n. 23 – 1 dicembre - Pro Civitate Christiana
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n. 23 – 1 dicembre - Pro Civitate Christiana
Rivista della Pro Civitate Christiana Assisi 70 ANNO periodico quindicinale Poste Italiane S.p.A. Sped. Abb. Post. dl 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB Perugia € 2.70 23 1 dicembre 2011 quanto vale un’ora di lavoro? l’Iran e la bomba atomica ritorno alla politica rivoluzione demografica un’opportunità d’argento? politica italiana il governo del non fare Lampedusa senza parole Religioni ad Assisi l’incontro le attese, gli snodi inserto la scuola nell’era della tecnologia digitale integrazione il diavolo e la sua coda TAXE PERCUE – BUREAU DE POSTE – 06081 ASSISI – ITALIE ISSN 0391 – 108X vita di Rocca? la sono i suoi abbonati! anche nel 2012 Rocca per vivere conta su di te... ricordati di rinnovare il tuo abbonamento Rocca 4 6 sommario 10 11 13 14 17 18 20 23 24 27 28 29 37 23 40 42 Ci scrivono i lettori 44 Anna Portoghese Primi Piani Attualità Giovanni Sabato Notizie dalla scienza 46 Vignette Il meglio della quindicina 50 Raniero La Valle Resistenza e pace Ritorno alla politica 52 Maurizio Salvi Medio Oriente L’Iran e la bomba atomica 55 Romolo Menighetti Oltre la cronaca Il liberista 56 Ritanna Armeni Politica italiana Il governo del «non fare» 57 Roberta Carlini Economia Quanto vale un’ora di lavoro? 58 Tonio Dell’Olio Camineiro Yasunì 58 Fiorella Farinelli Integrazione Il diavolo e la sua coda 59 Stefano Cazzato Lezione spezzata Il re porta la parrucca 59 Oliviero Motta Terre di vetro Cecità 60 Pietro Greco La scuola nell’era della tecnologia digitale Le nuove grammatiche della fantasia Inserto Testo di Luca Zanchi - Foto di Daria De Benedetti Lampedusa senza parole Cristiana Pulcinelli Rivoluzione demografica Un’opportunità d’argento? Claudio Cagnazzo Assalto ai grandi magazzini Compro dunque esisto 60 61 62 63 Giuseppe Moscati Nuova antologia Jean Marcel Adolphe Bruller (Vercors) E la grande letteratura passa anche per il silenzio Marco Politi Religioni ad Assisi L’incontro, le attese, gli snodi Carlo Molari Teologia Una nuova preziosa sintesi storica su Gesù Lilia Sebastiani Il concreto dello spirito L’urgenza e la pazienza Lidia Maggi Giobbe La morte desiderata Filippo Gentiloni Vizi & virtù Paolo Vecchi Cinema Faust Roberto Carusi Teatro Il cinema e la scena Renzo Salvi Rf& Tv Italialand Mariano Apa Arte Severini Alberto Pellegrino Fotografia Due saggi Alberto Pellegrino Satira L’Italia s’è desta Giovanni Ruggeri Siti Internet Netnografie Libri Carlo Timio Rocca Schede Paesi in primo piano Giamaica Luigina Morsolin Fraternità Togo: due pozzi per Ountivou Numero 23 – 1 dicembre 2011 70 ANNO Gruppo di redazione GINO BULLA CLAUDIA MAZZETTI ANNA PORTOGHESE il gruppo di redazione è collegialmente responsabile della direzione e gestione della rivista Progetto grafico CLAUDIO RONCHETTI Fotografie Andreozzi B., Ansa-LaPresse, Associated Press, Ballarini, Berengo Gardin P., Berti, Bulla, Carmagnini, Cantone, Caruso, Cascio, Ciol E., Cleto, Contrasto, D’Achille G.B., D’Amico, Dal Gal, De Toma, Di Ianni, Felici, Foto Express, Funaro, Garrubba, Giacomelli, Giannini G., Giordani, Grieco, Keystone, La Piccirella, LaPresse, Lucas, Luchetti, Martino, Merisio P., Migliorati, Natale G. M., Oikoumene, Pino G., Riccardi, Raffini, Robino, Rocca, Rossi-Mori, Turillazzi, Samaritani, Sansone, Santo Piano, Scafidi, Scarpelloni, Scianna, Zizola F. Redazione-Amministrazione Via Ancaiani, 3 - 06081 ASSISI tel. 075.813.641 e-mail redazione: [email protected] e-mail ufficio abbonamenti: [email protected] www.rocca.cittadella.org - www.cittadella.org http://procivitate.assisi.museum Fax Redazione 075/3735197 Fax Uff.abbonamenti 075/3735196 conto corrente postale 15157068 Bonifico bancario: UniCredit - Assisi intestato a: Pro Civitate Christiana - Rocca IBAN: IT 26 A 02008 38277 000041155890 (Paese IT Cin 26 Cin A Abi 02008 Cab 38277 n. 0000 41155890) dall’estero IBAN: IT 26 A 02008 38277 000041155890 BIC (o SWIFT) UNCRITM1J46 Quote abbonamento 2011 Annuale: Italia € 60,00; estero 130,00 Europa; 160,00 Africa, Asia e Americhe; 200,00 Oceania; € 85,00 abb. online (per email); Sostenitore: € 150,00 Semestrale: per l’Italia € 35,00 una copia € 2,70 - numeri arretrati € 4,00 ROCCA 1 DICEMBRE 2011 Spedizione in abbonamento postale 50% Fotocomposizione e stampa: Futura s.n.c. Selci-Lama Sangiustino (Pg) Responsabile per la legge: Gesuino Bulla Registrazione del Tribunale di Spoleto n. 3 del 3/12/1948 Numero di iscrizione al ROC: 5196 Codice fiscale e P. Iva: 00164990541 Editore: Pro Civitate Christiana Tutti i diritti di proprietà letteraria e artistica sono riservati. Manoscritti e foto anche se non pubblicati non si restituiscono Questo numero è stato chiuso il 19/11/2011 e spedito da Città di Castello il 22/11/2011 4 ci scrivonoi lettori quindicinale della Pro Civitate Christiana Qualcosa che non va Gli interventi qui pubblicati esprimono libere opinioni ed esperienze dei lettori. La redazione non si rende garante della verità dei fatti riportati né fa sue le tesi sostenute Vi siete accorti che fino a poco tempo fa non si parlava quasi mai di miliardi di euro? Era una parola tabù derivante anche dal fatto che un miliardo di euro equivale a millenovecentotrentasei miliardi duecentosettanta milioni di lire. Una parola quasi impronunciabile e che crea imbarazzo, se non timore. Ma ora, se ne parla come fossero noccioline. D’altra parte per somatizzare le cose basta che diventino pane di tutti i giorni e, avendole vicino, si accettano fino a diventarne indifferenti. In questo caso, però, ci siamo in mezzo fino al collo, o meglio ci sono dentro i nostri figli. Naturalmente avrete capito che sto parlando di debito pubblico. Le ricette che ci vengono imposte per uscire dalla grande crisi sono tutte uguali, ma sono anche giuste? Certo molti economisti dicono: vi è andato bene fino ad ora di vivere al di sopra delle vostre possibilità e creare debito, ora è il momento di pagarlo! Noi, i più, abbiamo sempre lavorato e faticato e non abbiamo creato debito, ma ricchezza. Sono altri che hanno creato il debito e hanno vissuto senza lavorare o arricchendosi alle spalle dei più: evasori, corrotti, mafie, falsi invalidi, ecc., ecc... Il discorso in generale è abbastanza complesso, ma cerchiamo di renderlo più facile, almeno per sommi capi, e vediamo se quello che hanno domandato e stanno domandando alla Grecia, e presto domanderanno all’Italia, è giusto o in parte sbagliato. Creiamo la storia di un tizio che chiameremo sig. Rossi. Ebbene il sig. Rossi viene chiamato dalla sua banca: «Caro sig. Rossi, la sua posizione debitoria è molto alta e non crediamo lei possa far fronte alle rate per sanare il debito che ha con il nostro istituto». «Lo so che sono molto esposto, ma in questi ultimi tempi cerco di rispar- ricchire i ricchi! Che ci sia qualcosa che non torna? Roberto Tonon San Donà di Piave (Ve) Vorrei ma non posso Cara Rocca, è bello scriverti per nome, considerandoti come un insieme compatto, identificabile, ma sapendo che contieni spunti e anime diverse, e rispettose della diversità. Scrivo un bel po’ in ritardo, dopo essermi resa conto che avrei dovuto disdire l’abbonamento per tempo, e non aspettare i solleciti: non leggo le comunicazioni con la dovuta attenzione, e me ne scuso! So che è in arrivo un numero in contrassegno, ma vi segnalo, non senza dispiacere, che non intendiamo accettarlo. O, meglio: non fa parte delle spese che ora come ora possiamo permetterci. Il nostro abbonamento è scaduto alla fine di agosto, e abbiamo dovuto, speriamo solo per quest’anno, sospendere anche questo abbonamento, che era rimasto l’unico di cui ci permettevamo il lusso. Negli anni scorsi avevamo denaro per svariati abbonamenti: nessun quotidiano, ma periodici come Rocca, Valori, Altraeconomia, Nigrizia, Altroconsumo, e avevamo anche tempo per leggere e capire, da ognuna di queste riviste, gli argomenti più scottanti, quelli personalmente più avvincenti, quelli su posti e temi lontani. Il tempo che stiamo vivendo ci pone nella difficoltà di affrontare persino le spese necessarie per la vita quotidiana (io pensionata, mio marito tecnico autonomo di software, una figlia sposata, e la seconda figlia quasi laureata); la sobrietà con cui cerchiamo di vivere ci ha sempre permesso di concentrare le spese su quello che riteniamo importante per la vita, ma ora non basta più. La legalità che abbiamo sempre rispettato, pagando le tasse al centesimo, ora ci si ritorce contro, chiedendo anche quello che non guadagniamo. E le prospettive sono affidate alla speranza che confidiamo risieda nelle mani di Dio. Non vorrei dare l’impressione di un lamento da scaricare sul mondo: sono convinta che nel nostro modo di vivere occidentale, molte cose «ovvie» sono in realtà un lusso, e non fa male a nessuno di noi azzerare un po’ le nostre tabelle di valore, remunerando secondo giustizia il prodotto della terra e il lavoro, senza sprechi ed eccessi. Vorrei solo salutare Rocca – spero proprio provvisoriamente – testimoniando una piccola parte della realtà italiana che così bene il giornale si sforza di descrivere ed animare: non la realtà assoluta, beninteso, ma semplicemente quello che va accadendo nel tessuto fine delle case italiane, quelle che finora hanno visto le difficoltà solo in Tv. Come noi, appunto. Grazie per l’attenzione e per la fedeltà, sperando di rileggervi presto. Lettera firmata Minzolini parla alla Nazione Domenica sera, per la prima volta (sic), ho avuto la ventura di ascoltare uno dei famosi editoriali di Minzolini. Mentre la sua faccia progressivamente invadeva lo schermo, mi sono detto: il momento è grave, questo signore è pur sempre il direttore della testata giornalistica della prima rete pubblica e forse avrà qualcosa di veramente importante e urgente da proclamare. A parte alcune banalità – gli auguri a Monti, un invito a tutte le forze politiche a fare la loro parte e così via discorrendo – il succo dell’intervento è stato una ramanzina ai cittadini che inveivano contro il premier dimissionario eroicamente immolatosi per il bene della Patria. Non solidarizzo con chi oggi si accalca fuori i palazzi del potere... ma posso capire. E sono d’accordo con Minzolini quando – improvvidamente – afferma che Berlusconi non può esse- re lui il solo capro espiatorio dell’italica tragedia: infatti la lista dei saccheggiatori è lunga assai e ancor più vasta è la platea dei beoti plaudenti spettatori dello sconcio spettacolo offerto da quell’eterna corte di nani e ballerine. Ma perchè Minzolini appunta i suoi strali contro quegli anonimi vocianti cittadini? Forse lo fa per rassicurare il disorientato popolo di destra? Di fronte alle urla e ai fischi (come per Craxi prima della fuga) e col Paese che frana, Minzolini sta lì a dire: non dubitiate, la vostra fede non vacilli! O, più prosaicamente, il suo è solo l’ennesimo attestato di riconoscenza nei confronti del Generoso. Penso che perfino gli elettori di destra si meriterebbero qualcosa di meglio. E non mi riferisco solo a Minzolini. Gaspare Bisceglia Napoli Ed è già domani! Aprendo le finestre, stamane, ho visto un cielo «sempre più blu» ed ho sentito sulla mia pelle un sole più caldo che mai. Anche la nebbia depositata nel fondo orizzonte della piana del Fucino era, pur essa, meno nebulosa...! Sto per andare in parrocchia e, di sicuro, in questa prima «Domenica di Risorgimento», il suono delle campane sarà più melodioso e sinfonico. In macchina acolterò l'Alleluja di Hendel che porto sempre con me ma che in questi ultimi tempi è stato censurato dal lutto. Un lutto, comunque, non del tutto andato. Passato il terremoto restano i terremotati. Ma dalle macerie del Cainano (da Caino più che da Caimano...) la nostra indomita speranza farà sorgere a nuova democrazia questo Paese mai nato. Oggi 13 novembre 2011... ed è già domani. Buona Domenica a tutte e a tutti. ROCCA 1 DICEMBRE 2011 miare in tutti i modi. Ormai vado a mangiare la pizza solo una volta al mese, e le ferie le ho ridotte ad una sola settimana all’anno. E poi, lei deve ricordare, che il debito non è solo mio, ma lo ho ereditato da mio padre e dal nonno». «Noi capiamo tutto, mai lei deve fare ulteriori sacrifici per abbassare il suo debito nei nostri confronti. Abbiamo anche visto che il suo stipendio non aumenta. In questi ultimi anni aumentato solo dello zero/virgola, troppo poco per pensare di poter rientrare dal debito. Deve anche capire che, essendo lei a rischio, la nostra banca ha deciso di tutelarsi e aumentare il tasso dall’1,50% al 6,50%». «Ma se credete che non riesca a pagare le rate, come farò a pagarle se diventeranno molto più onerose?». «Sicuramente abbassando il suo standard di vita e cercando di risparmiare su tutto. Cerchi di non ammalarsi e non faccia studiare i suoi figli, ma li mandi a lavorare». «A parte che i miei figli sono ancora giovani, ma dove lo trovano un lavoro se io devo lavorare anni e anni in più prima di andare in pensione? E poi lo sa che lo stato mi ha tassato ancora di più e si parla di un taglio agli stipendi?». «Ci dispiace, ma deve fare tutto il possibile se non vuole fallire e allora sì che sarebbero guai!». Tassativamente il sig. Rossi deve pagare il suo debito, ma anche aumentare il suo stipendio, ma anche consumare per far crescere l’economia, ma anche essere sempre sorridente per rasserenare gli investitori, ma anche... Naturalmente il sig. Rossi diventerà sempre più povero e forse non riuscirà a pagare il suo debito e sarà sempre di più un peso per la società. Mentre dall’alto le banche lucrano, le multinazionali che gestiscono i fondi pensione lucrano, i grossi capitalisti lucrano, la borsa e i titoli di stato e gli stessi stati vengono gestiti da loro. Noi ci impoveriamo per ar- Aldo Antonelli Antrosano (Aq) 5 ROCCA 1 DICEMBRE 2011 a cura di Anna Portoghese primipiani ATTUALITÀ 6 Rio de Janeiro nel principale bunker dei narcos Grecia indignazione e sgomento Da oltre 30 anni la Rocinha era la favela-bunker in mano dei narcotrafficanti. Ora non più. La bidonville più emblematica di Rio de Janeiro, dove circa 120 mila abitanti vivono in baracche di mattoni e lamiere, e che sovrasta la zona più elegante della città, è stata occupata il 13 novembre dalle forze di sicurezza dello Stato, senza sparare e senza ricevere nessuna pallottola. Gli abitanti si sono rinchiusi in casa nello sconcerto e con interrogativi per ora senza risposta, mentre serpeggia il dubbio che, come ha dichiarato con pessimismo alla stampa un giovane di Rio, «La corruzione non si arresterà e il pericolo di droga proseguirà». Intanto il governo ha voluto dare un segnale di vicinanza ai cittadini più indifesi dal crimine, oltre a voler ripulire l’immagine della capitale di fronte agli stranieri. Si è trattato di uno sforzo spettacolare: oltre 3000 paracadutisti e altri militari di corpi scelti, affiancati da elicotteri e blindati hanno preso il controllo della zona con intelligente gradualità, e sono riusciti a catturare il 10 novembre «Nem», pseudonimo di Antonio Francisco Bonfim Lopez, uno dei capi narcotrafficanti più ricercati mentre tentava di sfuggire all’accerchiamento nascondendosi nel cofano di un’automobile. In Rocinha era il capo dei trafficanti di cocaina, marijuana, droghe sintetiche. Avrebbe avuto da 120 a 200 uomini armati a sua disposizione e guadagnato un milione di dollari al mese, la sua cattura è stata per molti «uno choc». Uno choc di pace, come è stato chiamato, che libera dai criminali e restituisce la città ai cittadini, e a questi, speranza di futuro riscatto. È vero che come tutte le grandi crisi, anche quella greca non è scoppiata all’improvviso. Questa volta, sul fondo di una violenza sociale endemica, dell’incuria e del clientelismo della classe politica, si è innestata la crisi economica disastrosa, la bancarotta. L’ineguaglianza, oggi motore nel mondo di tutte le indignazioni, è diventata portatrice di ribellione, soprattutto nei giovani, ma anche di sgomento, perfino di suicidi. Lungi da noi l’idea che l’Europa attuale raggiunga il primato di persone che pensano di togliersi la vita, come, pure, si scrive (Le Monde, 14 novembre), resta però molto inquietante la situazione delle statistiche. Le vetrine spaccate, i disordini sono una faccia dell’indignazione per la crisi. A questa fanno riscontro altri dati sullo sgomento che viene provocato in alcuni soggetti, fino alla soglia del suicidio. Lo scorso giugno, il ministro della sanità Andreas Loverdos ha annunciato al Parlamento greco che il numero dei suicidi nel Paese era aumentato del 40% nel primo semestre di quest’anno, comparato con quello del 2010. Uno studio dell’Istituto di ricerche dell’Università di Atene ha permesso di stabilire un rapporto tra situazione economica (valutata come «indigenza economica personale») e tentativi di suicidio. L’inchiesta telefonica, condotta un mese fa su un campione di 2.256 persone che avevano tentato il suicidio, rilevava un tasso aumentato del 36% in rapporto a uno studio similare del febbraioaprile 2009. Tra indignazione e sgomento l’Europa cammina: quando arriverà un nuovo mattino? Napoli l’acqua torna pubblica «È un momento di gioia e di festa per Napoli, perché è diventata la capitale italiana dell’acqua pubblica», dice padre Alex Zanotelli, il noto missionario comboniano impegnato nella nostra società civile, alla notizia della ripubblicizzazione del servizio idrico napoletano. Il Consiglio comunale del 26 ottobre scorso ha approvato, infatti, il cambiamento della gestione del servizio idrico della città: l’Arin (Azienda risorse idriche Napoli) viene convertita in un nuovo ente di diritto pubblico, la «Acqua Bene Comune Napoli». «Si tratta della effettiva attuazione del voto referendario e della volontà di 27 milioni di cittadini in una grande città», «il primo storico passo», scrive il Forum italiano dei movimenti per l’acqua pubblica, «ci aspettiamo adesso che tutte le altre città seguano l’esempio napoletano e che oltre alla ripublicizzazione si vada nella direzione di una rete di partecipazione dei cittadini e dei lavoratori nella gestione del servizio idrico integrato». ATTUALITÀ Francia in dialogo con i cristiani omosessuali Strasburgo l’Ue dichiara guerra alla mafia Guatemala un ex-militare alla presidenza Un articolo del settimanale cattolico francese «La Croix» del 25 ottobre si occupa degli omosessuali, prendendo spunto dalla diocesi di Nizza che «ha voluto nominare un sacerdote per progettare l’accompagnamento dei cristiani omosessuali». L’articolo dibatte il tema dell’accoglienza ecclesiale «per e con» le persone omosessuali. Questione complessa che – come scrive il teologo morale Frigato – «interpella tutti ad un confronto serio ed equilibrato perché gli omosessuali sono persone in carne ed ossa, fratelli e sorelle al pari degli eterosessuali». Anche in Italia, per conoscere questo spesso maltrattato mondo sociale, non pochi uffici pastorali diocesani hanno avviato franchi incontri e confronti con gruppi e singoli, nella convinzione che la comunità cristiana debba riconoscere, al di là di ogni pregiudizio e incomprensione, che il Signore chiama tutti a seguirlo oltre le rispettive tendenze sessuali. Il Parlamento europeo si mobilita contro la mafia. Il 25 ottobre i deputati europei hanno approvato la creazione di una commissione anti-mafia che rappresenta un primo passo, e potrebbe preludere a una svolta. L’iniziativa è dovuta a tre deputati italiani: Rosario Crocetta (gruppo socialista) sotto protezione della polizia per la sua lotta a «Cosa nostra» di Gela, Rita Borsellino (gruppo socialista) sorella del giudice Borsellino assassinato a Palermo, Sonia Alfano (gruppo liberale), figlia di un giornalista siciliano pure ucciso. Per Crocetta, l’adozione del testo «costituisce una rivoluzione culturale»; «l’Europa prende finalmente coscienza che la mafia non è un problema nazionale, ma un fenomeno che corrompe tutti gli stati europei». Largamente ispirato alle misure che negli ultimi trent’anni sono state introdotte in Italia, il testo sottolinea l’importanza di una migliore rintracciabilità dell’origine di grossi fondi e della loro trasparenza. Il 6 novembre, il generale di riserva Otto Perez Molina ha vinto, col 55% dei voti, il secondo turno delle elezioni in Guatemala. Uno dei paesi più violenti, il Guatemala: 18 assassini al giorno e un tasso annuale di 48 omicidi ogni 100mila abitanti. Molina ha promesso di usare «la mano dura» contro la criminalità . Ha anche assicurato di adoperarsi a migliorare le condizioni sociali dei 14 milioni di guatemaltechi, il 51% dei quali vive nella povertà con meno di 2 dollari al giorno. L’opposizione gli rimprovera violazioni dei diritti umani durante la guerra civile (19601996), quando ci fu un massacro degli indigeni maya e nel 1980, quando fu chiamato in causa per la morte del capo dei guerriglieri. Tuttavia, l'aver firmato nel 1996 gli accordi che misero fine alla guerra civile, gli valse il titolo di «generale della pace». Assisi il Fai riapre il bosco di san Francesco ROCCA 1 DICEMBRE 2011 Il Fondo per l’ambiente italiano (Fai) salva e apre il bosco di Assisi. Si tratta di un bosco di 64 ettari che digrada alle spalle della Basilica di san Francesco, collocato in un contesto di cultura, spiritualità e bellezza particolarmente suggestivo. Il Fai aveva ricevuto questo «dono» dalla banca Intesa san Paolo nel 2008 e si è subito preoccupato di renderne fruibile il godimento agli ospiti che Assisi vede affluire nelle sue mura e che ora potranno muoversi anche fuori. È stato, quello del Fai, un lavoro di complessivo recupero, di messa a dimora di nuove piante ad alto fusto, ripulitura del sottobosco e sistemazione di piante pericolanti e di tracciati di antiche strade, di restauro architettonico dei vecchi edifici e di ruderi tra i quali la duecentesca chiesa di Santa Croce, il Mulino, i resti di una torre trecentesca Del bosco, incastonato come il tesoro in uno scrigno, è stato bello riscoprirne il segno anche negli sfondi della pittura di Giotto. 7 ROCCA 1 DICEMBRE 2011 a cura di Anna Portoghese primipiani ATTUALITÀ 8 Afghanistan la battaglia delle miniere Tibet la successione del Dalai Lama La ricchezza potenziale delle risorse minerarie del Paese permetterebbe all’Afghanistan l’autosufficienza economica. Rame, oro, cobalto, ferro, litio, terre rare... prendono però in questo momento strade diverse da quelle del rafforzamento all’economia nazionale per diventare oggetto della cupidigia dei diversi Stati stranieri. L’assenza di infrastrutture stradali, ferroviarie ed energetiche, l’insicurezza specialmente del sud e dell’est pachtum, escludono uno sfruttamento a breve termine, sicché, al ritiro delle truppe straniere previsto per il 2014¸ non è difficile prevedere che succeda la battaglia delle miniere. L’Afghanistan nella sua storia è stato appunto un campo di manovre geopolitiche. A proposito di queste sue miniere, è notizia di queste settimane una formidabile scoperta archeologica, a Mes-Aynak, a 40 km da Kabul, nella provincia di Logar, probabilmente la seconda riserva di rame del pianeta. Qui sono stati scoperti dei pezzi datati tra il secondo secolo avanti Cristo e il secondo della nostra era, periodo che conobbe l’età d’oro dell’arte grecobuddhista. eredità del tempo di Alessandro Magno. Circa 500 reperti sono stati già esumati e in parte trasferiti a Kabul; anche gli storici europei li stanno esaminando con grande interesse perché servirebbero a scoprire l’articolazione all’epoca del cammino del rame, di quello del buddismo e di quello della seta. Lo sfruttamento di tale miniera di rame nel 2007 fu ottenuto dalla compagnia cinese Metallurgical Corporation of China (Mcc), associata a Jiagxi Copper Company Limited (Jcl) che attualmente la gestiscono. I lettori ricorderanno come nello scorso 10 marzo il Dalai lama, guida suprema del buddismo tibetano, abbia deciso di separare la sua funzione religiosa da quella politica, mantenendo la prima e affidando la seconda, ossia la guida del governo tibetano in esilio, a Lobasang Sangay, un quarantenne giurista, nato in India e laureatosi ad Harvard. E alla guida spirituale chi succederà ora? Hanno il compito di trovare un successore al Dalai lama – che rappresenta per milioni di buddisti la quattordicesima reincarnazione del «bodhisattva», il Buddha supremo della compassione – i principali lama e il governo tibetano, oggi in esilio a Dharamsala, in India. Ma il governo cinese sta tentando di estendere sul controllo sul Tibet anche alla scelta del successore spirituale, rendendola addirittura un «diritto». A questo punto i Tibetani cercano un sostegno internazionale, anche perché è notorio come in gioco non ci sia solo la libertà religiosa di sei milioni di persone, ma il controllo del «Tetto del mondo», di un’area enorme con grandissime riserve minerarie e dove la Cina possiede un numero imprecisato di basi missilistiche. Considerata però l’influenza economica della Cina, conoscendo le minacce di ritorsioni contro qualunque paese accetti contatti formali con il Dalai lama, la speranza di tale esplicito coinvolgimento esterno è vana. Oltre all’indifferenza politica, il Tibet si misura con le tensioni generazionali. Il Dalai lama si è sempre opposto alla violenza nella lotta all’autodeterminazione, ma le nuove generazioni sono stufe di essere considerate «una tribù esotica» e compiono gesti estremi come quello del monaco cinese di vent’anni del monastero di Kirti, che si è dato fuoco per protestare contro l’inasprimento della repressione cinese. È del 15 ottobre, purtroppo, la notizia dell’ottavo rogo giovanile del 2011. Nicaragua personalizzazione del potere? Come si rilevava dai sondaggi, è stato rieletto il 6 novembre al primo turno alla presidenza del Nicaragua l’ex-guerrigliero Daniel Ortega. È al suo terzo mandato presidenziale, mentre le opposizioni rumoreggiano. Sergio Ramirez, vice presidente del governo sandinista dal 1985 al 1990, non esita a dichiarare all'inviato di Le Monde (8 novembre): «Siamo sul cammino di una dittatura di stile demagogico». Da parte sua, Ortega, che ha compiuto 66 anni, e che gestisce il potere in modo personale e familistico, non ha nascosto le sue intenzioni di restare alla presidenza fino alla morte. Gli osservatori politici hanno anche rilevato dei brogli elettorali, ma senza risultati. Questa volta attribuiscono il successo al fatto di avere Ortega risolto l’annoso problema dell’elettricità nel Paese con i fondi dello sponsor politico ed economico del venezuelano Chavez. notizie Per la pubblicazione in questa rubrica occorre inviare l’annuncio un mese prima della data di realizzazione dell’iniziativa indirizzando a: a.portoghese@ cittadella.org seminari & convegni RECAPITI UTILI DELLA PRO CIVITATE CHRISTIANA BIBLIOTECA tel. 075/813231 e-mail: [email protected] CENTRO EDUCAZIONE PERMANENTE – SCUOLA DI MUSICOTERAPIA tel. 075/812288; 075/813231 e-mail: [email protected] CITTADELLA EDITRICE tel. 075/813595; 075/813231 e-mail: ufficio.stampa@cittadella editrice.com CITTADELLA OSPITALITÀ tel. 075/813231 e-mail: [email protected] CONVEGNI tel. 075/812308; 075/813231 e-mail: [email protected] FORMAZIONE tel. 075/812308; 075/813231 e-mail: [email protected] GALLERIA D’ARTE CONTEMPORANEA tel. 075/813231 e-mail: [email protected] MISSIONI tel. 075/813231 e-mail: [email protected] ROCCA tel. 075/813641; 075/ 813231 [email protected] (redaz.) [email protected] (uff. abbonam.) Mosca. Dopo un’opera di restauro durata sei anni, il mitico teatro Bolshoj ha riaperto con Verdi, la Messa da requiem, diretta con grande successo dal Maestro da poco eletto alla Scala di Milano, Daniel Barem Boin. È stato ricordato, a proposito dell’Italia, come «in un periodo di crisi con pochi precedenti» gli italiani debbano «ritrovare i propri valori, ossia arte, teatro e cultura». Bergamo. Concorso sul tema: «Pace: Tra rassegn-azione e rivol-uzione», raccolta di vignette e disegni, indetto dall’Istituto d’istruzione Superiore Statale «Andrea Fantoni» di Clusone in collaborazione con la Consulta provinciale stu- dentesca di Bergamo. La partecipazione è gratuita e aperta a tutti i giovani in età compresa tra i 14 e i 23 anni. Informazioni Istituto «A. Fantoni» «segnidipace», via Barbarico, 27, 24023 Clusone (Bg), e-mail: [email protected] Milano. Il 6 novembre più di 150 persone si sono incontrate per assistere e partecipare alle preghiere per la pace di cristiani, musulmani, ebrei, buddisti e induisti. L’evento è stato organizzato dal «Forum delle Religioni» del capoluogo lombardo che successivamente ha incontrato a Palazzo Marino il sindaco Giuliano Pisapia per chiedere un «civico luogo di confronto e dialogo sulle questioni del pluralismo religioso». (da Nev) Londra. Il primo ministro della regione scozzese Alex Salmond ha annunciato il 28 ottobre che nel 2016 si terrà nella sua regione un referendum per l’indipendenza della Scozia. Salmond, leader del Scottish Nacional Party, parla dell’indipendenza dal Regno Unito come di «un sogno realista». Nigeria. Secondo un nuovo Rapporto di Amnesty International diffuso il 10 novembre, riguardante l'inquinamento petrolifero nel Delta del Niger, la Shell deve impegnarsi a pagare un miliardo di dollari per bonificare la regione. 30 novembre. Roma. Il collettivo «Il Ponte Magico» presenta «D-jail, Voci dal carcere», testi dei detenuti per otto brani musicali in Cd, «un viaggio poetico nella difficile realtà carceraria, attraverso parole che raccontano rabbia e amore, sogno e dolore». Parole e musiche di Federico Carra, Maurizio Catania, Guglielmo Fulvi, Rita Gisi, Terry Gisi. 0re 18,30 presso Città dell’altra economia, Largo Frisullo (Testaccio). Informazioni: Associazione «Il ponte magico», w w w. i l p o n t e m a g i c o . i t ; [email protected] 3 dicembre. Milano. «Il movimento femminile cattolico nelle fonti e nella storiografia» è il tema di un convegno di studi storici, organizzato dall’archivio «A. Romani» e dal gruppo Promozione Donna di Milano. È articolato in tre sezioni condotte da eminenti specialisti: linee storiografiche, fonti archivistiche e letterarie; Sezione Coari; Testimonianze. Sala cripta dell’Aula Magna, Università Cattolica, Largo Gemelli 1, 20123 Milano, tel. 02 72342278; [email protected]. 4 dicembre. Conversano (Ba). All’Oasi S. Maria dell’Isola, nell’ambito dei Corsi prematrimoniali organizzati dalla Consulta per la Pastorale Familiare della Diocesi Conversano-Monopoli, la psicologa e psicoterapeuta Rosella De Leonibus relaziona sul tema «Diventare don- na, diventare uomo: dall’amore per sé all’amore per l’altro/a». Ore 9 – 17,00. Informazioni: Michele Di Donna tel. 0804767897; e-mail: [email protected] [email protected] 11 dicembre 2011. Polignano a Mare (Ba). All’Abbazia di San Vito. Un incontro con gli amici dei Volontari della Cittadella per continuare la riflessione su «Spezzare la Bibbia», all’ascolto della biblista Rosanna Virgili sul tema «Procreare». Il programma inizia alle ore 10 con la Celebrazione Eucaristica curata da mons. Vito Benedetti. Dopo il pranzo la ripresa del dialogo fino alle ore 17,30. Informazioni: Cittadella – Via Ancajani 3, 06081 Assisi – tel. 075 813231; De Giosa 3475257041 – Bitelli 3384123637 – Pellegrini 347 965743 [email protected] [email protected] [email protected] [email protected] 14 dicembre e 1° febbraio. Perugia. Due appuntamenti del «Caffè filosofico»: il primo sul tema: «Che fai: ti auto-inganni?», conversazione con Patrizia Pedrini; il secondo su: «La filosofia incontra gli scacchi» con Andrea Tortoreto. Ore 18, 00, Caffè dell’Accademia, Via dei Priori, Perugia. 28 dicembre-1° gennaio. Camaldoli (Ar). Incontro di riflessione per giovani dai 20 ai 30 anni su: «Tobia uscì per mettersi in cammino». Preghiera, dialogo, approfondimenti, liturgie monastiche, relazioni del biblista Luca Mazzinghi e del monaco Matteo Ferrari. Informazioni: Foresteria Monastero di Camaldoli, tel. 0675 556013; [email protected] 28 dicembre 2011-5 gennaio 2012. Torino. Corso di Esercizi spirituali guidati da P. Massimiliano Preseglio, passionista, sul tema: «Viaggiavo attraverso i giorni della mia vita» (Tb 1,3). Informazioni: Suore del Cenacolo, Piazza G. Gozzano 4, 10132, Torino, tel. 011 8195445. E-mail: casa. spiritualita@suoredel cenacolo.191.it 2-7 gennaio. Casale Monferrato (Al). Corso intensivo annuale di Ebraico biblico con Paolo De Benedetti e Nicoletta Mennini. Informazioni: Biblia, via A. da Settimello 129, 50041 Settimello (Fi), tel. 055 8825055; e-mail: [email protected] Sito: www.biblia.org 5-8 gennaio 2012. Roma. Convegno di spiritualità organizzato dall’Associazione «Ore 11» sul tema: «Volti degli uomini, volto di Dio». Nelle giornate, meditazioni di Carlo Molari, relazioni di Paolo Ricca, Felice Scalia, Vito Mancuso. Proiezione intervista a fratel Arturo Paoli. Introduzione e conclusioni di Mario De Maio. Sede: Hotel Summit, via della Stazione Aurelia 99, 00165 Roma. E-mail: oreundici@ore undici.org tel. 06 39887428. ROCCA 1 DICEMBRE 2011 ATTUALITÀ 9 ATTUALITÀ Nanopericoli esagerati notizie dalla scienza Mangiando con l’argenteria o indossando vecchi gioielli di rame, si mettono in circolazione e si assorbono nanoparticelle in quantità. Lo mostra su «ACS Nano» James Hutchison, dell’Università dell’Oregon, con un’analisi di inedito dettaglio delle superfici di oggetti quotidiani al microscopio elettronico. Lo studio mostra che le nanoparticelle hanno un comportamento molto dinamico, cambiando forme e taglie in poche ore in presenza di umidità o altri agenti comuni, e gli oggetti di uso comune ne liberano in quantità. La ricerca era centrata soprattutto sull’argento, ma alcune prove su oggetti di rame hanno dato esiti analoghi, facendo pensare che i risultati siano generalizzabili. Nel dibattito su come regolamentare i nuovi prodotti delle nanotecnologie, un timore è che le particelle di dimensioni ultramicroscopiche possano avere effetti tossici non prevedibili semplicemente in base al materiale di cui sono composte, perché particelle così piccole interagiscono con l’organismo in modi del tutto peculiari. Lo studio attutisce questi timori, dimostrando che siamo esposti da sempre alle nanoparticelle e che queste sono molto variabili nelle loro proprietà. ROCCA 1 DICEMBRE 2011 La psicoeredità di Steve Jobs Giovanni Sabato 10 La diffusione di iPhone e iPad, e tutti gli altri smartphone e tablet, permetterà agli psicologi di superare un limite finora insanabile dei loro esperimenti: il fatto che gli studi che pretendono di definire caratteristiche universali della natura umana sono condotti quasi immancabilmente su studenti universitari occidentali. Lo afferma su «Plos One» un vasto team internazionale di psicologi. Una semplice ricognizione dei lavori di psicologia sperimentale mostra che la stragrande maggioranza è condotta sugli studenti statunitensi o europei che gli sperimentatori hanno sottomano nelle università. E diversi studi hanno dimostrato che questi giovani occidentali di buon livello economico e culturale sono tutt’altro che rappresentativi della varietà di vedute, emozioni e pensieri della popolazione mondiale. Per esempio alcune classiche illusioni ottiche, considerate conseguenza dei meccanismi universali con cui l’occhio e il cervello umano interpretano il mondo, in realtà non si manifestano in varie culture non occidentali. Ancor più divergenti sono gli esiti dei test cognitivi di funzioni più complesse. Perciò per questi studenti è stato coniato l’appellativo Weird (Western, Educated, Industrialized, Rich, and Democratic), acronimo di «occidentali, istruiti, industrializzati, ricchi e democratici», ma che significa anche «strani». Esperimenti su scala planetaria – spiegano gli psicologi, con prima firma Stephane Dufau dell’Università di Marsiglia – erano già stati tentati via internet, ma con esiti per varie ragioni non del tutto efficaci. Le App, i software scaricabili dal web per i dispositivi mobili, si stanno invece provando validi. Per dimostrarlo, gli studiosi ne hanno prodotta una in sette lingue che riproduce un classico test lessicale per studiare i processi della lettura: i partecipanti vedono sequenze di lettere e devono dire il più in fretta possibile se sono parole di senso compiuto. In quattro mesi il test è stato eseguito da oltre 4.000 partecipanti di svariati paesi (per reclutarli con mezzi convenzionali sarebbero occorsi tre anni e costi ingenti), e i dati raccolti si sono mostrati di buona qualità. Lo stesso, dicono gli psicologi, emerge da test simili condotti da loro colleghi. I dispositivi mobili sembrano quindi rendere possibili esperimenti psicologici su grande scala, che facciano emergere fenomeni che sfuggono su piccoli numeri di partecipanti, e davvero universali. Vaccino antimalaria «A meno di qualche disastro imprevisto, fra poco più di tre anni avremo un vaccino contro Plasmodium falciparum», il più pericoloso fra i cinque plasmodi della malaria. Così il «New England Journal of Medicine» commenta lo studio che, sullo stesso giornale, sancisce per la prima volta l’efficacia – seppur parziale – di un vaccino non contro un virus o un batterio ma contro un parassita. Il vaccino RTS,S/AS01, somministrato a 6.000 bambini tra i 5 e i 17 mesi di sette paesi ad alta incidenza malarica, nel primo anno ha dimezzato sia il rischio generale di malaria sia quello di malaria grave; la protezione scende al 35% se si considera l’intera popolazione vaccinata, che include anche i piccoli fra le 6 e le 12 settimane di età. Il vaccino è rivolto a neonati e bambini piccoli, ed è sviluppato dalla casa farmaceutica GlaxoSmithKline e sostenuto dalla Fondazione Bill e Melinda Gates. Vari altri vaccini sono in via di sviluppo, ma questo è di gran lunga il più vicino alla meta. L’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), con una mossa irrituale che testimonia le aspettative, ha già preannunciato che potrebbe raccomandarlo per alcuni paesi africani fin dal 2015 se al completamento dello studio, nel 2014, la validità sarà confermata. Le verifiche mancanti, oltre a una valutazione più completa dell’efficacia, riguardano la durata della protezione e un esame più accurato dei rischi: pur non dando effetti avversi gravi, il vaccino sembra aver aumentato febbri e convulsioni, di cui andranno valutate frequenza e pericolosità. il meglio della quindicina vignette ATTUALITÀ da IL CORRIERE DELLA SERA, 5 novembre da IL CORRIERE DELLA SERA, 8 novembre da L’UNITÀ, 14 novembre da IL CORRIERE DELLA SERA, 11 novembre da L’UNITÀ, 14 novembre da IL CORRIERE DELLA SERA, 15 novembre da IL CORRIERE DELLA SERA, 17 novembre ROCCA 1 DICEMBRE 2011 da IL CORRIERE DELLA SERA, 5 novembre 11 cittadella convegni 23 - 26 dicembre 2011 giornate di spiritualità NATALE: voce del verbo accogliere – liturgie e riflessioni con don Tonio Dell’Olio e i Volontari della Cittadella – mostra Il sacrificio di Gesù Cristo nell’arte contemporanea – visita ai presepi lungo le vie della Città e ai presepi viventi nei dintorni di Assisi 30 dicembre - 1 gennaio 2012 incontro al nuovo anno in dialogo con Carlo Molari – venerdì 30 dicembre, ore 18 1a conversazione – sabato 31 dicembre, ore 12 liturgia eucaristica di fine anno ore 18 2a conversazione – veglia di preghiera in attesa del 2012, dopo il ‘cenone di san Silvestro’ – a mezzanotte, in un momento di festa, scambio degli auguri – domenica 1° gennaio, ore 12, solenne liturgia eucaristica – l’incontro si conclude con il pranzo di Capodanno 5 - 7 gennaio 2012 generazioni in dialogo/2 la politica tra deserto e primavera i nuovi spazi della democrazia La Costituzione da sola non basta. È sicuramente la garanzia dei valori e dei principi ispiratori che attendono di essere tradotti in scelte politiche chiare ed efficaci per la vita dei cittadini e delle cittadine. Senza una partecipazione ampia e diffusa, un coinvolgimento responsabile di tutte le forze vive del Paese, una volontà chiara di estendere gli spazi partecipativi a tutti i livelli… anche la Costituzione rischia di rimanere lettera morta. I partiti non esauriscono tutta la possibilità di partecipazione alla vita democratica e non svolgono a pieno il loro compito se non garantiscono e favoriscono l’apertura di spazi di partecipazione democratica. La società civile rivendica la titolarità di un altro modo di fare politica e chiede di essere ascoltata. L’evento vuole porre a confronto esperienze di partecipazione dal basso e promuovere un dialogo costruttivo e propositivo in grado di rilanciare il primato della politica a più livelli. Favorendo il dialogo tra i vissuti di generazioni differenti, si vuole prendere coscienza delle criticità e nello stesso tempo ci si propone di promuovere il passaggio di consegna delle pratiche politiche che maggiormente nel tempo hanno favorito la crescita della democrazia. ROCCA 1 DICEMBRE 2011 Generazioni in dialogo 2 è: Visioni: teatro e cinema in dialogo con gli autori Le parole che contano tavole rotonde, dibattiti e conversazioni con i protagonisti di una nuova politica Scripta manent: presentazione di libri e dialogo con gli autori Speaker’s corner come in Hyde Park 5/10 minuti per presentare proposte, esperienze, idee, iniziative, campagne. Spazio Libero uno spazio a disposizione per lanciare messaggi, idee, proposte, critiche. Stand presentazione di associazioni, organizzazioni sociali, comitati… partecipano: Luciana CASTELLINA, politica, scrittrice; Tonio DELL’OLIO, di Libera International; Raniero LA VALLE, giornalista e scrittore; Flavio LOTTI, coordinatore nazionale ‘Tavola della Pace’; Roberto MANCINI, filosofo, docente all’univ. di Macerata; Roberto NATALE, presidente Federazione Nazionale Stampa. Inizia giovedì 5 alle 17, termina sabato 7 alle 13; contributo spese € 30,00 per giovani, € 40,00 per adulti. soggiorno: in Cittadella, dalla cena del 5 al pranzo del 7: € 100,00 (in camere 2-3 letti con servizi); € 85,00 (in camere con servizi comuni); un pasto € 14,00; presso l’ Ostello della Pace: € 20,00 notte e colazione. Informazioni iscrizioni soggiorno CITTADELLA OSPITALITÀ – via Ancajani 3 – 06081 ASSISI PG – tel.075/812308-075/813231 – fax 075/812445 [email protected]; http://ospitassisi.cittadella.org; www.cittadella.org 12 RESISTENZA E PACE Raniero La Valle iù che un cambio di governo, è stata la fine di un regime. Se il regime non fosse finito, non si sarebbe potuto fare alcun governo Monti, e non ci sarebbe stato altro che andare alle elezioni a combattere all’arma bianca mentre l’Italia, inghiottita dal gorgo dei mercati, avrebbe rischiato di andare a fondo. Infatti era un dogma del regime caduto che il capo eletto dal popolo non potesse essere sostituito altro che dal popolo, che la maggioranza come un solo uomo dovesse sostenere il governo per l’intera legislatura, che qualunque tentativo di dar vita a una nuova maggioranza e a un nuovo esecutivo dovesse essere bollato come un golpe. L’interpretazione berlusconiana della democrazia era quella di un regime del capo, che grazie all’investitura o all’unzione dei cittadini, incorporava in sé tutto il popolo, ne ricapitolava in se stesso la sovranità, faceva di questa sovranità un potere superiore ad ogni altro potere, e si considerava sciolto da ogni legge: un potere «sciolto», cioè assoluto. L’onesto regime rappresentativo e parlamentare italiano veniva così, mediante lo strumento di una legge elettorale iniqua, forzato a trasformarsi in un regime pseudo-presidenziale, che in mancanza delle regole proprie di un governo presidenziale, diventava piuttosto un regime pseudo-cesariano. La buona notizia è che questa metamorfosi del regime politico italiano, perseguita per diciassette anni, è fallita. La Costituzione ha resistito, la divisione dei poteri ha retto, la Corte Costituzionale ha cancellato leggi incompatibili con il nostro ordinamento, la magistratura ha continuato a esercitare il controllo di legalità, il Parlamento ha avuto un guizzo di dignità mettendo alfine in minoranza il governo, il presidente della Repubblica ha mantenuto la sua autonomia con una equità e una fermezza che gli sono venute buone quando ha dovuto fare il «deus ex machina» della crisi. La battaglia promossa fin dal 1994 da don Giuseppe Dossetti per difendere la Costituzione messa sotto scacco dalla destra al potere, è stata vittoriosa. Se infatti Berlusconi ha perduto, a vincere non sono stati solo i suoi avversari, è stata la Costituzione. Il clima da fine del regime che si respirava nei sacrosanti festeggiamenti popolari per la sua caduta, diceva che non solo finiva una leadership divenuta ormai intollerabile sia all’interno che all’estero, ma finiva l’umiliazione P di una democrazia fatta cadere nell’impotenza, nella volgarità e nella corruzione. I costi sono stati altissimi. Quelli più palesi, che hanno morso nella vita delle persone, sono stati i costi economici, l’impoverimento, il precariato, la disoccupazione e da ultimo il rischio del crack. Ma altri costi sono stati altrettanto gravi, hanno inciso nella cultura, nella vita morale e anche nella vita religiosa del Paese. Il culmine simbolico del degrado è stato raggiunto nella sentenza di Roberto Formigoni (Cl): «a un governante non si deve chiedere quante ‘fidanzate’ ha, ma se i treni arrivano in orario». Etica pubblica contro treni in orario: non è un grande baratto, almeno qualcuno con una Messa scambiava Parigi. Ora possiamo tornare alla politica: perché c’è più politica nel governo «tecnico» Monti di quanta ce ne sia stata in questi anni, impedita da maggioranze bulgare alle Camere e da vincoli di obbedienza. Il cambio di governo è stato in effetti una grande operazione politica, e il ritorno della politica consiste oggi nel fatto che possiamo ricominciare a pensare al bene del Paese. Ora, finito il regime, bisogna porre mano a che non ritorni. Già il ripristino della serietà ai vertici del sistema, l’adozione di uno stile di rigore e di gravità – rispetto alla portata dolorosa dei problemi da affrontare – manifestano un tale salto di qualità che sarà difficile vi si voglia rinunciare. Ma soprattutto occorre metter alcuni paletti che rendano impossibile la ripetizione dell’esperienza passata: la legge sul conflitto di interessi, la rottura dei monopoli mediatici, pubblicitari e televisivi, una Rai rigenerata, la riapertura del sistema elettorale a finalità di effettiva rappresentanza, sia riguardo alla scelta degli eletti, sia riducendo a proporzioni accettabili – non da «legge truffa» – eventuali premi di maggioranza e sbarramenti. E, tra tutte, la misura più simbolica ed efficace per impedire il ritorno a un leaderismo demagogico, sarebbe quella di vietare per legge che nei contrassegni elettorali figurino nomi di persone; il regime populista e plebiscitario che in questi anni si è avuto in Italia, è cominciato infatti col culto delle personalità portato fin dentro i simboli elettorali, per cui l’elettorato è stato portato a credere che si dovesse designare un padreterno, e non votare per una politica, per un programma, per un partito, per una cultura politica, per un’opzione morale. ❑ 13 ROCCA 1 DICEMBRE 2011 ritorno alla politica MEDIO ORIENTE l’Iran e la bomba atomica Maurizio Salvi n continuo accavallarsi di speranze e timori ha caratterizzato il 2011 che sta per chiudersi nell’Africa maghrebina e in Medio Oriente, un complesso di sentimenti che con ogni probabilità segnerà anche l’anno prossimo, perché la promessa trasformazione seguita alla cosiddetta ‘primavera araba’ è ben lungi dal trasformarsi in realtà. Che si parli di Tunisia od Egitto, di Libia o Yemen, nessuno è in grado di dire con chiarezza in cosa consiste il ‘nuovo’ che i sommovimenti popolari e non hanno generato. La confusione è grande, da un lato con le aspirazioni a libertà democratiche come sono concepite in Occidente, e dall’altra il ritorno discreto sulla scena dei movimenti religiosi islamici. Per non parlare poi delle persistenti tensioni che scuotono la Siria, dove palesemente è in marcia il meccanismo libico di abbattimento del regime al potere. È sorto un Consiglio nazionale siriano che riunisce gran parte dei movimenti di opposizione. Ma c’è però la complicazione che in questo caso, almeno per il momento, non è pensabile un intervento militare della Nato per le difficoltà che incontrerebbe in Consiglio di sicurezza dell’Onu una mozione che lo richiedesse, vista la cautela di Russia e Cina al riguardo. Ma se la violenza dovesse appesantirsi, e se il presidente Bashar al Assad non riuscisse a provare in modo inconfutabile che la violenza ha origini non legate alle disposizioni da lui date alle forze di sicurezza siriane, allora davvero potrebbe ripetersi un intervento, magari di nuovo della Nato, simile a quello che ha portato all’uccisione di Muammar Gheddafi. Intanto Damasco è stata sospesa dalla Lega Araba, organismo che però sembra sempre più influenzato dai regimi più conservatori. U ROCCA 1 DICEMBRE 2011 l’obiettivo finale ragionamento, dopo la facile eliminazione dei presidenti di Tunisia e Egitto (Ben Ali e Hosni Mubarak) e quella più faticosa del leader libico, l’attenzione è adesso concentrata sulla Siria, con la speranza di poter contagiare ad un certo punto anche l’obiettivo finale: l’Iran di Mahmud Ahmadinejad. A dare consistenza a quest’ultima parte del discorso è venuto il dibattito sviluppatosi con la pubblicazione l’8 novembre di un Rapporto della Agenzia internazionale dell’energia atomica (Aiea) riguardante le attività realizzate da Teheran nel campo del nucleare, in cui non si esclude che si stiano facendo sforzi per la costruzione di una bomba. In realtà già alcuni giorni prima che i particolari del Rapporto fossero divulgati, Israele aveva avvertito per bocca prima del presidente Shimon Peres e poi del ministro della Difesa Ehud Barak che «un attacco militare contro i reattori nucleari dell’Iran è sempre più vicino, giorno dopo giorno». La minaccia è piaciuta a molti, ed ovviamente soprattutto a quanti considerano l’Iran un inaffidabile «Stato canaglia» da «ridurre all’impotenza» ma fortunatamente ha suscitato anche numerose perplessità a Washington e nelle capitali europee, per le evidenti catastrofiche conseguenze che avrebbe una simile decisione. Leon Panetta, il nuovo titolare del Pentagono, non ha criticato direttamente Tel Aviv per l’avvertimento, ma ha sostanzialmente bocciato un possibile attacco perché potrebbe avere «un grave impatto» sulla regione con «conseguenze indesiderate». I suoi collaboratori si sono poi peritati di precisare che anche se l’attacco vi fosse esso, a parte la reazione che susciterebbe, potrebbe ritardare i progetti iraniani in campo atomico al massimo di tre anni, convincendo la sua leadership a fare tutto il possibile per costruire veramente il pericoloso ordigno. l’ipotesi sanzioni economiche Ora, secondo alcuni analisti lo scossone che ha messo in fibrillazione tutto il Grande Medio Oriente è stato ispirato dalle Cancellerie occidentali molto preoccupate nel perdurare della crisi del controllo delle fonti energetiche, o perlomeno non dispiace certamente ad esse. Proseguendo con questo 14 The Economist, portavoce della comunità finanziaria conservatrice, ha manifestato molte perplessità sul Rapporto della Aiea, sostenendo che in pratica non ha fornito prove definitive sulle ambizioni di Teheran in campo nucleare militare. Il settimanale dubbi sul rapporto Aiea È interessante notare che sempre Haaretz ha consultato sul contenuto del Rapporto della Aiea lo specialista finlandese Olli Heinonen, che l’anno scorso ha lasciato dopo 27 anni l’incarico di vicedirettore dell’organismo e che ora insegna nell’Università di Harvard, negli Stati Uniti. Il documento, ha risposto ad una domanda del giornale israeliano, «non contiene molte informazioni nuove». E, ha aggiunto, al massimo «mostra che i progressi (iraniani) sono lenti e che il processo appare impantanato nel collo di bottiglia rappresentato dall’arricchimento dell’uranio». Responsabili di Tel Aviv, comunque, dopo aver preso conoscenza del contenuto del rapporto dell’Aiea hanno addirittura accusato il Premio Nobel ed ex direttore dell’organi- smo, l’egiziano Mohamed ElBaradei, di essere una sorta di «agente iraniano» per aver negli anni scorsi trattenuto materiale che appare ora nell’ultimo resoconto dell’Agenzia atomica. Va detto che in una intervista concessa in aprile al settimanale tedesco Der Spiegel lo stesso ElBaradei aveva formulato una denuncia esattamente speculare: responsabili americani ed europei avevano occultato documenti importanti, insinuando che «essi non erano interessati a negoziare con il governo di Teheran ma a cambiare il regime con tutti i mezzi necessari». Di ben diversa opinione sembra invece essere il nuovo direttore della Aiea, il giapponese Yukiya Amano, a leggere un documento messo a disposizione da Wikileaks e pubblicato dal quotidiano The Guardian. In un resoconto al Dipartimento di Stato il rappresentante americano nell’Aiea Geoffrey Pyatt scrisse il 16 ottobre 2009, tre mesi dopo l’elezione di Amano ai vertici dell’organismo, che quest’ultimo «era solidamente vicino agli Stati Uniti in ogni decisione strategica chiave, dalla designazione degli alti funzionari interni fino alla gestione del programma presumibilmente nucleare dell’Iran». «È molto alto il grado di convergenza – insistette Pyatt – fra le sue priorità e la nostra agenda all’interno dell’Aiea». due pesi e due misure Il quadro della questione non sarebbe completo se al termine di questa analisi non ricordassimo che Israele possiede armamenti nucleari – fra 200 e 400 bombe secondo diverse stime – e che come la Corea del Nord non ha sottoscritto il Trattato di non proliferazione nucleare per cui non è tenuto, a differenza dell’Iran, a ricevere gli ispettori dell’Aiea. E facciamo ricorso un’ultima volta al quotidiano Haartez dove il ‘columnist’ Gideon Levy ha saggiamente ricordato che «ci sono paesi che hanno il permesso ed altri a cui è vietato possedere armi nucleari». Bisognerà anche tenere a mente che le Grandi Potenze, da parte loro, violano il quarto capitolo del Trattato dell’Onu sugli armamenti nucleari che le impegna a smantellare gli arsenali atomici. Infine l’invito è anche a riflettere sui due pesi e due misure che vengono adottati a livello internazionale per trattare gli argomenti che generano tensione. In questo ambito, per Israele e gli Usa, l’Unesco è «cattiva» perché ha ammesso la Palestina come Stato di pieno diritto, mentre l’Aiea è «buona» perché avverte circa il pericolo nucleare iraniano. ROCCA 1 DICEMBRE 2011 ha anche esaminato nel concreto la possibilità dell’attacco militare israeliano, ipotizzando che esso possa puntare a tre obiettivi: «L’impianto di arricchimento dell’uranio di Natanz (una struttura sotterranea corazzata che dovrebbe essere ripetutamente colpita); il reattore ad acqua pesante di Arak e il reattore ad acqua leggera costruito dai russi a Bushehr. La conclusione è che comunque non sarebbe una «soluzione finale» e che questo implicherebbe una reazione militare iraniana e dei suoi alleati nella regione che sono Hezbollah in Libano e Hamas a Gaza che infiammerebbe la regione. A parte questa ipotesi, apparentemente, per gli Usa ed i paesi vicini ad Israele resta soltanto la scelta di nuove sanzioni economiche in ambito Onu, una opzione che non trova grande entusiasmo a Mosca e Pechino. E in fondo anche Washington riflette sulla loro opportunità, dato che esse comporterebbero una nuova tensione nei prezzi del greggio a livello internazionale. Il quotidiano israeliano Haaretz del 10 novembre ha ragionato a voce alta su questo dilemma, sostenendo che «molti funzionari del governo statunitense temono anche che l’imposizione di nuove e dure sanzioni siano interpretate da Teheran come una dichiarazione di guerra, e questo aumenterebbe l’influenza in Iran degli elementi più estremisti e potrebbe incoraggiare una ondata di attacchi terroristici contro obiettivi americani e occidentali». E ancora: «E non sarebbe impossibile una severa replica iraniana mirante a minacciare il libero transito delle petroliere nello Stretto di Ormuz. Attraverso di esso passa il 40% del greggio che consuma il mondo». Maurizio Salvi 15 POLITICA ITALIANA il governo del «non fare» ROCCA 1 DICEMBRE 2011 Ritanna Armeni 16 i vorrà del tempo, forse anni, per fare un bilancio di quel che è stato Silvio Berlusconi per l’Italia. Ci vorranno storici e analisti capaci di discernere, di orientarsi, di distinguere per dare un giudizio, se non veritiero, almeno vicino alla verità su quello che, senza dubbio, è stato il più importante fenomeno politico degli ultimi 20 anni. Sull’uomo che per quasi due decenni ha deciso del destino politico del paese. Il giornalista politico può solo offrire un primo sguardo, e cercare di andare all’indietro, oltre la lenta agonia di queste ultime settimane, oltre il defatigante tira e molla scandito dalle notizie sullo spread e sui titoli in Borsa, oltre lo spettacolo di deputati che trasmigrano da un gruppo parlamentare ad un altro, oltre il degrado che ha investito il governo e il suo presidente negli ultimi mesi per chiedersi: che cosa è stato, che cosa ha fatto Silvio Berlusconi per l’Italia in questi diciassette anni? Quali leggi fondamentali sono state approvate? Quali modifiche ha apportato nella struttura del paese? Quali idee proclamate è riuscito a rendere concrete? C Come ha modificato la vita degli italiani? Perché una cosa si può affermare con certezza: due decenni di egemonia politica sono sufficienti a realizzare cambiamenti, a modificare il volto del paese o, almeno, a dare qualche risposta ai problemi più urgenti. Pensate a quel che è avvenuto in Italia nei vent’anni precedenti a quelli berlusconiani, dal 1974 al 1994. Vado a memoria: riforma sanitaria, riforma delle pensioni, diritto di famiglia, lo Statuto dei lavoratori, legge sul divorzio e sull’aborto. L’Italietta si è trasformata in uno dei paesi più avanzati dell’occidente. Settima potenza industriale, ma anche paese capace di recepire le domande della società, di diventare moderno. Tornate, magari se non siete abbastanza anziani sui libri di storia, ai decenni ancora precedenti, dal 1954 al 1974, agli anni della ricostruzione, quando l’Italia era ancora povera e si accingeva al grande salto del miracolo economico, troverete la nazionalizzazione dell’energia elettrica, la programmazione economica, la nascita del Welfare. Anche in quegli anni grandi cam- il paese immobile Ora pensateci: per che cosa saranno ricordati i governi di Silvio Berlusconi o comunque questi anni in cui la sua visione del mondo e dell’economia e della società è stata egemone? In quali provvedimenti si è concretizzata la sua visione del mondo? Non ne troverete. Non si possono paragonare certo le astiose affermazioni e leggine di Brunetta e Sacconi sul mercato del lavoro allo Statuto dei lavoratori, né la programmazione economica del primo centro sinistra ai proclami su liberalizzazioni mai attuate, o ai tagli lineari e indiscriminati che ad un certo punto il ministro del Tesoro ha attuato per fare cassa. Certo, Berlusconi ha dispiegato la sua azione politica all’interno di un quadro istituzionale quello della seconda Repubblica (dopo «mani pulite» per intenderci) caratterizzata dal bipolarismo, dalla cosidetta alternanza, ma ha piegato anche questa novità, basti pensare al «porcellum», con la possibilità di designare i deputati da parte dei partiti, alla gestione personale, aziendale del suo partito, e del suo governo. È stato un bipolarismo che non ha impedito la frammentazione nè il trasformismo. Negli anni del berlusconismo il nostro paese ha conosciuto una riforma rilevante come quella del federalismo fiscale, ma credo che storicamente questa riforma, anche nei suoi intenti ben poco solidali, vada intestata alla Lega piuttosto che a Berlusconi o alle altre forze politiche. Il punto vero, che lo storico non ha potuto ancora raccontare, ma che il cronista politico ha potuto osservare è che in questo ventennio non è stato fatto nulla di concreto, né nel bene né nel male. Ricordate la promessa di un milione di posti di lavoro? Ricordate la pensione minima a mille euro al mese? E, ancora, la liberalizzazione delle professioni, un mercato del lavoro fluido e flessibile, un’amministrazione dello stato efficiente, un Welfare sicuro e non sprecone, una rete industriale priva di lacci e laccioli capace di espandersi malgrado la globalizzazione? Al di là del giudizio di merito questi provvedimenti, esprimevano un’idea di società, un proget- ROCCA 1 DICEMBRE 2011 biamenti, sofferti, discussi, ma reali. 17 ROCCA 1 DICEMBRE 2011 POLITICA ITALIANA 18 to che non è stato minimamente realizzato. Ed erano, parevano credibili, perché fatte da un imprenditore, un uomo che aveva promesso di estendere al paese quanto aveva fatto nelle sue aziende. Mai nella storia d’Italia c’è stato un tale divario fra le promesse fatte, le idee sostenute e quel che è stato effettivamente realizzato. Senza aspettare gli storici, che lo dimostreranno più compiutamente e con maggiori dati, già oggi si può affermare che per quasi vent’anni, più di una generazione, l’Italia è rimasta ferma, alle sue leggi, ai suoi ordinamenti, senza alcun intervento vero che la mettesse in connessione dinamica con il resto dell’Europa e del mondo fino agli ultimi due anni di governo, caratterizzati solo dagli scandali e dalla insistita riproposizioni delle leggi «ad personam» per impedire il corso di una serie di vicende processuali riguardanti il premier. Non è possibile – come si sa – rimanere fermi nella corrente. Se non la si contrasta, inevitabilmente si va indietro. Ed è quello che è avvenuto in questi anni. Non si è fatto nulla e la situazione è tragicamente arretrata. Valga per tutti l’esempio sul lavoro e sulla condizione giovanile. Di fronte alla globalizzazione, alla competitività degli altri paesi, si è verificata una massiccia precarizzazione del lavoro che riguarda soprattutto i giovani e una riduzione dell’occupazione. La mancanza di un intervento del governo sia sul piano della crescita che su quello della protezione sociale delle fasce più deboli ha aggravato una situazione già grave e ha fatto arretrare il paese. Fino al disastro che constatiamo ogni giorno quando vengono resi noti i dati sullo spread e sulla borsa e viene addirittura minacciato (ed è minaccia concreta) il fallimento del paese. Fino al depauperamento, a dir poco preoccupante, del sistema democratico. I mercati hanno deciso al posto del governo nazionale, la Bce ha imposto all’Italia le sue proposte di risposta alla crisi, la politica è stata estromessa nelle decisioni importanti dai centri finanziari. Anche questo è stata la conseguenza del «non fare». L’immobilità politica non ha significato però una immobilità sociale ed economica. E neppure immutabilità culturale, saldezza dello spirito del paese, nella sua etica pubblica e nell’immagine di sé. Il ventennio berlusconiano, in realtà, ha registrati molti cambiamenti, forse maggiori e forse peggiori di quelli che gli osservatori, anche i più critici possano ora indicare. una vita libera e luccicante Se tutto questo è vero e, negli anni prossimi, quando gli spiriti delle contrapposte fazioni si saranno placati, potrà essere dimostrato che l’egemonia berlusconiana si è pienamente dispiegata sul piano culturale, dei costumi, dei modi di pensare. Qui l’intervento c’è stato ed è stato pesante anche se ha conosciuto varie fasi. Nella prima, quella dell’illusione, quella in cui, per intenderci, venivano fatte mirabolanti promesse di ricchezza, gran parte del paese è stato conquistato dall’idea di una vita libera e luccicante in cui tutti potessero arricchirsi senza sforzo e in cui bastasse liberarsi dal lacci di uno stato oppressivo e quindi da ogni legame con gli altri per raggiungere attraverso il proprio individuale merito il benessere agognato. L’illusione è durata poco, ma quel che è bastato per distruggere una rete culturale di solidarietà, a cominciare con quella nei confronti dei più poveri, degli immigrati. il rapporto con le donne Nella seconda fase, quella più recente, che possiamo definire del «degrado» l’intervento, davvero pesante è stato quello sul rapporto con le donne. Qui il ruolo del premier è stato diretto e devastante. Abbiamo assistito in questi anni alla riproposizione da parte di un uomo pubblico, presidente del Consiglio, di un modello maschile e di un modello femminile che ha riportato il paese indietro di parecchi anni. E di un rapporto fra il sesso e il potere che forse c’è sempre stato, ma che è stato mostrato ed esaltato con compiacimento e sicurezza. I danni sono stati enormi. Evidenti sul piano dell’etica pubblica, della concezioni del rapporto dei sessi. Ma sbaglierebbe chi pensasse che questo non ha avuto e non ha niente a che fare con la crisi complessiva, economica e sociale che oggi sta attraversando il paese. Essa, si è detto, almeno al cinquanta per cento è una crisi di credibilità che riguarda la politica e chi la dirige, cioè il presidente del Consiglio. Essa è stata profondamente minata dal suo rapporto con le donne, dalla sua arretratezza e dalla sua volgarità. Nessun uomo pubblico può oggi per fortuna permettersi quel che si è permesso Berlusconi provando a cambiare l’Italia a sua immagine e somiglianza. È stato un intervento pesante, forse il più pesante, ma alla fine anche quello è risultato determinante nella sua caduta. Ritanna Armeni OLTRE LA CRONACA Romolo Menighetti dello stesso Autore LE IDEE CHE DIVENTANO POLITICA linee di storia dalla polis alla democrazia partecipativa pp. 112 - € 13,00 (vedi Indice in RoccaLibri www.rocca.cittadella.org) per i lettori di Rocca € 10,00 anziché € 13,00 spedizione compresa richiedere a Rocca - Cittadella 06081 Assisi e-mail [email protected] crivo poche ore dopo il varo del governo di Mario Monti, che dovrebbe arginare la drammatica crisi economica, finanziaria e di credibilità che sta squassando l’Italia. Mi auguro che riesca nel suo intento, soprattutto per proteggere il lavoro e i risparmi dei ceti medio-bassi. Ciò detto, aggiungo che il quadro entro il quale la crisi e l’intervento di Monti si iscrivono, va molto al di là del contingente. Per cercare di capirne di più partiamo dall’attore principale, Mario Monti. Il professore è un liberista. Laureato in Economia alla Bocconi, si specializza a Yale con il premio Nobel James Tobin, il padre della tassa sulle transazioni finanziarie. Insegna economia a Trento, Torino e poi alla Bocconi, di cui diventa prima Rettore e poi Presidente. Commissario europeo ai servizi finanziari e fiscali. È interlocutore dei circoli finanziari internazionali, e ciò fa dire a Pannella e alla Lega che è «uomo dei poteri forti», ma lui afferma di conoscere un solo potere forte, l’Europa. In realtà, dice uno dei suoi più stretti collaboratori, Sandro Gozi, ha un forte profilo di indipendenza, e lo dimostra, tra l’altro, la vittoriosa battaglia intrapresa contro la Microsoft, che accusa di abuso di posizione dominante. È stato consulente della Goldmnan Sachs, una delle più grandi e affermate banche del mondo, finita nel mirino dell’ente governativo statunitense preposto alla vigilanza della Borsa valori per sospetta frode. Dal 2010 è presidente europeo della Commissione Trilaterale. È anche membro del Comitato direttivo del gruppo Bliderberg. Cos’è la Trilaterale? È un’associazione fondata nel 1973 da un gruppo di cittadini nord americani, europei e giapponesi. Un forum permanente di dibattito che approfondisce i grandi temi comuni alle tre aree interessate, e che fornisce contributi intellettuali utili alla soluzione dei problemi affrontati. Cos’è il gruppo Bliderberg? È un incontro annuale, per inviti, di 130 partecipanti circa, i cui nomi sono resi pubblici. Vi partecipano personalità del campo economico, politico, bancario e militare. Trattano temi globali. Nulla si sa all’esterno circa il contenuto delle discussioni. Si dice che influen- S zino decisioni chiave nello scenario internazionale, a partire dal trattato di Roma del 1957. Possono favorire l’ascesa di politici vicino agli interessi delle multinazionali. A Bill Clinton e a Tony Blair venne data la possibilità di tenere un discorso al meeting, un anno prima delle elezioni che li videro vincitori. Entrambi i gruppi, si dice, rientrino nella fantomatica Teoria del complotto, la teoria che attribuisce la causa ultima di un evento o di una catena di eventi a una cospirazione. Ciò detto, non è azzardato ipotizzare essere Monti il rappresentante del pensiero economico liberista che interviene a salvare l’Europa capitalistica, alla quale Berlusconi non riesce più a dare sufficiente garanzia di esecuzione dei propri indirizzi. È un’impresa difficile e impopolare, dalla quale però dipende la sopravvivenza dell’attuale sistema politico. Questo manderebbe allo scoperto un tecnico per non compromettersi e per non bruciare i propri esponenti in caso di insuccesso. È questo il «peccato strutturale», entro il quale il personalmente corretto e competente Monti deve agire. Egli è un liberale alla Stuart Mill, che per primo, nel Diciannovesimo secolo, tentò di coniugare libero mercato e profitto con le esigenze dei lavoratori e della povera gente. Infatti, una delle sue parole chiave più spesso ripetute in questi giorni, è equità. Comunque, anche se Monti riuscisse a salvare l’Italia, il nodo di fondo continua a restare il capitalismo: questo dimostra ancora una volta di non essere il migliore dei sistemi economici possibili, come invece pretende. Anzi, si svela ancor più come sistema predatorio, che per sopravvivere e continuare a fare profitti deve conculcare diritti dei cittadini e decurtare salari dei lavoratori. A fronte di questo capitalismo in crisi, e perciò più spietatamente incattivito, le opposizioni pare non riescano ad approntare un minimo di alternativa. Eppure questa va cercata e resa operante. In caso contrario dovremo ciclicamente affrontare crisi analoghe. ❑ 19 ROCCA 1 DICEMBRE 2011 il liberista ECONOMIA quanto vale un’ora di lavoro? Roberta Carlini nna ha ventidue anni, e l’anno scorso ha voluto sposarsi. Con Giovanni, che fa il giardiniere e sistema le tenute dei villeggianti del Circeo, ha trovato una casetta, o meglio una mezza casetta ritagliata tra le ville: camera cucina e bagno, un piano terra con un po’ di giardino. Pagano 450 euro al mese. Da qualche tempo anche Anna si è messa a lavorare, in un negozio di frutta e verdura. Statisticamente, fa parte di quel piccolo esercito di donne che prima erano considerate, nei conti dell’Istat, «inattive», e adesso sotto i morsi della crisi sono tornate sul mercato del lavoro, a cercare un posto a qualsiasi condizione. Ed eccole, le condizioni di Anna: una promessa di contratto futuro (dunque per ora lavoro nero), paga di tre euro all’ora, orario variabile, nella media sulle sei ore al giorno. A tre euro all’ora ROCCA 1 DICEMBRE 2011 Ha fatto scandalo, nell’Italia delle crisi e dei default, ma anche del benessere ostentato e del potere economico mondiale rivendicato, il crollo della casa di Barletta, che ha svelato sotto di sé la realtà di un laboratorio tessile al nero nel quale le operaie morte erano pagate quattro euro l’ora. La paga di Anna non è molto lontana da quella delle tessili pugliesi. Un osservatore straniero, che venisse a vedere le nostre tragedie ben più profonde di quelle degli spread dei Btp, chiederebbe: ma quant’è il minimo legale in Italia? Risposta: non c’è. 20 Non c’è un minimo salariale di legge da noi, ci sono i minimi dei contratti nazionali ma non c’è una soglia di decenza universale che valga per tutti e tutte. Però andiamoli a vedere, i contratti nazionali e quel che prevedono. Il primo che viene in mente, poiché è l’unico nel quale la paga viene misurata in ore, è quello del comparto «colf e badanti». Per loro, la paga minima contrattuale dipende dalle mansioni, dal maggiore o minore grado di autonomia decisionale e di responsabilità nella gestione della casa: per il livello più basso la paga minima è di pochissimo superiore ai 4 euro, ai quali vanno aggiunti i contributi che il datore di lavoro deve versare. Salendo un po’ più su nella scala del lavoro, tra quei grandi settori che l’Istat monitora sotto la voce «retribuzioni contrattuali», troviamo nel gradino appena immediatamente più alto i lavoratori, per la maggior parte lavoratrici, delle pulizie: ossia quelle che le pulizie le fanno fuori dalle case, nei condomini, negli ospedali, nei grandi uffici, nei vagoni ferroviari... La loro paga contrattuale, a stare alle tabelle dell’Istat, è di 9,34 euro all’ora lordi. Attenzione: il fatto che siano contate al lordo (cioè comprensive di tasse e contributi) e conteggiando nella paga anche la tredicesima, fa sì che quella cifra sia molto superiore a quella che materialmente arriva nelle tasche dei lavoratori. Che è almeno di un terzo più bassa. Perciò, per avere un’idea realistica di quanto si guadagna in Italia, possiamo dire che tra i «fortunati» che hanno un contratto il livello ROCCA 1 DICEMBRE 2011 più basso è sui sei euro netti all’ora. Si potrebbe pensare che si tratta di una categoria assai poco protetta, non fortemente sindacalizzata, né specializzata. Però andando più su nelle classifiche Istat, e arrivando a coloro che un tempo facevano da «pilota» a tutto il convoglio della contrattazione, ossia i metalmeccanici, non è 21 ECONOMIA che facciamo un grande balzo: 12,69 euro all’ora la paga lorda. È chiaro che in questa media ci sono valori alti e bassi, e un operaio fortemente specializzato in una fabbrica che richiede molti straordinari guadagnerà ben di più; ma c’è anche chi, pur in tuta blu, guadagna di meno. Nella media di tutti i lavoratori contrattualizzati nel settore privato in Italia (escludendo dunque quelli che lavorano senza contratto collettivo, tutti i contratti parasubordinati, nonché le finte partite Iva, e ovviamente escludendo il sommerso), il livello della paga dell’operaio è di 12,40 euro all’ora, quella dell’impiegato di 15,52 euro l’ora. Al netto, siamo sui nove euro per gli operai, sui 12 per gli impiegati. si può essere poveri lavorando ROCCA 1 DICEMBRE 2011 Ora, è vero che quasi nessuno si fa i conti sul suo stipendio in ore: conta avercelo, il lavoro, e portare a casa un reddito a fine mese. Ma i dati appena citati fanno saltare sulla sedia. Fanno toccare con mano quanto abbia colpito, negli anni, la progressiva svalutazione del lavoro, della sua importanza e della sua dignità. Dietro la grande crisi in cui siamo immersi c’è anche questo. Anzi, soprattutto questo. Anche se l’emergenza quotidiana si chiama spread – parola entrata nel gergo comune, che sta a indicare in sostanza quanto è rischioso investire in un paese –, l’emergenza più lunga, quella che ci portiamo dietro da anni, è in quanto è diventato rischioso lavorare in questo paese. Perché il lavoro non ti mette più in salvo: perché è precario, perché può saltare da un momento all’altro, ma anche e soprattutto perché è pagato poco. E questo, mentre tutto il resto è pagato molto, gli spazi pubblici gratuiti si restringono sempre di più e sempre più spesso dobbiamo aprire il portafoglio per pagare beni e servizi che un tempo erano gratis, a disposizione di tutti. Insomma, il lavoro non ti mette più in salvo rispetto al rischio della povertà. Anche noi abbiamo imparato a declinare un’espressione, i «working poors», i lavoratori poveri: mentre prima erano poveri quelli che non avevano un lavoro e dunque un reddito, adesso si può essere poveri lavorando. Mentre parallelamente abbiamo importato anche un altro fenomeno, quello dei «working rich», i lavoratori ricchi (o i ricchi che lavorano...): espressione che indica il fatto che la nuova ricchezza è soprattutto di alcuni «mestieri», che hanno a che fare con il grande giro dell’élite finanziaria. 22 bassa produttività e forti ritardi Qualcuno dirà (soprattutto tra gli economisti): se il lavoro è pagato poco, è perché vale poco. «Bassa produttività», è il termine. E c’è del vero in questo – anche se parallelamente ci si dovrebbe chiedere a quale alta produttività corrispondessero gli stipendi dei top della finanza che ci hanno portato al crollo. C’è del vero, e ha a che fare con i ritardi di innovazione tecnologica delle nostre aziende, con il fatto che si è investito pochissimo, con la mancanza di un’idea di lavoro forte che potesse sostituire quella del lavoro nella grande industria. Nessuna Anna accetterebbe di andare a lavorare per tre euro all’ora in un negozio, se nella sua stessa zona ci fosse una fabbrica che le offre un lavoro con un contratto, le ferie, la malattia, la gravidanza. In assenza, non resta che stare a casa (e il 56% delle donne italiane lo fa), o spostarsi per trovare condizioni migliori, in altre parti d’Italia o magari all’estero: cosa che è successa in vasta scala negli anni prima della crisi, e che continua a succedere, soprattutto per le fasce del lavoro più qualificato e le donne con più alta istruzione. la catena spezzata Ma c’è anche l’altra faccia della medaglia. Ammesso (e non concesso) che i salari siano bassi solo perché il lavoro è poco produttivo, resta il fatto che a redditi bassi corrispondono bassi consumi, dunque poca domanda (e povera) di beni e servizi, dunque aspettative assai scarse delle imprese sui ritorni degli investimenti. È l’antica catena di Ford che si è spezzata: se pago bene i miei operai, compreranno anche più macchine, dunque farò più profitti. Un meccanismo che si è rotto, nella corsa al ribasso del costo del lavoro mondiale: nella quale ciascuno spera di comprimere i salari dei suoi operai e vendere i prodotti agli operai (ben pagati) di qualcun altro. Può funzionare, per qualcuno, oppure può andare male per tutti – e a quanto pare negli ultimi tempi sta prevalendo la seconda ipotesi. I tre euro all’ora di Anna (e i quattro delle operaie di Barletta che non ci sono più, e i pochi spiccioli in più della massa dei lavoratori italiani) ci ricordano che tutto ciò non funziona; ma anche se funzionasse non sarebbe accettabile, da una Repubblica che vanta in Costituzione di essere fondata sul lavoro. Roberta Carlini CAMINEIRO Yasunì I to un fondo presso l’Onu in cui però finora sono finite tante promesse e pochi spiccioli. Cile e Perù hanno donato 100 mila dollari ciascuno e l’Italia ha «promesso» che cancellerà 35 milioni di dollari di debito contratti dall’Ecuador. In totale, secondo il capo dei negoziati del progetto, Yvonne A-Baki, l’Ecuador ha racimolato circa 40 milioni di dollari, una somma ancora lontana dai 100 milioni previsti per la fine del 2011. Anche questo progetto è vittima della crisi eppure dalla sua realizzazione dipende una parte della salute, della qualità della vita, dei disastri ambientali del futuro. il volontariato nel tempo della crisi Sarebbe una strategia infame pensare al volontariato per ridurre i costi del lavoro e contare su manodopera a buon mercato o gratuita. La crisi in corso deve adottare il volontariato come volano di coesione sociale, sorgente di cultura di solidarietà, indice di responsabilità nella comunità, presidio di legalità. Nel tempo della crisi il movimento di volontariato è chiamato a giocare un ruolo fondamentale e, per questo, lungi dal divenire terreno di sfruttamento, deve essere sostenuto e promosso. Lo diciamo mentre volge al termine l’anno del volontariato promosso dall’Unione Europea che ha prodotto molta riflessione sul tema ma poche misure a sostegno dell’attività e della cultura del volontariato stesso. Eppure siamo convinti che ci sono due modalità per vivere la crisi. L’egoismo del «si salvi chi può» e la solidarietà che ci permette di venirne fuori insieme. Per chi si iscrive a questo secondo partito, il volontariato rimane una proposta e uno stile di vita, un’opportunità e un’occasione di crescita. Il controcanto a una crisi che è innanzitutto etica. 23 ROCCA 1 DICEMBRE 2011 Tonio Dell’Olio l «Proyecto Yasunì Itt» potrebbe diventare una bandiera. Qualcosa di più di un modello e un buon esempio da seguire. È una proposta dell’Ecuador che finora è rimasta abbastanza inascoltata, isolata. Per alcuni è una idea di scarto perché minaccia l’economia mondiale anche se sostiene l’ecologia globale. Lo Yasunì è un immenso parco di 100 mila chilometri situato nella zona amazzonica nella regione orientale dell’Ecuador e, a sentire gli esperti, è l’area con la maggiore biodiversità al mondo. Si contano 1.500 specie differenti di alberi, 567 di uccelli, 173 di mammiferi, oltre 100 mila specie di insetti. Finora questa regione è stata preservata anche dalla devastazione edilizia ma da qualche tempo c’è una minaccia molto più seria che grava su questa terra: è stato scoperto il petrolio. Si calcola che dall’intera area si estrarrebbero 800 milioni di barili di oro nero. Lo sfruttamento di questa risorsa sarebbe stata «una boccata d’ossigeno» per un Paese tanto povero come l’Ecuador ma il ministro dell’ambiente Alberto Acosta nel 2007 lanciò un’idea originale. Calcolando che l’attività estrattiva e il conseguente disboscamento sarebbe stato un danno non solo per le popolazioni indigene che abitano lo Yusanì, ma per tutto il pianeta che avrebbe ricevuto 400 milioni di anidride carbonica in più, ovvero un contributo determinante per il cambiamento climatico, propose un piano internazionale. Il governo dell’Ecuador rinuncia a questa ricchezza ma chiede alle nazioni più ricche della terra di versare nelle casse dello stato 3,5 miliardi di dollari in 13 anni. Chiede esattamente la metà di quanto guadagnerebbe dalla vendita del petrolio! Insomma si propone ai governi del mondo di rinunciare a comprare petrolio e di acquistare aria pulita. Di adottare qualche ettaro di quella foresta per preservarla dallo sfruttamento e garantire la biosfera. Per questa ragione è stato aper- ROCCA 1 DICEMBRE 2011 Fiorella Farinelli T utti uguali a scuola i figli di genitori italiani e quelli di genitori stranieri? Più uguali, certo, che in altri ambiti del vivere sociale. Ma è nei dettagli, si sa, che si annidano il diavolo e la sua coda. Basta, per esempio, un banale viaggio di istruzione all’estero, o un progetto europeo di scambio tra scuole, per scoprire improvvisamente che Ahmed o Svetlana, compagni quotidiani di banco e di avventure, questa volta non saranno dei nostri. Nell’area di Schengen in verità possono andare, per brevi periodi, anche gli «extracomunitari», ma non quando sia pendente il rinnovo del permesso di soggiorno. Carta da aggiornare ogni anno immancabilmente, con procedure dai tempi incerti, sempre più lunghi del prescritto, e problematiche se nel frattempo ai genitori sia capitato di non avere più un lavoro regolare (più di 600.000, in questi anni di crisi, i permessi perduti per questo motivo) o di non poter certificare qualcuna delle numerose condizioni cui è sottoposta la «regolarità». che fatica diventare cittadini! È il guaio di non essere riconosciuti come 24 «cittadini», anche se in Italia si vive da sempre perché è qui che si è nati o si è arrivati da piccoli, prima dell’età della scuola. Prima, qualche volta, di aver imparato a camminare e a parlare. Non importa. La legge italiana prescrive che solo con la maggiore età si acquisisce la facoltà di richiedere la cittadinanza, e solo se si può documentare una residenza regolare ininterrotta per tutti e diciotto gli anni precedenti. Una regola che vale, paradossalmente, anche se i genitori la sospirata cittadinanza dovessero averla intanto già acquisita. Quanti sono oggi i ragazzi cosiddetti di «seconda generazione»? Un numero imponente, e in crescita continua. Più di 500.000 su un milione di minori figli di genitori stranieri. La maggioranza degli iscritti alle scuole dell’infanzia e alla primaria, più del 40% di quelli iscritti alla media, più di un quarto di quelli delle scuole superiori, ma i numeri si impennano da un anno all’altro. Cosa pensano di questa situazione? Come incide sul loro vissuto, sulle speranze nel futuro, sul giudizio su di noi e sull’Italia? Sono insofferenti, ci dicono tutte le indagini, della denominazione stessa di «immigrati», che ritengono a ragione assolutamente inadatta a rappresentare la loro INTEGRAZIONE il diavolo e la sua coda della Fondazione Agnelli, rifiutano di restare inchiodati al destino dei padri e delle madri, contano su diplomi e qualifiche professionali. Che miscuglio di risentimenti e rancori potrà nascerne se le speranze verranno deluse, e se continuerà ancora a lungo questa loro ostinata esclusione dalla cittadinanza? l’Italia sono anch’io Il 9 settembre scorso ha preso il via la campagna «L’Italia sono anch’io» per raccogliere, entro la fine di febbraio, le firme necessarie per proporre due leggi di iniziativa popolare, una sul diritto di cittadinanza dei figli di genitori stranieri nati in Italia, l’altra per il voto amministrativo per i migranti regolarmente residenti. La campagna, promossa da diciotto organizzazioni fra cui Acli, Arci, Caritas italiana, f-Cei, Tavola della Pace, Sei-Ugl, Cgil e G2Seconde generazioni – la più importante associazione di riferimento attiva in molte città italiane – viene dopo l’insuccesso della proposta di legge presentata alla Camera nel 2009 dagli onorevoli Granata (finiano) e Sarubbi (cattolico del partito democratico). Proposta bipartisan, sottoscritta da cin- ROCCA 1 DICEMBRE 2011 vicenda personale, e ancora di più di quella di «stranieri». Perché anche se non rinnegano le loro origini, gli affetti familiari, la lingua e la cultura dei genitori, per molti di loro è il paese in cui sono nati, cresciuti e di cui parlano la lingua, il luogo che sentono come proprio, e in cui immaginano anche il loro futuro. Identità bivalenti, in bilico tra appartenenze diverse, ma più di metà – secondo l’indagine Cnel 2011 della Fondazione Agosti – ha frequentazioni «miste», mentre lo stesso vale solo per l’86% dei coetanei italiani. E tutti aspirano a lavori migliori di quelli dei padri, in linea, se sono studenti, con i titoli di studio che conseguiranno. Tant’è che quando superano gli ostacoli dei deficit linguistici e i condizionamenti economico-sociali delle famiglie, hanno comportamenti scolastici particolarmente impegnati e determinati, come rivelano gli insegnanti. E affollano, proprio come i giovani operai italiani degli anni settanta, i corsi serali degli istituti tecnici e professionali con cui rimediare ai fallimenti della prima volta (40% di abbandoni precoci nella scuola secondaria superiore, contro il 17% degli studenti italiani) o con cui conciliare studio e lavoro. Vogliono crescere, sottolineano le analisi 25 ROCCA 1 DICEMBRE 2011 INTEGRAZIONE 26 quanta parlamentari di tutti i gruppi politici esclusa la Lega, con cui si chiedeva il superamento dello ius sanguinis, secondo cui la cittadinanza si acquisisce, come fosse un patrimonio ereditario, solo da genitori già cittadini, e l’introduzione dello ius soli, che invece la riconosce automaticamente, salvo esplicita rinuncia dei genitori, a chi nasce e risiede nel paese. La via, insomma, seguita da sempre dalla Francia e adottata recentemente anche in Germania, prima inchiodata come noi al «diritto del sangue». Ma i buoni esempi, e i lungimiranti argomenti, non sono serviti. La proposta è stata rapidamente stoppata , liquidata dall’arrendevolezza della maggioranza di governo alle fiere contrarietà dei leghisti, e anche dai timori di parte dell’opposizione di alienarsi, con una battaglia forte e aperta, qualche consenso del proprio bacino elettorale. Tempi troppo bui per incrinare facilmente la cappa di piombo di politiche emergenziali durature, e rinvigorite dall’impatto crudele della crisi sull’occupazione e sul welfare. Ora ci si riprova, con un impegno diretto anche di parte del Pd, ma è evidentemente molto alto il rischio che la raccolta delle firme resti un’iniziativa di sola testimonianza. Anche se il 15 novembre, nel corso di un incontro al Quirinale dedicato ai «nuovi cittadini italiani», è sceso apertamente in campo con argomenti profondi e convinti lo stesso Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Si moltiplicano, intanto, perché le seconde generazioni corrono verso il 10% di un bacino giovanile sempre più ridotto rispetto alla popolazione più anziana, gli studi e le riflessioni. Ce ne sono di quelle che mettono soprattutto l’accento sui processi di convergenza, tra gli adolescenti italiani e quelli con back ground migratorio, degli stili di vita, dei modelli di consumo, delle passioni e abitudini comuni, Facebook e i cellulari, moda, musica, sport, palestre e tifoserie calcistiche. Anche, dice il Cnel, lo scarso interesse per la politica, la lontananza dal sindacato, la freddezza rispetto al volontariato. Se tensioni ci sono, effettive o potenziali, si tratta di conflitti culturali o, come per tutti gli adolescenti di qualsiasi nazionalità, di conflitti generazionali? Se lo chiede, per esempio, lo studio della Fondazione Agosti, che ha però il limite di analizzare solo i ragazzi di provenienza straniera che frequentano le scuole superiori, non quelli dei corsi di formazione professionale, non quelli ingoiati dal lavoro nero o pre- cario. Più nuovi e interessanti gli studi che concentrano l’attenzione su alcuni specifici settori e nazionalità. I ragazzi di famiglia araba, per esempio, e musulmana, che sono un terzo circa dell’universo, egiziani, marocchini, maghrebini. In «Ragazzi della moschea», un lavoro recentissimo di Vladimiro Polchi, il difficile equilibrio tra identità e appartenenze diverse, e la propensione a vedere comunque il proprio futuro qui in Italia, è turbato dal contrasto tra ciò che sta succedendo nei paesi di origine – il risveglio democratico, e il grande ruolo giocato dai giovani – e la percezione di un’Italia sempre più difficile, chiusa, xenofoba, vecchia, in declino. L’«italian dream», la visione di un paese aperto, che promette benessere e democrazia, quella che ha affascinato i loro padri e le loro madri e spinto le ondate migratorie, si rivela oggi debole e faticoso. Meno attraente, delle folle giovanili che dall’altra parte del Mediterraneo stanno aprendo orizzonti del tutto nuovi. Allora la stessa proposta dell’«integrazione» suona male. Fioccano critiche e prese di distanza. «Una parola che non mi piace, come se avessi qualcosa che mi manca; semmai è il contrario, pur sentendomi italiana io ho qualcosa di più visto che sono anche egiziana». «Integrare significa sommare, unire, mantenendo quello che sono e cercando di imparare le novità positive: ma se per integrarmi devo togliermi il velo, questa non è integrazione». le ragazze pakistane Accanto a queste inquietudini, intessute anche dell’indignazione per i contrasti sulle moschee e per le diffuse ostilità nei confronti dei musulmani, ci sono però anche tensioni diverse. Soprattutto delle ragazze delle comunità più chiuse e maschiliste, come quella pakistana. Qui l’Italia può sembrare ancora un paese solare, che promette libertà inedite, ma sarà davvero così con il lavoro che manca e le stesse italiane costrette a disoccupazione e sottoccupazione? I «pensieri grigi» di una crisi che sembra non debba avere mai fine, di un paese in precipitoso crollo di credibilità internazionale, contagiano anche loro. Non è una buona notizia. Anche se conferma che sono ormai parte del nostro mondo, permeati e permeabili dai nostri punti di vista. Con-cittadini, evidentemente, anche in questo. Fiorella Farinelli SPE il re porta la parrucca P Un po’ di filosofia analitica, può essere un buon punto di partenza per una riflessione sul linguaggio e sulle sue trappole... Analitica nel senso de psicanalitica? Stamo a fa già a psicanalisi in pedagogia, e ce se mette pure lei co filosofia? Analitica nel senso di analitica. Avrete sentito sicuramente parlare di uno dei suoi esponenti più importanti, un pensatore bizzarro ma grandissimo, Ludwig Wittgenstein, carattere difficile, personalità geniale e sregolata... Certo che sti filosofi so tutti strani... uno se beve er veleno, l’artro dice mazza e corna daa borghesia e poi è più borghese de l’artri... uno se suicida... n’artro se voleva sposà poi nun se sposa perché c’ha na crisi mistica... Ma adesso non è di Wittgenstein che voglio parlarvi, che pure una crisi mistica l’ha avuta, ma di uno dei padri dell’analisi, uno che le crisi mistiche non sapeva nemmeno cosa fossero. Vorrei parlarvi di Bertrand Russell, il quale sosteneva che una proposizione è vera se le corrisponde qualcosa nella realtà. Ma parla arabo sto Rass... Al contrario, pensava che la chiarezza fosse uno degli scopi della filosofia ma che molte espressioni che crediamo vere sono ambigue, false o insensate. E che noi dobbiamo scoprire l’inganno. A tal proposito faceva un esempio: prendiamo il re di Francia e chiediamoci se è completamente cal- vo o se ha i capelli (anche pochi, non è necessario che sia un figlio dei fiori). Professò, se è vera l’una è falsa l’artra. O ce l’ha o nun ce l’ha, i capelli! Per Russell erano entrambe false. Perché secondo voi? Professò, sul libro ho letto che il re poteva portare la parrucca e quindi... Sì, ma quella è una provocazione di Russell, la cui risposta è che non possiamo dire nulla del re di Francia (né che è calvo, né che ha i capelli, né che porta la parrucca) semplicemente perché non esiste un re di Francia. Me piace stà filosofia sintetica. Analitica, analitica! No, dicevo sintetica perché con poche parole ce fa capì! Attualizziamo il ragionamento di Russell e chiediamoci se è vera la seguente affermazione: il precedente governo aveva abbassato le tasse. O le aveva abbassate o nun le aveva abbassate, professò, a parte che un giorno dicevano na cosa e l’artro giorno ne dicevano n’artra. E nun se capiva mai qual era la verità. Appunto qual era la verità? Professò ho capito tutto, so un grande de ’a filosofia, st’anno me deve da mette almeno nove, altro che Rass..., e chi so? Kant? La risposta potrebbe essere: che il governo portava la parrucca oppure che non esisteva un governo! 27 ROCCA 1 DICEMBRE 2011 Stefano Cazzato rofessò che famo oggi? TERRE DI VETRO cecità ROCCA 1 DICEMBRE 2011 Oliviero Motta 28 giù un’altra picconata. L’ennesimo colpo al nostro welfare è stato tentato nelle settimane scorse ai danni delle persone cieche e ipovedenti. Come se non bastasse aver azzerato il fondo per la non autosufficienza, attentato alle pensioni d’invalidità e ridotto al lumicino i fondi per gli interventi sociali dei Comuni. Il ministero dell’Interno ha tentato di azzerare i contributi previsti per l’erogazione di servizi destinati alle persone cieche e ipovedenti e in tutta Italia alcune centinaia di associati all’Unione italiana ciechi – peraltro «disobbedendo» al loro presidente, che aveva mostrato cautela circa una manifestazione di piazza – hanno fatto sentire la loro voce di protesta scendendo in strada. È successo a fine ottobre, in seguito al sostanziale azzeramento dei contributi previsti da due leggi degli anni ’90, finalizzati all’erogazione di servizi per i ciechi e gli ipovedenti. Il taglio ai fondi – ha fatto sapere l’Uic – significherà la cancellazione dei servizi erogati, con «la conseguenza di far tornare i ciechi e gli ipovedenti, un universo di circa due milioni di persone, indietro di almeno 50 anni». Rileggiamo con attenzione l’ultima frase: la conseguenza di far tornare indietro i ciechi di almeno 50 anni. Vuol dire tornare a prima della stagione dei diritti, riandare a quando le famiglie se la dovevano cavare da sole o affidarsi alla carità delle istituzioni private (quasi sempre religiose). «Mi rifiuto di pensare – ha affermato Tommaso Daniele, il presidente nazionale – che il ministro Maroni, titolare del ministero che ha operato i tagli, sia a conoscenza di un provvedimento così iniquo: spero, invece, che si tratti di una svista di un funzionario ignaro delle finalità delle leggi 24/ 1996 e 379/1993». «Se così non fosse – ha continuato Daniele E – dovrei pentirmi di aver creduto per anni nella giustizia sociale, nella solidarietà, nel bene comune, nel valore delle istituzioni e ammettere quello che comunemente si dice: che la classe politica opera solo in funzione del tornaconto del proprio elettorato. I ciechi e gli ipovedenti sono consapevoli della gravità della crisi che attraversa il nostro paese, ma non sono disposti a pagare due volte: una volta come cittadini, un’altra come disabili. Infatti, essi, non appena appresa la notizia, mi hanno tempestato di telefonate invitandomi a mobilitare la categoria per far sentire forte la loro indignazione. Nonostante i miei dubbi circa l’opportunità di scendere in piazza in un momento così critico del nostro paese, alcune centinaia di essi hanno disobbedito e oggi sono in piazza per ottenere che un provvedimento così iniquo sia cancellato». «È chiaro – conclude Daniele – che se questo non dovesse avvenire, la lotta si farà più dura e i due milioni di ciechi ed ipovedenti scenderanno in piazza tutti insieme per gridare: Vergogna! Vergogna!». A questo siamo: persino i ciechi scendono in piazza. E noi, gente regolare? Niente. Sembra quasi che i fondi dedicati a chi fatica o non vede più del tutto siano affare «privato» o di lobby limitate. Quasi che dedicare attenzione e cura (delle quali i soldi sono solo segno e strumento) ai più deboli non abbia significati più ampi e profondi, non riguardi anche il modo di concepire la cittadinanza e l’umanità comune. Farsi carico delle fatiche dei più fragili della società è invece l’essenza stessa della (nostra) civiltà. Dimenticarlo vuol dire trasformarsi in cittadini e istituzioni cieche. Non c’è peggior cieco di chi vuol chiudere gli occhi. LA SCUOLA NELL’ERA DELLA TECNOLOGIA DIGITALE le nuove grammatiche della fantasia Pietro Greco A vviso (è il caso di dirlo) ai naviganti: stiamo entrando, come la Alice di Lewis Carroll, in un mondo sconosciuto e ricco di paradossi. Situazione tipica di ogni grande e inatteso attraversamento. Di tutte le grandi transizioni epocali. Il paese delle meraviglie in cui siamo entrati è quello delle nuove tecnologie informatiche dei computer, di internet, dei mobile phone, del WiFi, dei video game, degli i-Phone, degli i-Pod, degli i-Pad, dei tablet, dei social network, di Facebook, di Twitter, di YouTube (si parla inglese, almeno per ora, in questo universo). Un insieme di nuove tecnologie che disegna un nuovo universo cognitivo. In cui un flusso multidirezionale, enorme e senza precedenti di informazione scritta, sonora e per immagini consente (potenzialmente) la comunicazione di tutti con tutti, abbattendo ogni barriera di tempo e di spazio, creando una nuova e più vasta dimensione della società umana. Il nuovo universo cognitivo è, con ogni probabilità, il sistema più complesso in cui il nostro universo fisico si sia imbattuto nel corso della sua storia, lunga 13,7 miliardi di anni o giù di lì. Un numero enorme di agenti (potenzialmente 7 miliardi, praticamente almeno 2 dotati di spiccata intelligenza ma occorrerebbe dire di una serie di spiccate intelligenze) e, probabilmente, di libero arbitrio che hanno la possibilità di intessere tra loro infinite interazioni comunicative in tempo reale. Come e più di ogni altro sistema complesso, il nuovo sistema cognitivo ha una sua dinamica non lineare, caotica, imprevedibile. E, soprattutto, può generare «fenomeni emergenti», che non sono riducibili alla semplice somma delle proprietà degli elementi del sistema ma appartengono al loro insieme. Quel qualcosa che alcuni chiamano «mente collettiva» e altri semplicemente civiltà umana, non è riducibile alla semplice somma dell’intelligenza di un certo numero di uomini, ma è un «fenomeno emergente» di un certo numero di uomini organizzati che hanno tra loro un certo tipo di relazioni e formano una certa comunità. Le «primavere arabe» sono state «fenomeni emergenti» generati da milioni di volontà individuali (più pane, più libertà) mediate e autoorganizzate attraverso Twitter e i telefonini (sorry, i mobile phone). Le «primavere arabe» sono una delle manifestazioni più evidenti, ma non l’unica, di come l’insieme delle nuove possibilità tecniche sta generando una nuova forma di democrazia. Se si vuole, sta generando una maggiore domanda di democrazia. Eccoci, dunque, alla prima domanda connessa all’ingresso nel nuovo universo cognitivo: la connessione inedita e continua di tutti con tutti farà nascere (sta già facendo nascere) una nuova «intelligenza sociale»? Siamo, ciascuno di noi, i neuroni di una nuova ed emergente «mente globale»? Costituisce, questa nuova «mente globale», un nuovo salto dell’evoluzione culturale? E nel far parte, in maniera più o meno cosciente, di questa «mente globale» come cambia la nostra mente individuale (e, magari, come cambia il nostro cervello)? Come cambiano i nostri comportamenti, culturali e non? 29 ROCCA 1 DICEMBRE 2011 giornalista scientifico, scrittore Fondazione Idis-Città della Scienza, condirettore Scienzainrete LA SCUOLA NELL’ERA DELLA TECNOLOGIA DIGITALE la nuova trasmissione dei caratteri culturali acquisiti Tuttavia, proprio poiché siamo neuroni dotati di autocoscienza e di libero arbitrio, possiamo – dobbiamo – anche chiederci come, in questo nuovo e promettente e paradossale universo cognitivo nel quale ci ritroviamo, può e deve avvenire la trasmissione dei caratteri culturali acquisiti (il sapere, i valori)? O, detta in altro modo, che tipo di scuola dobbiamo organizzare per i nostri figli? Nel nostro cervello individuale i neuroni si scambiano informazioni attraverso un semplice e lineare impulso elettrico. Il nostro cervello – e quella sua proprietà emergente che chiamiamo mente – organizza con modalità non lineari queste informazioni e le trasforma in «conoscenza». Nella società umana pre-digitale, gli uomini si scambiano le informazioni che contribuiscono all’evoluzione culturale dell’intera comunità mediante un processo relativamente lineare, top-down: da chi sa a chi non sa. Succede, non sempre in maniera controllata, nella vita quotidiana e lo chiamiamo esperienza. Succede, in maniera più organizzata e sistematica, in ambienti chiusi e circoscritti: e lo chiamiamo scuola. Come procedono la trasmissione dei caratteri culturali acquisiti e l’evoluzione culturale nella società digitale? Ovvero: quale scuola possiamo e dobbiamo organizzare? Si tratta, ovviamente, di domande aperte. Nessuno, penso, ha una risposta definitiva. Anche se molti la stanno cercando. E tutti – come Alice cascata all’improvviso in un nuovo e bizzarro mondo – si imbattono, appunto, in una serie di paradossi. Tra cui possiamo individuarne tre piuttosto significativi. Che, con sintesi giornalistica e dunque eccessivamente semplificatrice, possiamo identificare come: il «paradosso dell’esploratore bianco», il «paradosso di Thamus» e il «paradosso dei neuroni». il paradosso dell’«esploratore bianco» ROCCA 1 DICEMBRE 2011 Il primo paradosso, quello che abbiamo definito «dell’esploratore bianco», riguarda il fatto che noi adulti, ultratrentenni, siamo tutti immigrati digitali. Siamo qui a parlare di un nuovo universo – un universo cognitivo – dove siamo approdati di recente. E abbiamo il compito (forse la presunzione) di analizzarlo, di descriverlo e di elaborare delle mappe efficienti da pro30 porre a chi in questo universo invece ci è nato, ai nativi digitali. Spesso, quando ci assumiamo questo compito, non ci comportiamo come suggerisce Lewis Carroll e come si comporta Alice – sempre pronta a meravigliarsi, ad apprendere dai nativi e, pertanto, a comprendere il paese in cui è capitata – ma ci comportiamo, appunto, come quegli «esploratori bianchi» che giunti nel «nuovo mondo» non solo lo hanno analizzato e descritto con i propri criteri di europei, ma hanno voluto imporre ai nativi, con le buone e troppo spesso con le cattive, la propria cultura e i propri valori. Incapaci, noi come gli «esploratori bianchi», di provare meraviglia e di comprendere che lì, nel «nuovo mondo», valgono altre regole, altre griglie cognitive, altre griglie valoriali. Incapaci di accorgerci di essere degli alieni che perturbano l’intrinseca armonia di quel «nuovo mondo» che (perché) non capiamo. Fuor di metafora. Per noi – generazione nata con la prima televisione, rigorosamente in bianco e nero e con un solo canale, con i primi razzi che partivano verso lo spazio, con la macchina da scrivere in casa e con il telefono accessibile solo in una cabina fuori casa mediante un centralino con gli spinotti – l’insieme evolutivo fatto di computer, internet, telefoni cellulari, video game, Wi-Fi, i-Pod, i-Pad, tablet, social networks, Facebook, Twitter, YouTube costituisce un «nuovo mondo». Facciamo fatica a comprenderne le logiche, le dinamiche, le regole. Facciamo fatica a esplorarne le potenzialità. Le utilizziamo, le nuove tecnologie, ma con le modalità cognitive con cui usavamo, al meglio, le vecchie. Utilizziamo il cellulare come il vecchio telefono, il computer come la vecchia macchina da scrivere. Siamo lenti, in senso tecnico: impieghiamo un’ora a inviare un sms e non capiamo come nostro figlio, per inviare un messaggio analogo, impieghi appena un secondo. Siamo lenti, in senso metaforico: non abbiamo abbastanza domande rispetto alle risposte potenziali che le nuove tecnologie possono offrirci. Siamo lenti in senso cognitivo: continuiamo a pensare in maniera seriale e lineare, mentre nel nuovo mondo ci si muove in maniera parallela e non lineare. Siamo sconnessi (rispetto a questo nuovo mondo), anche quando siamo connessi (a internet). Vogliamo governarlo. Ma con le regole del vecchio mondo. D’altra parte la nostra formazione è avvenuta in un tipo di sistema in cui il flusso della comunicazione è continuo, lineare, il paradosso di Thamus Narra Socrate all’amico Fedro che un giorno Thamus, re in una grande città d’Egitto, abbia invitato a corte Theuth, il dio col bernoccolo dell’invenzione. Thamus è curioso di conoscere il dio che ha inventato i numeri, e poi il calcolo aritmetico, e poi la geometria, e poi lo studio del cielo, l’astronomia. Ma è soprattutto curioso di conoscere il dio che, da ultimo, ha inventato l’alfabeto. Theuth, soddisfatto, illustra al re, una per una, quelle sue creazioni e promette che le farà conoscere agli Egiziani. Di ciascuna, però, Thamus, re pignolo e un tantino diffidente, vuol discutere pregi e difetti. Giunto, dunque, all’alfabeto, Theuth spiega: «Questa scienza, o re, renderà gli Egiziani più sapienti e arricchirà la loro memoria, perché questa scoperta è una medicina per la sapienza e la memoria». Ma il re risponde: «O ingegnosissimo Theuth, una cosa è la potenza creatrice di arti nuove, altra cosa è giudicare quale grado di danno o di utilità esse posseggano per coloro che le useranno. E così ora tu, per benevolenza verso l’alfabeto di cui sei inventore, hai esposto il contrario del suo vero effetto. Perché esso ingenererà oblio nelle anime di chi lo imparerà: essi cesseranno di esercitarsi la memoria perché fidandosi dello scritto richiameranno le cose alla mente non più dall’interno di se stessi, ma dal di fuori, attraverso segni estranei: ciò che tu hai trovato non è una ricetta per la memoria ma per richiamare alla mente. Né tu offri una vera sapienza ai tuoi scolari, ma ne dai solo l’apparenza perché essi, grazie a te, potendo avere notizie di molte cose senza insegnamento, si crederanno di essere dotatissimi, mentre per la maggior parte non sapranno nulla; con loro sarà una sofferenza discorrere, imbottiti di opinioni, invece che sapienti». Per fortuna l’invenzione della scrittura non si è rivelata una catastrofe per l’umanità, come prevedeva il diffidente re egizio. Ma l’errore di Thamus non è stato quello di prevedere che il nuovo, potente strumento di comunicazione avrebbe rotto i vecchi equilibri del sapere. E di formazione del sapere. Cosa che in realtà ha fatto. L’errore di Thamus è stato quello di non prevedere che, dopo aver scompaginato le carte, il nuovo strumento di comunicazione avrebbe ricreato un nuovo equilibrio. E che la sapienza dell’uomo si sarebbe ricomposta ad un diverso livello. A un livello superiore. L’errore di Thamus è di non aver colto l’ine- ROCCA 1 DICEMBRE 2011 con approccio top-down. Il nostro modello pedagogico era Alberto Manzi, straordinario maestro che ha magnificato l’antico modello della lezione frontale facendola passare, persino esaltandola, in televisione. Negli ultimi due decenni, tuttavia, sono nati qui sulla Terra oltre 2 miliardi di bambini. I più grandi oggi hanno, appunto, vent’anni. I più piccoli stanno emettendo i primi vagiti. Nessuno tra costoro ha conosciuto l’Unione Sovietica e i venti della guerra fredda. Tutti hanno conosciuto Nelson Mandela unicamente come un uomo libero. Per loro il volo di Gagarin e lo sbarco sulla Luna sono vestigia del passato. Nessuno tra questi giovani ha visto una televisione in bianco e nero. Pochi guardano ancora la televisione. E pochissimi tra loro hanno parlato attraverso un telefono fisso, collegato con un filo alla rete. Per loro internet, ma anche l’Aids o gli Ogm o il Gps sono sempre esistiti. Loro sono sempre vissuti completamente immersi in un mondo tecnologico rapidamente evolutivo fatto di computer, internet, telefoni cellulari, video game, Wi-Fi, i-Pod, i-Pad, tablet, social networks, Facebook, Twitter, YouTube. Non conoscono altro mondo che questo. Non conoscono alcun altro modo di muoversi nel mondo che questo. Loro vivono nel nostro stesso mondo tecnologico, ma in un diverso universo cognitivo. Loro sono zappiens, come dicono Wim Veen e Ben Vrakking: interconnessi e creativi. Una ne pensano e cento ne fanno. Letteralmente. Sono multitasking: mentre studiano ascoltano musica, inviano sms, con l’occhio fisso all’aggiornamento della chat. L’apprendimento avviene per «quanti di informazione», per bit, non per flussi continui. Immagine, suono e scrittura formano, al contrario, un continuo. Per noi sono dimensioni differenti. Per i giovani zappiens imparare è giocare. E nel loro mondo non si impara se non si gioca. Se non si giocano più partite contemporaneamente. Nei video game agiscono in mondi virtuali e apprendono come comportarsi nel mondo reale. Loro vivono nel paese delle meraviglie e non ne conoscono altri. Siamo noi che dobbiamo comprendere e adattarci alla nuova realtà. Anche e soprattutto se vogliamo contribuire a governarla. Perché non è sempre una realtà desiderabile. Come ci insegna il prossimo paradosso. 31 LA SCUOLA NELL’ERA DELLA TECNOLOGIA DIGITALE ROCCA 1 DICEMBRE 2011 ludibile ambiguità, la carica distruttiva e insieme la capacità creativa, che accompagna ogni grande innovazione tecnica. E, quindi, anche ogni grande innovazione nella tecnica del comunicare. Le nuove ICT (information and communication technologies) – computer, internet, telefoni cellulari, video game, Wi-Fi, i-Pod, i-Pad, tablet, social networks, Facebook, Twitter, YouTube – rappresentano nel loro insieme una recente, grande innovazione nella tecnica del comunicare. Per certi versi paragonabile all’invenzione della scrittura o all’invenzione della stampa. Grazie anche a questa innovazione, negli scorsi anni abbiamo lasciato la società industriale per entrare nella società dell’informazione e della conoscenza. Di più. Grazie a questa innovazione la comunicazione si pone quale paradigma fondante della nuova società globale in un’economia di flussi immateriali: la società e l’economia della conoscenza. Come il saggio e diffidente re Thamus, molti prevedono (e, anzi, già vedono) antichi equilibri, culturali e sociali, disfarsi all’impatto con le nuove, potenti tecnologie. Come Thamus, per esempio, alcuni psicologi, come Vittorino Andreoli, temono che «genererà oblio nelle anime dei zappiens», perché «essi cesseranno di esercitare la memoria, fidandosi della navigazione richiameranno le cose alla mente non più dall’interno di se stessi, ma dal di fuori, attraverso segni estranei»; ciò che gli informatici hanno trovato «non è una ricetta per la memoria ma per richiamare alla mente». Né voi insegnanti che pensate di utilizzare le nuove tecniche offrirete «una vera sapienza ai vostri scolari, ma ne darete solo l’apparenza perché essi, grazie a voi, potendo avere notizie di molte cose senza insegnamento, si crederanno di essere dotatissimi, mentre per la maggior parte non sapranno nulla; con loro sarà una sofferenza discorrere, imbottiti di opinioni, invece che sapienti». Non è del tutto infondata la paura di Thamus rinnovata da Andreoli. Rompere vecchi e consolidati equilibri produce macerie. Fa male. Mentre non sempre, o almeno non sempre immediatamente, dopo il terremoto si verifica la ricostruzione e si ricompongono i nuovi equilibri a un livello superiore. E in effetti il terremoto della comunicazione mediata attraverso l’elettronica e l’informatica sta sconvolgendo le solide procedure istituzionali che hanno caratterizzato la società industriale moderna. Sotto l’incalzare di computer, internet, telefoni cellula32 ri, video game, Wi-Fi, i-Pod, i-Pad, tablet, social networks, Facebook, Twitter, YouTube, si ricompongono nuove procedure, i cui profili non sono, per ora, molto chiari. Assistiamo, per esempio, alla progressiva mercificazione dell’informazione. Ciò avviene perché nella logica economica (che alcuni confondono con la logica elettronica) la conoscenza non è perseguita per se stessa, ma è legittimata dal suo rendimento. E, quindi, è sempre più considerata come una merce. Peraltro in una società in cui il consumo è subentrato al lavoro quale elemento fondante. Nella società dell’informazione, l’informazione è ridotta a un bene di consumo. Nella società dell’informazione, dunque, i mezzi di comunicazione – anche i nuovi mezzi di comunicazione come computer, internet, telefoni cellulari, video game, WiFi, i-Pod, i-Pad, tablet, social networks, Facebook, Twitter, YouTube – rischiano di non «offrire più sapienza» a chi li usa, ma «solo l’apparenza della sapienza», così che essi, gli zappiens, «potendo avere notizie di molte cose senza insegnamento, si crederanno di essere dotatissimi, mentre per la maggior parte non sapranno nulla; con loro sarà una sofferenza discorrere, imbottiti» come sono di merce-notizie, «invece che sapienti». L’analisi è inquietante, ma non è ancora completa. Continuiamo, come Thamus, a interrogare il dio dell’innovazione. Le nuove tecnologie informatiche non hanno abbattuto solo vecchie categorie. Hanno anche creato un nuovo spazio. Quello che lo scrittore di fantascienza William Gibson ha chiamato cyberspace. E che un gruppo di architetti e filosofi, riunitisi a Austin, presso la University of Texas, nel 1990 ha definito «ambiente interattivo virtuale generato dal computer». O meglio, generato da una rete sempre più estesa e interconnessa di computer. Anche in questo caso, qualcuno pignolo e diffidente come il vecchio re Thamus, si è fermato a osservare gli effetti negativi immediati, le macerie, prodotti dall’impatto della formidabile innovazione con i vecchi equilibri della comunicazione e, se volete, della sapienza. Si tratta di effetti reali, veri. Mica inventati. Che potremmo riassumere in tre grandi categorie: la perdita della fisicità, la crescita del rumore, la tendenza all’omologazione e alla integrazione. Qualcuno vede le nuove comunità virtuali che si sono create nel cyberspace e già immagina che in futuro, un futuro già iniziato, la rete ci catturi. Totalmente. Definitivamente. Che i zappiens vivranno tutti, biamo ora chiederci cosa fare per evitare il grande errore del lucidissimo re. Come fare per evitare il paradosso di considerare l’invenzione della scrittura una catastrofe per l’Egitto e per la sapienza degli Egiziani. Beh, considerato che l’alfabeto non può essere disinventato, l’unico modo per evitare di incorrere nell’errore di Thamus, è di impadronirsi della tecnica della scrittura e di cominciare a scrivere cose sapienti. Come hanno fatto, non senza difficoltà, i nostri antenati. Considerato che computer, internet, telefoni cellulari, video game, Wi-Fi, i-Pod, iPad, tablet, social networks, Facebook, Twitter, YouTube non possono essere distrutti e che la rete mondiale di computer non può essere destrutturata, considerato che noi adulti siamo entrati da immigrati in un universo digitale da cui non possiamo più uscire, l’unico modo per evitare di considerare le nuove tecnologie informatiche una catastrofe per il mondo e per l’umanità è di impadronirsi delle tecniche digitali e di dare, ciascuno, il proprio piccolo o grande contributo a ricostruire, al più presto e al più alto livello possibile, l’equilibrio della comunicazione e l’equilibrio del sapere che sarebbe stato sconvolto (o che potrebbe essere sconvolto) dai nuovi media. Questo, e non altro, è il nostro compito. il paradosso dei neuroni Il sistema evolutivo formato da computer, internet, telefoni cellulari, video game, WiFi, i-Pod, i-Pad, tablet, social networks, Facebook, Twitter, YouTube che ci consente di comunicare se non tutto con tutti, certo molto con molti. Consente, dunque, di creare una rete di relazioni sociali molto più estesa e molto più complessa che in passato. Ma costituisce davvero un nuovo universo cognitivo? O, detta in altro modo, ha bisogno di un altro cervello? Ancora. Il cervello dei nativi digitali è diverso – da un punto di vista strettamente neurofisiologico – da quello di noi, immigrati digitali e, a maggior ragione, dal cervello degli stranieri digitali, ovvero di coloro che, per una ragione o per l’altra, non hanno accesso alle nuove tecnologie ICT? Inutile dire che la ricerca sul rapporto tra mente, cervello e ambiente culturale è di antica data. E che ha prodotto numerosi risultati empirici che, tuttavia, hanno ancora bisogno di essere inquadrati in una teoria, ammesso che lo possano mai essere. Non è questo il luogo per passare in ROCCA 1 DICEMBRE 2011 come cervelli in una vasca, con un corpo decorporalizzato, in un mondo senza materia, in un’oasi telematica al cospetto di puri miraggi. Di ombre ad alta definizione che si muovono in un laboratorio di metafisica platonica. Le immagini, vagamente poetiche, sono un po’ esagerate. Ma, se non quello della perdita totale della fisicità, molti sostengono che il rischio di un certo sfilacciamento dei rapporti col mondo che si tocca per chi, come i zappiens, vive in rete, esiste. Molti, ancora, sostengono che l’unica cosa reale, nel mondo virtuale del cyberspace, è il rumore. Chi vi si addentra, si imbatte in una quantità di informazione così grande, e così poco strutturata, da essere, nel concreto, inutilizzabile. E in questo oceano di rumore, come avrebbe detto Thamus, è la sapienza dei zappiens ad annegare. In verità il rumore in rete è davvero cospicuo. E il rischio di esserne frastornati non è banale. Il terzo e, forse, il principale dei rischi che corrono i zappiens è l’omologazione culturale e, di conseguenza, l’integrazione in un unico e piatto «universo simbolico». Si riuscirà nel cyberspace a trovare un posto alle diversità culturali, alle tante sapienze, del pianeta? Il problema non è solo e non è tanto quello dell’omologazione linguistica, che pure c’è (in rete si parla inglese, ma i cinesi stanno già lavorando affinché domani si parli cinese). Il vero problema è quello della omologazione a un unico paradigma culturale. Già, perché, la globalizzazione dei flussi di informazione, ampliata dalla rete, non è democratica di per sé. Diventa democratica se il flusso è realmente bidirezionale (anzi, multidirezionale), se tutti hanno la concreta possibilità non solo di ricevere, ma anche di immettere informazione. E, soprattutto, se «la partecipazione dell’individuo non si limita al ruolo di osservatore voyeuristico» ma è davvero partecipazione attiva. Gran parte della popolazione del mondo – 5 miliardi di persone su 7 – hanno enormi difficoltà se non una vera e propria impossibilità ad accedere alla rete. È il digital divide. E non distingue solo il mondo ricco da quello povero. Attraversa anche i singoli paesi. Per questo, come vedremo, il problema del digital divide è parte dei moderni diritti di cittadinanza. Bene, dopo aver riconosciuto, cercando di avvicinarci per quanto possibile alla lucida diffidenza di Thamus, i rischi, reali, che corriamo tutti quali membri della nuova società dell’informazione; riconosciuti i rischi, specifici, che corrono i zappiens; dob- 33 LA SCUOLA NELL’ERA DELLA TECNOLOGIA DIGITALE ROCCA 1 DICEMBRE 2011 rassegna questi risultati. Tuttavia vale la pena ricordare che proprio nei giorni scorsi due neuroscienziati inglesi – Jérôme Sallet e Matthew Rushworth, dell’antica università di Oxford, in Gran Bretagna – hanno pubblicato sulla rivista Science i risultati di una ricerca nel tentativo di rispondere proprio alla domanda che abbiamo posto prima: il cambiamento delle dimensioni dell’ambiente sociale nel quale viviamo modifica, fisicamente, il nostro cervello? La risposta è sì. Sallet e Rushworth, in realtà, hanno studiato questa relazione sui macachi. Verificando che c’è un rapporto diretto e lineare tra la dimensione dei gruppi in cui vivono le scimmie e il volume di materia grigia che c’è nel loro cervello, anzi in specifiche aree del loro cervello, in particolare nei lobi frontali e temporali. I due ricercatori hanno anche verificato che più grande è il volume di materia grigia, maggiore è il successo sociale delle scimmie. Il macaco dominante ha, in genere, più materia grigia degli altri competitori. Lo studio non risolve il problema di cosa causa cosa. Se sono certe caratteristiche neuroanatomiche del cervello a favorire la costituzione di gruppi di dimensioni maggiori o se, viceversa, è il vivere in gruppi sociali più grandi che determina lo sviluppo di alcune strutture cerebrali. Noi sappiamo, tuttavia, che in certi casi è l’esperienza che determina l’evoluzione del cervello. È dimostrato, per esempio, che le aree cerebrali che si attivano quando un professionista suona un violino o un pianoforte sono del tutto diverse da quelle che si attivano quando un dilettante suona il medesimo brano con il medesimo strumento. Lo scorso 19 ottobre Ryota Kanai e Geraint Rees, dello University College di Londra, hanno pubblicato sui Proceedings of the Royal Society B uno studio sul cervello degli umani, in cui dimostrano che c’è una correlazione tra il volume di materia grigia (ovvero dalla quantità di neuroni) e la partecipazione a gruppi estesi su Facebook. Sì, hanno cercato di rispondere proprio alla nostra domanda: vivere in questo nuovo universo di relazioni sociali, vivere in questo nuovo universo cognitivo richiede una nuova mente e persino un nuovo cervello? La risposta è sì. Chi frequenta Facebook ha un cervello diverso da chi non lo frequenta. E l’intensità con cui vive nel nuovo universo è in relazione diretta con i cambiamenti cerebrali. Ancora una volta, però, non è chiaro se persone con più materia 34 grigia tendono a formare reti di relazioni digitali più estese o se, al contrario, è la partecipazione a reti digitali estese che favorisce lo sviluppo di materia grigia. Nulla vieta che ci sia un rapporto coevolutivo. Come ha dimostrato a livello filogenetico Robin Dunbar, il «processo di encefalizzazione» è in stretto rapporto coevolutivo con il «processo di socializzazione»: nel corso dell’evoluzione biologica il volume del cervello dei primati e degli stessi membri del genere Homo è aumentato in maniera abbastanza lineare con il numero dei membri dei gruppi sociali costituiti. Homo erectus o, dopo Homo sapiens ha un cervello più grande e costituisce gruppi più grandi di scimpanzé, australopitecine o anche di Homo habilis. Secondo Dunbar lo sviluppo è stato, appunto, di tipo coevolutivo. Un cervello più grande ha consentito la costituzione di gruppi più numerosi e la necessità di governo delle relazioni in gruppi più estesi ha consentito lo sviluppo di cervelli più grandi. È interessante notare, sostiene Dunbar, che lo sviluppo delle zone cerebrali connesse al linguaggio – come le aree di Broca o di Wernicke – si è avuta quando i membri del genere Homo hanno iniziato ad associarsi in gruppi così estesi che non era più possibile utilizzare i vecchi tipi di comunicazione fisica tra individui, come il grooming. A ben vedere è stata quella la prima forma di passaggio da una comunicazione sofisticata di tipo materiale a una forma di comunicazione sofisticata immateriale. Di recente Giacomo Rizzolatti e i suoi colleghi a Parma hanno scoperto i «neuroni specchio». Sono neuroni che si attivano sia quando un individuo – una scimmia o un uomo – compie un’azione (per esempio muove un braccio per afferrare una banana) sia quando la vede compiere. Non abbiamo la possibilità di addentrarci nel mondo dei neuroni specchio. Ma il gruppo Rizzolatti ha dimostrato che essi giocano un ruolo determinante nell’apprendimento, nello sviluppo del linguaggio (gestuale e orale) e nell’empatia, nella capacità di comprendere le intenzioni dell’altro. In altri termini avere relazioni con gli altri aumenta sia la conoscenza sia l’intelligenza sociale. A questo punto possiamo svelare il paradosso – anzi, i paradossi – dei neuroni. La partecipazione ai social networks e, più in generale, alla «vita digitale» immateriale sembra determinare un cambiamento fisico del cervello. Ma, viceversa, sembra anche che i cervelli fisicamente più predisposti partecipano in maniera più piena le nuove grammatiche della fantasia Nell’anno 1970 un giornalista italiano, Gianni Rodari, riceve il premio Andersen, il massimo riconoscimento per chi si occupa di letteratura per l’infanzia. E nel suo discorso di ringraziamento spende più di metà del tempo parlando del signor Isacco Newton. Strano, vero? Niente affatto. Era il discorso più naturale che potesse fare. Era un discorso che può insegnarci qualcosa. Che può insegnarci a insegnare. E cercheremo di dimostrarlo. Molti critici ormai riconoscono la grandezza assoluta di Gianni Rodari, anche in mancanza di un capolavoro assoluto. Alcuni lo collocano non solo tra i grandi della letteratura per l’infanzia, ma tra i grandi della letteratura tout court (anche se il suo nome raramente compare nei manuali universitari). Pochi però – anzi, a dir la verità, nessuno finora – ha sottolineato come alla base della sua proposta ci sia un ménage à trois tra letteratura, filosofia e scienza. O meglio, ci sono la (critica alla) scienza e la (critica alla) tecnologia. Eppure la sua «vocazione profonda» per la filosofia della natura e per la filosofia della tecnica Rodari l’ha espressa, per così dire, in intenzioni e in opere. Ovvero l’ha teorizzata e negli ultimi vent’anni, della sua vita, l’ha fatta intimamente percolare in tutte e ciascuna delle sue opere. Basta, d’altra parte, dare un fugace sguardo alla sua sterminata letteratura per rendersene conto. All’inizio degli anni ’50 i protagonisti delle sue prime (e bellissime) favole sono Cipollino, Pomodoro, il Principe Limone. Personaggi, per così dire, «frutta e verdura». Espressione del mondo che Rodari, giornalista e scrittore comunista, ha ancora come riferimento. «Quei personaggi mi piacevano: mi ricordavano i miei primi anni all’«Unità», quando lavoravo in cronaca, e mi occupavo di questioni alimentari, e ogni giorno facevo il giro dei mercati, guardavo i prezzi, e parlavo con commercianti e massaie, e scoprivo tanti problemi nella borsa della spesa della gente», ricorderà in Storia delle mie storie. Ma tra la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni ’60 i luoghi e i protagonisti delle sue fiabe cambiano. Diventano affatto diversi. I luoghi non sono i mercatini rionali, ma i pianeti più lontani e lo spazio cosmico. I personaggi non sono quelli «frutta e verdura», ma astronauti, robot, scienziati. Persino i pulcini, sono pulcini cosmici. Perché a un certo punto Rodari passa da Cipollino al Pulcino Cosmico? Dal mercato di quartiere ai laboratori scientifici? Dall’aritmetica del fruttaiolo alla matematica degli insiemi. La causa prossima è ovvia. Perché dopo il lancio dello Sputnik del 1957 il cielo comincia a popolarsi di razzi, di satelliti artificiali, di astronauti. È una successione rapida, impressionante. Tutti colgono la novità: il mondo sta cambiando. Lo spazio sembra ridursi a cortile di casa. Con le nuove tecnologie e le vecchie risse. Ma pochi colgono la profondità del nuovo. Se il mondo cambia, cambia l’uomo. Gianni Rodari è tra i primi ad accorgersi che la novità introdotta dalla tecnoscienza è epocale. Un autentico spartiacque. E da quel momento inizia a scrivere, come sostiene nell’introduzione a Il Pianeta degli Alberi di Natale pubblicato nel 1962, per «i bambini di oggi, astronauti di domani». Egli avverte che i bambini di oggi – i bambini nati intorno alla metà degli anni ’50 – sono in una condizione affatto nuova. A differenza dei loro genitori, sono destinati a diventare astronauti, useranno le nuove tecnologie per viaggiare nello spazio. Rodari sente che la sua è una generazione di «immigrati spaziali» chiamata a trasmettere conoscenze e valori – a insegnare – ai «nativi spaziali». ROCCA 1 DICEMBRE 2011 alla «vita digitale» immateriale. Tra questi due corni dell’evoluzione culturale fisicità e virtualità non si gioca solo il rapporto tra «immigrati digitali» e «nativi digitali». Ma si gioca, in maniera tutta da scoprire, anche la capacità di apprendimento scolastico dei «nativi digitali». Tenuto conto che il ruolo della genetica – dati i tempi dell’evoluzione biologica – è minimo, mentre è massima la plasticità del cervello umano: ovvero la capacità dei singoli di adattarsi in tempo reale all’ambiente che cambia. Cosicché non dobbiamo temere il nuovo universo cognitivo in cui siamo immersi. Il nostro cervello – a maggior ragione quello dei «nativi digitali» – è capace di accettare la sfida. Così come il cervello si trasforma se un violinista dilettante diventa professionista – ovvero quando lo stimolo da discontinuo e poco sistematico, diventa continuo e sistematico), è capace anche del contrario: adattarsi a un flusso di informazioni discontinuo e multidirezionale. Il nostro cervello è capace di adattarsi a percorsi formativi lineari che richiedono un’alta capacità di concentrazione a percorsi formativi discontinui, che richiedono la capacità multitasking. 35 LA SCUOLA NELL’ERA DELLA TECNOLOGIA DIGITALE ROCCA 1 DICEMBRE 2011 Quella dei «bambini di oggi, astronauti di domani» è una prospettiva che Gianni Rodari giudica realistica. Egli immagina davvero che di lì a qualche lustro lo spazio sarà ridotto a cortile di casa dell’umanità. Ma è anche una metafora. Una potente metafora che ci parla di una transizione, appunto, più grande e più profonda. Gianni Rodari percepisce che il mondo sta entrando in una nuova era, che la società umana sta entrando in una nuova dimensione: l’era e la società che Norbert Wiener proprio in quegli anni va definendo dell’informazione e della conoscenza. Si tratta di una transizione epocale. La terza grande transizione nella storia dell’umanità: paragonabile a quella che 8.000 anni fa ha trasformato le società fondate sull’economia della caccia e della raccolta in società fondate sull’economia della coltivazione e dell’allevamento; e a quella che meno di tre secoli fa ha creato una società fondata sull’economia industriale. In questa transizione la scienza assume un ruolo da protagonista. Perché l’era della conoscenza è caratterizzata sia dalla produzione incessante di nuova conoscenza (e niente più della scienza produce in maniera incessante nuova conoscenza) sia dall’innovazione tecnologica (e niente più della nuova conoscenza prodotta dalla scienza alimenta l’innovazione tecnologica). La scienza percola nella società e la rimodella. La novità è senza precedenti. E dunque, sostiene Gianni Rodari, anche (e soprattutto) chi scrive per l’infanzia ne deve tener conto. Nulla, infatti, è più come prima. «L’idea che il bambino d’oggi si fa del mondo è per forza tutt’altra da quella che se ne può essere fatta, da bambino, il padre stesso da cui lo separano pochi decenni», scrive nella sua Grammatica della fantasia pubblicata nel 1973. Aveva ragione. Ha più che mai ragione. I nostri figli, tra la fine del XX secolo e questo inizio del XXI secolo, si stanno facendo un’idea del mondo in maniera affatto diversa rispetto a quella che ne siamo fatti noi padri, tra la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni ’60 del XX secolo. E noi stessi, allora, primi bambini con un futuro da astronauti, ci siamo fatti un’idea del mondo in maniera completamente diversa rispetto a quella che avevano maturato i nostri padri, trent’anni prima, tra la fine degli anni ’20 e l’inizio degli anni ’30. Mentre quella dei nostri padri non era molto diversa da quella dei nostri nonni e dei nostri bisnonni. I nostri figli, nati agli sgoccioli del XX secolo e in questo inizio del XXI, sono vissu36 ti (e vivono tuttora) non solo in case ipertecnologizzate – televisioni con decine di canali, play station, iPod e soprattutto computer connessi con la grande rete globale – ma in un universo cognitivo completamente diverso. Un bambino oggi è naturalmente in condizioni di fare operazioni diverse, forse anche cognitivamente più complesse, rispetto a quelle realizzate dal padre qualche decennio prima e dal padre del padre nella generazione precedente. Nulla, dunque, più della scienza e della nuova tecnologia collegata alla scienza ha modificato il modo in cui le nuove generazioni si fanno un’idea del mondo. È per questa intuizione (e per come l’ha trasmessa) che Gianni Rodari appartiene a pieno titolo ai quei grandi poeti e scrittori, espressione della vocazione più profonda della letteratura italiana, che da Dante a Galileo, da Leopardi a Calvino, hanno cucito incessantemente le fila di quell’ordito che tiene insieme la letteratura, la filosofia e la scienza. È questa intuizione che noi tutti dobbiamo cogliere, io da giornalista e scrittore, voi da insegnanti: dobbiamo reinventare la grammatica della fantasia e della trasmissione della conoscenza. È importante, ma non decisivo, il tipo di strumenti, nuovi o antichi, che utilizziamo. Quello che è importante è raccontare ai bambini, agli adolescenti, ai giovani e anche agli adulti sia il mondo nuovo in cui ci hanno sbarcato la scienza e la tecnologia sia il nuovo modo di pensare il mondo nell’era della scienza e della tecnologia. Tenendo conto che gli oggetti di cui parliamo – i computer come li conosciamo oggi, il web come lo conosciamo oggi, i mobile phone, il Wi-Fi, i video game, gli i-Phone, gli i-Pod, gli i-Pad, i tablet, i social network, Facebook, Twitter, YouTube – già domani saranno oggetti del passato. Quello che resterà sarà la necessità di imparare ad agire criticamente in un mondo tecnologico in così rapida evoluzione da sbarcarci continuamente in nuovi universi cognitivi. Eccola, dunque, la nuova dimensione. Siamo sbarcati nell’era del «multiverso cognitivo» degli infiniti universi cognitivi. In cui siamo tutti «immigrati» e nessuno è «nativo». Siamo tutti astronauti esploratori. Dobbiamo evitare l’errore di comportarci come i nostri padri, esploratori bianchi, e imparare, come Alice (e come Rodari) a elaborare le nuove «grammatiche della fantasia». Pietro Greco Lampedusa senza parole C he Lampedusa sia luogo di confine è risaputo. Al limite dell’Europa dal punto di vista politico, emersione di terra africana sul piano geologico, quest’isola convive da sempre con la sua condizione di frontiera. Ma esiste un’ulteriore linea di demarcazione che percorre quest’isola in modo più o meno visibile, più o meno esplicito, ed è un confine antropologico e linguistico che delimita zone inaccessibili all’ascolto e al racconto, e soprattutto all’informazione. Frontiere fra il «noi» e il «loro» oggetto di sorveglianza armata, ma soprattutto blindate da una circolare del Ministro dell’Interno Maroni (prot. n.. 1305 del 01/04/ 2011), che vieta alla stampa l’accesso ai centri di Prima Accoglienza Temporanea (Cpt) così come ai Centri di Identificazione ed Espulsione (Cie) sul resto del territorio nazionale. Così quando un nuovo sbarco riversa centinaia di migranti sulle coste lampedusane, dando il via all’efficiente operazione di conteggio, primi accertamenti medici, accompagno ai servizi igienici, e infine trasporto al Centro di Contrada Imbriacola, l’occhio della macchina da presa e gli obiet- tivi dei fotografi sono tollerati purché si mantengano entro la distanza minima imposta al fine di non intralciare le manovre di attracco e primo soccorso – bene allora fotografare i migranti da una certa distanza, ma guai a parlare con loro, anche quando ci si attenga al margine imposto, guai a chiedere loro un semplice – Come stai? o Come ti chiami? Da dove vieni? Gli addetti alla sicurezza non lo consentono. Restano quindi solo le immagini, fatte di visi spaventati, di corpi sfibrati, disidratati dalle lunghe traversate in assenza di acqua e cibo. Primi piani drammatici, o panoramiche su volti che si sommano a creare una moltitudine nella quale l’identità muta, spogliata della possibilità di raccontarsi, è sostituita dall’identificazione e dall’enumerazione. Sui giornali, anche quelli teoricamente capaci di rivolgere uno sguardo critico circa le politiche immigratorie volute dalle istituzioni italiane ed europee, il messaggio giungerà viziato dall’impossibilità di presentare i migranti se non come massa, come cifra depersonalizzata anziché come narrazione. E tali resterebbero se non fosse per l’instancabile lavoro di associazioni, Ong, 37 . ROCCA 1 DICEMBRE 2011 testo di Luca Zanchi foto di Daria Benedetti LAMPEDUSA SENZA PAROLE come Terre des Hommes, Save the Children, Medici senza Frontiere, e in particolare per il ruolo rivestito dalle molte donne che ne fanno parte. Sono queste ultime che munite di badge lasciapassare e magliette delle rispettive associazioni, attraversano un confine che oltre a essere fisico è comunicativo, tentando con il proprio ascolto una faticosa integrazione delle dure, spesso violente, dinamiche dell’immigrazione e della permanenza nel Cpt. Laura e Marta raccontano ROCCA 1 DICEMBRE 2011 Laura Verduci, 32 anni di Palermo, mediatrice culturale di Terre des Hommes, ci racconta dei giovani minorenni alloggiati presso la ex base Nato Loran, situata all’estremità occidentale dell’isola, circondata da scogliere a picco sul mare. Un luogo panoramico per un turista, eppure invivibile per i giovani migranti che le dicono «Laura, il mare è troppo vicino... la guerra è troppo vicina, fate in modo di portarci lontano da qui, la Libia è troppo vicina...». Prosegue Laura «Giusto questa mattina due ragazzi arrivati ieri mi dicevano: ma come veniamo trasferiti nelle comunità?... Mi avranno chiesto venti volte se la nave era sicura... e io ho ripetuto loro che era una nave grandissima, per le vacanze dei ricchi. E uno di loro mi ha chiesto: ma c’è un punto della nave in cui io possa mettermi per non vedere il mare?... e mi ha fatto una gran tenerezza...». Ma malgrado le possibili rassicurazioni ricevute, le loro notti insonni tormentate dal rumore del mare o da incubi, si protraggono ben oltre le 2-4 notti di prima accoglienza cui sarebbero deputati i centri, estendendosi spesso fino al mese e mezzo, e quello che dovrebbe essere un luogo di passaggio diviene un limbo. Se non fosse per i resoconti che Laura affiancata da Marta Bellingreri, 25 anni di Palermo, interprete di Terre des Hommes, raccoglie e invia due volte a settimana all’organizzazione, nulla resterebbe di queste presenze quasi fantasmatiche. E invece Laura e Marta ci raccontano di come i ragazzi si siano organizzati per rastrellare un po’ di terriccio dal terreno della base, e aggiungendovi acqua ne abbiano fatto sculture (una lumaca e una tartaruga) da regalare loro prima di partire. Purtroppo non è possibile fare fotografie degli altri lavori realizzati dai ragazzi, tan38 chiusura totale all’informazione Di fatto si è verificato un cortocircuito comunicativo tale da rendere difficile portare «dentro» a un centro un libro o un paio di scarpe, impossibile per un fotoreporter e un giornalista accedervi per ascoltare, e rischioso per le operatrici delle Ong e delle altre organizzazioni portar «fuori» le verità cui hanno assistito – queste ultime entrando in conflitto diretto con le autorità perderebbero infatti l’opportunità di continuare a operare dall’interno. Manca l’informazione, o meglio, manca la libertà di un certo tipo d’informazione: ci dice Laura, «Ho visto moltissimi giornalisti cercare lo scoop, e invece penso ci si debba ‘de-giornalizzare’, essere cauti, avere a cuore non solo le storie dei migranti ma anche quelle dei lampedusani. Prendere coscienza delle conseguenze del veicolare la notizia in un certo modo. La dinamica dello scoop va contro le necessità di una narrazione reale e la tutela di migranti e lampedusani. Lampedusa è un’isola di confine e gli immigrati arrivano dagli anni 80, è un posto di mare aperto, di pescatori. Finché l’altro non lo vedi è clandestino. Allontanare le due alterità è funzionale alla creazione di un’Italia paurosa e razzista. Al contrario la vicinanza sarebbe in grado di attivare le dinamiche della pietà». Tornando in aereo a Roma, Daria De Benedetti, fotoreporter che mi ha accompagnato sull’isola nella speranza di poter dare un volto alle storie eventualmente raccolte, mi confida «Arrivata a Lampedusa ho incontrato una chiusura che ha superato qualunque altra situazione vissuta in precedenza nel mio lavoro di fotoreporter. In qualsiasi paese esistono resistenze e ostacoli all’accesso dell’informazione, ma in questo caso la chiusura è stata totale, venendo io tenuta lontana, impossibilitata a realizzare qualunque scatto fotografico che in ogni caso non avrebbe avuto alcun senso se non accompagnato da una storia». È un mondo, quello di Daria, di un certo giornalismo etico, che assieme alla realtà delle organizzazioni umanitarie come quella di Laura e Marta, anela alla comunicazione e all’ascolto dei vissuti, gli unici fattori in grado di trasformare fredde operazioni di prima accoglienza e identificazione, in occasioni di autentica integrazione. E invece restano brandelli di fatti che sono facile oggetto di distorsione e manipolazione mediatica. Dice Daria: «Il margine di libertà condizionata offerto sull’isola ai fotografi di fatto alimenta un circolo vizioso – quello che inculca la paura dello straniero, del ‘clandestino’ – parola che rifiuto. Dovremmo parlare di migranti, soprattutto nell’attuale momento di guerra. A questi non si può negare asilo, mentre invece attualmente si cerca di generarne la paura e a questo fine funzionale è la distanza fabbricata dai provvedimenti e dalle politiche di Maroni e dell’attuale governo». Non resta che denunciare, deponendo i titoli facili, fatti di numeri e propizi agli allarmismi pre-elettorali, una inaccettabile politica disumanizzante che sta imponendo di non dare voce al vissuto dei migranti. Eppure se vi è una lezione, appresa dagli orrori della seconda guerra mondiale, impressa a chiare lettere nelle Costituzioni d’Europa, è proprio la necessità di non tornare a ridurre l’altro al numero, integrando le ragioni della funzionalità, della sicurezza e dell’economia, con quelle dell’umanità e della pietà. ROCCA 1 DICEMBRE 2011 tomeno è possibile dotarli di altri strumenti (colori, pennelli, pennarelli fogli) perché qualunque fornitura deve passare per Lampedusa Accoglienza, la società appaltatrice dei servizi ai centri, e questo impedisce che la donazione, il contributo gratuito, attraversino il confine fra il fuori e il dentro di questi non-luoghi. E così Laura e Marta ci mostrano le piccole fototessere che un paio di ragazzi hanno donato loro come ricordo, e ci raccontano orgogliose di essere riuscite a introdurre un libro (Alice nel Paese delle Meraviglie) nella Base e di averlo potuto leggere... o di come hanno insegnato a cantare Bella Ciao ai ragazzi (al momento dell’imbarco, quando finalmente hanno lasciato l’isola, sul pontile della nave da crociera che li avrebbe portati a Livorno, un paio di loro gliel’hanno ricantata come saluto...). Ma queste poche, devastanti immagini sono solo scorci che le ragazze ci offrono non tanto per farci intravedere la realtà dei centri, quanto per darci una misura del vuoto informativo, dell’ignoranza e della distanza antropologica prodotte dalle politiche immigratorie del nostro paese, con le relative conseguenze mediatiche. Luca Zanchi 39 RIVOLUZIONE DEMOGRAFICA un’opportunità d’ Cristiana Pulcinelli P iù che cambiamento, si dovrebbe parlare di una vera e propria ‘rivoluzione demografica’: nel 2000, nel mondo c’erano circa 600 milioni di persone con più di 60 anni, nel 2025 ce ne saranno 1,2 miliardi e 2 miliardi nel 2050. Inoltre le donne vivono più a lungo degli uomini virtualmente in tutte le società. Di conseguenza nella fascia di popolazione molto anziana il rapporto fra donne e uomini è di 2 a 1. L’età media è salita in modo vertiginoso: in Giappone è addirittura raddoppiata dal 1950 ad oggi, raggiungendo i 44,6 anni. L’Italia è poco al di sotto con un’età media della popolazione di 44,3 anni. Il fenomeno è dovuto a due fattori: da un lato più persone vivono più a lungo, dall’altro i tassi di fertilità continuano a scendere. Risultato: una società diversa. Come si prepara il mondo degli affari e del lavoro? Un rapporto dell’Economist Intelligence Unit (una società di ricerca che fa parte del gruppo dell’Economist) sponsorizzato dalla compagnia di assicurazioni Axa prova a rispondere a questa domanda. Il titolo del rapporto è significativo: A silver opportunity? (Un’opportunità d’argento?). Si parla infatti dei rischi e delle opportunità che derivano dal cambiamento demografico a cui stiamo assistendo. La Bmw per la verità ha già cominciato. L’azienda automobilistica ha fatto partire nel 2007 un progetto in uno stabilimento pilota per capire quali modifiche sono necessarie nell’ambiente di lavoro quando gli impiegati sono più in là con gli anni. Per far questo, l’impianto pilota ha impiegato operai con età media uguale a quella che ci sarà in Germania nel 2017. I cambiamenti apportati non sono grandi, ma significativi. Le piattaforme su cui lavorano gli operai sono state fatte in legno invece che in cemento per ridurre l’impatto sulle articolazioni; sono state inserite sedie negli ambienti di lavoro per permettere agli operai di sedere durante alcuni compiti che normalmente vengono invece eseguiti in piedi; sono stati dati in dotazione occhiali con lenti d’ingrandimento per i lavori di precisione; sono state aumentate le rotazioni dei turni per evitare l’affaticamento del personale. In tutto la Bmw ha apportato circa 70 modifiche, per un costo complessivo di 40.000 euro. In compenso, la produttività è aumentata del 7%, nessun difetto è stato riscontrato sulla catena di montaggio e l’assenteismo è diminuito in modo sostanziale. Risultati simili a quelli che si ottengono con lavoratori di 5-10 anni più giovani. stabilimento pilota per anziani L’Italia, paese dei paradossi, pur avendo la più alta incidenza degli anziani sulla popolazione è anche uno dei paesi con tasso di occupazione dei lavoratori anziani più basso, come scrive Enrico Pugliese nel libro «La terza età» (Il Mulino 2011). In Italia quindi tra gli anziani c’è meno gente che lavora rispetto agli altri paesi europei. Tuttavia, anche qui dovremo porci prima o poi il problema. Che, come spesso accade, ha due facce. Le imprese infatti devono anche ripensare i prodotti e i servizi da vendere a consumatori più in là con gli anni. Se da un lato, infatti, le aziende dovranno preoccuparsi di avere una forza lavoro meno efficiente e gli stati di pagare più pensioni e più cure sanitarie, d’altro lato – ROCCA 1 DICEMBRE 2011 I ricercatori dell’Economist Intelligence Unit hanno interpellato i dirigenti di alcune aziende europee, asiatiche e nordamericane. Si tratta di aziende impegnate in settori diversi: servizi finanziari, telecomunicazioni, servizi sanitari, farmaceutica, ma per tutti il problema principale è capire come comportarsi con una forza lavoro più anziana. La storia della Bmw, a questo proposito, è emblematica. Tra i paesi occidentali, la Germania è uno di quelli con l’età media più alta: si calcola che nel 2025, oltre un tedesco su cinque avrà più di 65 anni. Una transizione demografica con cui anche l’industria dovrà fare i conti. 40 nuovi consumatori tà d’argento? si legge nel rapporto – una popolazione più anziana è una popolazione che consuma più di quanto risparmi. Se consideriamo il ciclo di vita economico di un individuo, vediamo che il lavoratore più giovane non risparmia molto, al contrario è portato a chiedere prestiti. Le persone tra i 35 e i 55 anni, invece, sono nel periodo della vita in cui si tende a guadagnare di più ma anche a risparmiare di più. Dopo il pensionamento, la bilancia torna a pendere dalla parte dei consumi. Inoltre, gli anziani nei paesi ricchi del mondo sono sicuramente più in salute i quelli dei paesi in via di sviluppo, specialmente quelli che fanno parte della generazione del baby boom che oggi si stanno avvicinando alla pensione. Persone in buona salute e con una maggiore disponibilità sia di soldi che di tempo: l’ideale per chi cerca nuovi consumatori. E infatti, negli ultimi vent’anni i consumi tra gli europei dai cinquant’anni in su sono cresciuti tre volte più velocemente che tra il resto della popolazione, secondo il National Endowment for Science, Technology and Arts del Regno Unito. chiamento della popolazione è tipicamente accompagnato da un aumento del carico delle malattie non trasmissibili, come quelle cardiovascolari, il diabete, la malattia di Alzheimer e altre patologie neurodegenerative, tumori, malattie polmonari croniche ostruttive e problemi muscoloscheletrici. Come conseguenza, la pressione sul sistema sanitario mondiale aumenta. Le malattie croniche impongono alla popolazione anziana un peso elevato in termini economici a causa proprio della lunga durata di queste malattie, della diminuzione della qualità della vita e dei costi per le cure. Si prevede che le spese pubbliche per l’assistenza sanitaria potrebbero aumentare, nel periodo 2000-2050, da 0,7 a 2,3 punti del Pil. Secondo il rapporto «Stato di salute e prestazioni sanitarie nella popolazione anziana» del Ministero della Salute, la popolazione anziana oggi in Italia determina il 37% dei ricoveri ospedalieri ordinari e il 49% delle giornate di degenza e dei relativi costi stimati. invecchiare è un privilegio e un costo Eppure, ci sarebbe un altro vantaggio dell’invecchiamento ancora da scoprire. Come spiegano Chiara Saraceno e Manuela Naldini in «Conciliare famiglia e lavoro» (Il Mulino 2011) «L’invecchiamento della popolazione non ha portato solo a un aumento dei componenti anziani potenzialmente fragili nella rete familiare. Ha anche portato a un aumento dei potenziali carer familiari: mogli e mariti anziani, ma ancora in buona salute, che possono teoricamente prendersi cura in tutto o in parte del coniuge più fragile, nonne e nonni in salute e attivi che possono teoricamente dare una mano ad accudire nipoti (poco numerosi) non ancora autonomi». Le risorse degli anziani sono ancora tutte da scoprire. Certo, dicono le autrici, passare dalla possibilità teorica alla pratica dipende da molte cose. In primis, dalle politiche sociali del paese. ROCCA 1 DICEMBRE 2011 La salute è un tema centrale in una società di anziani. Tanto che l’Organizzazione mondiale della sanità ha dedicato una sezione speciale del suo sito a questo argomento. «Invecchiare è un privilegio e una mèta della società», è uno dei messaggi proposti dall’Oms. Certo, un privilegio che riguarda soprattutto i paesi ricchi: in Europa, ad esempio, una persona su 5 ha più di 60 anni, mentre questo rapporto scende a 1 su 20 in Africa. Tuttavia, come in altre aree in via di sviluppo, il processo di invecchiamento della popolazione in Africa è più rapido che nei paesi ‘sviluppati’, quindi c’è meno tempo per adottare le necessarie misure per far fronte alle conseguenze dell’aumento della popolazione anziana, fra cui l’aumento della frequenza di patologie croniche tipicamente legate all’invecchiamento. Infatti, l’invec- risorse da scoprire Cristiana Pulcinelli 41 ASSALTO AI GRANDI MAGAZZINI compro dunque esisto Claudio Cagnazzo n fila. Disperatamente in fila. Come le truppe allo sbando della Grande Guerra, di tanto Neorealismo, in attesa della scodella del pasto. Con una differenza: la sconfitta segnata inesorabilmente nei volti dei soldati, la sete di vittoria, invece, dipinta nei volti dei cittadini indisciplinatamente spalmati davanti ai grandi magazzini romani che avevano messo in liquidazione, a prezzi stracciati, beni di consumo dei più vari. Dalle lavatrici ai computer, passando per i più sofisticati strumenti di comunicazione moderni. Pad o Phone, o comunque si chiamino. Un delirio antropologico, capace di fermare interi quartieri di una città. Come la pioggia torrenziale, o l’esondazione del Tevere, ma per fortuna senza pericoli per i corpi. Con qualche pericolo, però, presente e futuro per le menti. I trionfo della merce ROCCA 1 DICEMBRE 2011 Una impressionante fiumana, mossa secondo alcuni dal bisogno. Dalla mancanza di soldi e quindi dalla possibilità di comprare senza spendere troppo. Possibile che sia così. Di certo per qualcuno che avesse bisogno di una lavatrice o un frigo, non più beni voluttuari, ma ormai coessenziali al nostro vivere quotidiano. Qualcuno non in grado persino di comprare a certi prezzi qualche ricambio. Che so, un tubo di scarico. Un piano frigorifero. Scene da anni 50. Scene del nuovo secolo, da capitalismo finanziario in crisi. Altri hanno letto nell’evento non il segno di una crisi totale, da miseria, ma semplicemente una variabile della sana tendenza italiana al risparmio. Qualcosa di simile ai bollini per 42 i punti, che tante massaie raccolgono. Non siamo poveri insomma, ma risparmiare comunque e dovunque, è come una missione. Altri ancora, infine, ci hanno visto la corsa ormai irrefrenabile verso i gadget tecnologici. Il segno di un mondo che non riesce più a comunicare direttamente e che, chiuso negli spazi della tecnologia comunica di sé e del mondo senza dover ricorrere al confronto diretto con l’interlocutore. Solitari e tecnologizzati, come forse erano in gran parte le persone in fila, in un giorno di ottobre romano. E magari, aggiungiamo noi, forse eravamo di fronte anche semplicemente a numerosi appassionati di brillanti novità. Come un tempo per la moto, o la lambretta. Semplicemente dei curiosi inappagabili. Una serie di congetture decisamente suffragate, tutte, da qualche evidente indizio. Non ultimo le stesse parole degli intervistati dalle varie Tv, o persino la facies di alcuni di loro. Secondo gli schemi di una fisiognomica rivisitata per l’occasione. Congetture a cui però ci preme aggiungerne un’altra, meno evidente, ma, secondo noi, addirittura più cogente. E cioè la necessità di rassicurazione che l’esercito in fila, evidentemente, mostrava. merce come feticcio Rassicurazione per la paura magari della povertà, di tornare ai tempi della penuria post bellica. In fondo frigo, lavatrice, lavastoviglie, computer e nuovi strumenti, ancora più sofisticati, nel loro attestarsi continuo e profondo nei vani delle case, nelle cucine odorose, nei salotti, a far mostra di sé, con la loro modernità, tra divani di trenta anni fa e la immancabile vetrinetta da tenenza tifosa coltivava. Comprare, anche quando i soldi scarseggiano, per cercare un’unità fittizia nella gioia di chi quella merce gratificherà, figli, compagni, amici o, alla fine te stesso, che una qualche gioia effimera dovrai pure procurartela. Comprare per riscattare sentimenti bruciati. Comprare perché di fondo dietro ogni realtà, materiale o spirituale, che sia, apparente o no, si avverte che non c’è nulla, se non il vuoto. Comprare in continuazione per dare solidità al proprio mondo, che ha perso, diciamolo, qualsiasi sacralità. Per tutti, credenti, atei, agnostici o indifferenti. La sacralità che avvertivi quando nasceva un figlio e sentivi la presenza della vita che continuava come qualcosa di straordinario. La sacralità persino dell’amicizia che appariva un legame stretto da qualcosa di immateriale che trascendeva tutti. La sacralità del sogno che vedeva proiettare sul futuro la tua, la nostra immagine, come in una sfera magica e piena di sorprese. La sacralità del vivere, che poteva esserci anche senza riconoscere il sacro della divinità. La sacralità nei gesti e nelle cose che si è perduta. E che noi cerchiamo di riprenderci attraverso l’unico modo che ci è rimasto, circondando gli oggetti, la merce dunque, di un valore superiore. Chiedendo a lei di colmare le nostre paure. Cercandola anche dove essa è più ordinaria, come in certi grandi magazzini, purché ci dica che la nostra vita abbia ancora un senso. Che ciò che facciamo ci fa esistere. Che rinnovando gli oggetti, rinnoviamo anche noi stessi e riconquistiamo appunto il diritto di esistere. ROCCA 1 DICEMBRE 2011 modernariato, stanno esattamente a mostrare la nostra avvenuta integrazione nella società dei consumi. Il nostro partecipare alla festa della merce che dilaga. Comprare a prezzi stracciati per non apparire straccioni. Unire l’utile con il dilettevole. Un’occasione imperdibile per gente spaventata da un mondo ormai incontrollabile. Da società atomizzata, in cui l’anonimato regna sovrano, persino nei luoghi di lavoro, o tra le mura di casa. Comprare per essere tra gli altri, come gli altri. Rassicurazione anche dunque da manuale di psicologia sociale, ovvero dalla paura di non essere omogenei al mondo circostante. Che il vicino di casa ti possa giudicare. Che un parente in visita possa dirti «ma non hai il televisore?». Che il compagno di classe di tuo figlio arrivi magari con un computer portatile, mentre il tuo fanciullo, che ami apparentemente tanto, non possiede neppure un computerino di terza mano. Paura di esserci dunque, ma da invisibile, come se in fondo non ci fossi, perché la cornice del tuo quadro vitale non esiste o si è frantumata. Comprare per esistere ancora. Comprare per non morire negli sguardi di chi ti circonda. Rassicurazione infine dalla paura di vivere senza più punti di riferimento. Surrogare con l’acquisto comunque di merce, le tradizioni che spariscono. La famiglia che sembra appassire nella mente e nei cuori della gente. Le vacanze al mare che univano per 15 giorni più di un anno insieme senza parlarsi. Gli amici del bar che sono scomparsi per rifugiarsi nei tinelli a guardare la tv. Lo stadio la domenica, che non si frequenta quasi più e se lo si fa, non si ritrova quell’humus da complicità paesana che la comune appar- Claudio Cagnazzo 43 . NUOVA ANTOLOGIA Jean Marcel Adolphe Bruller (Vercors) e la grande letteratura passa anche per il silenzio Giuseppe Moscati N essun dubbio: lo scrittore, incisore e illustratore francese Jean Marcel Adolphe Bruller (Parigi, 1902– 1991), meglio noto con lo pseudonimo di Vercors, rimarrà sempre l’autore dell’eccezionale Le silence de la mer. Nonostante abbia scritto altri testi di narrativa, saggistica e teatro di un certo interesse, è a quelle 96 pagine – pubblicate per i tipi delle clandestine Éditions de Minuit di Parigi nel 1942 – che il nome di Bruller-Vercors sarebbe rimasto legato a doppio filo. Novantasei pagine che sarebbero diventate la bandiera della Resistenza, il simbolo della Liberazione. al di qua e al di là del silenzio ROCCA 1 DICEMBRE 2011 Eppure gli altri libri di Bruller, discendente di emigrati ebrei, meritano attenzione: il romanzo breve Le armi della notte (’46), il racconto fantastico Animali snaturati (’52), le autocaricature di 21 ricette di morte violenta (’22)... Quest’ultimo mette in evidenza l’eleganza del tratto del disegnatore satirico Bruller: è una gustosa e fine presentazione di minacce di possibili suicidi che, nascendo con l’intento di vincere le resistenze di una ragazza di cui l’autore è innamorato, hanno dell’incredibile, dello spettacolare, dell’esilarante. E poi varie altre illustrazioni, libri per ragazzi, adattamenti teatrali, un libro di «memorie apocrife» come Moi, Aristide Briand (’81), sul socialista indipendente che all’indomani della Prima guerra mondiale rappresentò la volontà politica di riappacificare francesi e tedeschi anche in vista degli Stati uniti d’Europa. Del ’57 il ‘congedo’ dal Partito comunista francese con un pamphlet molto ironico dal titolo P. P. C., acronimo di Pour prendre congé, del ’79 il saggio politico Basta con le menzogne!. Il cammino verso la stella (La marche à l’étoile del ’43) prende le mosse dall’esperienza del padre che, appena quindicenne, aveva raggiunto a piedi la Francia dei suoi genitori dall’Ungheria. Le armi della notte citato prima torna sulla tortura psicologica subìta dalle vittime del nazismo, protagonista un superstite del campo di concentramento di Hochsworth ossessionato dal «degrado morale» che non lo fa sentire più uomo. con il silenzio fin dentro le ossa Come anticipavo, Il silenzio del mare è diventato da subito un piccolo classico, un capolavoro della letteratura di guerra. Si tratta di 44 . un libretto nato quasi per caso, fatto tradurre in inglese e paracadutare in tantissime copievolantino, per volere di Charles De Gaulle in persona a mo’ di sprone per i soldati, da aerei francesi che sorvolavano l’Inghilterra. In Italia lo abbiamo conosciuto grazie alla splendida traduzione di Natalia Ginzburg (Rocca n. 12/2011). Un grande successo che, tradotto in tante lingue, avrebbe fatto presto il giro del mondo e quindi un libro assai amato, ma anche molto criticato, se non altro per quel suo presentare il lato umano, anzi umanissimo, dell’ufficiale tedesco che si stabilisce a casa del protagonista, che vive con sua nipote e che coincide con l’io narrante. E molte saranno le lettere di superstiti che chiederanno all’autore di cambiare la fine del racconto o di scrivere un altro capitolo della storia... È il 1940 e le truppe tedesche occupano la Francia: parecchi scrittori scelgono di protestare con il silenzio e depongono la penna; tra questi anche Bruller. Quando nasce l’idea di una rivista di resistenza clandestina, «La penseè libre» d’ispirazione comunista ma senza preclusioni di partito, che possa raccogliere le voci della rabbia e del dissenso – come pure della denuncia degli intellettuali che invece avevano optato per il collaborazionismo (1) –, Bruller non sta a guardare. Si unisce subito al suo amico fraterno Pierre de Lescure e al figlio di questi, attivandosi per raccogliere quante più adesioni possibili tra amici e colleghi. Ma soprattutto scrive, per il numero d’esordio della rivista, Il silenzio del mare. Il giorno in cui va a portare il manoscritto per la stampa, però, ha una sorpresa amara: gli agenti della Gestapo hanno forzato le porte della sede di «La penseè libre», perquisito e sequestrato tutto! È così che per poco il racconto si salva e verrà pubblicato, a due anni dall’occupazione tedesca, da quelle Éditions de Minuit che sarebbero diventare l’organo di stampa della resistenza francese. Werner von Ebrennac, l’ufficiale tedesco che in una notte di novembre non particolarmente fredda va ad abitare presso la casa dei due francesi, è un uomo distinto, un musicista di professione. Legge molto e ama spasmodicamente la Francia, la cultura e la mentalità francesi. Ammette di avere bisogno impellente della Francia e di desiderare di sentirsi da essa finalmente accolto, per non sentirsi un estraneo, un viaggiatore o conquistatore. Tutto il racconto è pervaso da una forte, prepotente presenza, quella del silenzio appunto. Già poco dopo le prime righe ne incon- na silenziosa», di poter passare dalla cucina e propone loro di chiudere a chiave la porta del passaggio principale, è ancora il silenzio che accompagna la scelta di non cambiare alcunché dell’ordine della casa: «Noi non chiudemmo mai la porta a chiave. [...] Avevamo deciso in un tacito accordo, mia nipote ed io, di non mutare nulla nella nostra vita, fosse pure il più piccolo particolare: come se l’ufficiale non esistesse; come se fosse stato un fantasma. Ma forse un altro sentimento si univa nel mio cuore a questa determinazione: io non posso offendere un uomo senza soffrire, si tratti pure anche del mio nemico». Siamo dunque al nodo centrale, forse la parte più alta dell’opera di Vercors: la persuasione nonviolenta di fondo fa dire allo scrittore che comunque l’offesa, non escluso il caso di quella inferta al proprio nemico, è qualcosa che impoverisce le relazioni. Vi pare un’interpretazione troppo gandhiana di Vercors? Spero di no. Giuseppe Moscati Note (1) Bruller aveva diversi pseudonimi, il più frequente era Drieu con la volontà di far ricadere eventuali responsabilità degli scritti su Pierre Drieu La Rochelle, uno degli scrittori collaborazionisti. Quanto a Le silence de la mer, tuttavia, serviva uno pseudonimo del tutto sconosciuto: è così che la scelta cadde sul sonoro Vercors, nome di un massiccio ai piedi del quale Bruller si trovava all’ingresso dei tedeschi in terra francese e meta prescelta da lui e dai suoi compagni come rifugio nel caso in cui gli invasori avessero oltrepassato la linea del fiume Isère. (2) Ha ricordato Paolo Mauri che nel momento in cui il regista Jean-Pierre Melville parlò a Bruller di un adattamento cinematografico del racconto egli obiettò con decisione che non avrebbe funzionato per via dell’interminabile monologo. Quando nel ’47 il film esce, però, Bruller dovette ricredersi. per leggere Bruller (Vercors) dello stesso Autore J.M.A. Bruller (Vercors), Il silenzio del mare, Einaudi, Torino 1994 (I ediz. 1945), poi a cura di P. Mauri, Editoriale la Repubblica, Roma 1997; Id., Il comandante del Prometeo, a cura di F. Conti, Portaparole Ed., Roma 2011; Id., L’imprimerie de Verdun e altri scritti, a cura di N. Clerici, Messina, Principato, Napoli 1961; Id., La zattera della Medusa, Mondadori, Milano 1973; Id., Le armi della notte, Einaudi, Torino 1948; Id., Le parole, a cura e con Postfazione di F. Sessi, Il melangolo, Genova 1995; Id., Sylva, Rizzoli, Milano 1961; Id., Animali snaturati, UNI Service Ed., Trento 2009; Id., 21 ricette pratiche di morte violenta, a cura di F. Conti, Portaparole Ed., Roma 2011. Stefano Cazzato Giuseppe Moscati MAESTRI DEL NOSTRO TEMPO pp. 240 - i 20,00 su Bruller (Vercors) R. Barisse-Vercors, Prefazione, in J.M.A. Bruller (Vercors), Le parole, cit. F. Petralia, Introduzione, in J.M.A. Bruller (Vercors), Le silence de la mer - La marche à l’étoile, Mursia, Milano 1970. (vedi Indice in RoccaLibri www.rocca.cittadella.org) per i lettori di Rocca i 15,00 anziché i 20,00 spedizione compresa richiedere a Rocca - Cittadella 06081 Assisi e-mail [email protected] 45 . ROCCA 1 DICEMBRE 2011 triamo il profilo nella figura della nipote: «aveva aperto la porta e restava in silenzio», l’ufficiale restava sulla soglia e lei restava in silenzio; lei ancora silenziosa e lui lì a misurarlo, quel silenzio ferreo. Ma poi entrò lo stesso. E se ne stava lì, in mezzo alla stanza, «smisurato e assai esile». Più avanti: «il silenzio si prolungava. Si faceva sempre più denso, come la nebbia del mattino. Denso e immobile», un silenzio di piombo che sale subito in cattedra e dà la certezza al lettore che mai lo abbandonerà lungo tutta la narrazione. Ma proprio perché ‘ricco’, carico di mille sospiri e di attese e di resistenze, di amarezze e di sogni di liberazione e, non ultima, di una certa dose di rammarico per dover portare avanti una relazione come quella con quelle determinate, forzate modalità – loro gli invasi e lui-l’altro l’occupante –, proprio per questo è un silenzio che non stanca, che non annoia mai. È fatto di sospensione, elemento che rende efficacissima e assai suggestiva la magistrale condotta narrativa di Bruller-Vercors, complice un costante ricorso al fraseggio rapido, franto. A mano a mano che si procede con la lettura, provate a verificarlo voi stessi, si ha peraltro l’impressione che il ruolo della figura ingombrante assunto «da copione» dall’ufficiale tedesco si vada progressivamente trasferendo proprio ‘addosso al silenzio’: la proiezione avviene per via di un fatto concreto che risiede alla genesi di Le silence de la mer. L’idea base del racconto rimanda all’incontro di Bruller con un cortese ufficiale tedesco a Villier-surMorin, il paese dov’era la casa dei suoi genitori e dove sarebbe rimasto per tutta la guerra. Il saluto dell’ufficiale non viene mai corrisposto: il tedesco continua a salutarlo con estrema cortesia, Bruller non risponde, ora per spirito di resistenza e ora per timore di ferire la sensibilità di un amico con cui si trova a passeggiare. Ma gli rimarrà un forte rimorso. E così il silenzio. Che pare non passare mai, pesante e fitto com’è. Che dà vita a un «interminabile monologo» (2) la cui sostanza principale fa pensare a una prigione. Che in una certa misura affascina l’ufficiale, dichiaratosi attratto dal silenzio della Francia tutta. Silenzio che si comporta come «un gas greve e irrespirabile». Che si infila di soppiatto persino nel rapporto tra zio e nipote: «Mia nipote tornò. Riprese la sua tazza e continuò a bere il caffè. Accesi la pipa. Restammo qualche minuto in silenzio». Il tedesco ben presto non attende più invano parole che sa bene non gli sarebbero state offerte e si esercita a pronunciare frasi che non richiedano una replica, espressioni che non presuppongano risposte. In opposizione a quel devastante silenzio c’è la sua voce sorda, dal timbro lieve e un tenue accento – tranne che per le consonanti dure – e una parlata che pare un ronzio parlante del quale «non si può dire che rompesse il silenzio: fu piuttosto come ne fosse nato». Anche quando egli avanza l’ipotesi, per non disturbare la quotidiana quiete familiare di quel «vecchio dignitoso» e di quella «signori- RELIGIONI AD ASSISI Marco Politi l’incontro le attese gli snodi P assate poche settimane, l’incontro interreligioso di Assisi del 27 ottobre sembra già quasi dimenticato. La vox populi è sempre portatrice di un nucleo di verità. E se nella città di san Francesco la delusione popolare è stata generale per una cerimonia giudicata fredda e senza capacità di attirare i cuori, l’eco dei media si è spento immediatamente all’indomani dell’evento. Al punto che sorge persino l’interrogativo perché mai Benedetto XVI abbia voluto organizzare l’incontro al di là di una celebrazione in qualche modo dovuta del venticinquennale di quella «preghiera comune», che Giovanni Paolo II lanciò da Assisi nel 1986 come segnale di pace a tutti gli uomini di buona volontà. Non si tratta di giocare un pontefice contro l’altro. È importante capire perché un’iniziativa comunque importante sia rimasta a mezza strada. vuoti preoccupanti ROCCA 1 DICEMBRE 2011 Intanto un dato. In termini numerici la partecipazione delle delegazioni di differenti confessioni, fedi e organizzazioni è stata consistente. Trecento partecipanti. Sul piano del livello di rappresentanza le cose cambiano. C’erano, è vero, alcuni massimi rappresentanti delle Chiese cristiane. Il primate anglicano Rowan Williams e il patriarca ecumenico di Costan46 tinopoli Bartolomeo I, il vescovo Munib Younan presidente della Federazione luterana mondiale, il reverendo John Upton presidente dell’Alleanza battista mondiale e il reverendo Setri Nyomi segretario generale della Comunità mondiale delle Chiese riformate. Ma per quanto riguarda i rapporti con le due grandi religioni monoteiste si sono avvertiti dei vuoti preoccupanti. Non è venuto nessun esponente del vertice istituzionale del Gran Rabbinato d’Israele. Né i rabbini capo nè un rappresentante del Consiglio del Gran Rabbinato, che pure comprende quindici membri. L’imbarazzo diplomatico è stato velato, indicando come inviato dal Gran Rabbinato il rabbino David Rosen, storico protagonista del dialogo ebraico-cristiano e negoziatore degli accordi del 1993 che portarono alle relazioni diplomatiche tra Santa Sede e Israele. Di fatto, tuttavia, Rosen è un dirigente dell’American Jewish Committee ed occasionalmente si fregia solo del titolo di «consigliere» del Gran Rabbinato. In altre parole non era presente nessuna emanazione diretta della suprema gerarchia religiosa ebraica. Lo stesso è accaduto in campo islamico con la storica università di Al Azhar del Cairo, che viene considerata supremo punto di riferimento dell’islam sunnita. All’incontro di Assisi del 2002, convocato da Giovanni Paolo II, era presente il suo capo di allora, lo sceicco Mohammed Tantawi nel frat- i rapporti con l’ebraismo e l’islam Nel primo viaggio in Germania Benedetto (Colonia agosto 2005) XVI aveva ribadito agli esponenti musulmani tedeschi l’esigenza di un dialogo cristiano-islamico di lungo respiro. L’anno dopo, con le sue imprudenti citazioni nel discorso di Ratisbona, ha provocato invece una crisi planetaria con l’islam, ferendo particolarmente le sue componenti moderate. Poi a Istanbul ha pregato accanto al muftì nella Moschea Blù, ma quando nel settembre scorso a Berlino il rappresentante della delegazio- ne musulmana tedesca gli ha parlato dell’«unico Dio» di Abramo, in cui credono cristiani e musulmani ed ebrei, Benedetto XVI non ha ritenuto opportuno valorizzare questo elemento (peraltro iscritto nei documenti conciliari e affermato in qualche occasione dallo stesso papa Ratzinger). Con l’ebraismo è accaduto lo stesso. Proprio Benedetto XVI, che ha sempre esaltato i vincoli indissolubili tra il cristianesimo e la fede ebraica, chiamando addirittura gli ebrei «nostri padri nella fede» ed ha compiuto nel 2009 in Israele (e in Giordania e nei Territori palestinesi) un viaggio giudicato un successo, è riuscito a irritare il mondo ebraico in più momenti. Con la riformulazione della preghiera del Venerdì Santo della messa preconciliare, con la remissione della scomunica al negazionista Williamson, vescovo lefebvriano, con l’esaltazione del comportamento tenuto da Pio XII durante la seconda guerra mondiale. E per quanto ogni volta vi siano state ricuciture (recentemente è giunta a Roma una delegazione interreligiosa promossa dal Gran Rabbinato di Israele), è indubbio che i traumi arrecati ai sensibilissimi rapporti con le due religioni abramitiche hanno lasciato traccia. Soprattutto, in questi anni di regno, Benedetto XVI ha lasciato cadere un caposaldo della geopolitica religiosa wojtyliana: il rapporto specialissimo e preferenziale fra ROCCA 1 DICEMBRE 2011 tempo scomparso, mentre il 27 ottobre scorso Al Azhar era del tutto assente. I rapporti con la Chiesa cattolica sono «congelati» dal gennaio passato. C’è da aggiungere che l’oratore principale per il mondo islamico – previsto per l’incontro organizzato da Benedetto XVI – Kyai Muzadi, segretario generale della Conferenza degli studiosi islamici (Icis) non è arrivato: il suo discorso è stato semplicemente letto nella basilica di Santa Maria degli Angeli. Sulla scena delle relazioni internazionali il protocollo non è un dettaglio di forma, ma è sostanza. Le assenze sono il frutto delle crisi succedutesi in sei anni di pontificato sia con l’ebraismo che con l’islam. E più di ogni altra cosa hanno rivelato una linea di governo zigzagante nei confronti dei due monoteismi. 47 RELIGIONI AD ASSISI i tre monoteismi, quel trialogo che nella visione di Giovanni Paolo II avrebbe dovuto trovare espressione un giorno nella comune preghiera sul monte Sinai. Archiviato questo elemento propulsivo tutto l’impianto dei rapporti della Chiesa cattolica con l’ebraismo e l’islam perde la forza di un disegno coerente e diventa inevitabilmente più fragile. D’altronde Joseph Ratzinger a questo trialogo religioso non ci crede. Convintissimo dei legami teologici con l’ebraismo, ritiene che con l’islam vada sviluppato invece principalmente un confronto culturale. Dice un proverbio slavo: «Si può portare il cavallo al mare, non si può costringerlo a berlo». una diversa preghiera Benedetto XVI è tornato ad Assisi venticinque anni dopo il primo appello di Giovanni Paolo II ai leader delle religioni del mondo, ma il suo pellegrinaggio è avvenuto in un quadro assai diverso. La novità e la caratteristica fondamentale di Assisi 1986 – all’origine del suo impatto internazionale – consisteva nella preghiera contemporanea nella città di san Francesco di tutte le fedi del pianeta. Ci fu all’epoca nella dall’intervento di Julia Kristeva filosofa psicanalista curia vaticana chi respinse l’iniziativa, bollandola sottovoce di sincretismo. Il cardinale Ratzinger ostentatamente non volle partecipare (venne solo nel 2002, quando il tema in agenda era il ripudio del terrorismo religioso e l’obiettivo di distanziarsi dalle avventure militari di Bush nell’Oriente islamico). In realtà Giovanni Paolo II non voleva fare una marmellata delle diverse credenze. Il suo gesto riuscì invece a sottolineare due elementi cruciali: l’importanza della fede nel mondo contemporaneo e la dignità di ciascuno essere nel suo rivolgersi a Dio. Amputando la giornata del 27 ottobre 2011 della sua dimensione più intimamente religiosa, Benedetto XVI ha trasformato necessariamente l’evento in una sorta di convegno che avrebbe potuto svolgersi in qualsiasi altra sede e occasione. La frettolosa preghiera sulla tomba di san Francesco a fine giornata e il discreto invito – contenuta nel programma ufficiale – affinchè i leader religiosi approfittassero dell’intervallo dopo il pranzo per una «pausa di silenzio, riflessione e preghiera personale», ha messo ancora di più in risalto l’eliminazione di quel forte messaggio simbolico costituito dalle preghiere in contemporanea, che nel 1986 avevano vivificato e movimenta- «L’umanesimo del XXI secolo non è un teomorfismo. Né “valore”, né “fine” superiore, l’Uomo con la maiuscola non esiste. Dopo la Shoah e il Gulag, l’umanesimo ha il dovere di ricordare a uomini e donne che se, per un verso, noi ci riteniamo gli unici legislatori, è unicamente attraverso la continua messa in questione della nostra situazione personale, storica e sociale che noi possiamo decidere della società e della storia». «L’umanesimo è un processo di rifondazione permanente, che si sviluppa unicamente grazie a delle rotture che sono delle innovazioni. La memoria non riguarda il passato: la Bibbia, i Vangeli, il Corano, il Rigveda, il Tao, ci abitano al presente. Affinché l’umanesimo possa svilupparsi e rifondarsi, è giunto il momento di riprendere i codici morali costruiti nel corso della storia: senza indebolirli, per problematizzarli, rinnovandoli di fronte a nuove singolarità». ROCCA 1 DICEMBRE 2011 «Poiché risveglia i desideri di libertà di uomini e donne, l’umanesimo ci insegna a prenderci cura di essi. La cura amorosa per l’altro, la cura della terra, dei giovani, dei malati, degli handicappati, degli anziani non autosufficienti, costituiscono delle esperienze interiori che creano delle nuove prossimità e delle solidarietà inattese. Non abbiamo un altro modo per accompagnare la rivoluzione antropologica, già annunciata dalla corsa in avanti delle scienze, dai procedimenti incontrollabili della tecnica e della finanza, e dall’incapacità del modello democratico piramidale a canalizzare le novità». «L’uomo non fa la storia, noi siamo la storia. Per la prima volta, l’homo sapiens è in grado di distruggere la terra e se stesso in nome delle proprie credenze, religioni o ideologie. Ugualmente per la prima volta gli uomini e le donne sono in grado di rivalutare in completa trasparenza la religiosità costitutiva dell’essere umano. L’incontro delle nostre diversità qui, ad Assisi, testimonia che l’ipotesi della distruzione non è l’unica possibile». 48 i messaggi Cosa rimane allora della terza giornata di Assisi? L’icona di Benedetto XVI che riceve con semplicità e umiltà i leader religiosi davanti al portale della basilica di Santa Maria degli Angeli come un pastore protestante, che accoglie i suoi fedeli alla domenica, e un insieme di interventi spesso non privi di notazioni interessanti. Il richiamo del cardinale Peter Turkson, nuovo presidente del Consiglio Giustizia e Pace, che la «forte competizione dei popoli per le risorse, i problemi climatici, minacciano di distruggere, col tessuto sociale delle relazioni umane, lo stesso ordine della creazione». La preoccupazione del patriarca ecumenico Bartolomeo I per la «cresciuta marginalizzazione delle comunità cristiane del Medio Oriente» (vero motivo dell’organizzazione dell’evento). Il monito del primate anglicano Rowan Williams che molti fallimenti derivano dalla persistente incapacità di «riconoscere gli estranei come persone che condividono con noi l’unica e medesima natura, l’unica e medesima dignità della persona». L’esortazione di Kyai Muzadi, a nome della Conferenza internazionale degli studiosi islamici, di «correggere le comprensioni errate della religione che portano a conflitti sociali tra l’umanità». Benedetto XVI nel suo discorso ha denunciato la distorsione della religione operata dal terrorismo. «La religione qui non è al servizio della pace, ma della giustificazione della violenza». Egualmente perniciosa, ha soggiunto, è la violenza esercitata da difensori di una religione contro gli al- tri. Rifacendosi allo spirito dell’incontro del 1986 il Papa ha esclamato: «Questa non è la vera natura della religione. È invece il suo travisamento e contribuisce alla sua distruzione». Poi ha scandito: «Come cristiano, vorrei dire a questo punto: sì, nella storia anche in nome della fede cristiana si è fatto ricorso alla violenza. Lo riconosciamo pieni di vergogna». Tuttavia, ha precisato, si tratta di un utilizzo abusivo della fede cristiana, in evidente contrasto con la sua vera natura. dialogo con l’umanesimo agnostico L’altro elemento portante del discorso di papa Ratzinger è stata la denuncia dell’assenza di Dio che porta al «decadimento dell’uomo e dell’umanesimo». E qui Benedetto XVI ha introdotto il tema del dialogo con l’umanesimo agnostico. Tra la dimensione della religione e dell’anti-religione, ha spiegato, esiste il mondo in espansione dell’agnosticismo all’interno del quale si manifestano uomini e donne che «cercano la verità, sono alla ricerca di Dio», la cui immagine spesso è nascosta dal modo con cui le religioni sono praticate. È una tematica che Benedetto XVI sta sviluppando dal suo viaggio in Cechia del 2009 all’indomani del quale lanciò la proposta del «Cortile dei gentili» come spazio di confronto con l’umanesimo laico (problematica a cui si sta applicando con diverse iniziative il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Consiglio per la cultura). In questo contesto si è verificata l’unica, grande novità di Assisi 2011: l’intervento nella basilica di Santa Maria degli Angeli della celebre filosofa e psicanalista franco-bulgara Julia Kristeva. Una non-credente che con parole appassionate ha illustrato lo spirito di un umanesimo che si rimette continuamente in questione, che non trascura i codici morali dell’umanità (Bibbia, Vangeli, Corano, Rigveda, Tao) ma li spinge a problematizzarsi e misurarsi con le «nuove singolarità». Un umanesimo che si radica nell’emancipazione femminile e nella cura dell’altro. Un intervento inedito nella cornice di una basilica, culminato nella rivendicazione di afflato quasi rinascimentale che l’umanità non fa la storia, bensì «noi – uomini e donne – siamo la storia». Così a partire dall’intuizione ratzingeriana del dialogo con gli agnostici è stato gettato un seme. Saranno i prossimi anni a mostrare chi e come lo farà sviluppare. ROCCA 1 DICEMBRE 2011 to tutta Assisi creando un’atmosfera straordinaria di coinvolgimento e spiritualità. Eliminazione, al fondo, incomprensibile perché lo stesso cardinale Ratzinger nel suo libro «Fede, verità e tolleranza» (ed. Cantagalli) aveva acutamente individuato la differenza tra preghiera multireligiosa e preghiera interreligiosa. Specificando che nel corso della prima «si prega nello stesso contesto, ma separatamente» e rimarcando in ogni caso che l’insieme deve svolgersi in modo tale da non dare l’impressione di una relativizzazione delle fedi e delle orazioni. Si dava la possibilità, dunque, di rilanciare la carica simbolica dell’evento del 1986 anche secondo accorgimenti dettati dalla teologia ratzingeriana. È prevalsa, però, l’intenzione di cancellare ciò che allora non piacque al cardinale Ratzinger. Non è la prima volta nel pontificato che vengono attuate correzioni alle innovazioni precedenti. Marco Politi 49 TEOLOGIA una nuova preziosa sintesi storica su Gesù ROCCA 1 DICEMBRE 2011 Carlo Molari 50 L e ricerche storiche sulla figura di Gesù Cristo del suo ambiente e sul suo tempo in questi ultimi decenni sono esplose per numero e sono, generalmente, cresciute per qualità. Esse hanno interessato non solo cristiani ma anche seguaci di altre religioni come pure agnostici ed atei. Questi ultimi spesso ne traggono conclusioni negative, mettono in luce gli aspetti spesso contradditori delle fonti e ne deducono l’incongruenza degli sviluppi successivi della dottrina cristiana. Fra gli storici credenti alcuni si limitano strettamente ai dati documentabili e a volte danno l’impressione di considerare reale solo il Gesù che risulta dalle fonti vagliate criticamente. Altri invece pur rimanendo nell’ambito storico non si limitano ai documenti a disposizione, ma sono attenti anche agli sviluppi successivi convinti che il cammino della fede possa offrire criteri per interpretare in modo più completo gli eventi fondanti. Ma anche per costoro i documenti restano il punto di riferimento fondamentale per una ricostruzione storica della figura e dell’azione di Gesù. Fra questi ultimi particolare rilievo in Italia ha il biblista di Udine Rinaldo Fabris, che in anni recenti è stato anche Presidente della Associazione Biblica italiana. Sono numerosi i meriti da lui acquisiti nella rigorosa ricerca biblica e nella divulgazione. Egli è da tempo noto anche ai lettori di Rocca e agli assidui della Cittadella, per i qualificati suoi interventi e per i numerosi scritti pubblicati. In particolare il volume: Gesù di Nazareth: storia e interpretazione, (Cittadella, Assisi 1983) ha avuto una larga diffusione ed è giunto alla sesta edizione nel 1999. Ma per il rinnovato interesse sulla figura di Cristo nell’attuale cultura occidentale e per l’abbondanza delle nuove acquisizioni Fabris ha deciso di riprendere da capo la riflessione cristologica, «tenendo presenti i nuovi orientamenti metodologici e gli esiti delle ricerche più recenti» (Gesù il Nazzareno. Indagine storica, Cittadella editrice 2011 p. 7). La ragione della sua scelta è chiara: «a parte l’interesse per la figura e il messaggio di Gesù, promossi da questo intenso dibattito nell’ambito della cultura europea, non si può negare che si è realizzato un patrimonio di dati a livello storico e linguistico che rende possibile una ricerca sulla figura e l’opera di Gesù con nuovi e validi strumenti» (p. 45). Egli è consapevole che «in condizioni umane normali è impossibile controllare e verificare tutto quello che, a livello delle scienze storiche ed esegetiche, si è scritto su Gesù negli ultimi decenni» (p 8); per questo ha fatto «una scelta previa delle pubblicazioni che rappresentano i diversi nuovi orientamenti nella ricerca sul Gesù storico» (p. 8) e ne ha vagliate le conclusioni con intelligenza. Il risultato è eccellente: un’opera che si imporrà certamente per la ricchezza della documentazione, l’ampiezza delle tematiche, la profondità dell’analisi, il rigore del metodo, la fluidità della scrittura e la chiarezza della esposizione. Il volume può essere considerato il vertice della sua diuturna ricerca cristologica. Ognuno dei tredici capitoli costituisce un libro a sé, con tema ben determinato, bibliografia molto ampia e svolgimento attentamente articolato. Parte dagli interrogativi che lo storico si trova ad affrontare, analizza il materiale a disposizione e ne trae le possibili conclusioni, senza fretta, con pazienza e molta cura ai particolari. lo storico e la sua fede Fabris scrive quindi da credente e come tale compie la ricerca storica per precisare con esattezza il contenuti delle proprie convinzioni e per rendere ragione delle proprie scelte di vita. Da una parte egli è convinto che il Gesù accessibile agli storici non è il Gesù reale, ma dall’altra egli ribadisce che per conoscere il Gesù reale non si può prescindere dai documenti a disposizione, analizzati con gli strumenti della critica storica: «La fede in Gesù Cristo, anche se non dipende dalla ricerca storiografica, non può prescindere da un confronto serio e criticamente fondato con l’azione, la parola e le scelte storiche di Gesù, proclamato il Cristo e il Signore, che dà senso e valore al- fica si stabilisce un rapporto dialogico tra due interlocutori che, nella rispettiva distanza storica e culturale, sono coinvolti nel processo storico. Gesù di Nazaret storicamente si presenta come uno che chiede una decisione che va oltre il suo caso e la sua vicenda personale. Non si può ignorare o censurare questa esigenza in nome di una metodologia storiografica ‘neutrale’, perché essa fa parte del dato storico da esaminare criticamente. In ogni ricerca storica è presente una pre-comprensione o un presupposto che la condizionano anche quando sono negati o rimossi» (p. 134). Quando i documenti lasciano aperte varie soluzioni Fabris coerentemente si orienta nel rispetto dei dati della fede come sono emersi nei secoli successivi nella comunità dei discepoli. Gli esempi che possono confermare questa scelta sono numerosi. Ne cito uno fra i tanti. i fratelli di Gesù Come è noto i Vangeli riferiscono i nomi di quattro ‘fratelli’ di Gesù e parlano di alcune ‘sorelle’. Fabris elenca le diverse soluzioni che nella storia sono state offerte per interpretare questi dati: da quelle che ammettono la nascita da Maria e Giuseppe di altri figli dopo Gesù, a quella che interpreta la parola ‘fratello’ in senso ampio di cugino o parente. Egli però, fedele al dato linguistico sostiene che «non possono essere considerati ‘cugini’ o parenti generici» (p. 238). In questo segue J. P. Meier secondo cui «dal punto di vista puramente filologico e storico, l’opinione più probabile è che i fratelli e le sorelle di Gesù fossero suoi germani» (citato a p. 236 n. 47). Fabris però, richiamandosi ad una tradizione apparsa successivamente preferisce l’ipotesi che essi siano fratellastri: «in quanto figli dello stesso padre, Giuseppe, avuti da un precedente matrimonio» (ib. nella nota 48 cita Puig i Tàrrech A., Gesù, 205, secondo cui: «questa è la [opinione] più plausibile e preferibile»). L’argomento decisivo per non considerarli congiunti è di carattere negativo: «non possono essere neppure figli della coppia Maria e Giuseppe, dal momento che non sono mai identificati con questa precisa relazione filiale» (p. 238). Il peso della tradizione successiva, che attribuisce a Maria la perpetua verginità, pesa certamente su questa scelta, che pure è storicamente legittima. (continua) dello stesso Autore CREDENTI LAICAMENTE NEL MONDO pp. 168 - i 20,00 (vedi Indice in RoccaLibri www.rocca.cittadella.org) per i lettori di Rocca i 15,00 anziché i 20,00 spedizione compresa richiedere a Rocca - Cittadella 06081 Assisi e-mail Carlo Molari [email protected] 51 ROCCA 1 DICEMBRE 2011 l’intera storia umana» (p. 45). Fabris, come storico, si ferma ai dati a disposizione, sapendo però che la sua adesione di fede riguarda una realtà molto più complessa di quella documentata: «Anche quando si arriva alla sentenza o al racconto storicamente più attendibile, non si oltrepassa la barriera che separa il Gesù reale, la sua parola e la sua azione, dal ‘documento’ – testo scritto o tradizione orale – che ne conserva la memoria. La ricerca storica procede per via ‘indiziaria’ per ricostruire quello che Gesù ha detto o fatto, inserendolo in un quadro interpretativo che dà unità e significato coerente ai vari elementi criticamente accertati. Il prodotto dell’indagine storica non è il fatto e l’evento così com’è capitato, ma la sua ricostruzione ‘storiografica’ (p. 68). Con chiarezza quindi distingue i diversi ambiti di certezza storica alla quale si può pervenire: «La complessità della ricerca sul Gesù storico invita alla cautela e alla modestia nelle conclusioni, soprattutto quando si tratta di singoli fatti e parole, situazioni e prese di posizione. Sembra più agibile il percorso quando si tenta di ricostruire il profilo storico di Gesù e il suo progetto» (p. 133). La figura di Gesù che risulta dalla analisi incrociata dei documenti a disposizione è delineata fin dall’inizio con tratti essenziali: «Gesù che sta sullo sfondo dei Vangeli e delle rispettive tradizioni mi sembra sia una personalità forte, con un grande fascino sulla gente, appassionato di Dio e della sua causa – che egli chiama il ‘regno di Dio’ –, capace di intense relazioni umane con quelli che stanno male e con gli amici, disposto a pagare il prezzo delle sue scelte anche a rischio della sua vita. Inutile ripetere che Gesù è radicato nel suo ambiente, nella cultura religiosa ebraica del suo tempo. Non mi sento di rinchiuderlo in nessun modello preconfezionato, sia quello del ‘maestro’, del ‘profeta’, del ‘terapeuta o esorcista’, sia quello del riformatore religioso o del rivoluzionario sociale. Quello che colpisce in Gesù, e che probabilmente sta all’origine della sua condanna alla morte di croce, non è solo e tanto la sua originalità etico-religiosa, ma la sua eccedenza umana e spirituale, che spinge tutti quelli che vi si accostano – credenti o laici – ad approfondire la sua identità sullo sfondo della ricerca umana del volto di Dio» (p. 9). La consapevolezza dell’apporto di fede accompagna Fabris lungo tutto il percorso e più volte riaffiora esplicitamente, come quando confessa: «Nella ricerca storiogra- IL CONCRETO DELLO SPIRITO Lilia Sebastiani l’urgenza e la pazie D ice Bonhoeffer che celebrare l’Avvento significa saper attendere, un’arte che il nostro tempo impaziente ha dimenticato. «Il nostro tempo vuole cogliere il frutto maturo non appena ha piantato un germoglio, ma gli occhi avidi sono ingannati in continuazione, perché il frutto, all’apparenza così prezioso, al suo interno è ancora acerbo e mani irrispettose gettano via con ingratitudine ciò che le ha così deluse. Chi non conosce l’aspra beatitudine dell’attesa (...), non sperimenterà mai nella sua interezza la benedizione dell’adempimento». Pasqua d’inverno ROCCA 1 DICEMBRE 2011 Il termine ‘avvento’ equivale, lo sappiamo, al greco parusìa; a un certo punto quest’ultima parola si specializza per indicare la venuta gloriosa di Cristo alla fine dei tempi. Parusìa e adventus, parole così importanti nella spiritualità e nella liturgia cristiana, sono di derivazione pagana: nel culto pagano indicavano la venuta periodica della divinità nel santuario; talvolta si parlava non di parusia si parlava di ‘epiphàneia’, ‘manifestazione’. Così, sembra strano a dirsi, le tre parole che noi riferiamo a momenti diversi nell’unico tempo di Natale – cioè, oltre a Natale appunto, Avvento ed Epifania – stanno a significare più o meno la stessa cosa, e anche questo è istruttivo: non tre tempi, nemmeno propriamente tre tappe, ma tre aspetti dell’unico mistero del Dio-con-noi. Vi sono stati dei teologi, soprattutto dell’area ortodossa, che hanno definito così il Natale: «Pasqua d’inverno». Può sembrare una definizione imprecisa quantunque suggestiva, visto che la Pasqua, la festa-fonte dell’anno liturgico, ricorda la Resurrezione mentre il Natale è memoria celebrata dell’Incarnazione; non del tutto fuori luogo però, visto che né l’Incarnazione avrebbe senso senza Resurrezione, né la Resurrezione senza Incarnazione, e il tema teologico della ‘manifestazione’ di Dio in Gesù Cristo collega entrambe le feste. È anche vero che la storia dell’Avvento in relazione al Natale è stretta52 mente legata a quella della Quaresima in relazione alla Pasqua. La resurrezione di Gesù è stata celebrata da subito nella giovane Chiesa, e abbastanza presto ha preso forma la Quaresima come periodo di preparazione, soprattutto in relazione al battesimo che veniva celebrato nella notte di Pasqua. Il Natale per molto tempo non è stato celebrato: se infatti tutti conoscevano le circostanze della morte di Gesù e i racconti che si erano formati intorno alla sua vittoria sulla morte, né l’anno della sua nascita né, a maggior ragione, il mese o il giorno erano conosciuti. Si sa che soprattutto per ragioni pastorali le feste della nascita di Gesù furono collocate in un’epoca che era già festiva per consuetudine da secoli: le feste del solstizio d’inverno, in cui i Romani celebravano i Saturnali e poi – quando a Roma si furono affermati i culti solari che provenivano dall’oriente – i festeggiamenti legati alla ‘rinascita’ graduale del sole. Così nel corso del IV secolo, in un mondo in cui il cristianesimo non era più fuori legge, divenne abbastanza ovvio collocare in questo stesso periodo la memoria della nascita di Gesù, spesso invocato nella Chiesa dei primi secoli con l’appellativo di Sol Iustitiae. Dopo che si afferma il Natale, il periodo di preparazione prende forma gradualmente, a imitazione della Quaresima, con un processo che può considerarsi compiuto nel VVI secolo. Le testimonianze sono scarse e non sempre chiare. Nella regola di san Benedetto, che parla del digiuno quaresimale in modo dettagliatissimo, nulla viene detto a proposito di un digiuno in preparazione al Natale. Nel 567 però il secondo Concilio di Tours stabilisce che i monaci digiunino dall’inizio di dicembre fino a Natale: la pratica viene poi estesa anche ai laici e per un certo tempo portata a quaranta giorni, per evidente influsso della quaresima (e, più in generale, per l’importante simbologia del numero quaranta nella Scrittura). è venuto, viene, verrà L’anno liturgico è un itinerario attraverso cui il tempo viene santificato, reso ‘altro’: non pazienza Vaticano II (cfr. in particolare il n.107 della costituzione Sacrosanctum concilium) conserva memoria della sua originaria fisionomia composita, ma con una notevole fisionomia unitaria: l’Avvento invita all’attesa del Natale come compimento dell’antica Alleanza e quindi fondamento della fedeltà di Dio alle sue promesse, su cui si fonda anche l’attesa del compimento futuro. Natale non è solo memoria della nascita storica di Gesù, ma anche promessa e annuncio della Parusia alla fine dei tempi e ‘avvento’ continuo nella vita dell’umanità. Così l’Avvento ha un carattere pre-natalizio, ma anche un carattere escatologico. E soprattutto su questa seconda dimensione è il caso di soffermarsi, perché la dimensione escatologica è piuttosto latitante nell’esperienza di fede della chiesa, una volta superati, non senza giusto imbarazzo, i terrorismi psicologici del passato. La spiritualità dell’Avvento è una spiritualità dell’attesa e della vigilanza. Ma vorremmo poter dire attesa senza nulla di passivo e ‘attendista’, e vigilanza senza ansia né paura; ed entrambe, attesa e vigilanza, sotto il segno della responsabilità salvifica. L’invito alla vigilanza, fondamentale nel Nuovo Testamento, ricorre frequentemente in questo tempo liturgico. Come osserva G.Dossetti in una meditazione sull’Avvento, la vigilanza è la virtù di cui Gesù ha maggiormente parlato nella fase conclusiva della sua venuta; ed è: «... la virtù tipica del tempo intermedio, tra la prima e la seconda venuta di Cristo... Quaggiù noi non possiamo che protenderci verso la carità, così come ci protendiamo verso il Cristo (...), perché da parte sua il Dio vivente nel suo Spirito ci metta l’Amore che ci deve colmare, totalmente riempire». La vigilanza è tutto uno stile di vita, di attesa operosa, di cammino orientato, tutta un’opzione fondamentale di ascolto e risposta. ROCCA 1 DICEMBRE 2011 significa privato del suo senso intrinseco, ma caricato in trasparenza di un senso ulteriore che lascia scorgere il progetto di amore di Dio sulla storia degli uomini. In questo tempo liturgico ci accompagnano gli oracoli profetici del Primo Testamento, in particolare il libro di Isaia. I cristiani di solito non hanno sufficiente familiarità con queste pagine, soprattutto non familiarità intima, orante: al più una conoscenza di tipo teologico-culturale, e anche questo vale solo per una cerchia ristretta. Insomma è difficile che queste pagine profetiche, anche le più ardenti e incisive, suonino all’orecchio dei cristiani praticanti come qualcosa di più di una commemorazione o di un parallelismo, in cui talvolta il riferimento troppo automatico alla venuta di Gesù interviene troppo presto e impedisce l’ascolto autentico e partecipe dell’attesa del Popolo Eletto. In realtà è giusto far risuonare unite le preghiere di Israele e quelle della Chiesa, il nuovo popolo di Dio che non soppianta l’antico, e solo così è possibile farsi interpellare e coinvolgere dalle risonanze misteriose di questa preghiera, di questa attesa che travalica i secoli. Negli scritti dei Padri si trova spesso la menzione, non chiarissima né univoca, di un triplice Avvento: quello passato (la nascita storica di Gesù in un luogo-tempo determinato), quello attuale, detto anche Avvento «di mezzo», con un’espressione che risale a Bernardo di Chiaravalle: cioè la sua venuta celebrata e attualizzata che agisce per opera dello Spirito nella comunità e nel singolo credente; infine la venuta finale nella gloria, nella quale noi crediamo fermamente come compimento della storia in Dio, resistendo alla tentazione di immaginarla con modalità più o meno apocalittiche. La nostra celebrazione annuale della nascita di Gesù, memoria della prima venuta e come preparazione alla sua venuta definitiva. La seconda venuta, vissuta nel suo potenziale di trasformazione, è quella fondamentale, ecclesialmente parlando, decisiva nell’esperienza del singolo, della comunità di fede, della storia umana. L’Avvento così com’è ora, dopo la revisione dell’anno liturgico attuata dopo l Concilio un’atmosfera di attesa L’avvento non è specificamente un tempo penitenziale – quello penitenziale è piuttosto il carattere della Quaresima -, ma un tem53 ROCCA 1 DICEMBRE 2011 IL CONCRETO DELLO SPIRITO 54 po di approfondimento e di attesa, premessa al rinnovamento. Tempo per scoprire le nostre attese più e meno profonde e il richiamo che da esse si sprigiona. L’ambiente in cui ci muoviamo non aiuta, di solito, a fare silenzio e a dare il senso dell’attesa. L’esplosione di luci e l’atmosfera simil-natalizia e volutamente festosa (non pienamente credibile perché comunque finalizzata a incrementare i consumi, sempre più stanchi e oculati in questo tempo di recessione economica) sono intorno a noi a partire dalla metà di novembre più o meno: quando non solo al Natale mancano settimane, ma neppure l’Avvento è cominciato... È un’incongruenza che dà fastidio, soprattutto a quelli che amano l’atmosfera natalizia anche esteriore. Si tratta sempre di segni e del loro messaggio. L’epoca in cui viviamo ha bisogno di segni, ma li maltratta e li banalizza. Almeno in casa nostra però qualcosa si potrebbe fare per creare un’atmosfera più quieta e ‘altra’ e dare un senso di attesa (sì, forse anche dove ci sono figli bambini o adolescenti, se si riesce in qualche modo a far loro comprendere lo spirito della cosa). La corona dell’Avvento, le quattro candele da accendere una dopo l’altra nelle quattro domeniche, si sta lentamente affermando anche da noi: e devono essere candele semplici e sobrie, senza inopportune festosità, solo luce che illumina la notte, memoria della speranza anche nell’oscurità apparente. La preparazione dei doni, che non è solo un ‘fare’ o un ‘comprare’, ma anche un progettare e pensare, qualcosa che ha a che fare con le relazioni umane e gli affetti, può diventare un momento di grande significato. Senza arrivare a spegnere la televisione come nei monasteri – perché escludere del tutto le notizie dall’esterno potrebbe anche diventare una mancanza di solidarietà con il mondo, con la storia in cui siamo inseriti –, si potrebbe smettere per un po’ di farne la colonna sonora fissa di ogni giornata (ché se poi, passato questo tempo liturgico, l’abitudine restasse, non sarebbe affatto male). Nemmeno si vorrebbe rinunciare ‘in toto’ a internet, senza la quale spesso anche il nostro lavoro diventerebbe impossibile o quasi, ma neppure c’è bisogno di farsene stordire e asservire fino a sentirsi vuoti e ‘sconnessi’ psicologicamente se per un po’ si resta non connessi. E poiché il tempo di Avvento comprende in realtà due tempi, abbastanza differenziati nell’atmosfera e nella spiritualità, sarebbe bene sentire e far sentire la differenza. Il primo è un tempo di attesa storica e cosmica insieme, in cui si sperimenta la propria povertà e la fiducia in Dio, e questo non è contraddetto ma sottolineato, accompagnato dal passaggio stagionale: l’autunno declina più o meno dolcemente verso l’inverno, le giornate si accorciano, i ritmi della natura sembrano invitare al raccoglimento e all’interiorizzazione. Il secondo è incentrato sull’attesa del Natale, sulla preparazione a breve termine. Ormai lo spartiacque tra i due tempi, che secondo la tradizione liturgica cade intorno al 15-16 dicembre, è segnato di fatto dall’8 dicembre, festa dell’Immacolata Concezione. Una festa che, dobbiamo riconoscerlo, c’entra abbastanza poco con i ritmi dell’Avvento, in cui Maria è molto presente soprattutto verso la fine, ma in quanto madre accogliente e discepola del Regno ‘ante litteram’, non nella memoria ecclesiale dei suoi ‘privilegi’. Ma è così: forse perché unico giorno festivo infrasettimanale che cade nel tempo di Avvento, l’Immacolata Concezione segna l’inizio dell’attesa immediata del Natale. Molti di quelli che fanno il Presepio in casa sono soliti farlo proprio in questo giorno. L’uso può essere gentile e significativo; ma, come segno, il Presepio già pronto con oltre due settimane di anticipo sul Natale – quindi percepito come ormai troppo normale e consueto, magari anche un po’ deteriorato quando la festa giunge – risulta meno efficace. La cosa migliore sarebbe, a parere di chi scrive (è una sorta di ritualità cominciata quasi per caso, elaborata e consolidata negli anni), realizzarlo un po’ alla volta, con meditata attenzione: anche se qualcuno direbbe certo che un presepio, neanche tanto piccolo, se rimane in fase di allestimento per parecchi giorni dà un senso di disordine. No, non necessariamente. Io comincio con le strutture di base, con quello che non si vede ma è necessario a dare verità e movimento, in senso interiore, al piccolo mondo che ogni anno deve esprimere in qualche modo l’incarnazione, la concretezza del mistero di Dio con noi. In seguito vi entrano, un po’ alla volta, gli elementi naturali, cominciando da quelli inanimati – come i sassi –, e gradualmente tutto ciò che fa parte dell’ambiente, comprese le ... architetture, chiamiamole così; poi la ‘vegetazione’ (muschio, rami, alberi...), poi gli animali, che nel presepio sono importantissimi non solo per memorie francescane, quindi i personaggi, lasciando ovviamente Maria e Giuseppe per ultimi; infine Gesù Bambino la sera della vigilia di Natale. Potrà sembrare infantile o consuetudinario, ma poche cose come questa danno il senso dell’attesa e della preparazione. Lilia Sebastiani GIOBBE Lidia Maggi Perché dare la luce all’infelice e la vita a chi ha l’anima nell’amarezza? Essi aspettano la morte che non viene, la ricercano più che i tesori nascosti. Si rallegrerebbero fino a giubilarne, esulterebbero se trovassero una tomba. (Giobbe 3,20-22) i può sentire un’angoscia tale verso la vita da arrivare a percepire la morte non solo come unica via di fuga, ma addirittura come la «meritata vacanza», dopo un’esistenza di affanni e fatiche? In un albergo a cinque stelle insieme con ospiti facoltosi! «Ora giacerei tranquillo, dormirei, e avrei così riposo con i re e con i consiglieri della terra che si costruirono mausolei» (Giobbe 3,13-14.). Per Giobbe la morte non rappresenta l’ultimo nemico da sconfiggere, né tantomeno la punizione per una possibile colpa. Essa è, invece, realtà seducente, ricompensa donata a chi ha sofferto, agognato riposo per chi è sfiancato: «Là cessano gli empi di tormentare gli altri. Là riposano gli stanchi» (3,17). In questo delirio il mondo è capovolto e si delega alla morte ciò che dovrebbe offrire un’esistenza piena: pace, sicurezza e serenità. È dato alla morte il compito di rimediare alle inadempienze della vita. È la morte che ristabilisce la giustizia e permette finalmente ai piccoli di avere la stessa dignità dei grandi. È la morte che riconcilia la vittima con il carnefice e ricompensa con la sua pace chi ha sofferto. In questa visione non c’è decomposizione ma ristoro e serenità. Là cessano gli empi di tormentare gli altri... Là i prigionieri hanno pace tutti insieme, senza udir voce d’aguzzino. Piccoli e grandi sono là insieme, lo schiavo è libero dal suo padrone (3,18-19). Nel delirio poetico di Giobbe la morte è trasfigurata fino a diventare la terra promessa, l’aspirazione di tutta l’esistenza. A Giobbe non è bastato maledire il giorno della sua nascita: egli si spinge oltre fino a proclamare la bontà della morte. Ne tesse un elogio così seducente da rischiare l’accusa d’istigazione al suicidio, se certe dichiarazioni circolassero oggi su internet. E invece, queste parole che decostruiscono l’intera bontà del progetto divino per consegnare alla morte la vittoria finale, sono pronunciate da un uomo che la tradizione giudica come giusto e pio, e sono addirittura contenute nella Scrittura. S Dunque, elevate a Parola di Dio. La Bibbia non è un libro ideologico che espone alcune dottrine religiose incurante delle domande profonde che nascono dalle piaghe della vita. Essa è parola credibile proprio perché attraversa l’esistenza. Il Dio biblico non si barrica dietro un credo religioso codificato. Per dirla con le parole di Lutero: «Alle lodi del benpensante, Dio preferisce la bestemmia del disperato». Le parole di Giobbe suonano come una bestemmia. Più sacra però di chi, con un linguaggio religioso, offre facili consolazioni al sofferente. Il progetto di una vita bella e buona voluta da Dio è scosso nelle sue fondamenta dal delirio poetico di Giobbe. Il suo grido: «viva la morte», è la critica feroce alla vita che non trova più il suo senso. È il J’accuse del disperato contro un Dio che non viene percepito come sostenitore dell’esistenza, ma suo carceriere: «Perché dar vita a un uomo la cui via è oscura, e che Dio ha stretto in un cerchio?» (3,23). Giobbe sente la vita creata da Dio come una prigione buia da cui non può scappare; perciò sogna la morte. L’ideologia di turno ha frequentemente trasformato questa visione disperata in credo religioso. Con sfumature diverse, si è delegato all’aldilà il ristabilimento della giustizia. Lo sa bene una genealogia femminile, abituata a sopportare il dolore, le umiliazioni e le angherie del patriarcato nell’attesa della ricompensa celeste. Ne fanno memoria gli spirituals che vedono nel cielo la sola via di fuga alle catene della schiavitù. Quando si addomestica questo grido, le sofferenze terrene smettono di chiamare in causa Dio e la sua giustizia per diventare la caparra con cui pagare il soggiorno celeste. La bestemmia del disperato è stata trasformata in pia preghiera da una cristianità che ha rimandato all’aldilà la sete di giustizia. L’urlo di Giobbe, che esalta la morte, va ascoltato come tale. È un grido sofferto, una denuncia contro le inadempienze della vita, non una professione di fede da strumentalizzare contro chi è già piegato dal male qui e ora. 55 ROCCA 1 DICEMBRE 2011 la morte desiderata & V VIZI VIRTÙ ROCCA 1 DICEMBRE 2011 Filippo Gentiloni 56 el nostro linguaggio esiste una serie di nomi che indicano atteggiamenti virtuosi, ma carichi di ambiguità. Positivi, ma con incertezze. Bisognosi di spiegazioni. Fra gli altri si possono citare almeno resistenza, coraggio, entusiasmo. È giusto annoverarli fra le virtù? Con o senza precisazioni? Resistere, prima di tutto. Si tratta di una bella virtù se ciò a cui si resiste è il male, in tutte le sue forme. Allora la resistenza è nobile, difficile, eroica. È diventata addirittura termine tecnico per indicare quella eroica opposizione al male del secolo XIX, il nazismo e il fascismo, il male assoluto. Resistenza senza bisogno né di precisazioni né di aggettivi. Al di fuori della politica, la resistenza non trova facilmente casa. Ne è una prova la difficoltà con la quale si parla di resistenza nella educazione dei bambini. Meglio: di resistenza non si parla. Non si parla facilmente di ciò a cui si dovrebbe resistere: sopraffazioni, prepotenze, ingiustizie. Tutti i tipi di male di cui, purtroppo, è piena la N vita. Forse più che di resistenza sarebbe bene parlare di coraggio: una virtù nobile e chiara, anche se troppo legata al mondo militare e anche della guerra. Troppo dipendente dal mondo della violenza. Bisognerebbe sempre declinare il coraggio e con la giustizia e con la dolcezza. Distaccare il mondo del coraggio da quello della guerra e della violenza, per far rientrare il coraggio nel mondo che gli è proprio, quello del bene e del giusto e anche della moderazione. Un mondo essenziale e necessario, dalla vita politica – nazionale e internazionale – a quella familiare. Fino al coraggio supremo, quello di fronte alla malattia e anche alla morte. Così il coraggio e la sua sorella – la resistenza – partono dalle piccole cose della vita e arrivano al letto di ospedale. Sempre e dovunque approvati ed esaltati da chi ha saputo dar loro il posto che devono occupare nella vita. In un quadro che è di pace e di amore: due termini che bisogna decisamente unire alla resistenza e al coraggio, se si vuole un quadro virtuoso di vita vera. E di vera virtù. CINEMA Q Faust l’espressionismo aveva aggiunto il tocco di un demonio che lo avvolge con le proprie ali. E anche il rapporto tra il protagonista e il suo complice-persecutore, pur non sfiorando la comicità come nel suo antecedente muto, appare improntato a un picaresco acre e bizzarro. Quanto all’ambientazione, Sokurov sceglie di spostarla dal tempo della vicenda, imprecisato ma comunque medioevale, a quello di Goethe, disegnando i costumi con rigore quasi filologico, se si eccettua qualche licenza in direzione del fantastico, come nell’abbigliamento da Regina della Notte della moglie dell’usuraio interpretata da Hanna Schygulla. Sotto la patina di un colore diluito fin quasi al bianco e nero, effetto accresciuto dalla scelta dell’arcaico formato 4:3, non sfuggono tuttavia citazioni anacronistiche: a Bruegel per il paesaggio e la gente che lo popola, a Bosch per le situazioni da incubo, le deformazioni ottiche che a tratti piegano l’inquadratura e l’innaturale luminescenza che sottolinea la resa alla passione di Margherita. Rispetto al pittore del «Giardino delle delizie» il regista russo accentua il senso di una sgradevole fisicità fin dalla sequenza iniziale dell’autopsia, che parte dal primo piano del pene del cadavere, senza risparmiarci in seguito budella e frattaglie varie, cibo ingurgitato in maniera animale, deiezioni coram populo ed esibizione di corpi cadenti o innaturalmente deformi. L’ attraversamento degli orrori di un’esistenza che si dice contraddistinta dal fetore appare tuttavia il percorso obbligato per questo personaggio ambiguo e contraddittorio, che assurge a eroe per l’inesausta spinta vitale che lo caratterizza: verso l’amore, certo, esperienza totalizzante e sublime, ma soprattutto verso la conoscenza, che lo spinge immer weiter, sempre oltre, non a caso l’ultima parola che pronuncia dopo aver lapidato l’usuraio-Mefistofele, davanti a un geyser in Islanda, estrema Thule per definizione, prima di incamminarsi in direzione dei suoi ghiacciai, di un altrove sconfinato e sconosciuto. Oltre l’insegnamento e l’autorità paterni, la scienza, la filosofia, la morale, la religione, la società. Oltre Dio. Faust rappresenta a detta del suo autore l’ultimo movimento di una tetralogia iniziata nel 1999 con Moloch e continuata con Taurus (2000) e Il Sole (2005), dedicati alla conclusione dell’esperienza di vita e di governo rispettivamente di Hitler, Lenin e Hiro Hito, cioè tre potenti del secolo scorso. Facendo un salto nel passato, Sokurov in realtà si proietta nel futuro, rivisitando una figura comunque prometeica nonostante i suoi lati oscuri, aperta alla categoria della possibilità, dunque a porsi le domande eterne sul senso della vita e sull’essenza e le prospettive del genere umano. Scommessa con posta altissima, forse più ancora di quelle degli altri suoi film. Leone d’Oro a Venezia, Faust è stato salutato da molti come un capolavoro. Da estimatori antichi del regista, non ne siamo del tutto convinti. L’ambizione dell’assunto ci sembra infatti non trovare adeguato corrispettivo in una scelta, di sceneggiatura e messa in scena, che gioca soprattutto sull’accumulo esplicativo di situazioni, anche se non mancano alcuni momenti forti, come la magnifica scena in cui il protagonista e Margherita si lasciano precipitare nel fiume dell’incanto amoroso. Facendo un parallelo musicale, ci ha fatto pensare a un melodramma con tanti recitativi e poche arie. Per dirla fuori dai denti, insomma, al Sokurov delle grandi architetture coproduttive preferiamo quello più concentrato su tranches de vie sospese nei cieli della metafisica, come in La voce solitaria dell’uomo o Madre e figlio. E, naturalmente, quello delle Elegie, su Tarkovskij, Shostakovich e il duo Rostropovich-Vishnevskaya tra le altre. ❑ 57 . ROCCA 1 DICEMBRE 2011 Paolo Vecchi uello di Faust è un mito fondante della cultura europea, che coinvolge con esiti diversi un po’ tutte le arti, dalla letteratura (Marlowe, Goethe, Mann) alla musica (Berlioz, Gounod, Boito, Busoni, Schnittke). Ovviamente non poteva mancare il cinema, sedotto dalle valenze anche puramente iconografiche e spettacolari del personaggio, a partire dal prestigiditatore Georges Méliès che già nel 1897 lo faceva uscire dal suo cappello a cilindro aggiornato alle nuove tecnologie. Tra le innumerevoli versioni realizzate per lo schermo ci piace citarne tre: quella di Friedrich W. Murnau (1922), con Emil Jannings insuperato Mefistofele, Lecke Faust (t.l.: Lezione Faust, 1994) del geniale animatore surrealista ceko Jan Svankmajer e, last but not least, Totò al Giro d’Italia (1948) di Mario Mattoli, strepitosa parodia con il principe De Curtis nei panni di un barbuto professore che vende l’anima a un diavolo di seconda classe per arrivare in maglia rosa a Milano, condizione-capestro alle nozze con la deliziosa Isa Barzizza. Anche per la dichiarata seppur libera derivazione goethiana, non poteva essere certamente questo il registro scelto da Aleksandr Sokurov, insieme all’ungherese Béla Tarr tra i pochissimi eredi del magistero di Andrej Tarkovskij, per lo spiritualismo dei temi, la complessità filosofica della loro articolazione e l’uso dei tempi morti in funzione espressiva. A parte quello specchio magrittiano sospeso nell’etere, l’incipit fa tuttavia pensare a Murnau, con la mdp che volteggia su un paesaggio innaturalmente cupo al quale il caposcuola del- RF&TV TEATRO Roberto Carusi Renzo Salvi Il cinema e la scena ROCCA 1 DICEMBRE 2011 M ilano Film Festival è una rassegna della durata di una settimana che si tiene ogni anno a Milano. Vi si proiettano – in diversi luoghi deputati – le ultime produzioni (ma anche interessanti recuperi) della cinematografia sia amatoriale sia professionale: documentari e anche storie a trama. Larga e significativa la presenza di una fascia d’età giovanile (e non solo). Ne parlo in questa sede perché in ben due occasioni la macchina da presa si è soffermata su scene e retroscena di affermate compagnie teatrali. Atelier Colla è il felice risultato di un paziente lavoro – durato mesi – sull’attività, osservata dalle quinte, della rinomata Compagnia Marionettistica Carlo Colla e Figli, finalizzata all’allestimento del Macbeth shakespeariano: dagli anfratti del laboratorio fino al debutto al Piccolo Teatro di Milano. Eugenio Monti Colla (direttore artistico della Compagnia) e Carlo III Colla (responsabile dell’allestimento) sono osservati, ascoltati e seguiti dall’obiettivo mentre agiscono e parlano tra di loro e con i componenti la storica équipe. Dietro alla macchina da presa tre giovani registi (Guglielmo Trupia, Pietro De Tilla, Elvio Manuzzi) che hanno passo passo seguito le discussioni sul progetto artistico, la costruzione delle scenografie e la meticolosa ideazione e confezione di costumi e parrucche, il «doppiaggio» e la registrazione in sala d’incisione, infine le concertate «manovre» dal ponte. Tutto ciò, grazie a un sapiente montaggio, porta il 58 pubblico che assiste all’appassionante film a conoscere, scoprire, riscoprire il fascino segreto di una creazione artistica. Diversa eppure analoga la riscoperta – addirittura a tre dimensioni – di un classico scritto e interpretato da Dario Fo: quel quarantennale Mistero buffo tornato recentemente in scena al teatro Nuovo di Milano. In platea, sul palco, da ogni angolazione erano presenti le macchine da presa dietro alle quali stava Felice Cappa, regista che da tempo segue il teatro di Fo sia sulla scena sia per la Tv. Due macchine stavolta: sofisticate e tecnologicamente evolute quanto basta per effettuare stupefacenti riprese tridimensionali. L’esito è, a dir poco, sorprendente anche se – come ha spiegato Cappa – c’è ancora molta strada da fare. E Fo, divertito e interessato, ha osservato che del nuovo approccio agli spazi e al pubblico, offerto da questo intreccio di teatro e cinema, si dovrà d’ora in poi tener conto. P.S. Al momento di spedire l’articolo apprendo la notizia della morte di Carlo III Colla, erede – con il cugino Eugenio Monti Colla – di una grande tradizione artistica familiare. Di Carlo Colla restano i sapienti allestimenti tecnici e il ricordo della sua abilità nel «muovere» le marionette caratterizzando i personaggi più grotteschi, a cominciare da quel Gerolamo cui era intitolato il piccolo «gioiello» milanese che Carlo III ha invano sognato di vedere riaperto: il teatro dove, ancora bambino, aveva debuttato. ❑ Italialand N uove attrazioni» fa da sottotitolo alla nuova edizione di Italialand dagli schermi de La7, il venerdì sera (dal 21 ottobre per dieci puntate). I tre termini dichiarano intento e chiave interpretativa del programma che guarda alla realtà del paese nei termini di un Parco giochi più o meno «a tema»: nella fattispecie sulla politica e le culture dominanti. Ma dietro la ragione sociale, che lo iscriverebbe d’ufficio al filone della satira e della comicità politicamente orientata, Italialand sembra collocarsi sui margini di questa tipologia per orientarsi alle forme e, in qualche caso, alla sostanza del teatro civile e d’impegno: altro certamente dallo stile inchiesta/denuncia «alla Paolini», meno elegante delle scritture (non a caso drammaturgiche) di Dario Fo, ma soprattutto, in positivo, meno pretenzioso di altri tentativi tv che vivono dell’attesa e nella speranza di suscitare censure. Comico, quindi, ma consapevole di una situazione che Giannelli, vignettista del Corriere, ha ben sintetizzato affermando che la satira non cambia il mondo: semmai strappa un sorriso. Teatrale è l’habitat del programma, pur ricostruito in studi tv, teatrale l’impianto di comunicazione con l’interprete (quasi) assoluto che fronteggia la platea e talvolta la suscita come un coro; teatrale il cambio di arredi (minimi) a vista come pure l’abbigliarsi ed il cambiar personaggio appena al di là delle quinte. Televisivo è invece, come per tutto il teatro in Tv, l’apporto delle telecamere che restituisce in primo piano ciò che sul palco e dal vivo sta comunque «laggiù»; televisivo è il grande schermo arcuato di fondo su cui compaiono ora scene, ora giochi di immagine che si mescolano all’illuminotecnica creativa proiettata sul palco. La consapevolezza dei propri limiti e perciò una distanza nei confronti di se stesso mentre si burla di politici e situazioni borderpolitiche emerge nel non riuscire a mantenersi serio di Maurizio Crozza (one-television man) e di qualche sua spalla dialogante sia in video che in sola voce. Per questa via le vecchie attrazioni della politica – un presidente del consiglio lì lì per non esser più tale e la sua corte dei miracoli in villa, parlamento e governo – inducono al riso solo dopo che lo spettatore/cittadino ha superato tutte le desolazioni, ma con Italialand ci si ritrova anche a sorridere sulle immagini in burla del presidente della Repubblica e del sindaco/rottamatore di Firenze («il nulla che avanza»), mentre rispetto al fraseggio iperlapalissiano di Bersani Crozza rivendica addirittura i diritti d’autore. A questa via di comicità civile viene piegata una mimesi vocale capace di mutarsi in corso di frase, piegandosi anche a multiformi inflessioni dialettali, e in grado di passare dal parlato al canto mantenendo queste tipologie di fraseggio. Per le nuove attrazioni: nella puntata/emblema del giorno 11 novembre si è affacciato il commento «gastrico» (uomo da pastina, non gaudente come Prodi) dedicato a Mario Monti, ed è stato ripescato lo pseudoBossi ai giardinetti ad attaccar bottone. Funzionan meno le presenze delle figure vere: Civati, Tosi, prima Della Valle. Per i (più o meno) politici non è davvero l’ora: neanche come spalla. ❑ FOTOGRAFIA ARTE Mariano Apa Alberto Pellegrino L a giustissima e bellissima esposizione parigina che di Gino Severini è stata realizzata ai d’Orsay e Orangerie, ora si visita fino a gennaio al Mart di Trento e Rovereto, con catalogo della Silvana Editoriale a cura di Gabriella Belli e Daniela Fonti; indicando le strade di un monografico itinerario di un genio dell’arte che tra Roma e Parigi, dove muore il 26 febbraio del 1966, sembra come ritornare «sempre» all’etrusca sua Cortona, dove nacque il 7 aprile del 1883. Tra Simbolismo e Futurismo, Severini edifica un originale proprio percorso critico artistico che perviene a coniugare arte e teologia, racconto dell’ornamento e fissità del canone: Severini accenna, ma ben tiene di conto, a Lenz e a Beuron e certo venne anche a conoscere il Serusier- Denis della «ABC de la peinture». La sua partecipazione all’Avanguardia indica una sorta di «distanza» che lo fa operare per sintesi subliminale e nel suo Futurismo – di cui nel 1910 firma i manifesti della Pittura, 11 Febbraio, e della Tecnica, 11 Aprile – vengono a percepirsi le timbrature cromatiche del Fauvisme e le analitiche geometrizzazioni spaziali dei Cubisti e della Section d’Or, le emozioni poetiche dell’Orfismo di Apollinaire e dei suoi «Calligrammes» che lo aiutano a risalire ai cartigli di Simone Martini e del Beato Angelico. All’interno del pirotecnico e infuocato ragionare dell’avanguardia, si cela il segreto di una forma che sappia decidere il canone della figura, di là del racconto italico di un «ritorno» che appare come simulazione letteraria – il ciclo al Castello di Montegufoni, del 1921 – di una ricerca che conduce al segreto dell’argomento: sempre del 1921 è, infatti, il magistrale suo «Du cubisme au classicisme. Esthétique du compas et du nombre», che Piero Pacini ripubblica benissimo nel 1972, e che va letto insieme al «Tempo dell’Effort Moderne/ Vita di un pittore», che Pacini presenta e cura già nel 1968. Dal 1924 lavora alle «Chiese svizzere» della Diocesi di Friburgo, su cui sono intervenuti a loro tempo, Cecilia De Carli e Daniela Fonti. Con Mons. Passerini – che lo aiuta a studiare a Roma e di cui nel 1903 ne esegue un ritratto – con Mons. Marius Besson, che della Diocesi svizzera fu Vescovo dal 1920 al 1945, e con il Vescovo di Cortona, il sassoferratese Mons. Giuseppe Francolini, con cui realizzò una Via Crucis nel ricordo di Margherita da Cortona; Severini si incrocia tenendo il filo del compasso ben fissato nell’opera di Jacques Maritain, di cui la fiorentina Olschki Editore per la cura di Giulia Radin – e testi di Romana Severini, René Mougel e Piero Viotto – pubblica l’importante «Corrispondance Gino Severini Jacques Maritain (1923-1966)» del materiale ora custodito nell’Archivio del ’900 del Mart. Con sua moglie Jeanne Fort, Gino Severini frequenta Meudon e quindi con Jacques anche Raissa Maritain. Una cosmologia si sovrappone all’altra, delle origini romane con Balla e Boccioni, pervenendo ad unificarsi nella localizzazione di un ricercato statuto originario nell’immagine realizzata infine trovato. ❑ Due saggi A rriva nelle librerie con un ritardo di oltre trent’anni il volumetto di Franco Vaccari intitolato Fotografia e inconscio tecnologico (Einaudi, 2011) che conserva una sua importanza storica come testo utile a comprendere un fase storica dell’arte fotografica e dell’arte più in generale, perché circola la tesi sulla «morte dell’autore» in auge nel Sessantotto e nei primi anni Settanta, quando Vaccari alla Biennale di Venezia esponeva una macchina per fototessere e una parte bianca su cui i visitatori potevano appendere i loro ritratti realizzati in automatico, sintesi delle sue «esposizioni in tempo reale». Vaccari è stato sempre uno che si è «lasciato usare» dalla fotografia, sostenendo che il fotografo (specie se si ritiene un «artista») non è lui a fare le fotografie, perché le immagini nascono da sole, spesso in modo casuale entrano nell’inquadratura grazie alla fotocamera che è in grado di creare un’immagine autosufficiente anche in assenza di un autore che la manovra. Vecchia tesi ricorrente fin dai tempi del pittorialismo e delle teorizzazioni del primo Novecento sull’inconscio ottico (Da Benjamin a Flusser), tesi puntualmente smentite da Alfred Stieglitz ai futuristi, da Man Ray a Moholy-Nagy, da Mulas a Cartier Bresson. Se si prende questo testo come un documento storico, ognuno è libero di affermare quello che vuole ma rimane andare contro una realtà ormai consolidata: è inutile parlare di «narcisismo» dei foto- grafi-autori e di loro presunte «sovra codificazioni isteriche» che possono valere per un mare sconfinato di fotografi che ci tengono a classificare ogni loro fotografia come un’opera d’arte. Ma questo discorso non tiene per fotografi che hanno segnato la storia della fotografia come, ad esempio, Nadar e Paul Strand, Mario Giacomelli e Luigi Ghirri, Mapplethorpe e Sebastião Salgado, Duane Michals e David LaChapelle. Molto più interessante, perché più attuale, il saggio di Remo Cesarani L’occhio della Medusa. Fotografia e letteratura (Bollati Boringhieri, 2011), perché in esso viene preso in esame il complesso rapporto tra la fotografia e il testo letterario, si analizza l’uso del linguaggio e della metafora, mettendo sempre in risalto le differenze esistenti tra letteratura e fotografia. L’autore analizza la presenza del fotografo come personaggio in varie opere letterarie; il rapporto tra memoria e fotografia, in particolare in Proust, Nabokov, Lalla Romano, Margherita Youcernar, con tutte le possibili manipolazioni e decifrazioni degli autori. Interessante è la tesi (già di Susan Sontag) secondo la quale la fotografia è un atto «predatorio» per quanto riguarda, il ritratto e le foto di gruppi familiari o riguardanti la vita, perché serve ha catturare l’immagine umana e fissarla per sempre sulla carta per la sua capacità di bloccare in un attimo l’esistenza di una persona. ❑ 59 . ROCCA 1 DICEMBRE 2011 Severini SITI INTERNET SATIRA Alberto Pellegrino Giovanni Ruggeri L’Italia s’è desta I ROCCA 1 DICEMBRE 2011 I n occasione delle celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità d’Italia è stato pubblicato il volume L’Italia s’è desta. Stampa satirica e documenti d’archivio per una lettura storico iconografica dell’Unità d’Italia a cura di Fabio Santilli, presidente del Centro Studi Galantara. Il volume si apre con la prefazione dell’illustre storico Giuseppe Sabbatucci e con l’interessante saggio Se ogni periferia è un centro: centralismo e localismo nell’Italia unita di Paola Magnarelli, docente di storia contemporanea nell’Università di Macerata. L’opera, che contiene circa cinquecento illustrazioni, si apre con una introduzione Il segno. Il graffio. La storia. Prolegomeni alla lettura critica della satira risorgimentale di Melanton, segue quindi un ampio e documentato contributo di Fabio Santilli intitolato La stampa satirica per una storia iconografica dell’Unità d’Italia, partendo dal primo giornale satirico L’Arlecchino di Napoli per poi analizzare i giornali romani come Il Don Pirlone, Er Rugantino e Cassandrino, i fogli milanesi Lo spirito folletto e L’Uomo di Pietra, i periodici torinesi Il fischietto e Pasquino per arrivare a Il pupazzetto pubblicato a Roma nel 1864. Nelle stesse Marche nascono diversi fogli satirici come Il Disordine, La Scopa, Il Ficcanaso e Don Falcuccio. Nella parte del volume più propriamente storica Marcello Verdenelli dell’Università di Macerata si occupa del rapporto fra Leopardi e il Risorgimento; Marco Severini, sempre dell’Università di 60 Netnografie Macerata, delle Marche e la Repubblica Romana tra il 1848 e 1849; Matteo Villa analizza la campagna sabauda dalle Marche alla Campania; infine Giampaolo Vincenzi scrive una storia dell’unità regionale e nazionale attraverso i documenti d’archivio. Nell’ultima sezione, dedicata a particolari argomenti di ricerca, Luigi De Angelis tratteggia le figure di Garibaldi, Cavour, Mazzini e Vittorio Emanuele; Paola Puglisi analizza l’immagine dell’Italia nella iconografia nazionale; Laura Bianchi si occupa di epistolari e diari del periodo risorgimentale; Ernesto Pauselli parla delle donne nel Risorgimento; infine Alberto Pellegrino affronta il tema di Risorgimento e mass media, occupandosi della fotografia risorgimentale dalla Repubblica Romana alla guerra d’Etiopia, del cinema risorgimentale, della stretta connessione tra Risorgimento e melodramma italiano, della straordinaria popolarità di Garibaldi divenuto un vero e proprio mito «massmediatico» grazie anche ai suoi romanzi e alla diffusa presenza del personaggio nella letteratura, nella canzone popolare, ❑ nel fumetto. l rischio c’è: d’ora in poi, potrebbero avere il sapore dell’archeologia culturale quelle ricerche tese a indagare i vari aspetti del rapporto di Internet e delle nuove tecnologie con la vita quotidiana delle persone e delle società. La realtà, infatti, è andata di gran lunga molto più avanti, sì che oggi il vero oggetto di indagine è costituito dalle forme, significato e implicazioni che assume l’intreccio di relazioni interno alla rete stessa, gli scambi che hanno luogo tra coloro che fanno la rete, con i loro messaggi e interazioni. Un approccio, dunque, tutto all’interno. È questo il significato e l’obiettivo di una nuova disciplina denominata netnografia, cioè l’analisi delle interazioni che avvengono sul web, mediante gli strumenti tradizionali dell’antropologia culturale e dell’etnografia. Richiamando il caposcuola di tali studi, l’antropologo Robert Kozinets, potremmo dire che la netnografia è un’etnografia e un metodo di analisi antropologico adattati alla società contemporanea, dove vita e cultura sono ormai e irrimediabilmente mediate tecnologicamente. In Italia, la prima espressione istituzionale di questo nuovo indirizzo di ricerca è il Centro Studi di Etnografia Digitale di Cava dei Tirreni, organizzazione noprofit che vede all’opera sociologi, marketer ed esperti del web. Sorto su iniziativa congiunta di istituzioni accademiche (e non solo) di Milano, Urbino, Salerno e Copenaghen, «il centro, attraverso l’utilizzo strategico e capillare dei nuovi media digitali, si occupa di studiare e comprendere le nuove forme di vita culturali emergenti nella rete e nella società. I nuovi media rendono visibili e accessibili pensieri, comunicazioni, emozioni ed identità che prima rimanevano privati e nascosti. Il centro studi usa metodologie qualitative e quantitative per mettere a frutto questa nuova possibilità di arrivare ad una comprensione più profonda di identità, tribù e forme di vita che emergono nella contemporanea società delle reti» (si veda www.etnografiadigitale.it). Lo studio dei comportamenti dei gruppi e delle nicchie all’interno soprattutto dei social network (Facebook, Twitter ecc.) e di tanti altri siti che vivono dell’interazione tra i rispettivi utenti ha una potenziale ricaduta sia commerciale (marketing) sia sociale. Nel primo caso, si studiano tendenze, gusti, abitudini e attitudini degli utenti della rete per veicolare loro proprio il prodotto che si vuole vendere; nel secondo caso – ed è facile intuire quali possibilità di impiego manipolatorio anche per fini politici si nascondono in questi strumenti di indagine – si vanno a individuare gli specifici dispositivi comunicativi, e in genere relazionali, che operano nella rete, per interagirvi secondo le più diverse finalità. Il tema non è da sottovalutare: basti pensare che il solo Facebook ha raggiunto circa 600 milioni di utenti attivi in tutto il mondo; di questi, 18 milioni sono in Italia ed è talmente elevata la loro fidelizzazione che ben 4 milioni vi accedono da dispositivi mobili. Come dire: sempre e ovunque. Le persone si incontrano anche in rete per scopi sociali, culturali, civici. Danno vita a relazioni. Resterà da vedere quanto estensione e numero non saranno di detrimento alla qualità. ❑ LIBRI Nel verde abbraccio della foresta dell’alto Casentino, da un millennio il monastero e l’eremo di Camaldoli conducono il cuore del credente alla lode dell’Altissimo. Il Monastero di Camaldoli: fortezza custodita nello scrigno smeraldo della foresta dove da mille anni i monaci vivono, pregano, pensano. L’Eremo: la solitudine che si fa esistenza orante per il mondo e per la pace, lassù, dove una scala luminosa sembra congiungersi al cielo oltre le vette degli abeti; ai piedi di quella scala Dio non smette di cercare l’uomo e con Jacques Le Goff potremmo dire che lì, nel cielo sceso in terra, stanno le radici medievali dell’Europa. Lassù, lungo l’inquieto cammino della storia, generazioni di uomini e di donne sono state accolte dai monaci e hanno coltivato la loro crescita spirituale e la loro maturazione intellettuale. Preghiera, spirito, liturgia, cultura: nell’approssimarsi della celebrazione millenaria – che cadrà nell’anno venturo – di questo dono così singolare per la Chiesa cattolica e per l’umanità, cristiana ed anche laica, che anima la nostra società, i monaci di Camaldoli ci offrono nelle pagine di questo piacevole volume una corale, distesa meditazione sui peculiari carismi della spiritualità dei discepoli di San Romualdo. Una spiritualità saggiata e perfezionata dal tempo, trascorso nel solitario dialogo con Dio; nelle giornate scandite dal canto della liturgia delle ore, quotidiano e fecondo innesto di ogni altra attività; nella cordiale compagnia del popolo cristiano, desideroso di sempre me- glio coniugare l’esercizio dell’intelligenza e la professione della propria fede con il fervore e l’impegno civile, di tenere desta la coscienza e attento il cuore alla voce dello spirito,in un orizzonte di comunione nelle diversità che si fa esempio; nella serena contemplazione della brulicante bellezza del mondo, delle sue contraddizioni e delle sue attese. Questo testo ci ricorda pertanto che la comunità monastica di Camaldoli è una memoria ed una presenza nel mondo odierno. Non solo una millenaria memoria storica da celebrare ma soprattutto una presenza viva e preziosa da custodire e da onorare. Affinché il dialogo orante, accogliente, riflessivo che essa anima continui ad orientare le vicende di uomini semplici ma tutti ugualmente impegnati nel progresso dell’autentica civiltà. Tiziano Torresi geliano, e critica nei confronti di quelli che, a suo parere, rappresentavano gli esiti relativistici e nichilistici di molte correnti contemporanee. E contro la tendenza di queste correnti a decostruire la questione del senso, ha cercato, come sostiene la curatrice, di «privilegiare ogni momento costruens della storia della filosofia». Gli scritti contenuti in questo libro, tra cui un inedito, sono quindi un’occasione per esplorare, da un’angolazione diversa, il pensiero della crisi (soprattutto l’opera di pensatori come Schopenhauer, Feuerbach e Nietzsche) e per ricordare, a cinque anni dalla morte, uno studioso serio e appassionato che attribuiva alla filosofia un vero e proprio compito vitale, il compito di rispondere alle domande esistenziali «come domande sul destino del singolo esistente». Stefano Cazzato Leonardo Casini Corporeità. La corporeità nelle Erzanzungen al Die Welt di Schopenhauer e altri scritti (a cura di Viviana Meschesi) Mimesis, Milano 2011, pp. 139, € 14,00 Enrico Peyretti Dialoghi con Norberto Bobbio. Su politica, fede, nonviolenza Claudiana, Torino 2011, pp. 256, € 15,00 Grazie a questo volume curato da Viviana Meschesi ci si può accostare all’opera di Leonardo Casini, in particolare al suo programma filosofico di recuperare e valorizzare «il pensiero della differenza personale, della corporeità nella sua chiave umanistica individuale e intersoggettiva». Con questo programma «forte», personalista nella sua ispirazione di fondo, Casini, che è stato professore ordinario di Filosofia morale presso l’Università di Roma Tre, ha incarnato una voce controcorrente rispetto alle letture dominanti dell’irrazionalismo posthe- Quella di Norberto Bobbio è un’eredità filosofica ed etico-politica particolarmente preziosa per la riflessione contemporanea, specie in considerazione del fatto che il nostro tempo pare ormai caratterizzato da una sostanziale disabitudine alla partecipazione e in generale a tutti quegli esperimenti di democrazia diretta cui, per esempio, guardava un Aldo Capitini con la sua omnicrazia, la sua idea di potere di tutti e dal basso, le sue proposte – tra le altre – di Centri di Orientamento Sociale e Centri di Orientamento Religioso. E proprio con Capitini, d’altra parte, Bobbio ha a lungo e volen- tieri dialogato, lui da perplesso e l’amico perugino da persuaso. Enrico Peyretti riporta e commenta sapientemente un dialogo importante avuto, lungo un ventennio, con il filosofo e con l’uomo Bobbio (si possono scindere?) e ne sottolinea aspetti utili alla comprensione di come eravamo, di come siamo e del perché lo siamo diventati/lo stiamo diventando. Le trentanove lettere inedite del filosofo torinese che questo volume presenta offrono così, assieme alla ricca appendice, l’opportunità di rileggere buona parte della storia delle idee in Italia e non solo, dagli anni Ottanta fino al 2003, nel mentre vengono affrontati diversi nodi cruciali di quella che chiamerei l’educazione alla politica. Ecco allora il dibattito su guerra/pace e disarmo, su violenza/nonviolenza, ma anche alcune considerazioni ‘decisive’ su diritto e giustizia sociale, su religione e religiosità, sulla dialettica vita-morte. E ancora: la cifra dell’esistenza e delle relazioni intersoggettive, il senso della comunità, il valore dell’amicizia, il confronto tra differenti visioni del mondo e tra alternative possibili del fare e del progettare la politica. Difficile resistere alla tentazione di citare almeno questo passaggio limpidissimo del giugno 2000, quando Bobbio scrive a Peyretti: «Non c’è nessuna contraddizione tra il mondo delle passioni o delle emozioni e il mondo della ragione. Appartengono a due sfere diverse, starei per dire anche fisiologicamente, della nostra personalità. Mentre vedo un contrasto tra l’uomo di ragione e l’uomo di fede, non vedo alcun contrasto tra l’uomo di passione e l’uomo di ragione» (p. 153). Non sarà che ci mancano intellettuali dello spessore di Bobbio? ROCCA 1 DICEMBRE 2011 Alessandro Barban, Joseph H. Wong Il primato dell’amore Cittadella editrice, Assisi 2011, pp. 310, € 18,50 Giuseppe Moscati 61 paesi in primo piano Carlo Timio Giamaica ROCCA 1 DICEMBRE 2011 S tato dell’America centrale, la Giamaica è la terza isola più grande dei Caraibi e la prima fra tutte quelle di lingua inglese. È situata a circa mille chilometri a sud di Miami e a centocinquanta chilometri da Cuba. I primi colonizzatori furono gli indigeni amerindi della tribù Arawak che, sbarcati intorno al 1000 d.c., dettero all’isola il nome di Xajmaca (che significa terra di primavera). Nel 1494 fu la volta di Cristoforo Colombo ad approdare sull’isola, che successivamente venne rivendicata dalla corona spagnola. Nell’arco di pochi anni, il duro sfruttamento della popolazione indigena, ridotta in schiavitù, provocò l’estinzione degli Arawak. Prese così forma la tratta degli schiavi importati dall’Africa e costretti a lavorare nelle piantagioni di canna da zucchero. Malgrado la resistenza degli spagnoli, nel 1654 gli inglesi riuscirono a conquistare l’isola. Nei primi venti anni dalla conquista britannica, la Giamaica divenne il più grande esportatore di zucchero al mondo. La massiccia importazione di schiavi africani determinò una sproporzionata presenza di neri in relazione ai bianchi. Ciò provocò inevitabili scontri e ribellioni a tal punto che nel 1834 fu formalmente abolita la schiavitù. Dopo il raggiungimento del suffragio universale per tutti i giamaicani nel 1944, il Paese divenne una provincia della Federazione delle Indie Occidentali. L’indipendenza dal Regno Unito avvenne nel 1962. Il Paese oggi è una democrazia parlamentare, membro del 62 Commonwealth, la cui forma di stato è quella della monarchia costituzionale: la Regina Elisabetta II è il capo dello Stato. Negli anni Sessanta, il tentativo da parte del governo presieduto da Michael Manley di alleviare le gravi condizioni economiche in cui versava il Paese, causò un notevole aumento del debito estero. L’intervento del Fondo monetario internazionale con le sue politiche di austerità non si fece attendere. E l’aggravarsi delle condizioni economiche, spinse la politica a costituire un governo di unità nazionale composto dal Partito nazionale del Popolo di Manley e il Partito Laburista giamaicano che stava all’opposizione. Tale connubio non sortì però gli effetti desiderati. Infatti, la collusione dei partiti politici con le bande rivali era montante. A partire dagli anni Ottanta si verificarono episodi di uccisioni, violenze e sparatorie connesse con la malavita e il mercato della droga. L’escalation di questo fenomeno si ebbe intorno a metà degli anni Novanta quando si intensificarono le lotte intestine tra gruppi armati che oltre ad impoverire la popolazione creavano un forte stato di insicurezza tra le gente. Nelle elezioni politiche del 2006 è salita al potere una donna, Portia Simpson Miller, esponente del Partito nazionale del Popolo. Nel 2007 invece, nelle consultazioni elettorali, ha vinto il candidato del Partito Laburista giamaicano, Bruce Golding. Popolazione: su un totale di circa due milioni e settecento mila abitanti, il 76 per cento sono neri discendenti da- gli schiavi africani, il 15 per cento sono di etnia mista, il 3 per cento sono indiani e anche gli europei rappresentano circa il 3 per cento. La variegata mescolanza razziale e culturale è frutto della colonizzazione che ha caratterizzata la storia del Paese. L’Africa ha lasciato il suo segno nella cultura, nell’arte, nella cucina e parzialmente nella lingua, mentre l’Europa ha apportato la sua influenza sul sistema educativo, legislativo, governativo, sull’architettura, sui nomi di numerosi luoghi e sulla religione. La lingua ufficiale è l’inglese, sebbene la maggioranza della popolazione parli un dialetto creolo (il patwah) costituito dall’influenza delle lingue africane, inglese, francese, spagnolo, portoghese e amerindo. La religione svolge un ruolo molto incisivo sulla popolazione, tanto che nel Paese c’è la più alta concentrazione di chiese al mondo per miglio quadrato. La confessione prevalente è il cristianesimo di stampo battista, anglicano e cattolico. È presente anche un piccola minoranza di ebrei e musulmani. La cultura mista e la forte influenza africana hanno determinato la nascita di nuove forme religiose come la pocomania e il rastafari. La schiavitù subìta nel corso dei secoli ha reso il popolo giamaicano orgoglioso e forte, sempre pronto a nuove sfide a livello globale, rompendo così i limiti geografici di una piccola isola. Alcune lampanti dimostrazioni di questa inclinazione ad affermarsi come un popolo dotato di un’identità culturale marcata, emergo- rocca schede no in due settori: la musica e lo sport. Famosi in tutto il mondo sono le musiche calypso e reggae. Quest’ultima rappresentata a livello planetario dal suo massimo esponente Bob Marley. L’importanza della musica si evince anche dal numero di stazioni radiofoniche presenti sul Paese: se ne contano circa settecentocinquanta radio ogni mille abitanti. Per quanto concerne lo sport, innanzitutto va menzionato il fatto che l’isola tropicale ha una sua squadra nazionale di bob (!), che ha debuttato ai Giochi olimpici invernali in Canada nel 1988. Inoltre, la Giamaica detiene numerosi record mondiali nell’atletica per le specialità dei velocisti. Economia: la Giamaica è un Paese in via di sviluppo con un economia mista, formata da una combinazione di libero mercato e di intervento statale. Le sezioni più rilevanti sono il turismo che anche grazie all’indotto (artigianato, prodotti agricoli, ristorazione e alberghi) è la fonte primaria di reddito. Segue l’agricoltura con l’esportazione di canna da zucchero, caffè e noci di cocco. Anche l’industria svolge un ruolo non secondario nei settori del tessile e dell’agroalimentare. Di rilievo è l’attività mineraria che, grazie all’estrazione di bauxite (di cui il Paese è uno dei maggiori produttori al mondo), di marmo e di calcare, rappresenta la seconda fonte di valuta straniera. Situazione politica e relazioni internazionali: nonostante i progressi degli ultimi decenni, che dovrebbero assicurare il raggiungimento degli Obiettivi del Millennio, la situazione economica stagnante, la carenza di infrastrutture e il problema della criminalità diffusa, rappresentano per il governo in carica impellenti questioni da affrontare. ❑ Fraternità raccontare proporre chiedere Togo due pozzi per Ountivou tini sulla testa, sulle sponde dei fiumiciattoli quasi in secca o negli stagni nell’ampio letto del Mono (il grande fiume il cui nome in lingua adja significa «madre di tutte le strade»), attingendovi l’acqua da portare a casa. È fangosa, stagnante e sporca e pure inquinata da pesticidi e diserbanti utilizzati nelle coltivazioni intensive di cotone più a monte, ma è tutta l’acqua che c’è e comunque serve per tutto: bere, far da mangiare e lavarsi ... e nessuno può farne a meno. Frequentare le rive dei fiumi può essere pericoloso. La presenza di zanzare e insetti nelle zone paludose e l’ingestione di acqua contaminata aumenta il rischio di contrarre malattie (filariosi, oncocercosi, verme di Guinea, ulcere di Buruli) dolorose e invalidanti. Poche settimane fa si è sparsa in breve la notizia che da Godohouè, un villaggio distante solo quattro chilometri, si è presentato al dispensario di Ountivou un ragazzo affetto dal morbo di Buruli. La gente si è allarmata. Il presidente del Comitato Solidarietà e Sviluppo di Oun- tivou ha riunito i capifamiglia discutendo a lungo su come risolvere il problema di dare acqua pulita a Ountivou, garantendola agli abitanti ed in primo luogo ai bambini ed ai malati del dispensario. La soluzione che hanno trovato insieme è di cercare in profondità, perforando il terreno fino a raggiungere la falda a 25/ 30 metri. È opportuno localizzare due pozzi: uno davanti al dispensario ed uno accanto alla scuola. Mentre la trivellazione dovrà essere fatta con adeguate attrezzature e da manodopera specializzata, le varie famiglie del villaggio hanno assunto l’impegno dei lavori di manovalanza relativi allo scavo, alla costruzione e all’intonacatura dei muri esterni ai pozzi e ad alloggiare e preparare i pasti per gli operai. E Koffi Francois Zondokpo si è rivolto a Fraternità chiedendo un aiuto di 3450,00 euro (costo vivo dei materiali) per dare acqua al villaggio... Luigina Morsolin Per sostenere il Progetto Pozzo Togo e/o il Progetto Corso Professionale Haiti e/o il Progetto Burundi, si possono inviare contributi con assegni bancari, vaglia postali o – Coordinate: Codice IBAN: IT76J 076 0103 0000 0001 0635068 intestato a «Pro Civitate Christiana – Fraternità – Assisi». Per comunicazioni, indirizzo e-mail: [email protected]. 63 . ROCCA 1 DICEMBRE 2011 A bitualmente nella regione togolese degli Altopiani la grande stagione secca (da ottobre ad aprile) lascia il posto tra maggio e luglio alla grande stagione delle piogge e a questa segue una seconda, ma più breve, stagione secca (agosto e settembre), finchè una piccola stagione di piogge, a cavallo tra settembre ed ottobre, conclude il ciclo climatico annuale. È quanto accade di solito, ma non è una regolarità scontata, perché talvolta succede, invece, che i campi rimangano allagati per le piogge eccessive o che inaridiscano per il protrarsi del periodo asciutto, e in entrambi i casi i raccolti vanno perduti. Quest’anno – e purtroppo è un fenomeno che si ripresenta e comincia ad essere temuto – la seconda stagione umida si è fatta attendere e per di più le piogge sono state meno abbondanti: ne hanno risentito non solo le coltivazioni ma anche il livello dei corsi d’acqua e dei pozzi che pescano su una vena poco profonda o che conservano l’acqua piovana. Nel Cantone di Ountivou che comprende il paese omonimo e i villaggi circostanti, per le donne e le bambine – è affidato tradizionalmente ad esse il compito di rifornire d’acqua la famiglia – il lavoro quotidiano si fa più duro, se scarseggia l’acqua nelle cisterne. Perchè già alle prime luci del giorno devono avviarsi, reggendo grandi ca- Rocca Invita te Nuovamente Nel 2012 DCOER0874 Occhio agli autori Verifica i contenuti Abbonati!