distinto, un musicista di
professione. Legge molto e ama spasmodicamente la Francia, la cultura e la mentalità
francesi. Ammette di avere bisogno impellente
della Francia e di desiderare di sentirsi da essa
finalmente accolto, per non sentirsi un estraneo, un viaggiatore o conquistatore.
Tutto il racconto è pervaso da una forte, prepotente presenza, quella del silenzio appunto. Già poco dopo le prime righe ne incon-
na silenziosa», di poter passare dalla cucina e
propone loro di chiudere a chiave la porta del
passaggio principale, è ancora il silenzio che
accompagna la scelta di non cambiare alcunché dell’ordine della casa: «Noi non chiudemmo mai la porta a chiave. [...] Avevamo deciso in un tacito accordo, mia nipote ed io, di
non mutare nulla nella nostra vita, fosse pure
il più piccolo particolare: come se l’ufficiale
non esistesse; come se fosse stato un fantasma. Ma forse un altro sentimento si univa
nel mio cuore a questa determinazione: io non
posso offendere un uomo senza soffrire, si
tratti pure anche del mio nemico».
Siamo dunque al nodo centrale, forse la parte più alta dell’opera di Vercors: la persuasione nonviolenta di fondo fa dire allo scrittore
che comunque l’offesa, non escluso il caso di
quella inferta al proprio nemico, è qualcosa
che impoverisce le relazioni. Vi pare un’interpretazione troppo gandhiana di Vercors? Spero di no.
Giuseppe Moscati
Note
(1) Bruller aveva diversi pseudonimi, il più frequente era Drieu con la volontà di far ricadere eventuali responsabilità degli scritti su Pierre Drieu La
Rochelle, uno degli scrittori collaborazionisti.
Quanto a Le silence de la mer, tuttavia, serviva uno
pseudonimo del tutto sconosciuto: è così che la
scelta cadde sul sonoro Vercors, nome di un massiccio ai piedi del quale Bruller si trovava all’ingresso dei tedeschi in terra francese e meta
prescelta da lui e dai suoi compagni come rifugio
nel caso in cui gli invasori avessero oltrepassato la
linea del fiume Isère.
(2) Ha ricordato Paolo Mauri che nel momento in
cui il regista Jean-Pierre Melville parlò a Bruller di
un adattamento cinematografico del racconto egli
obiettò con decisione che non avrebbe funzionato
per via dell’interminabile monologo. Quando nel
’47 il film esce, però, Bruller dovette ricredersi.
per leggere Bruller (Vercors)
dello stesso Autore
J.M.A. Bruller (Vercors), Il silenzio del mare,
Einaudi, Torino 1994 (I ediz. 1945), poi a cura di
P. Mauri, Editoriale la Repubblica, Roma 1997;
Id., Il comandante del Prometeo, a cura di F. Conti,
Portaparole Ed., Roma 2011; Id., L’imprimerie de
Verdun e altri scritti, a cura di N. Clerici, Messina,
Principato, Napoli 1961; Id., La zattera della Medusa, Mondadori, Milano 1973; Id., Le armi della
notte, Einaudi, Torino 1948; Id., Le parole, a cura e
con Postfazione di F. Sessi, Il melangolo, Genova
1995; Id., Sylva, Rizzoli, Milano 1961; Id., Animali
snaturati, UNI Service Ed., Trento 2009; Id., 21 ricette pratiche di morte violenta, a cura di F. Conti,
Portaparole Ed., Roma 2011.
Stefano Cazzato
Giuseppe Moscati
MAESTRI
DEL NOSTRO
TEMPO
pp. 240 - i 20,00
su Bruller (Vercors)
R. Barisse-Vercors, Prefazione, in J.M.A. Bruller
(Vercors), Le parole, cit.
F. Petralia, Introduzione, in J.M.A. Bruller
(Vercors), Le silence de la mer - La marche à l’étoile,
Mursia, Milano 1970.
(vedi Indice
in RoccaLibri
www.rocca.cittadella.org)
per i lettori di Rocca
i 15,00 anziché i 20,00
spedizione compresa
richiedere a
Rocca - Cittadella
06081 Assisi
e-mail
[email protected]
45
.
ROCCA 1 DICEMBRE 2011
triamo il profilo nella figura della nipote: «aveva aperto la porta e restava in silenzio», l’ufficiale restava sulla soglia e lei restava in silenzio; lei ancora silenziosa e lui lì a misurarlo,
quel silenzio ferreo. Ma poi entrò lo stesso. E
se ne stava lì, in mezzo alla stanza, «smisurato e assai esile».
Più avanti: «il silenzio si prolungava. Si faceva sempre più denso, come la nebbia del
mattino. Denso e immobile», un silenzio di
piombo che sale subito in cattedra e dà la certezza al lettore che mai lo abbandonerà lungo tutta la narrazione. Ma proprio perché ‘ricco’, carico di mille sospiri e di attese e di resistenze, di amarezze e di sogni di liberazione
e, non ultima, di una certa dose di rammarico per dover portare avanti una relazione
come quella con quelle determinate, forzate
modalità – loro gli invasi e lui-l’altro l’occupante –, proprio per questo è un silenzio che
non stanca, che non annoia mai. È fatto di
sospensione, elemento che rende efficacissima e assai suggestiva la magistrale condotta
narrativa di Bruller-Vercors, complice un costante ricorso al fraseggio rapido, franto.
A mano a mano che si procede con la lettura,
provate a verificarlo voi stessi, si ha peraltro
l’impressione che il ruolo della figura ingombrante assunto «da copione» dall’ufficiale tedesco si vada progressivamente trasferendo
proprio ‘addosso al silenzio’: la proiezione avviene per via di un fatto concreto che risiede
alla genesi di Le silence de la mer. L’idea base
del racconto rimanda all’incontro di Bruller
con un cortese ufficiale tedesco a Villier-surMorin, il paese dov’era la casa dei suoi genitori e dove sarebbe rimasto per tutta la guerra. Il
saluto dell’ufficiale non viene mai corrisposto:
il tedesco continua a salutarlo con estrema
cortesia, Bruller non risponde, ora per spirito
di resistenza e ora per timore di ferire la sensibilità di un amico con cui si trova a passeggiare. Ma gli rimarrà un forte rimorso.
E così il silenzio. Che pare non passare mai,
pesante e fitto com’è. Che dà vita a un «interminabile monologo» (2) la cui sostanza principale fa pensare a una prigione. Che in una
certa misura affascina l’ufficiale, dichiaratosi attratto dal silenzio della Francia tutta. Silenzio che si comporta come «un gas greve e
irrespirabile». Che si infila di soppiatto persino nel rapporto tra zio e nipote: «Mia nipote
tornò. Riprese la sua tazza e continuò a bere
il caffè. Accesi la pipa. Restammo qualche
minuto in silenzio». Il tedesco ben presto non
attende più invano parole che sa bene non gli
sarebbero state offerte e si esercita a pronunciare frasi che non richiedano una replica,
espressioni che non presuppongano risposte.
In opposizione a quel devastante silenzio c’è
la sua voce sorda, dal timbro lieve e un tenue
accento – tranne che per le consonanti dure –
e una parlata che pare un ronzio parlante del
quale «non si può dire che rompesse il silenzio: fu piuttosto come ne fosse nato».
Anche quando egli avanza l’ipotesi, per non
disturbare la quotidiana quiete familiare di
quel «vecchio dignitoso» e di quella «signori-
RELIGIONI AD ASSISI
Marco
Politi
l’incontro
le attese
gli snodi
P
assate poche settimane, l’incontro
interreligioso di Assisi del 27 ottobre sembra già quasi dimenticato.
La vox populi è sempre portatrice
di un nucleo di verità. E se nella
città di san Francesco la delusione
popolare è stata generale per una cerimonia giudicata fredda e senza capacità di attirare i cuori, l’eco dei media si è spento
immediatamente all’indomani dell’evento.
Al punto che sorge persino l’interrogativo
perché mai Benedetto XVI abbia voluto
organizzare l’incontro al di là di una celebrazione in qualche modo dovuta del venticinquennale di quella «preghiera comune», che Giovanni Paolo II lanciò da Assisi
nel 1986 come segnale di pace a tutti gli uomini di buona volontà.
Non si tratta di giocare un pontefice contro l’altro. È importante capire perché
un’iniziativa comunque importante sia rimasta a mezza strada.
vuoti preoccupanti
ROCCA 1 DICEMBRE 2011
Intanto un dato. In termini numerici la
partecipazione delle delegazioni di differenti confessioni, fedi e organizzazioni è
stata consistente. Trecento partecipanti.
Sul piano del livello di rappresentanza le
cose cambiano. C’erano, è vero, alcuni
massimi rappresentanti delle Chiese cristiane. Il primate anglicano Rowan Williams e il patriarca ecumenico di Costan46
tinopoli Bartolomeo I, il vescovo Munib
Younan presidente della Federazione luterana mondiale, il reverendo John Upton
presidente dell’Alleanza battista mondiale
e il reverendo Setri Nyomi segretario generale della Comunità mondiale delle Chiese riformate. Ma per quanto riguarda i rapporti con le due grandi religioni monoteiste si sono avvertiti dei vuoti preoccupanti. Non è venuto nessun esponente del vertice istituzionale del Gran Rabbinato
d’Israele. Né i rabbini capo nè un rappresentante del Consiglio del Gran Rabbinato, che pure comprende quindici membri.
L’imbarazzo diplomatico è stato velato,
indicando come inviato dal Gran Rabbinato il rabbino David Rosen, storico protagonista del dialogo ebraico-cristiano e
negoziatore degli accordi del 1993 che portarono alle relazioni diplomatiche tra Santa Sede e Israele. Di fatto, tuttavia, Rosen
è un dirigente dell’American Jewish Committee ed occasionalmente si fregia solo
del titolo di «consigliere» del Gran Rabbinato. In altre parole non era presente nessuna emanazione diretta della suprema
gerarchia religiosa ebraica.
Lo stesso è accaduto in campo islamico con
la storica università di Al Azhar del Cairo,
che viene considerata supremo punto di
riferimento dell’islam sunnita. All’incontro
di Assisi del 2002, convocato da Giovanni
Paolo II, era presente il suo capo di allora,
lo sceicco Mohammed Tantawi nel frat-
i rapporti con l’ebraismo e l’islam
Nel primo viaggio in Germania Benedetto
(Colonia agosto 2005) XVI aveva ribadito
agli esponenti musulmani tedeschi l’esigenza di un dialogo cristiano-islamico di
lungo respiro. L’anno dopo, con le sue imprudenti citazioni nel discorso di Ratisbona, ha provocato invece una crisi planetaria con l’islam, ferendo particolarmente le
sue componenti moderate. Poi a Istanbul
ha pregato accanto al muftì nella Moschea
Blù, ma quando nel settembre scorso a
Berlino il rappresentante della delegazio-
ne musulmana tedesca gli ha parlato dell’«unico Dio» di Abramo, in cui credono
cristiani e musulmani ed ebrei, Benedetto
XVI non ha ritenuto opportuno valorizzare questo elemento (peraltro iscritto nei
documenti conciliari e affermato in qualche occasione dallo stesso papa Ratzinger).
Con l’ebraismo è accaduto lo stesso. Proprio Benedetto XVI, che ha sempre esaltato i vincoli indissolubili tra il cristianesimo e la fede ebraica, chiamando addirittura gli ebrei «nostri padri nella fede» ed
ha compiuto nel 2009 in Israele (e in Giordania e nei Territori palestinesi) un viaggio giudicato un successo, è riuscito a irritare il mondo ebraico in più momenti. Con
la riformulazione della preghiera del Venerdì Santo della messa preconciliare, con
la remissione della scomunica al negazionista Williamson, vescovo lefebvriano, con
l’esaltazione del comportamento tenuto da
Pio XII durante la seconda guerra mondiale.
E per quanto ogni volta vi siano state ricuciture (recentemente è giunta a Roma una
delegazione interreligiosa promossa dal
Gran Rabbinato di Israele), è indubbio che
i traumi arrecati ai sensibilissimi rapporti
con le due religioni abramitiche hanno lasciato traccia.
Soprattutto, in questi anni di regno, Benedetto XVI ha lasciato cadere un caposaldo
della geopolitica religiosa wojtyliana: il
rapporto specialissimo e preferenziale fra
ROCCA 1 DICEMBRE 2011
tempo scomparso, mentre il 27 ottobre
scorso Al Azhar era del tutto assente. I rapporti con la Chiesa cattolica sono «congelati» dal gennaio passato.
C’è da aggiungere che l’oratore principale per
il mondo islamico – previsto per l’incontro
organizzato da Benedetto XVI – Kyai Muzadi, segretario generale della Conferenza degli studiosi islamici (Icis) non è arrivato: il
suo discorso è stato semplicemente letto
nella basilica di Santa Maria degli Angeli.
Sulla scena delle relazioni internazionali
il protocollo non è un dettaglio di forma,
ma è sostanza. Le assenze sono il frutto
delle crisi succedutesi in sei anni di pontificato sia con l’ebraismo che con l’islam. E
più di ogni altra cosa hanno rivelato una
linea di governo zigzagante nei confronti
dei due monoteismi.
47
RELIGIONI
AD
ASSISI
i tre monoteismi, quel trialogo che nella
visione di Giovanni Paolo II avrebbe dovuto trovare espressione un giorno nella
comune preghiera sul monte Sinai.
Archiviato questo elemento propulsivo tutto l’impianto dei rapporti della Chiesa cattolica con l’ebraismo e l’islam perde la forza di un disegno coerente e diventa inevitabilmente più fragile. D’altronde Joseph
Ratzinger a questo trialogo religioso non
ci crede. Convintissimo dei legami teologici con l’ebraismo, ritiene che con l’islam
vada sviluppato invece principalmente un
confronto culturale.
Dice un proverbio slavo: «Si può portare il
cavallo al mare, non si può costringerlo a
berlo».
una diversa preghiera
Benedetto XVI è tornato ad Assisi venticinque anni dopo il primo appello di Giovanni Paolo II ai leader delle religioni del
mondo, ma il suo pellegrinaggio è avvenuto in un quadro assai diverso. La novità e
la caratteristica fondamentale di Assisi
1986 – all’origine del suo impatto internazionale – consisteva nella preghiera contemporanea nella città di san Francesco di
tutte le fedi del pianeta. Ci fu all’epoca nella
dall’intervento
di
Julia Kristeva
filosofa
psicanalista
curia vaticana chi respinse l’iniziativa, bollandola sottovoce di sincretismo. Il cardinale Ratzinger ostentatamente non volle
partecipare (venne solo nel 2002, quando
il tema in agenda era il ripudio del terrorismo religioso e l’obiettivo di distanziarsi
dalle avventure militari di Bush nell’Oriente islamico).
In realtà Giovanni Paolo II non voleva fare
una marmellata delle diverse credenze. Il
suo gesto riuscì invece a sottolineare due
elementi cruciali: l’importanza della fede
nel mondo contemporaneo e la dignità di
ciascuno essere nel suo rivolgersi a Dio.
Amputando la giornata del 27 ottobre 2011
della sua dimensione più intimamente religiosa, Benedetto XVI ha trasformato necessariamente l’evento in una sorta di convegno che avrebbe potuto svolgersi in qualsiasi altra sede e occasione. La frettolosa
preghiera sulla tomba di san Francesco a
fine giornata e il discreto invito – contenuta nel programma ufficiale – affinchè i leader religiosi approfittassero dell’intervallo
dopo il pranzo per una «pausa di silenzio,
riflessione e preghiera personale», ha messo ancora di più in risalto l’eliminazione
di quel forte messaggio simbolico costituito dalle preghiere in contemporanea, che
nel 1986 avevano vivificato e movimenta-
«L’umanesimo del XXI secolo non è un teomorfismo. Né “valore”, né
“fine” superiore, l’Uomo con la maiuscola non esiste. Dopo la Shoah e il
Gulag, l’umanesimo ha il dovere di ricordare a uomini e donne che se,
per un verso, noi ci riteniamo gli unici legislatori, è unicamente attraverso la continua messa in questione della nostra situazione personale,
storica e sociale che noi possiamo decidere della società e della storia».
«L’umanesimo è un processo di rifondazione permanente, che si sviluppa unicamente grazie a delle rotture che sono delle innovazioni. La memoria non riguarda il passato: la Bibbia, i Vangeli, il Corano, il Rigveda, il
Tao, ci abitano al presente. Affinché l’umanesimo possa svilupparsi e
rifondarsi, è giunto il momento di riprendere i codici morali costruiti nel
corso della storia: senza indebolirli, per problematizzarli, rinnovandoli di
fronte a nuove singolarità».
ROCCA 1 DICEMBRE 2011
«Poiché risveglia i desideri di libertà di uomini e donne, l’umanesimo ci
insegna a prenderci cura di essi. La cura amorosa per l’altro, la cura
della terra, dei giovani, dei malati, degli handicappati, degli anziani non
autosufficienti, costituiscono delle esperienze interiori che creano delle
nuove prossimità e delle solidarietà inattese. Non abbiamo un altro modo
per accompagnare la rivoluzione antropologica, già annunciata dalla
corsa in avanti delle scienze, dai procedimenti incontrollabili della tecnica e della finanza, e dall’incapacità del modello democratico piramidale
a canalizzare le novità».
«L’uomo non fa la storia, noi siamo la storia. Per la prima volta, l’homo
sapiens è in grado di distruggere la terra e se stesso in nome delle proprie
credenze, religioni o ideologie. Ugualmente per la prima volta gli uomini e
le donne sono in grado di rivalutare in completa trasparenza la religiosità
costitutiva dell’essere umano. L’incontro delle nostre diversità qui, ad Assisi,
testimonia che l’ipotesi della distruzione non è l’unica possibile».
48
i messaggi
Cosa rimane allora della terza giornata di
Assisi? L’icona di Benedetto XVI che riceve con semplicità e umiltà i leader religiosi davanti al portale della basilica di Santa
Maria degli Angeli come un pastore protestante, che accoglie i suoi fedeli alla domenica, e un insieme di interventi spesso
non privi di notazioni interessanti. Il richiamo del cardinale Peter Turkson, nuovo presidente del Consiglio Giustizia e
Pace, che la «forte competizione dei popoli per le risorse, i problemi climatici, minacciano di distruggere, col tessuto sociale delle relazioni umane, lo stesso ordine
della creazione». La preoccupazione del
patriarca ecumenico Bartolomeo I per la
«cresciuta marginalizzazione delle comunità cristiane del Medio Oriente» (vero
motivo dell’organizzazione dell’evento). Il
monito del primate anglicano Rowan Williams che molti fallimenti derivano dalla
persistente incapacità di «riconoscere gli
estranei come persone che condividono
con noi l’unica e medesima natura, l’unica
e medesima dignità della persona». L’esortazione di Kyai Muzadi, a nome della Conferenza internazionale degli studiosi islamici, di «correggere le comprensioni errate della religione che portano a conflitti
sociali tra l’umanità».
Benedetto XVI nel suo discorso ha denunciato la distorsione della religione operata
dal terrorismo. «La religione qui non è al
servizio della pace, ma della giustificazione della violenza». Egualmente perniciosa, ha soggiunto, è la violenza esercitata
da difensori di una religione contro gli al-
tri. Rifacendosi allo spirito dell’incontro
del 1986 il Papa ha esclamato: «Questa non
è la vera natura della religione. È invece il
suo travisamento e contribuisce alla sua
distruzione». Poi ha scandito: «Come cristiano, vorrei dire a questo punto: sì, nella
storia anche in nome della fede cristiana
si è fatto ricorso alla violenza. Lo riconosciamo pieni di vergogna». Tuttavia, ha
precisato, si tratta di un utilizzo abusivo
della fede cristiana, in evidente contrasto
con la sua vera natura.
dialogo con l’umanesimo agnostico
L’altro elemento portante del discorso di
papa Ratzinger è stata la denuncia dell’assenza di Dio che porta al «decadimento
dell’uomo e dell’umanesimo». E qui Benedetto XVI ha introdotto il tema del dialogo con l’umanesimo agnostico. Tra la dimensione della religione e dell’anti-religione, ha spiegato, esiste il mondo in espansione dell’agnosticismo all’interno del quale si manifestano uomini e donne che «cercano la verità, sono alla ricerca di Dio», la
cui immagine spesso è nascosta dal modo
con cui le religioni sono praticate. È una
tematica che Benedetto XVI sta sviluppando dal suo viaggio in Cechia del 2009 all’indomani del quale lanciò la proposta del
«Cortile dei gentili» come spazio di confronto con l’umanesimo laico (problematica a cui si sta applicando con diverse iniziative il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Consiglio per la cultura).
In questo contesto si è verificata l’unica,
grande novità di Assisi 2011: l’intervento
nella basilica di Santa Maria degli Angeli
della celebre filosofa e psicanalista franco-bulgara Julia Kristeva. Una non-credente che con parole appassionate ha illustrato lo spirito di un umanesimo che si rimette
continuamente in questione, che non trascura i codici morali dell’umanità (Bibbia,
Vangeli, Corano, Rigveda, Tao) ma li spinge a problematizzarsi e misurarsi con le
«nuove singolarità». Un umanesimo che si
radica nell’emancipazione femminile e
nella cura dell’altro.
Un intervento inedito nella cornice di una
basilica, culminato nella rivendicazione di
afflato quasi rinascimentale che l’umanità
non fa la storia, bensì «noi – uomini e donne – siamo la storia».
Così a partire dall’intuizione ratzingeriana del dialogo con gli agnostici è stato gettato un seme. Saranno i prossimi anni a
mostrare chi e come lo farà sviluppare.
ROCCA 1 DICEMBRE 2011
to tutta Assisi creando un’atmosfera straordinaria di coinvolgimento e spiritualità.
Eliminazione, al fondo, incomprensibile
perché lo stesso cardinale Ratzinger nel suo
libro «Fede, verità e tolleranza» (ed. Cantagalli) aveva acutamente individuato la differenza tra preghiera multireligiosa e preghiera interreligiosa. Specificando che nel
corso della prima «si prega nello stesso contesto, ma separatamente» e rimarcando in
ogni caso che l’insieme deve svolgersi in
modo tale da non dare l’impressione di una
relativizzazione delle fedi e delle orazioni.
Si dava la possibilità, dunque, di rilanciare
la carica simbolica dell’evento del 1986 anche secondo accorgimenti dettati dalla teologia ratzingeriana. È prevalsa, però, l’intenzione di cancellare ciò che allora non piacque al cardinale Ratzinger. Non è la prima
volta nel pontificato che vengono attuate
correzioni alle innovazioni precedenti.
Marco Politi
49
TEOLOGIA
una nuova
preziosa sintesi storica
su Gesù
ROCCA 1 DICEMBRE 2011
Carlo
Molari
50
L
e ricerche storiche sulla figura di
Gesù Cristo del suo ambiente e sul
suo tempo in questi ultimi decenni sono esplose per numero e
sono, generalmente, cresciute per
qualità. Esse hanno interessato
non solo cristiani ma anche seguaci di altre religioni come pure agnostici ed atei.
Questi ultimi spesso ne traggono conclusioni negative, mettono in luce gli aspetti
spesso contradditori delle fonti e ne deducono l’incongruenza degli sviluppi successivi della dottrina cristiana.
Fra gli storici credenti alcuni si limitano
strettamente ai dati documentabili e a volte
danno l’impressione di considerare reale
solo il Gesù che risulta dalle fonti vagliate
criticamente. Altri invece pur rimanendo
nell’ambito storico non si limitano ai documenti a disposizione, ma sono attenti
anche agli sviluppi successivi convinti che
il cammino della fede possa offrire criteri
per interpretare in modo più completo gli
eventi fondanti. Ma anche per costoro i
documenti restano il punto di riferimento
fondamentale per una ricostruzione storica della figura e dell’azione di Gesù.
Fra questi ultimi particolare rilievo in Italia ha il biblista di Udine Rinaldo Fabris,
che in anni recenti è stato anche Presidente della Associazione Biblica italiana. Sono
numerosi i meriti da lui acquisiti nella rigorosa ricerca biblica e nella divulgazione.
Egli è da tempo noto anche ai lettori di
Rocca e agli assidui della Cittadella, per i
qualificati suoi interventi e per i numerosi
scritti pubblicati. In particolare il volume:
Gesù di Nazareth: storia e interpretazione,
(Cittadella, Assisi 1983) ha avuto una larga diffusione ed è giunto alla sesta edizione nel 1999. Ma per il rinnovato interesse
sulla figura di Cristo nell’attuale cultura
occidentale e per l’abbondanza delle nuove acquisizioni Fabris ha deciso di riprendere da capo la riflessione cristologica, «tenendo presenti i nuovi orientamenti metodologici e gli esiti delle ricerche più recenti» (Gesù il Nazzareno. Indagine storica, Cittadella editrice 2011 p. 7). La ragione della sua scelta è chiara: «a parte l’interesse per la figura e il messaggio di Gesù,
promossi da questo intenso dibattito nell’ambito della cultura europea, non si può
negare che si è realizzato un patrimonio
di dati a livello storico e linguistico che
rende possibile una ricerca sulla figura e
l’opera di Gesù con nuovi e validi strumenti» (p. 45). Egli è consapevole che «in condizioni umane normali è impossibile controllare e verificare tutto quello che, a livello delle scienze storiche ed esegetiche,
si è scritto su Gesù negli ultimi decenni»
(p 8); per questo ha fatto «una scelta previa delle pubblicazioni che rappresentano
i diversi nuovi orientamenti nella ricerca
sul Gesù storico» (p. 8) e ne ha vagliate le
conclusioni con intelligenza. Il risultato è
eccellente: un’opera che si imporrà certamente per la ricchezza della documentazione, l’ampiezza delle tematiche, la profondità dell’analisi, il rigore del metodo,
la fluidità della scrittura e la chiarezza della
esposizione. Il volume può essere considerato il vertice della sua diuturna ricerca
cristologica.
Ognuno dei tredici capitoli costituisce un
libro a sé, con tema ben determinato, bibliografia molto ampia e svolgimento attentamente articolato. Parte dagli interrogativi che lo storico si trova ad affrontare,
analizza il materiale a disposizione e ne
trae le possibili conclusioni, senza fretta,
con pazienza e molta cura ai particolari.
lo storico e la sua fede
Fabris scrive quindi da credente e come
tale compie la ricerca storica per precisare con esattezza il contenuti delle proprie
convinzioni e per rendere ragione delle proprie scelte di vita. Da una parte egli è convinto che il Gesù accessibile agli storici non
è il Gesù reale, ma dall’altra egli ribadisce
che per conoscere il Gesù reale non si può
prescindere dai documenti a disposizione,
analizzati con gli strumenti della critica storica: «La fede in Gesù Cristo, anche se non
dipende dalla ricerca storiografica, non può
prescindere da un confronto serio e criticamente fondato con l’azione, la parola e le
scelte storiche di Gesù, proclamato il Cristo e il Signore, che dà senso e valore al-
fica si stabilisce un rapporto dialogico tra
due interlocutori che, nella rispettiva distanza storica e culturale, sono coinvolti
nel processo storico. Gesù di Nazaret storicamente si presenta come uno che chiede una decisione che va oltre il suo caso e
la sua vicenda personale. Non si può ignorare o censurare questa esigenza in nome
di una metodologia storiografica ‘neutrale’, perché essa fa parte del dato storico da
esaminare criticamente. In ogni ricerca
storica è presente una pre-comprensione
o un presupposto che la condizionano anche quando sono negati o rimossi» (p. 134).
Quando i documenti lasciano aperte varie
soluzioni Fabris coerentemente si orienta
nel rispetto dei dati della fede come sono
emersi nei secoli successivi nella comunità dei discepoli.
Gli esempi che possono confermare questa scelta sono numerosi. Ne cito uno fra i
tanti.
i fratelli di Gesù
Come è noto i Vangeli riferiscono i nomi
di quattro ‘fratelli’ di Gesù e parlano di alcune ‘sorelle’. Fabris elenca le diverse soluzioni che nella storia sono state offerte
per interpretare questi dati: da quelle che
ammettono la nascita da Maria e Giuseppe di altri figli dopo Gesù, a quella che interpreta la parola ‘fratello’ in senso ampio
di cugino o parente. Egli però, fedele al
dato linguistico sostiene che «non possono essere considerati ‘cugini’ o parenti generici» (p. 238). In questo segue J. P. Meier secondo cui «dal punto di vista puramente filologico e storico, l’opinione più
probabile è che i fratelli e le sorelle di Gesù
fossero suoi germani» (citato a p. 236 n.
47). Fabris però, richiamandosi ad una tradizione apparsa successivamente preferisce l’ipotesi che essi siano fratellastri: «in
quanto figli dello stesso padre, Giuseppe,
avuti da un precedente matrimonio» (ib.
nella nota 48 cita Puig i Tàrrech A., Gesù,
205, secondo cui: «questa è la [opinione]
più plausibile e preferibile»). L’argomento
decisivo per non considerarli congiunti è
di carattere negativo: «non possono essere
neppure figli della coppia Maria e Giuseppe, dal momento che non sono mai identificati con questa precisa relazione filiale»
(p. 238). Il peso della tradizione successiva, che attribuisce a Maria la perpetua verginità, pesa certamente su questa scelta,
che pure è storicamente legittima.
(continua)
dello stesso Autore
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51
ROCCA 1 DICEMBRE 2011
l’intera storia umana» (p. 45).
Fabris, come storico, si ferma ai dati a disposizione, sapendo però che la sua adesione di fede riguarda una realtà molto più
complessa di quella documentata: «Anche
quando si arriva alla sentenza o al racconto storicamente più attendibile, non si oltrepassa la barriera che separa il Gesù reale, la sua parola e la sua azione, dal ‘documento’ – testo scritto o tradizione orale
– che ne conserva la memoria. La ricerca
storica procede per via ‘indiziaria’ per ricostruire quello che Gesù ha detto o fatto,
inserendolo in un quadro interpretativo
che dà unità e significato coerente ai vari
elementi criticamente accertati. Il prodotto dell’indagine storica non è il fatto e
l’evento così com’è capitato, ma la sua ricostruzione ‘storiografica’ (p. 68). Con
chiarezza quindi distingue i diversi ambiti
di certezza storica alla quale si può pervenire: «La complessità della ricerca sul Gesù
storico invita alla cautela e alla modestia
nelle conclusioni, soprattutto quando si
tratta di singoli fatti e parole, situazioni e
prese di posizione. Sembra più agibile il
percorso quando si tenta di ricostruire il
profilo storico di Gesù e il suo progetto»
(p. 133).
La figura di Gesù che risulta dalla analisi
incrociata dei documenti a disposizione è
delineata fin dall’inizio con tratti essenziali: «Gesù che sta sullo sfondo dei Vangeli e
delle rispettive tradizioni mi sembra sia
una personalità forte, con un grande fascino sulla gente, appassionato di Dio e
della sua causa – che egli chiama il ‘regno
di Dio’ –, capace di intense relazioni umane con quelli che stanno male e con gli
amici, disposto a pagare il prezzo delle sue
scelte anche a rischio della sua vita. Inutile ripetere che Gesù è radicato nel suo
ambiente, nella cultura religiosa ebraica
del suo tempo. Non mi sento di rinchiuderlo in nessun modello preconfezionato,
sia quello del ‘maestro’, del ‘profeta’, del
‘terapeuta o esorcista’, sia quello del riformatore religioso o del rivoluzionario sociale. Quello che colpisce in Gesù, e che
probabilmente sta all’origine della sua condanna alla morte di croce, non è solo e tanto la sua originalità etico-religiosa, ma la
sua eccedenza umana e spirituale, che
spinge tutti quelli che vi si accostano – credenti o laici – ad approfondire la sua identità sullo sfondo della ricerca umana del
volto di Dio» (p. 9).
La consapevolezza dell’apporto di fede accompagna Fabris lungo tutto il percorso e
più volte riaffiora esplicitamente, come
quando confessa: «Nella ricerca storiogra-
IL CONCRETO DELLO SPIRITO
Lilia
Sebastiani
l’urgenza e la pazie
D
ice Bonhoeffer che celebrare l’Avvento significa saper attendere,
un’arte che il nostro tempo impaziente ha dimenticato. «Il nostro tempo vuole cogliere il frutto maturo non appena ha piantato un germoglio, ma gli occhi avidi sono
ingannati in continuazione, perché il frutto, all’apparenza così prezioso, al suo interno è ancora acerbo e mani irrispettose
gettano via con ingratitudine ciò che le ha
così deluse. Chi non conosce l’aspra beatitudine dell’attesa (...), non sperimenterà
mai nella sua interezza la benedizione dell’adempimento».
Pasqua d’inverno
ROCCA 1 DICEMBRE 2011
Il termine ‘avvento’ equivale, lo sappiamo,
al greco parusìa; a un certo punto quest’ultima parola si specializza per indicare la venuta gloriosa di Cristo alla fine dei tempi.
Parusìa e adventus, parole così importanti
nella spiritualità e nella liturgia cristiana,
sono di derivazione pagana: nel culto pagano indicavano la venuta periodica della divinità nel santuario; talvolta si parlava non
di parusia si parlava di ‘epiphàneia’, ‘manifestazione’. Così, sembra strano a dirsi, le tre
parole che noi riferiamo a momenti diversi
nell’unico tempo di Natale – cioè, oltre a
Natale appunto, Avvento ed Epifania – stanno a significare più o meno la stessa cosa, e
anche questo è istruttivo: non tre tempi, nemmeno propriamente tre tappe, ma tre aspetti dell’unico mistero del Dio-con-noi.
Vi sono stati dei teologi, soprattutto dell’area
ortodossa, che hanno definito così il Natale:
«Pasqua d’inverno». Può sembrare una definizione imprecisa quantunque suggestiva,
visto che la Pasqua, la festa-fonte dell’anno
liturgico, ricorda la Resurrezione mentre il
Natale è memoria celebrata dell’Incarnazione; non del tutto fuori luogo però, visto che
né l’Incarnazione avrebbe senso senza Resurrezione, né la Resurrezione senza Incarnazione, e il tema teologico della ‘manifestazione’ di Dio in Gesù Cristo collega entrambe le feste. È anche vero che la storia
dell’Avvento in relazione al Natale è stretta52
mente legata a quella della Quaresima in
relazione alla Pasqua.
La resurrezione di Gesù è stata celebrata da
subito nella giovane Chiesa, e abbastanza
presto ha preso forma la Quaresima come
periodo di preparazione, soprattutto in relazione al battesimo che veniva celebrato nella notte di Pasqua. Il Natale per molto tempo non è stato celebrato: se infatti tutti conoscevano le circostanze della morte di Gesù
e i racconti che si erano formati intorno alla
sua vittoria sulla morte, né l’anno della sua
nascita né, a maggior ragione, il mese o il
giorno erano conosciuti. Si sa che soprattutto per ragioni pastorali le feste della nascita di Gesù furono collocate in un’epoca
che era già festiva per consuetudine da secoli: le feste del solstizio d’inverno, in cui i
Romani celebravano i Saturnali e poi – quando a Roma si furono affermati i culti solari
che provenivano dall’oriente – i festeggiamenti legati alla ‘rinascita’ graduale del sole.
Così nel corso del IV secolo, in un mondo in
cui il cristianesimo non era più fuori legge,
divenne abbastanza ovvio collocare in questo stesso periodo la memoria della nascita
di Gesù, spesso invocato nella Chiesa dei primi secoli con l’appellativo di Sol Iustitiae.
Dopo che si afferma il Natale, il periodo di
preparazione prende forma gradualmente,
a imitazione della Quaresima, con un processo che può considerarsi compiuto nel VVI secolo. Le testimonianze sono scarse e
non sempre chiare. Nella regola di san Benedetto, che parla del digiuno quaresimale
in modo dettagliatissimo, nulla viene detto
a proposito di un digiuno in preparazione al
Natale. Nel 567 però il secondo Concilio di
Tours stabilisce che i monaci digiunino dall’inizio di dicembre fino a Natale: la pratica
viene poi estesa anche ai laici e per un certo
tempo portata a quaranta giorni, per evidente influsso della quaresima (e, più in generale, per l’importante simbologia del numero
quaranta nella Scrittura).
è venuto, viene, verrà
L’anno liturgico è un itinerario attraverso cui
il tempo viene santificato, reso ‘altro’: non
pazienza
Vaticano II (cfr. in particolare il n.107 della
costituzione Sacrosanctum concilium) conserva memoria della sua originaria fisionomia composita, ma con una notevole fisionomia unitaria: l’Avvento invita all’attesa del
Natale come compimento dell’antica Alleanza e quindi fondamento della fedeltà di Dio
alle sue promesse, su cui si fonda anche l’attesa del compimento futuro.
Natale non è solo memoria della nascita storica di Gesù, ma anche promessa e annuncio della Parusia alla fine dei tempi e ‘avvento’ continuo nella vita dell’umanità. Così l’Avvento ha un carattere pre-natalizio, ma anche un carattere escatologico. E soprattutto
su questa seconda dimensione è il caso di
soffermarsi, perché la dimensione escatologica è piuttosto latitante nell’esperienza di
fede della chiesa, una volta superati, non
senza giusto imbarazzo, i terrorismi psicologici del passato. La spiritualità dell’Avvento è una spiritualità dell’attesa e della vigilanza. Ma vorremmo poter dire attesa senza
nulla di passivo e ‘attendista’, e vigilanza senza ansia né paura; ed entrambe, attesa e vigilanza, sotto il segno della responsabilità salvifica.
L’invito alla vigilanza, fondamentale nel
Nuovo Testamento, ricorre frequentemente
in questo tempo liturgico. Come osserva
G.Dossetti in una meditazione sull’Avvento,
la vigilanza è la virtù di cui Gesù ha maggiormente parlato nella fase conclusiva della sua venuta; ed è: «... la virtù tipica del tempo intermedio, tra la prima e la seconda venuta di Cristo... Quaggiù noi non possiamo
che protenderci verso la carità, così come ci
protendiamo verso il Cristo (...), perché da
parte sua il Dio vivente nel suo Spirito ci
metta l’Amore che ci deve colmare, totalmente riempire». La vigilanza è tutto uno stile di
vita, di attesa operosa, di cammino orientato, tutta un’opzione fondamentale di ascolto e risposta.
ROCCA 1 DICEMBRE 2011
significa privato del suo senso intrinseco, ma
caricato in trasparenza di un senso ulteriore
che lascia scorgere il progetto di amore di
Dio sulla storia degli uomini.
In questo tempo liturgico ci accompagnano
gli oracoli profetici del Primo Testamento,
in particolare il libro di Isaia. I cristiani di
solito non hanno sufficiente familiarità con
queste pagine, soprattutto non familiarità
intima, orante: al più una conoscenza di tipo
teologico-culturale, e anche questo vale solo
per una cerchia ristretta. Insomma è difficile che queste pagine profetiche, anche le più
ardenti e incisive, suonino all’orecchio dei
cristiani praticanti come qualcosa di più di
una commemorazione o di un parallelismo,
in cui talvolta il riferimento troppo automatico alla venuta di Gesù interviene troppo
presto e impedisce l’ascolto autentico e partecipe dell’attesa del Popolo Eletto. In realtà
è giusto far risuonare unite le preghiere di
Israele e quelle della Chiesa, il nuovo popolo
di Dio che non soppianta l’antico, e solo così
è possibile farsi interpellare e coinvolgere
dalle risonanze misteriose di questa preghiera, di questa attesa che travalica i secoli.
Negli scritti dei Padri si trova spesso la menzione, non chiarissima né univoca, di un triplice Avvento: quello passato (la nascita storica di Gesù in un luogo-tempo determinato), quello attuale, detto anche Avvento «di
mezzo», con un’espressione che risale a Bernardo di Chiaravalle: cioè la sua venuta celebrata e attualizzata che agisce per opera
dello Spirito nella comunità e nel singolo
credente; infine la venuta finale nella gloria,
nella quale noi crediamo fermamente come
compimento della storia in Dio, resistendo
alla tentazione di immaginarla con modalità più o meno apocalittiche.
La nostra celebrazione annuale della nascita di Gesù, memoria della prima venuta e
come preparazione alla sua venuta definitiva. La seconda venuta, vissuta nel suo potenziale di trasformazione, è quella fondamentale, ecclesialmente parlando, decisiva
nell’esperienza del singolo, della comunità
di fede, della storia umana.
L’Avvento così com’è ora, dopo la revisione
dell’anno liturgico attuata dopo l Concilio
un’atmosfera di attesa
L’avvento non è specificamente un tempo
penitenziale – quello penitenziale è piuttosto il carattere della Quaresima -, ma un tem53
ROCCA 1 DICEMBRE 2011
IL
CONCRETO
DELLO
SPIRITO
54
po di approfondimento e di attesa, premessa al rinnovamento. Tempo per scoprire le
nostre attese più e meno profonde e il richiamo che da esse si sprigiona. L’ambiente in
cui ci muoviamo non aiuta, di solito, a fare
silenzio e a dare il senso dell’attesa. L’esplosione di luci e l’atmosfera simil-natalizia e
volutamente festosa (non pienamente credibile perché comunque finalizzata a incrementare i consumi, sempre più stanchi e
oculati in questo tempo di recessione economica) sono intorno a noi a partire dalla
metà di novembre più o meno: quando non
solo al Natale mancano settimane, ma neppure l’Avvento è cominciato... È un’incongruenza che dà fastidio, soprattutto a quelli
che amano l’atmosfera natalizia anche esteriore. Si tratta sempre di segni e del loro
messaggio. L’epoca in cui viviamo ha bisogno di segni, ma li maltratta e li banalizza.
Almeno in casa nostra però qualcosa si potrebbe fare per creare un’atmosfera più quieta e ‘altra’ e dare un senso di attesa (sì, forse
anche dove ci sono figli bambini o adolescenti, se si riesce in qualche modo a far loro
comprendere lo spirito della cosa). La corona dell’Avvento, le quattro candele da accendere una dopo l’altra nelle quattro domeniche, si sta lentamente affermando anche da
noi: e devono essere candele semplici e sobrie, senza inopportune festosità, solo luce
che illumina la notte, memoria della speranza anche nell’oscurità apparente. La preparazione dei doni, che non è solo un ‘fare’ o
un ‘comprare’, ma anche un progettare e pensare, qualcosa che ha a che fare con le relazioni umane e gli affetti, può diventare un
momento di grande significato.
Senza arrivare a spegnere la televisione come
nei monasteri – perché escludere del tutto le
notizie dall’esterno potrebbe anche diventare una mancanza di solidarietà con il mondo, con la storia in cui siamo inseriti –, si
potrebbe smettere per un po’ di farne la colonna sonora fissa di ogni giornata (ché se
poi, passato questo tempo liturgico, l’abitudine restasse, non sarebbe affatto male).
Nemmeno si vorrebbe rinunciare ‘in toto’ a
internet, senza la quale spesso anche il nostro lavoro diventerebbe impossibile o quasi, ma neppure c’è bisogno di farsene stordire e asservire fino a sentirsi vuoti e ‘sconnessi’ psicologicamente se per un po’ si resta non
connessi.
E poiché il tempo di Avvento comprende in
realtà due tempi, abbastanza differenziati
nell’atmosfera e nella spiritualità, sarebbe
bene sentire e far sentire la differenza. Il
primo è un tempo di attesa storica e cosmica insieme, in cui si sperimenta la propria
povertà e la fiducia in Dio, e questo non è
contraddetto ma sottolineato, accompagnato dal passaggio stagionale: l’autunno declina più o meno dolcemente verso l’inverno, le giornate si accorciano, i ritmi della
natura sembrano invitare al raccoglimento
e all’interiorizzazione. Il secondo è incentrato sull’attesa del Natale, sulla preparazione a breve termine. Ormai lo spartiacque tra i due tempi, che secondo la tradizione liturgica cade intorno al 15-16 dicembre, è segnato di fatto dall’8 dicembre, festa dell’Immacolata Concezione. Una festa
che, dobbiamo riconoscerlo, c’entra abbastanza poco con i ritmi dell’Avvento, in cui
Maria è molto presente soprattutto verso la
fine, ma in quanto madre accogliente e discepola del Regno ‘ante litteram’, non nella
memoria ecclesiale dei suoi ‘privilegi’. Ma
è così: forse perché unico giorno festivo infrasettimanale che cade nel tempo di Avvento, l’Immacolata Concezione segna l’inizio dell’attesa immediata del Natale. Molti
di quelli che fanno il Presepio in casa sono
soliti farlo proprio in questo giorno. L’uso
può essere gentile e significativo; ma, come
segno, il Presepio già pronto con oltre due
settimane di anticipo sul Natale – quindi
percepito come ormai troppo normale e
consueto, magari anche un po’ deteriorato
quando la festa giunge – risulta meno efficace. La cosa migliore sarebbe, a parere di
chi scrive (è una sorta di ritualità cominciata quasi per caso, elaborata e consolidata negli anni), realizzarlo un po’ alla volta,
con meditata attenzione: anche se qualcuno direbbe certo che un presepio, neanche
tanto piccolo, se rimane in fase di allestimento per parecchi giorni dà un senso di
disordine. No, non necessariamente. Io comincio con le strutture di base, con quello
che non si vede ma è necessario a dare verità e movimento, in senso interiore, al piccolo mondo che ogni anno deve esprimere
in qualche modo l’incarnazione, la concretezza del mistero di Dio con noi. In seguito
vi entrano, un po’ alla volta, gli elementi
naturali, cominciando da quelli inanimati
– come i sassi –, e gradualmente tutto ciò
che fa parte dell’ambiente, comprese le ...
architetture, chiamiamole così; poi la ‘vegetazione’ (muschio, rami, alberi...), poi gli
animali, che nel presepio sono importantissimi non solo per memorie francescane,
quindi i personaggi, lasciando ovviamente
Maria e Giuseppe per ultimi; infine Gesù
Bambino la sera della vigilia di Natale. Potrà sembrare infantile o consuetudinario,
ma poche cose come questa danno il senso
dell’attesa e della preparazione.
Lilia Sebastiani
GIOBBE
Lidia
Maggi
Perché dare la
luce all’infelice e
la vita a chi ha
l’anima nell’amarezza?
Essi aspettano la
morte che non
viene, la ricercano più che i tesori nascosti.
Si rallegrerebbero
fino a giubilarne,
esulterebbero se
trovassero una
tomba.
(Giobbe 3,20-22)
i può sentire un’angoscia tale verso la vita da arrivare a percepire la
morte non solo come unica via di
fuga, ma addirittura come la «meritata vacanza», dopo un’esistenza
di affanni e fatiche? In un albergo
a cinque stelle insieme con ospiti facoltosi!
«Ora giacerei tranquillo, dormirei, e avrei
così riposo con i re e con i consiglieri della
terra che si costruirono mausolei» (Giobbe 3,13-14.).
Per Giobbe la morte non rappresenta l’ultimo nemico da sconfiggere, né tantomeno la punizione per una possibile colpa.
Essa è, invece, realtà seducente, ricompensa donata a chi ha sofferto, agognato riposo per chi è sfiancato: «Là cessano gli empi
di tormentare gli altri. Là riposano gli stanchi» (3,17).
In questo delirio il mondo è capovolto e si
delega alla morte ciò che dovrebbe offrire
un’esistenza piena: pace, sicurezza e serenità. È dato alla morte il compito di rimediare alle inadempienze della vita. È la
morte che ristabilisce la giustizia e permette finalmente ai piccoli di avere la stessa
dignità dei grandi. È la morte che riconcilia la vittima con il carnefice e ricompensa
con la sua pace chi ha sofferto. In questa
visione non c’è decomposizione ma ristoro e serenità.
Là cessano gli empi di tormentare gli altri...
Là i prigionieri hanno pace tutti insieme,
senza udir voce d’aguzzino.
Piccoli e grandi sono là insieme, lo schiavo è libero dal suo padrone (3,18-19).
Nel delirio poetico di Giobbe la morte è
trasfigurata fino a diventare la terra promessa, l’aspirazione di tutta l’esistenza.
A Giobbe non è bastato maledire il giorno
della sua nascita: egli si spinge oltre fino a
proclamare la bontà della morte. Ne tesse
un elogio così seducente da rischiare l’accusa d’istigazione al suicidio, se certe dichiarazioni circolassero oggi su internet.
E invece, queste parole che decostruiscono l’intera bontà del progetto divino per
consegnare alla morte la vittoria finale,
sono pronunciate da un uomo che la tradizione giudica come giusto e pio, e sono
addirittura contenute nella Scrittura.
S
Dunque, elevate a Parola di Dio. La Bibbia non è un libro ideologico che espone
alcune dottrine religiose incurante delle
domande profonde che nascono dalle piaghe della vita. Essa è parola credibile proprio perché attraversa l’esistenza. Il Dio
biblico non si barrica dietro un credo religioso codificato. Per dirla con le parole
di Lutero: «Alle lodi del benpensante, Dio
preferisce la bestemmia del disperato». Le
parole di Giobbe suonano come una bestemmia. Più sacra però di chi, con un linguaggio religioso, offre facili consolazioni al sofferente.
Il progetto di una vita bella e buona voluta
da Dio è scosso nelle sue fondamenta dal
delirio poetico di Giobbe. Il suo grido: «viva
la morte», è la critica feroce alla vita che
non trova più il suo senso.
È il J’accuse del disperato contro un Dio
che non viene percepito come sostenitore
dell’esistenza, ma suo carceriere: «Perché
dar vita a un uomo la cui via è oscura, e
che Dio ha stretto in un cerchio?» (3,23).
Giobbe sente la vita creata da Dio come
una prigione buia da cui non può scappare; perciò sogna la morte.
L’ideologia di turno ha frequentemente trasformato questa visione disperata in credo religioso. Con sfumature diverse, si è
delegato all’aldilà il ristabilimento della
giustizia. Lo sa bene una genealogia femminile, abituata a sopportare il dolore, le
umiliazioni e le angherie del patriarcato
nell’attesa della ricompensa celeste. Ne
fanno memoria gli spirituals che vedono
nel cielo la sola via di fuga alle catene della schiavitù. Quando si addomestica questo grido, le sofferenze terrene smettono
di chiamare in causa Dio e la sua giustizia
per diventare la caparra con cui pagare il
soggiorno celeste.
La bestemmia del disperato è stata trasformata in pia preghiera da una cristianità
che ha rimandato all’aldilà la sete di giustizia.
L’urlo di Giobbe, che esalta la morte, va
ascoltato come tale. È un grido sofferto,
una denuncia contro le inadempienze della vita, non una professione di fede da strumentalizzare contro chi è già piegato dal
male qui e ora.
55
ROCCA 1 DICEMBRE 2011
la morte desiderata
&
V
VIZI
VIRTÙ
ROCCA 1 DICEMBRE 2011
Filippo
Gentiloni
56
el nostro linguaggio esiste una
serie di nomi che indicano atteggiamenti virtuosi, ma carichi di
ambiguità. Positivi, ma con incertezze. Bisognosi di spiegazioni.
Fra gli altri si possono citare almeno resistenza, coraggio, entusiasmo. È
giusto annoverarli fra le virtù? Con o senza precisazioni?
Resistere, prima di tutto. Si tratta di una
bella virtù se ciò a cui si resiste è il male,
in tutte le sue forme. Allora la resistenza è
nobile, difficile, eroica. È diventata addirittura termine tecnico per indicare quella
eroica opposizione al male del secolo XIX,
il nazismo e il fascismo, il male assoluto.
Resistenza senza bisogno né di precisazioni né di aggettivi.
Al di fuori della politica, la resistenza non
trova facilmente casa. Ne è una prova la
difficoltà con la quale si parla di resistenza nella educazione dei bambini. Meglio:
di resistenza non si parla. Non si parla facilmente di ciò a cui si dovrebbe resistere:
sopraffazioni, prepotenze, ingiustizie. Tutti
i tipi di male di cui, purtroppo, è piena la
N
vita.
Forse più che di resistenza sarebbe bene
parlare di coraggio: una virtù nobile e chiara, anche se troppo legata al mondo militare e anche della guerra. Troppo dipendente dal mondo della violenza. Bisognerebbe sempre declinare il coraggio e con
la giustizia e con la dolcezza. Distaccare il
mondo del coraggio da quello della guerra
e della violenza, per far rientrare il coraggio nel mondo che gli è proprio, quello del
bene e del giusto e anche della moderazione. Un mondo essenziale e necessario, dalla
vita politica – nazionale e internazionale –
a quella familiare. Fino al coraggio supremo, quello di fronte alla malattia e anche
alla morte. Così il coraggio e la sua sorella
– la resistenza – partono dalle piccole cose
della vita e arrivano al letto di ospedale.
Sempre e dovunque approvati ed esaltati
da chi ha saputo dar loro il posto che devono occupare nella vita. In un quadro che
è di pace e di amore: due termini che bisogna decisamente unire alla resistenza e al
coraggio, se si vuole un quadro virtuoso di
vita vera. E di vera virtù.
CINEMA
Q
Faust
l’espressionismo aveva aggiunto il tocco di un demonio che lo avvolge con le
proprie ali. E anche il rapporto tra il protagonista e
il suo complice-persecutore, pur non sfiorando la comicità come nel suo antecedente muto, appare improntato a un picaresco
acre e bizzarro.
Quanto all’ambientazione,
Sokurov sceglie di spostarla dal tempo della vicenda,
imprecisato ma comunque
medioevale, a quello di Goethe, disegnando i costumi
con rigore quasi filologico,
se si eccettua qualche licenza in direzione del fantastico, come nell’abbigliamento da Regina della Notte
della moglie dell’usuraio
interpretata da Hanna
Schygulla. Sotto la patina
di un colore diluito fin quasi al bianco e nero, effetto
accresciuto dalla scelta dell’arcaico formato 4:3, non
sfuggono tuttavia citazioni
anacronistiche: a Bruegel
per il paesaggio e la gente
che lo popola, a Bosch per
le situazioni da incubo, le
deformazioni ottiche che a
tratti piegano l’inquadratura e l’innaturale luminescenza che sottolinea la
resa alla passione di Margherita.
Rispetto al pittore del
«Giardino delle delizie» il
regista russo accentua il
senso di una sgradevole fisicità fin dalla sequenza
iniziale dell’autopsia, che
parte dal primo piano del
pene del cadavere, senza
risparmiarci in seguito budella e frattaglie varie, cibo
ingurgitato in maniera animale, deiezioni coram populo ed esibizione di corpi
cadenti o innaturalmente
deformi. L’ attraversamento degli orrori di un’esistenza che si dice contraddistinta dal fetore appare tuttavia il percorso obbligato
per questo personaggio
ambiguo e contraddittorio,
che assurge a eroe per l’inesausta spinta vitale che lo
caratterizza: verso l’amore,
certo, esperienza totalizzante e sublime, ma soprattutto verso la conoscenza,
che lo spinge immer weiter,
sempre oltre, non a caso
l’ultima parola che pronuncia dopo aver lapidato
l’usuraio-Mefistofele, davanti a un geyser in Islanda, estrema Thule per definizione, prima di incamminarsi in direzione dei suoi
ghiacciai, di un altrove
sconfinato e sconosciuto.
Oltre l’insegnamento e l’autorità paterni, la scienza, la
filosofia, la morale, la religione, la società. Oltre Dio.
Faust rappresenta a detta
del suo autore l’ultimo
movimento di una tetralogia iniziata nel 1999 con
Moloch e continuata con
Taurus (2000) e Il Sole
(2005), dedicati alla conclusione dell’esperienza di
vita e di governo rispettivamente di Hitler, Lenin e
Hiro Hito, cioè tre potenti
del secolo scorso. Facendo
un salto nel passato, Sokurov in realtà si proietta nel
futuro, rivisitando una figura comunque prometeica nonostante i suoi lati
oscuri, aperta alla categoria della possibilità, dunque a porsi le domande
eterne sul senso della vita
e sull’essenza e le prospettive del genere umano.
Scommessa con posta altissima, forse più ancora di
quelle degli altri suoi film.
Leone d’Oro a Venezia,
Faust è stato salutato da
molti come un capolavoro.
Da estimatori antichi del
regista, non ne siamo del
tutto convinti. L’ambizione
dell’assunto ci sembra infatti non trovare adeguato
corrispettivo in una scelta,
di sceneggiatura e messa
in scena, che gioca soprattutto sull’accumulo esplicativo di situazioni, anche
se non mancano alcuni
momenti forti, come la
magnifica scena in cui il
protagonista e Margherita
si lasciano precipitare nel
fiume dell’incanto amoroso. Facendo un parallelo
musicale, ci ha fatto pensare a un melodramma
con tanti recitativi e poche
arie. Per dirla fuori dai
denti, insomma, al Sokurov delle grandi architetture coproduttive preferiamo
quello più concentrato su
tranches de vie sospese nei
cieli della metafisica, come
in La voce solitaria dell’uomo o Madre e figlio. E, naturalmente, quello delle
Elegie, su Tarkovskij, Shostakovich e il duo Rostropovich-Vishnevskaya tra le
altre.
❑
57
.
ROCCA 1 DICEMBRE 2011
Paolo Vecchi
uello di Faust è un
mito fondante della cultura europea,
che coinvolge con
esiti diversi un po’
tutte le arti, dalla letteratura (Marlowe, Goethe,
Mann) alla musica (Berlioz, Gounod, Boito, Busoni, Schnittke). Ovviamente non poteva mancare il
cinema, sedotto dalle valenze anche puramente
iconografiche e spettacolari del personaggio, a partire dal prestigiditatore Georges Méliès che già nel
1897 lo faceva uscire dal
suo cappello a cilindro aggiornato alle nuove tecnologie. Tra le innumerevoli
versioni realizzate per lo
schermo ci piace citarne
tre: quella di Friedrich W.
Murnau (1922), con Emil
Jannings insuperato Mefistofele, Lecke Faust (t.l.:
Lezione Faust, 1994) del
geniale animatore surrealista ceko Jan Svankmajer
e, last but not least, Totò al
Giro d’Italia (1948) di Mario Mattoli, strepitosa parodia con il principe De
Curtis nei panni di un barbuto professore che vende
l’anima a un diavolo di seconda classe per arrivare
in maglia rosa a Milano,
condizione-capestro alle
nozze con la deliziosa Isa
Barzizza.
Anche per la dichiarata
seppur libera derivazione
goethiana, non poteva essere certamente questo il
registro scelto da Aleksandr Sokurov, insieme all’ungherese Béla Tarr tra i pochissimi eredi del magistero di Andrej Tarkovskij, per
lo spiritualismo dei temi,
la complessità filosofica
della loro articolazione e
l’uso dei tempi morti in
funzione espressiva. A parte quello specchio magrittiano sospeso nell’etere,
l’incipit fa tuttavia pensare a Murnau, con la mdp
che volteggia su un paesaggio innaturalmente cupo al
quale il caposcuola del-
RF&TV
TEATRO
Roberto Carusi
Renzo Salvi
Il cinema e la scena
ROCCA 1 DICEMBRE 2011
M
ilano Film Festival
è una rassegna della durata di una
settimana che si tiene ogni
anno a Milano. Vi si proiettano – in diversi luoghi
deputati – le ultime produzioni (ma anche interessanti recuperi) della cinematografia sia amatoriale
sia professionale: documentari e anche storie a
trama. Larga e significativa la presenza di una fascia
d’età giovanile (e non solo).
Ne parlo in questa sede
perché in ben due occasioni la macchina da presa si
è soffermata su scene e
retroscena di affermate
compagnie teatrali. Atelier
Colla è il felice risultato di
un paziente lavoro – durato mesi – sull’attività, osservata dalle quinte, della
rinomata Compagnia Marionettistica Carlo Colla e
Figli, finalizzata all’allestimento del Macbeth shakespeariano: dagli anfratti
del laboratorio fino al debutto al Piccolo Teatro di
Milano.
Eugenio Monti Colla (direttore artistico della Compagnia) e Carlo III Colla
(responsabile dell’allestimento) sono osservati,
ascoltati e seguiti dall’obiettivo mentre agiscono
e parlano tra di loro e con
i componenti la storica
équipe.
Dietro alla macchina da
presa tre giovani registi
(Guglielmo Trupia, Pietro
De Tilla, Elvio Manuzzi)
che hanno passo passo seguito le discussioni sul progetto artistico, la costruzione delle scenografie e la
meticolosa ideazione e confezione di costumi e parrucche, il «doppiaggio» e la
registrazione in sala d’incisione, infine le concertate
«manovre» dal ponte.
Tutto ciò, grazie a un sapiente montaggio, porta il
58
pubblico che assiste all’appassionante film a conoscere, scoprire, riscoprire
il fascino segreto di una
creazione artistica.
Diversa eppure analoga la
riscoperta – addirittura a
tre dimensioni – di un classico scritto e interpretato
da Dario Fo: quel quarantennale Mistero buffo tornato recentemente in scena al teatro Nuovo di Milano. In platea, sul palco,
da ogni angolazione erano
presenti le macchine da
presa dietro alle quali stava Felice Cappa, regista
che da tempo segue il teatro di Fo sia sulla scena sia
per la Tv. Due macchine
stavolta: sofisticate e tecnologicamente evolute
quanto basta per effettuare stupefacenti riprese tridimensionali. L’esito è, a
dir poco, sorprendente
anche se – come ha spiegato Cappa – c’è ancora
molta strada da fare. E Fo,
divertito e interessato, ha
osservato che del nuovo
approccio agli spazi e al
pubblico, offerto da questo
intreccio di teatro e cinema, si dovrà d’ora in poi
tener conto.
P.S. Al momento di spedire l’articolo apprendo la
notizia della morte di Carlo III Colla, erede – con il
cugino Eugenio Monti
Colla – di una grande tradizione artistica familiare.
Di Carlo Colla restano i
sapienti allestimenti tecnici e il ricordo della sua
abilità nel «muovere» le
marionette caratterizzando i personaggi più grotteschi, a cominciare da
quel Gerolamo cui era intitolato il piccolo «gioiello» milanese che Carlo III
ha invano sognato di vedere riaperto: il teatro dove,
ancora bambino, aveva debuttato.
❑
Italialand
N
uove attrazioni» fa
da sottotitolo alla
nuova edizione di
Italialand dagli
schermi de La7, il venerdì
sera (dal 21 ottobre per dieci
puntate). I tre termini dichiarano intento e chiave interpretativa del programma che
guarda alla realtà del paese
nei termini di un Parco giochi più o meno «a tema»:
nella fattispecie sulla politica e le culture dominanti.
Ma dietro la ragione sociale,
che lo iscriverebbe d’ufficio
al filone della satira e della
comicità politicamente
orientata, Italialand sembra
collocarsi sui margini di questa tipologia per orientarsi
alle forme e, in qualche caso,
alla sostanza del teatro civile
e d’impegno: altro certamente dallo stile inchiesta/denuncia «alla Paolini», meno elegante delle scritture (non a
caso drammaturgiche) di
Dario Fo, ma soprattutto, in
positivo, meno pretenzioso
di altri tentativi tv che vivono dell’attesa e nella speranza di suscitare censure. Comico, quindi, ma consapevole di una situazione che Giannelli, vignettista del Corriere,
ha ben sintetizzato affermando che la satira non cambia
il mondo: semmai strappa un
sorriso.
Teatrale è l’habitat del programma, pur ricostruito in
studi tv, teatrale l’impianto di
comunicazione con l’interprete (quasi) assoluto che
fronteggia la platea e talvolta la suscita come un coro;
teatrale il cambio di arredi
(minimi) a vista come pure
l’abbigliarsi ed il cambiar
personaggio appena al di là
delle quinte.
Televisivo è invece, come per
tutto il teatro in Tv, l’apporto
delle telecamere che restituisce in primo piano ciò che
sul palco e dal vivo sta comunque «laggiù»; televisivo
è il grande schermo arcuato
di fondo su cui compaiono
ora scene, ora giochi di immagine che si mescolano all’illuminotecnica creativa
proiettata sul palco.
La consapevolezza dei propri limiti e perciò una distanza nei confronti di se
stesso mentre si burla di
politici e situazioni borderpolitiche emerge nel non
riuscire a mantenersi serio
di Maurizio Crozza (one-television man) e di qualche
sua spalla dialogante sia in
video che in sola voce.
Per questa via le vecchie attrazioni della politica – un
presidente del consiglio lì lì
per non esser più tale e la
sua corte dei miracoli in villa, parlamento e governo –
inducono al riso solo dopo
che lo spettatore/cittadino
ha superato tutte le desolazioni, ma con Italialand ci
si ritrova anche a sorridere
sulle immagini in burla del
presidente della Repubblica
e del sindaco/rottamatore di
Firenze («il nulla che avanza»), mentre rispetto al fraseggio iperlapalissiano di
Bersani Crozza rivendica
addirittura i diritti d’autore.
A questa via di comicità civile viene piegata una mimesi vocale capace di mutarsi in corso di frase, piegandosi anche a multiformi
inflessioni dialettali, e in
grado di passare dal parlato al canto mantenendo
queste tipologie di fraseggio.
Per le nuove attrazioni: nella puntata/emblema del
giorno 11 novembre si è affacciato il commento «gastrico» (uomo da pastina,
non gaudente come Prodi)
dedicato a Mario Monti, ed
è stato ripescato lo pseudoBossi ai giardinetti ad attaccar bottone.
Funzionan meno le presenze delle figure vere: Civati,
Tosi, prima Della Valle. Per
i (più o meno) politici non è
davvero l’ora: neanche
come spalla.
❑
FOTOGRAFIA
ARTE
Mariano Apa
Alberto Pellegrino
L
a giustissima e bellissima esposizione parigina che di Gino Severini è stata realizzata ai
d’Orsay e Orangerie, ora si
visita fino a gennaio al Mart
di Trento e Rovereto, con
catalogo della Silvana Editoriale a cura di Gabriella
Belli e Daniela Fonti; indicando le strade di un monografico itinerario di un
genio dell’arte che tra
Roma e Parigi, dove muore il 26 febbraio del 1966,
sembra come ritornare
«sempre» all’etrusca sua
Cortona, dove nacque il 7
aprile del 1883. Tra Simbolismo e Futurismo, Severini edifica un originale proprio percorso critico artistico che perviene a coniugare arte e teologia, racconto
dell’ornamento e fissità del
canone: Severini accenna,
ma ben tiene di conto, a
Lenz e a Beuron e certo
venne anche a conoscere il
Serusier- Denis della «ABC
de la peinture». La sua partecipazione all’Avanguardia
indica una sorta di «distanza» che lo fa operare per
sintesi subliminale e nel
suo Futurismo – di cui nel
1910 firma i manifesti della Pittura, 11 Febbraio, e
della Tecnica, 11 Aprile –
vengono a percepirsi le timbrature cromatiche del
Fauvisme e le analitiche geometrizzazioni spaziali dei
Cubisti e della Section d’Or,
le emozioni poetiche dell’Orfismo di Apollinaire e
dei suoi «Calligrammes»
che lo aiutano a risalire ai
cartigli di Simone Martini
e del Beato Angelico. All’interno del pirotecnico e infuocato ragionare dell’avanguardia, si cela il segreto di una forma che sappia decidere il canone della figura, di là del racconto
italico di un «ritorno» che
appare come simulazione
letteraria – il ciclo al Castello di Montegufoni, del
1921 – di una ricerca che
conduce al segreto dell’argomento: sempre del 1921
è, infatti, il magistrale suo
«Du cubisme au classicisme. Esthétique du compas
et du nombre», che Piero
Pacini ripubblica benissimo nel 1972, e che va letto
insieme al «Tempo dell’Effort Moderne/ Vita di un pittore», che Pacini presenta
e cura già nel 1968. Dal
1924 lavora alle «Chiese
svizzere» della Diocesi di
Friburgo, su cui sono intervenuti a loro tempo, Cecilia De Carli e Daniela Fonti. Con Mons. Passerini –
che lo aiuta a studiare a
Roma e di cui nel 1903 ne
esegue un ritratto – con
Mons. Marius Besson, che
della Diocesi svizzera fu Vescovo dal 1920 al 1945, e
con il Vescovo di Cortona,
il sassoferratese Mons. Giuseppe Francolini, con cui
realizzò una Via Crucis nel
ricordo di Margherita da
Cortona; Severini si incrocia tenendo il filo del compasso ben fissato nell’opera di Jacques Maritain, di
cui la fiorentina Olschki
Editore per la cura di Giulia Radin – e testi di Romana Severini, René Mougel e
Piero Viotto – pubblica l’importante «Corrispondance
Gino Severini Jacques Maritain (1923-1966)» del materiale ora custodito nell’Archivio del ’900 del Mart.
Con sua moglie Jeanne
Fort, Gino Severini frequenta Meudon e quindi
con Jacques anche Raissa
Maritain. Una cosmologia
si sovrappone all’altra, delle origini romane con Balla
e Boccioni, pervenendo ad
unificarsi nella localizzazione di un ricercato statuto
originario nell’immagine realizzata infine trovato. ❑
Due saggi
A
rriva nelle librerie
con un ritardo di oltre trent’anni il volumetto di Franco Vaccari
intitolato Fotografia e inconscio tecnologico (Einaudi, 2011) che conserva una sua importanza
storica come testo utile a
comprendere un fase storica dell’arte fotografica e
dell’arte più in generale,
perché circola la tesi sulla «morte dell’autore» in
auge nel Sessantotto e nei
primi anni Settanta,
quando Vaccari alla Biennale di Venezia esponeva
una macchina per fototessere e una parte bianca su cui i visitatori potevano appendere i loro ritratti realizzati in automatico, sintesi delle sue
«esposizioni in tempo reale». Vaccari è stato sempre uno che si è «lasciato
usare» dalla fotografia,
sostenendo che il fotografo (specie se si ritiene un
«artista») non è lui a fare
le fotografie, perché le
immagini nascono da
sole, spesso in modo casuale entrano nell’inquadratura grazie alla fotocamera che è in grado di
creare un’immagine autosufficiente anche in assenza di un autore che la
manovra. Vecchia tesi ricorrente fin dai tempi del
pittorialismo e delle teorizzazioni del primo Novecento sull’inconscio ottico (Da Benjamin a Flusser), tesi puntualmente
smentite da Alfred Stieglitz ai futuristi, da Man
Ray a Moholy-Nagy, da
Mulas a Cartier Bresson.
Se si prende questo testo
come un documento storico, ognuno è libero di
affermare quello che vuole ma rimane andare contro una realtà ormai consolidata: è inutile parlare
di «narcisismo» dei foto-
grafi-autori e di loro presunte «sovra codificazioni isteriche» che possono
valere per un mare sconfinato di fotografi che ci
tengono a classificare
ogni loro fotografia come
un’opera d’arte. Ma questo discorso non tiene per
fotografi che hanno segnato la storia della fotografia come, ad esempio,
Nadar e Paul Strand, Mario Giacomelli e Luigi
Ghirri, Mapplethorpe e
Sebastião Salgado, Duane
Michals e David LaChapelle.
Molto più interessante,
perché più attuale, il saggio di Remo Cesarani
L’occhio della Medusa. Fotografia e letteratura (Bollati Boringhieri, 2011),
perché in esso viene preso in esame il complesso
rapporto tra la fotografia
e il testo letterario, si analizza l’uso del linguaggio
e della metafora, mettendo sempre in risalto le differenze esistenti tra letteratura e fotografia. L’autore analizza la presenza
del fotografo come personaggio in varie opere letterarie; il rapporto tra
memoria e fotografia, in
particolare in Proust, Nabokov, Lalla Romano,
Margherita Youcernar,
con tutte le possibili manipolazioni e decifrazioni
degli autori. Interessante
è la tesi (già di Susan Sontag) secondo la quale la
fotografia è un atto «predatorio» per quanto riguarda, il ritratto e le foto
di gruppi familiari o riguardanti la vita, perché
serve ha catturare l’immagine umana e fissarla
per sempre sulla carta per
la sua capacità di bloccare in un attimo l’esistenza di una persona.
❑
59
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ROCCA 1 DICEMBRE 2011
Severini
SITI INTERNET
SATIRA
Alberto Pellegrino
Giovanni Ruggeri
L’Italia s’è desta
I
ROCCA 1 DICEMBRE 2011
I
n occasione delle celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità
d’Italia è stato pubblicato
il volume L’Italia s’è desta.
Stampa satirica e documenti d’archivio per una
lettura storico iconografica
dell’Unità d’Italia a cura di
Fabio Santilli, presidente
del Centro Studi Galantara. Il volume si apre con
la prefazione dell’illustre
storico Giuseppe Sabbatucci e con l’interessante
saggio Se ogni periferia è
un centro: centralismo e localismo nell’Italia unita di
Paola Magnarelli, docente di storia contemporanea nell’Università di Macerata. L’opera, che contiene circa cinquecento illustrazioni, si apre con
una introduzione Il segno.
Il graffio. La storia. Prolegomeni alla lettura critica
della satira risorgimentale
di Melanton, segue quindi un ampio e documentato contributo di Fabio
Santilli intitolato La stampa satirica per una storia
iconografica dell’Unità
d’Italia, partendo dal primo giornale satirico L’Arlecchino di Napoli per poi
analizzare i giornali romani come Il Don Pirlone, Er
Rugantino e Cassandrino,
i fogli milanesi Lo spirito
folletto e L’Uomo di Pietra,
i periodici torinesi Il fischietto e Pasquino per arrivare a Il pupazzetto pubblicato a Roma nel 1864.
Nelle stesse Marche nascono diversi fogli satirici
come Il Disordine, La Scopa, Il Ficcanaso e Don Falcuccio. Nella parte del volume più propriamente
storica Marcello Verdenelli dell’Università di Macerata si occupa del rapporto fra Leopardi e il Risorgimento; Marco Severini,
sempre dell’Università di
60
Netnografie
Macerata, delle Marche e
la Repubblica Romana tra
il 1848 e 1849; Matteo Villa analizza la campagna
sabauda dalle Marche alla
Campania; infine Giampaolo Vincenzi scrive una
storia dell’unità regionale
e nazionale attraverso i
documenti d’archivio.
Nell’ultima sezione, dedicata a particolari argomenti di ricerca, Luigi De
Angelis tratteggia le figure di Garibaldi, Cavour,
Mazzini e Vittorio Emanuele; Paola Puglisi analizza l’immagine dell’Italia
nella iconografia nazionale; Laura Bianchi si occupa di epistolari e diari del
periodo risorgimentale;
Ernesto Pauselli parla delle donne nel Risorgimento; infine Alberto Pellegrino affronta il tema di Risorgimento e mass media,
occupandosi della fotografia risorgimentale dalla Repubblica Romana
alla guerra d’Etiopia, del
cinema risorgimentale,
della stretta connessione
tra Risorgimento e melodramma italiano, della
straordinaria popolarità
di Garibaldi divenuto un
vero e proprio mito «massmediatico» grazie anche
ai suoi romanzi e alla diffusa presenza del personaggio nella letteratura,
nella canzone popolare,
❑
nel fumetto.
l rischio c’è: d’ora in poi,
potrebbero avere il sapore dell’archeologia culturale quelle ricerche tese a indagare i vari aspetti del rapporto di Internet e delle nuove tecnologie con la vita
quotidiana delle persone e
delle società. La realtà, infatti, è andata di gran lunga
molto più avanti, sì che oggi
il vero oggetto di indagine è
costituito dalle forme, significato e implicazioni che
assume l’intreccio di relazioni interno alla rete stessa, gli scambi che hanno
luogo tra coloro che fanno
la rete, con i loro messaggi
e interazioni. Un approccio,
dunque, tutto all’interno. È
questo il significato e l’obiettivo di una nuova disciplina denominata netnografia,
cioè l’analisi delle interazioni che avvengono sul web,
mediante gli strumenti tradizionali dell’antropologia
culturale e dell’etnografia.
Richiamando il caposcuola
di tali studi, l’antropologo
Robert Kozinets, potremmo
dire che la netnografia è
un’etnografia e un metodo
di analisi antropologico
adattati alla società contemporanea, dove vita e cultura sono ormai e irrimediabilmente mediate tecnologicamente.
In Italia, la prima espressione istituzionale di questo
nuovo indirizzo di ricerca è
il Centro Studi di Etnografia Digitale di Cava dei Tirreni, organizzazione noprofit che vede all’opera sociologi, marketer ed esperti
del web. Sorto su iniziativa
congiunta di istituzioni accademiche (e non solo) di
Milano, Urbino, Salerno e
Copenaghen, «il centro, attraverso l’utilizzo strategico
e capillare dei nuovi media
digitali, si occupa di studiare e comprendere le nuove
forme di vita culturali
emergenti nella rete e nella
società. I nuovi media rendono visibili e accessibili
pensieri, comunicazioni,
emozioni ed identità che
prima rimanevano privati e
nascosti. Il centro studi usa
metodologie qualitative e
quantitative per mettere a
frutto questa nuova possibilità di arrivare ad una
comprensione più profonda di identità, tribù e forme di vita che emergono
nella contemporanea società delle reti» (si veda
www.etnografiadigitale.it).
Lo studio dei comportamenti dei gruppi e delle nicchie all’interno soprattutto
dei social network (Facebook, Twitter ecc.) e di tanti
altri siti che vivono dell’interazione tra i rispettivi
utenti ha una potenziale ricaduta sia commerciale
(marketing) sia sociale. Nel
primo caso, si studiano tendenze, gusti, abitudini e attitudini degli utenti della
rete per veicolare loro proprio il prodotto che si vuole
vendere; nel secondo caso –
ed è facile intuire quali possibilità di impiego manipolatorio anche per fini politici si nascondono in questi
strumenti di indagine – si
vanno a individuare gli specifici dispositivi comunicativi, e in genere relazionali,
che operano nella rete, per
interagirvi secondo le più
diverse finalità.
Il tema non è da sottovalutare: basti pensare che il
solo Facebook ha raggiunto circa 600 milioni di utenti attivi in tutto il mondo;
di questi, 18 milioni sono
in Italia ed è talmente elevata la loro fidelizzazione
che ben 4 milioni vi accedono da dispositivi mobili.
Come dire: sempre e ovunque.
Le persone si incontrano
anche in rete per scopi sociali, culturali, civici. Danno vita a relazioni. Resterà
da vedere quanto estensione e numero non saranno
di detrimento alla qualità.
❑
LIBRI
Nel verde abbraccio della
foresta dell’alto Casentino,
da un millennio il monastero e l’eremo di Camaldoli
conducono il cuore del credente alla lode dell’Altissimo. Il Monastero di Camaldoli: fortezza custodita nello scrigno smeraldo della
foresta dove da mille anni i
monaci vivono, pregano,
pensano.
L’Eremo: la solitudine che si
fa esistenza orante per il
mondo e per la pace, lassù,
dove una scala luminosa
sembra congiungersi al cielo oltre le vette degli abeti; ai
piedi di quella scala Dio non
smette di cercare l’uomo e
con Jacques Le Goff potremmo dire che lì, nel cielo sceso
in terra, stanno le radici medievali dell’Europa.
Lassù, lungo l’inquieto cammino della storia, generazioni di uomini e di donne
sono state accolte dai monaci e hanno coltivato la
loro crescita spirituale e la
loro maturazione intellettuale. Preghiera, spirito, liturgia, cultura: nell’approssimarsi della celebrazione
millenaria – che cadrà nell’anno venturo – di questo
dono così singolare per la
Chiesa cattolica e per l’umanità, cristiana ed anche laica, che anima la nostra società, i monaci di Camaldoli ci offrono nelle pagine di
questo piacevole volume
una corale, distesa meditazione sui peculiari carismi
della spiritualità dei discepoli di San Romualdo. Una
spiritualità saggiata e perfezionata dal tempo, trascorso nel solitario dialogo con
Dio; nelle giornate scandite
dal canto della liturgia delle ore, quotidiano e fecondo innesto di ogni altra attività; nella cordiale compagnia del popolo cristiano,
desideroso di sempre me-
glio coniugare l’esercizio
dell’intelligenza e la professione della propria fede con
il fervore e l’impegno civile,
di tenere desta la coscienza
e attento il cuore alla voce
dello spirito,in un orizzonte di comunione nelle diversità che si fa esempio; nella
serena contemplazione della brulicante bellezza del
mondo, delle sue contraddizioni e delle sue attese.
Questo testo ci ricorda pertanto che la comunità monastica di Camaldoli è una
memoria ed una presenza
nel mondo odierno. Non
solo una millenaria memoria storica da celebrare ma
soprattutto una presenza
viva e preziosa da custodire
e da onorare. Affinché il dialogo orante, accogliente, riflessivo che essa anima continui ad orientare le vicende di uomini semplici ma
tutti ugualmente impegnati nel progresso dell’autentica civiltà.
Tiziano Torresi
geliano, e critica nei confronti di quelli che, a suo
parere, rappresentavano gli
esiti relativistici e nichilistici di molte correnti contemporanee. E contro la tendenza di queste correnti a decostruire la questione del
senso, ha cercato, come sostiene la curatrice, di «privilegiare ogni momento costruens della storia della filosofia».
Gli scritti contenuti in questo libro, tra cui un inedito,
sono quindi un’occasione
per esplorare, da un’angolazione diversa, il pensiero
della crisi (soprattutto l’opera di pensatori come Schopenhauer, Feuerbach e
Nietzsche) e per ricordare,
a cinque anni dalla morte,
uno studioso serio e appassionato che attribuiva alla
filosofia un vero e proprio
compito vitale, il compito di
rispondere alle domande
esistenziali «come domande
sul destino del singolo esistente».
Stefano Cazzato
Leonardo Casini
Corporeità. La corporeità nelle Erzanzungen al
Die Welt di Schopenhauer e altri scritti (a
cura di Viviana Meschesi)
Mimesis, Milano 2011,
pp. 139, € 14,00
Enrico Peyretti
Dialoghi con Norberto
Bobbio. Su politica,
fede, nonviolenza
Claudiana, Torino 2011,
pp. 256, € 15,00
Grazie a questo volume curato da Viviana Meschesi ci
si può accostare all’opera di
Leonardo Casini, in particolare al suo programma filosofico di recuperare e valorizzare «il pensiero della differenza personale, della corporeità nella sua chiave
umanistica individuale e
intersoggettiva».
Con questo programma
«forte», personalista nella
sua ispirazione di fondo,
Casini, che è stato professore ordinario di Filosofia
morale presso l’Università
di Roma Tre, ha incarnato
una voce controcorrente rispetto alle letture dominanti
dell’irrazionalismo posthe-
Quella di Norberto Bobbio
è un’eredità filosofica ed etico-politica particolarmente
preziosa per la riflessione
contemporanea, specie in
considerazione del fatto che
il nostro tempo pare ormai
caratterizzato da una sostanziale disabitudine alla
partecipazione e in generale a tutti quegli esperimenti
di democrazia diretta cui,
per esempio, guardava un
Aldo Capitini con la sua
omnicrazia, la sua idea di
potere di tutti e dal basso, le
sue proposte – tra le altre –
di Centri di Orientamento
Sociale e Centri di Orientamento Religioso. E proprio
con Capitini, d’altra parte,
Bobbio ha a lungo e volen-
tieri dialogato, lui da perplesso e l’amico perugino da
persuaso.
Enrico Peyretti riporta e
commenta sapientemente
un dialogo importante avuto, lungo un ventennio, con
il filosofo e con l’uomo Bobbio (si possono scindere?) e
ne sottolinea aspetti utili alla
comprensione di come eravamo, di come siamo e del
perché lo siamo diventati/lo
stiamo diventando. Le trentanove lettere inedite del filosofo torinese che questo
volume presenta offrono
così, assieme alla ricca appendice, l’opportunità di rileggere buona parte della
storia delle idee in Italia e
non solo, dagli anni Ottanta
fino al 2003, nel mentre vengono affrontati diversi nodi
cruciali di quella che chiamerei l’educazione alla politica. Ecco allora il dibattito
su guerra/pace e disarmo, su
violenza/nonviolenza, ma
anche alcune considerazioni ‘decisive’ su diritto e giustizia sociale, su religione e
religiosità, sulla dialettica
vita-morte. E ancora: la cifra dell’esistenza e delle relazioni intersoggettive, il
senso della comunità, il valore dell’amicizia, il confronto tra differenti visioni del
mondo e tra alternative possibili del fare e del progettare la politica.
Difficile resistere alla tentazione di citare almeno questo passaggio limpidissimo
del giugno 2000, quando
Bobbio scrive a Peyretti:
«Non c’è nessuna contraddizione tra il mondo delle
passioni o delle emozioni e
il mondo della ragione. Appartengono a due sfere diverse, starei per dire anche
fisiologicamente, della nostra personalità. Mentre
vedo un contrasto tra l’uomo di ragione e l’uomo di
fede, non vedo alcun contrasto tra l’uomo di passione e
l’uomo di ragione» (p. 153).
Non sarà che ci mancano
intellettuali dello spessore di
Bobbio?
ROCCA 1 DICEMBRE 2011
Alessandro Barban, Joseph H. Wong
Il primato dell’amore
Cittadella editrice, Assisi
2011, pp. 310, € 18,50
Giuseppe Moscati
61
paesi
in primo
piano
Carlo Timio
Giamaica
ROCCA 1 DICEMBRE 2011
S
tato dell’America centrale, la Giamaica è la
terza isola più grande
dei Caraibi e la prima fra
tutte quelle di lingua inglese. È situata a circa mille chilometri a sud di Miami e a
centocinquanta chilometri
da Cuba. I primi colonizzatori furono gli indigeni amerindi della tribù Arawak che,
sbarcati intorno al 1000 d.c.,
dettero all’isola il nome di
Xajmaca (che significa terra
di primavera). Nel 1494 fu la
volta di Cristoforo Colombo
ad approdare sull’isola, che
successivamente venne rivendicata dalla corona spagnola. Nell’arco di pochi
anni, il duro sfruttamento
della popolazione indigena,
ridotta in schiavitù, provocò
l’estinzione degli Arawak.
Prese così forma la tratta
degli schiavi importati dall’Africa e costretti a lavorare
nelle piantagioni di canna da
zucchero. Malgrado la resistenza degli spagnoli, nel
1654 gli inglesi riuscirono a
conquistare l’isola. Nei primi venti anni dalla conquista britannica, la Giamaica
divenne il più grande esportatore di zucchero al mondo. La massiccia importazione di schiavi africani determinò una sproporzionata
presenza di neri in relazione ai bianchi. Ciò provocò
inevitabili scontri e ribellioni a tal punto che nel 1834
fu formalmente abolita la
schiavitù. Dopo il raggiungimento del suffragio universale per tutti i giamaicani nel
1944, il Paese divenne una
provincia della Federazione
delle Indie Occidentali. L’indipendenza dal Regno Unito avvenne nel 1962. Il Paese oggi è una democrazia
parlamentare, membro del
62
Commonwealth, la cui forma di stato è quella della
monarchia costituzionale: la
Regina Elisabetta II è il capo
dello Stato. Negli anni Sessanta, il tentativo da parte
del governo presieduto da
Michael Manley di alleviare
le gravi condizioni economiche in cui versava il Paese,
causò un notevole aumento
del debito estero. L’intervento del Fondo monetario internazionale con le sue politiche di austerità non si fece
attendere. E l’aggravarsi delle condizioni economiche,
spinse la politica a costituire un governo di unità nazionale composto dal Partito nazionale del Popolo di
Manley e il Partito Laburista giamaicano che stava all’opposizione. Tale connubio
non sortì però gli effetti desiderati. Infatti, la collusione dei partiti politici con le
bande rivali era montante. A
partire dagli anni Ottanta si
verificarono episodi di uccisioni, violenze e sparatorie
connesse con la malavita e il
mercato della droga. L’escalation di questo fenomeno si
ebbe intorno a metà degli
anni Novanta quando si intensificarono le lotte intestine tra gruppi armati che oltre ad impoverire la popolazione creavano un forte stato di insicurezza tra le gente.
Nelle elezioni politiche del
2006 è salita al potere una
donna, Portia Simpson Miller, esponente del Partito nazionale del Popolo. Nel 2007
invece, nelle consultazioni
elettorali, ha vinto il candidato del Partito Laburista giamaicano, Bruce Golding.
Popolazione: su un totale di
circa due milioni e settecento mila abitanti, il 76 per cento sono neri discendenti da-
gli schiavi africani, il 15 per
cento sono di etnia mista, il
3 per cento sono indiani e
anche gli europei rappresentano circa il 3 per cento.
La variegata mescolanza
razziale e culturale è frutto
della colonizzazione che ha
caratterizzata la storia del
Paese. L’Africa ha lasciato il
suo segno nella cultura, nell’arte, nella cucina e parzialmente nella lingua, mentre
l’Europa ha apportato la sua
influenza sul sistema educativo, legislativo, governativo, sull’architettura, sui
nomi di numerosi luoghi e
sulla religione. La lingua
ufficiale è l’inglese, sebbene
la maggioranza della popolazione parli un dialetto creolo (il patwah) costituito
dall’influenza delle lingue
africane, inglese, francese,
spagnolo, portoghese e amerindo. La religione svolge un
ruolo molto incisivo sulla popolazione, tanto che nel Paese c’è la più alta concentrazione di chiese al mondo per
miglio quadrato. La confessione prevalente è il cristianesimo di stampo battista,
anglicano e cattolico. È presente anche un piccola minoranza di ebrei e musulmani. La cultura mista e la forte influenza africana hanno
determinato la nascita di
nuove forme religiose come
la pocomania e il rastafari.
La schiavitù subìta nel corso dei secoli ha reso il popolo giamaicano orgoglioso e
forte, sempre pronto a nuove sfide a livello globale,
rompendo così i limiti geografici di una piccola isola.
Alcune lampanti dimostrazioni di questa inclinazione
ad affermarsi come un popolo dotato di un’identità
culturale marcata, emergo-
rocca
schede
no in due settori: la musica
e lo sport. Famosi in tutto il
mondo sono le musiche
calypso e reggae. Quest’ultima rappresentata a livello
planetario dal suo massimo
esponente Bob Marley. L’importanza della musica si
evince anche dal numero di
stazioni radiofoniche presenti sul Paese: se ne contano circa settecentocinquanta radio ogni mille abitanti.
Per quanto concerne lo
sport, innanzitutto va menzionato il fatto che l’isola
tropicale ha una sua squadra nazionale di bob (!), che
ha debuttato ai Giochi olimpici invernali in Canada nel
1988. Inoltre, la Giamaica
detiene numerosi record
mondiali nell’atletica per le
specialità dei velocisti.
Economia: la Giamaica è
un Paese in via di sviluppo
con un economia mista, formata da una combinazione
di libero mercato e di intervento statale. Le sezioni più
rilevanti sono il turismo che
anche grazie all’indotto (artigianato, prodotti agricoli,
ristorazione e alberghi) è la
fonte primaria di reddito.
Segue l’agricoltura con
l’esportazione di canna da
zucchero, caffè e noci di
cocco. Anche l’industria
svolge un ruolo non secondario nei settori del tessile e
dell’agroalimentare. Di rilievo è l’attività mineraria che,
grazie all’estrazione di bauxite (di cui il Paese è uno dei
maggiori produttori al mondo), di marmo e di calcare,
rappresenta la seconda fonte di valuta straniera.
Situazione politica e relazioni internazionali: nonostante i progressi degli ultimi decenni, che dovrebbero assicurare il raggiungimento degli Obiettivi del
Millennio, la situazione economica stagnante, la carenza di infrastrutture e il problema della criminalità diffusa, rappresentano per il
governo in carica impellenti questioni da affrontare.
❑
Fraternità
raccontare
proporre
chiedere
Togo
due pozzi per Ountivou
tini sulla testa, sulle sponde dei fiumiciattoli quasi
in secca o negli stagni nell’ampio letto del Mono (il
grande fiume il cui nome
in lingua adja significa
«madre di tutte le strade»),
attingendovi l’acqua da
portare a casa. È fangosa,
stagnante e sporca e pure
inquinata da pesticidi e
diserbanti utilizzati nelle
coltivazioni intensive di
cotone più a monte, ma è
tutta l’acqua che c’è e comunque serve per tutto:
bere, far da mangiare e lavarsi ... e nessuno può farne a meno. Frequentare le
rive dei fiumi può essere
pericoloso. La presenza di
zanzare e insetti nelle zone
paludose e l’ingestione di
acqua contaminata aumenta il rischio di contrarre malattie (filariosi, oncocercosi, verme di Guinea,
ulcere di Buruli) dolorose
e invalidanti.
Poche settimane fa si è
sparsa in breve la notizia
che da Godohouè, un villaggio distante solo quattro chilometri, si è presentato al dispensario di Ountivou un ragazzo affetto
dal morbo di Buruli. La
gente si è allarmata. Il presidente del Comitato Solidarietà e Sviluppo di Oun-
tivou ha riunito i capifamiglia discutendo a lungo su
come risolvere il problema
di dare acqua pulita a Ountivou, garantendola agli
abitanti ed in primo luogo
ai bambini ed ai malati del
dispensario. La soluzione
che hanno trovato insieme
è di cercare in profondità,
perforando il terreno fino
a raggiungere la falda a 25/
30 metri. È opportuno localizzare due pozzi: uno
davanti al dispensario ed
uno accanto alla scuola.
Mentre la trivellazione dovrà essere fatta con adeguate attrezzature e da manodopera specializzata, le
varie famiglie del villaggio
hanno assunto l’impegno
dei lavori di manovalanza
relativi allo scavo, alla costruzione e all’intonacatura dei muri esterni ai pozzi e ad alloggiare e preparare i pasti per gli operai.
E Koffi Francois Zondokpo
si è rivolto a Fraternità chiedendo un aiuto di 3450,00
euro (costo vivo dei materiali) per dare acqua al villaggio...
Luigina Morsolin
Per sostenere il Progetto Pozzo Togo e/o il Progetto Corso
Professionale Haiti e/o il Progetto Burundi, si possono inviare contributi con assegni
bancari, vaglia postali o – Coordinate: Codice IBAN:
IT76J 076 0103 0000 0001
0635068 intestato a «Pro Civitate Christiana – Fraternità – Assisi». Per comunicazioni, indirizzo e-mail:
[email protected].
63
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ROCCA 1 DICEMBRE 2011
A
bitualmente nella regione togolese degli
Altopiani la grande
stagione secca (da ottobre
ad aprile) lascia il posto tra
maggio e luglio alla grande
stagione delle piogge e a
questa segue una seconda,
ma più breve, stagione secca (agosto e settembre), finchè una piccola stagione di
piogge, a cavallo tra settembre ed ottobre, conclude il
ciclo climatico annuale. È
quanto accade di solito, ma
non è una regolarità scontata, perché talvolta succede, invece, che i campi rimangano allagati per le
piogge eccessive o che inaridiscano per il protrarsi
del periodo asciutto, e in
entrambi i casi i raccolti
vanno perduti. Quest’anno
– e purtroppo è un fenomeno che si ripresenta e comincia ad essere temuto –
la seconda stagione umida
si è fatta attendere e per di
più le piogge sono state
meno abbondanti: ne hanno risentito non solo le coltivazioni ma anche il livello dei corsi d’acqua e dei
pozzi che pescano su una
vena poco profonda o che
conservano l’acqua piovana. Nel Cantone di Ountivou che comprende il paese omonimo e i villaggi circostanti, per le donne e le
bambine – è affidato tradizionalmente ad esse il compito di rifornire d’acqua la
famiglia – il lavoro quotidiano si fa più duro, se scarseggia l’acqua nelle cisterne. Perchè già alle prime
luci del giorno devono avviarsi, reggendo grandi ca-
Rocca
Invita te
Nuovamente
Nel 2012
DCOER0874
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