Il bazar di un poeta Anteprima
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Il bazar di un poeta Anteprima
BIBLIOTECA IDEALE GIUNTI HANS CHRISTIAN ANDERSEN Il bazar di un poeta A cura di Bruno Berni Titolo originale: En Digters Bazar Traduzione: Bruno Berni Ha contribuito alla traduzione di questo volume The Literature Centre at the Danish Arts Agency Progetto grafico di copertina: Lorenzo Pacini Il logo BIG è stato realizzato da Sebastiano Ranchetti www.giunti.it © 2005 Giunti Editore S.p.A. Via Bolognese, 165 - 50139 Firenze - Italia Via Dante, 4 - 20121 Milano - Italia ISBN 9788809753808 Edizione digitale realizzata da Simplicissimus Book Farm srl Prima edizione digitale 2010 Introduzione HANS CHRISTIAN ANDERSEN Hans Christian Andersen nasce a Odense, in Danimarca, il 2 aprile 1805, da una famiglia poverissima. Il padre è un ciabattino non totalmente privo di cultura, ma chiuso e insoddisfatto dalla vita, uno spirito bizzarro che di sera legge al figlio le commedie di Holberg e Le mille e una notte. Nel 1812, quando la Danimarca è alleata con Napoleone, egli si arruola «nella speranza di tornare a casa tenente», ma torna gravemente malato e muore poco tempo dopo. A soli quattordici anni, il 4 settembre 1819, Hans Christian lascia Odense per diventare «un grand’uomo» a Copenaghen: lo attende un lungo periodo di vani tentativi, durante il quale cerca di dedicarsi alla danza, al teatro, al canto, e infine ai primi caotici esperimenti letterari, ma solo dopo tre anni entra in contatto con il consigliere Jonas Collin, che prende a cuore il suo destino. Una cosa è subito chiara a Collin: gli scritti di Andersen rivelano un potenziale talento, ma soprattutto la mancanza delle più elementari conoscenze. Grazie al suo interessamento, il giovane ottiene un sussidio reale e nell’autunno del 1822 inizia a frequentare la scuola di Slagelse come pensionante in casa del rettore, Simon Meisling. Saranno anni durissimi: scontrandosi con l’ironia e lo scherno di Meisling, la sensibilità quasi isterica del giovane Andersen rischia di portarlo a risultati opposti. Ma l’impegno e la buona volontà gli 5 INTRODUZIONE fanno conquistare quelle basi culturali di cui era privo. La fine degli studi è un gran sollievo e il giovane torna subito a dedicarsi alla letteratura. Dopo aver pubblicato alcune poesie, esordisce nel 1929 con il Viaggio a piedi dal canale di Holmen alla punta orientale di Amager, un’opera immatura, ma accolta con favore dal pubblico e con interesse dalla critica. Del 1930 è invece il volume Poesie, che contiene vari componimenti in versi e Lo spettro, il primo esperimento nel genere della fiaba. Ormai Andersen sente di saper rielaborare la realtà in poesia e per questo ha bisogno di ampliare i propri orizzonti con nuove esperienze. Nel 1831, ancora una volta grazie a Jonas Collin, riesce finalmente a partire per il suo primo viaggio fuori dalla Danimarca, un breve soggiorno in Germania, che al ritorno descrive nelle Silhouettes di un viaggio nello Harz e nella Svizzera tedesca nell’estate del 1831. Andersen si rende conto di aver bisogno di vedere mondi nuovi, e da quel momento spera di partire al più presto per un viaggio al Sud. Solo nel 1833, grazie a una borsa di studio biennale, affronta il suo grande viaggio di formazione in Francia e Italia, che dura più di un anno e, come era accaduto ai suoi contemporanei, gli apre nuove prospettive. Al ritorno inizia il romanzo L’Improvvisatore, che esce nel 1835 e lo porta finalmente al successo: ambientata in Italia e ampiamente autobiografica, l’opera è tradotta subito in tedesco. Incoraggiato dall’accoglienza riservata dai lettori all’Improvvisatore, Andersen pubblica altri due romanzi nel giro di pochi anni: nel 1836 esce O.T., ancora un’opera con molti tratti autobiografici, come gran parte dei suoi scritti, e nel 1837 Solo un suonatore. Ma l’accoglienza del pubblico non ha convinto la critica, e proprio in occasione di quest’ultimo romanzo Andersen viene attaccato da Kierkegaard, che dedica il suo primo libro alla critica della visione del mondo – o meglio della mancanza di visione del mondo – del suo giovane connazionale. Ma intanto nel 1835 Andersen ha cominciato a pubblicare le fiabe che, a dispetto delle sue aspirazioni come romanziere, sono destinate a donargli fama immortale. Il 6 INTRODUZIONE primo fascicolo esce l’8 maggio del 1835, in sordina, ma da quel momento i volumetti di fiabe si succedono con cadenza quasi regolare e, nonostante lo scetticismo della critica, conquistano nel giro di pochi anni un folto pubblico in Danimarca e all’estero. Nel 1838, dopo anni di disagi economici, finalmente Andersen ottiene un vitalizio come scrittore, e le sue condizioni di vita migliorano al punto che non avrà più bisogno di scrivere per vivere. Fin dal 1835, poco dopo il ritorno dall’Italia, progettava un nuovo viaggio, e nel 1840 ottiene un sussidio reale che gli permette di partire ancora per l’Italia e continuare il viaggio fino in Grecia. Lascia Copenaghen in autunno, in dicembre arriva a Roma, dove trascorre l’inverno; da Napoli si imbarca per la Grecia, raggiunge Costantinopoli e, dopo molti dubbi a causa delle rivolte nei Balcani, decide di risalire il Danubio fino a Vienna facendo ritorno a Copenaghen solo durante l’estate. Il viaggio gli ha permesso di prendere le distanze, anche psicologicamente, dalla vita della capitale danese. I rinnovati attacchi della critica non influiscono sul successo tributato dal pubblico al suo resoconto del viaggio, Il bazar di un poeta, che esce nel 1842, e ai nuovi fascicoli di fiabe, che nel 1844 contengono alcuni dei suoi grandi capolavori, come L’usignolo e Il brutto anatroccolo. Andersen è ormai uno scrittore affermato, amico di artisti come Oehlenschläger e Thorvaldsen, tradotto in numerose lingue, ricevuto dai grandi di tutta Europa. La sua brama di viaggiare viene alimentata dal successo: alla fine della sua vita potrà contare ben ventinove viaggi fuori dalle frontiere del suo paese e innumerevoli soggiorni in giro per la Danimarca, ospite di amici e conoscenti della migliore società. Già nel 1843 torna a Parigi, dove incontra Balzac, Heine, Victor Hugo, Lamartine, e l’anno dopo è di nuovo in Germania, dove ritorna nel 1845 per un viaggio trionfale che lo porterà a soggiornare presso principi e re, granduchi e conti, da Weimar a Dresda, da Vienna a Berlino, dove l’unica delusione è quella di non essere riconosciuto da Jacob Grimm, che afferma di non averlo mai sentito nominare. Il viaggio 7 INTRODUZIONE continua in Italia, a Roma e Napoli, e poi in nave fino a Marsiglia. Ma invece di continuare per la Spagna, la malattia e la stanchezza lo portano a decidere il ritorno attraverso la Svizzera e la Germania. Intanto è divenuto famoso anche in Inghilterra ed esamina l’eventualità di un viaggio, che compie già nel 1847 incontrando Dickens, cui tornerà a far visita nel 1857. In alcuni ambienti danesi i suoi trionfi all’estero vengono ancora considerati con ironia, ma lo scrittore si prenderà una vendetta nell’autobiografia del 1855, La fiaba della mia vita, che in molti passi rappresenta uno scrupoloso elenco di tutti gli attacchi subiti in patria e dei successi all’estero, delle recensioni positive e di quelle negative. Nel 1849 viene pubblicata in Danimarca la prima edizione illustrata delle fiabe e dopo un nuovo romanzo, Le due baronesse, Andersen riparte nel 1849 per un lungo viaggio in Svezia descritto in un volume uscito due anni dopo. La situazione politica, che dal 1848 vede la Danimarca opposta alla Germania in una guerra per il possesso dei ducati di confine, gli impedisce per qualche tempo di lasciare la patria. Solo nel 1851 potrà nuovamente mettere piede nel paese confinante, che per lui è la porta dell’Europa. In compenso, il decennio dal 1850 al 1860 è un periodo estremamente produttivo per le fiabe, ed è anche il periodo in cui Andersen, ormai uomo maturo, è colto dall’inquietudine per il futuro: la scalata al successo lo ha privato degli affetti e il trionfo europeo non riesce a compensare la tristezza della solitudine. Durante un nuovo viaggio in Italia nel 1861, a Firenze assiste ai festeggiamenti del primo anniversario dell’Unità, poi visita nuovamente Roma, che dell’Italia non fa ancora parte. L’anno seguente parte finalmente per il viaggio in Spagna cui nel 1845 aveva rinunciato per motivi di salute. Lasciata la Danimarca nel luglio del 1862 giunge a Barcellona e si spinge fino a Gibilterra e di lì in Africa per la prima volta, ospite del console generale britannico a Tangeri. Al ritorno, nel marzo del 1863, scrive il suo quarto libro di viaggi, In Spagna, che esce lo stesso anno. 8 INTRODUZIONE La sua vita scorre ormai sui binari della celebrità e del benessere, anche se l’inquietudine è stata sostituita dal terrore di perdere ciò che ha conquistato. Gli amori giovanili, mai ricambiati e forse volutamente mai vissuti fino in fondo, hanno lasciato il posto alla solitudine, alleviata solo a tratti dal gusto del successo, dalle amicizie che lo accompagnano per tutta la vita. Solo nel 1866, al ritorno da un viaggio in Portogallo e quasi costretto da Henriette Collin, moglie del suo amico Edvard – il figlio di Jonas –, decide a malincuore di acquistare qualche mobile e un letto – «e sarà il mio letto di morte» – privandosi con terrore di quel senso di libertà e provvisorietà che lo aveva accompagnato per tutta la vita. La città di Odense, che gli ha dato i natali, nel 1867 lo nomina cittadino onorario, mentre la nuova critica, nella persona di Georg Brandes, riconosce i suoi meriti di innovatore del genere letterario della fiaba. La sua ansia di viaggiare lo porta per ben due volte, nel 1867, a visitare l’Esposizione Universale di Parigi, che poi ricorderà nella fiaba La driade. Nel 1870 compone anche il suo ultimo romanzo, Peer il fortunato, riprendendo uno dei suoi temi preferiti, quello del fanciullo povero che, grazie al suo genio artistico, è destinato alla fama e al successo, ma questa volta introduce una variazione nel finale: mentre canta da protagonista in un’opera da lui composta, Peer muore per un attacco cardiaco, «nella gioia della vittoria, come Sofocle ai giochi olimpici, come Thorvaldsen a teatro, ascoltando una sinfonia di Beethoven». Ormai vecchio e malato, Andersen continua la serie delle fiabe, pubblicando le ultime nel 1872, ma già lo stesso anno si manifestano i primi sintomi di un cancro al fegato, e dopo un ultimo viaggio in Svizzera, cui nonostante la malattia e la vecchiaia non sa rinunciare, lo scrittore si spegne il 4 agosto del 1875 nella villa della famiglia Melchior. 9 INTRODUZIONE IL BAZAR DI UN POETA «È bene che io parta, la mia anima è malata», afferma Hans Christian Andersen in una lettera del 1° novembre 1840 a Jonas Collin, il benefattore che lo aveva accolto nella propria casa come un figlio. La lettera è scritta da Kiel il giorno dopo la partenza per l’Italia, la Grecia e l’Oriente, e rivela come per lo scrittore danese il viaggio fosse un’opportunità per nuove esperienze nella migliore tradizione del grand tour, ma anche una fuga. Dal primo grande viaggio in Italia nel 1833-34 Andersen aveva raccolto grandi frutti, e non stupisce che già poco tempo dopo sognasse di raggiungere anche la Grecia. In una lettera all’amico Edvard Collin – il figlio di Jonas – datata 5 luglio 1835, quando lo scrittore cominciava ad assaporare il successo dell’Improvvisatore, compare l’idea di un viaggio in Grecia se i profitti del suo romanzo fossero stati migliori. Il 24 giugno dell’anno successivo Andersen scrive molto più esplicitamente a Edvard: «Se prima del mio viaggio avessi detto: “Fatemi andar via, vi darò un libro come L’improvvisatore ecc. ecc.!”, non mi avrebbero creduto. Ora dico: “Maestà! Fatemi viaggiare, solo un anno, in Sicilia o in Grecia! Vi mostrerò frutti ancora maggiori. La mia formazione passa per questa strada! Con l’aiuto di Dio produrrò un’opera che, come è accaduto la volta scorsa, porterà chiunque a dire: ‘Meritava di viaggiare!’”». La risposta di Edvard, scritta il 28 giugno, non è incoraggiante: «Oggi è troppo presto per affrontare una materia prolissa come un viaggio in Grecia, [...] non vale la pena di pensare così in anticipo a una cosa che, se mai, si potrà realizzare solo fra un anno». A partire dal 1838, grazie al vitalizio ottenuto, le sue finanze migliorano: il progetto del viaggio in Grecia rimane nel cassetto, ma non è più un sogno irrealizzabile. I guadagni ancora non gli permettono grandi piani, ma la voglia è molta, anche a causa degli scontri con la critica, dovuti soprattutto alla sua quasi insana passione per il 10 INTRODUZIONE teatro che lo porta a insistere nel comporre per il Teatro Reale opere che vengono regolarmente respinte o rimangono in cartellone solo pochi giorni. Nel 1840 Johan Ludvig Heiberg, che spesso era stato critico nei suoi confronti e adesso è censore del Teatro Reale, respinge la sua tragedia La fanciulla moresca e sua moglie, la più nota attrice dell’epoca, per la quale è stata scritta la parte della protagonista, rifiuta di recitarla. Questa è la goccia che fa traboccare il vaso: Andersen parte. Lo scrittore ha dunque un duplice motivo per viaggiare: sa che vedere mondi nuovi gli fornisce ispirazione, e ha ogni interesse a lasciare la Danimarca, dove si sente preso di mira mentre la sua fama europea cresce. Il 31 ottobre del 1840 intraprende il suo viaggio fino a quel momento più lungo, che lo porterà ancora in Italia, poi in Grecia e a Costantinopoli per la prima volta, e risalendo il Danubio fino a Vienna e nuovamente a casa. Le sue finanze non gli permettono di fare troppi progetti: solo a Napoli sa di poter continuare grazie a un sussidio reale, e solo a Costantinopoli, a causa delle rivolte in Bulgaria, è in grado di decidere se rischiare il ritorno sul Danubio o rientrare attraverso l’Italia. Le esperienze del viaggio sono descritte nel Bazar di un poeta, che fin dal titolo dichiara le intenzioni dell’opera. Quello che viene considerato uno dei grandi difetti dei romanzi di Andersen – ma d’altro canto uno dei grandi motivi del successo delle sue fiabe – è la sua capacità di creare delle scene che, se legate a una trama romanzesca, non sempre riescono a dare come risultato un’opera unitaria. La migliore caratteristica del Bazar è invece proprio tale frammentarietà: Andersen non ha intenzione di creare un corpo unitario, bensì di raccogliere una serie di bozzetti di stile pittorico a dimostrazione della sua capacità di isolare temi, particolari anche minimi, raccogliendoli in un “bazar” per riutilizzarli più tardi, quando il soggetto è giunto a maturazione assumendo valore poetico. Naturalmente la riutilizzazione non è sempre verificabile, a parte forse nel caso dei tre capitoli che nel 1862 vengono inseriti in una delle raccolte di Fiabe e storie: Il porcellino di 11 INTRODUZIONE bronzo, Il patto di amicizia e Una rosa sulla tomba di Omero. Di altri bozzetti si può solo supporre una successiva riutilizzazione per contiguità di atmosfere, ovvero in una forma tanto mutata da non essere più riconoscibile. Ciò non significa quindi che sia possibile ricostruire un inventario del materiale riutilizzato, ma è interessante osservare la tecnica con cui lo scrittore raccoglie le esperienze. Fin dal primo viaggio in Italia, Andersen aveva iniziato a disegnare, a schizzare brevemente ciò che vedeva, alla maniera di Goethe ma con minor perizia tecnica. Si trattava di piccoli disegni, eseguiti in fretta su minuscoli pezzi di carta che poi venivano completati con qualche tratto in più e un po’ di colore quando la sera lo scrittore si dedicava a raccogliere nei diari le sue impressioni della giornata. L’interesse di questi disegni, gran parte dei quali è conservata, è appunto nella tecnica con cui Andersen fissava i particolari, che è la stessa con cui raccoglie le impressioni del Bazar. Non a caso all’interno dell’opera lo scrittore usa ripetutamente espressioni come «se fossi un pittore» o «era proprio un quadro», e più volte la parte che rende delle scene che ha vive davanti agli occhi sono i colori, le impressioni visive, anche se mai, nei disegni, ritrae esseri viventi, che invece sono spesso al centro dei suoi bozzetti letterari. Andersen aveva dunque scelto di vedere il mondo con l’occhio del pittore, e già anni prima, nelle Silhouettes di un viaggio nello Harz, troviamo una dichiarazione programmatica in tal senso, quasi a prevedere le critiche e a difendere le proprie scelte. È qui infatti che viene ripresa per la prima volta la tecnica del pittore che «nella natura divina schizza il singolo albero, la singola foglia che per la sua bellezza e il suo particolare carattere attira la sua attenzione, riunisce in tal modo una quantità di studi che poi vengono inseriti nelle sue composizioni». È la tecnica del Bazar con dieci anni di anticipo, e non a caso proprio in occasione di un altro viaggio, la tecnica del pittore è ripresa dal poeta con le stesse motivazioni: «Riporto ogni particolare così come l’ho visto, prima che tutto si fonda in un solo pezzo della mia vita». 12 INTRODUZIONE Tale tecnica non gli impone di seguire una rigida struttura cronologica, e infatti la gran parte del viaggio del Bazar non segue il filo del tempo. Le sei sezioni che lo compongono sono suddivise in una serie di quadri che, per i paesi che Andersen già conosce – come l’Italia –, isolano gli avvenimenti e si prestano a un’utilizzazione fuori dal loro contesto, come il viaggio in ferrovia e quello con il vetturino, o sono delle creazioni del tutto autonome, come Il porcellino di bronzo, inserito in seguito tra le fiabe. La cronologia è invece più marcata nei paesi che Andersen visita per la prima volta, come la Grecia, la Turchia e soprattutto la regione del Danubio, dove la narrazione si svolge con una sequenza precisa dettata dai tempi della navigazione e delle soste. Va notato anche come, per quanto riguarda l’Italia, lo spazio limitato che le viene dedicato – relativamente al tempo piuttosto lungo che lo scrittore vi trascorre – sia giustificato dalla volontà di non dilungarsi su una materia che, con L’improvvisatore, Andersen ritiene forse di aver trattato a sufficienza. Che l’ordine cronologico degli avvenimenti non sempre sia rispettato è rivelato da un confronto con i diari: per esempio nel caso della visita alla tomba di Miaulis, avvenuta nei primi giorni dopo l’arrivo ad Atene ma posta, al momento della stesura, quasi a coronamento del soggiorno greco. La mancanza di una struttura portante permette comunque all’autore di comporre l’opera sulla scorta dei diari, secondo l’ispirazione del momento, per poi unire le varie scene con la tecnica del collage solo a lavoro ultimato, aggiungendo o togliendo dei capitoli in base a un’economia interna. E gli permette di trattare liberamente non solo la successione degli episodi, ma anche la stessa realtà, inserendo nel Bazar – in particolare nella parte dedicata all’Italia – avvenimenti e personaggi reali, ma del precedente viaggio, e di modificare i fatti. È questo il caso del capitolo Vista dalla mia finestra, che nella descrizione del funerale a Napoli ricalca esattamente un avvenimento descritto in un suo disegno datato «Roma 28 dicembre 1833» e già utilizzato, come moltissime esperienze del suo 13 INTRODUZIONE primo soggiorno italiano, nell’Improvvisatore del 1835. Anche il cencioso “nobile romano” che sale a bordo della diligenza a Spoleto, durante il Viaggio con il vetturino, non esiste nei diari del 1840-41, ma vi compare alla data del 13 ottobre del 1833, a Firenze, e nell’autobiografia La fiaba della mia vita – che invece segue la realtà dei diari – l’episodio è correttamente descritto nelle pagine dedicate al primo viaggio italiano. E la caduta per le scale, che aveva visto protagonista lo scrittore il 16 dicembre 1840 – come risulta dai diari – al momento della stesura del Bazar diventa una punizione per l’antipatico inglese che più di altri la merita. Sono variazioni che ci fanno comprendere come gli elementi passassero dalla realtà all’immaginario dell’autore e poi, nel momento del bisogno, al Bazar, che ne era l’ideale contenitore: «Dentro tutto frigge e fermenta, e quando sarò nella buona città di Copenaghen e mi metterò degli impacchi freddi al corpo e allo spirito, allora i fiori si apriranno», così Andersen descrive, nel capitolo sulla quarantena, il suo stato d’animo e la difficoltà di strutturare in un’opera organica la grande congerie di esperienze che aveva assorbito durante il lunghissimo viaggio. Che i critici danesi non sarebbero stati favorevoli, l’autore lo sapeva per esperienza. «Certo, il trattamento non è dei migliori», scrive nel citato capitolo sulla quarantena, mentre in altri passi lamenta la mancanza di riconoscimenti in Danimarca. Sembrava quasi una sfida, e fu accettata. La critica danese, che spesso aveva disapprovato le sue opere, non lo risparmiò nemmeno questa volta: saccenti notazioni sull’ortografia e sullo stile, giudizi negativi sulla mancanza di precise prese di posizioni sulla situazione politica in Grecia, in Turchia, nella regione del Danubio, sulla mancanza di una descrizione delle condizioni sociali. L’intento dell’opera fu mal compreso fin dall’inizio. Ma non tutti erano contrari, anche se un solo recensore sembrò rendersi conto del valore del Bazar: era Peter Ludvig Møller, più giovane di Andersen di quasi dieci anni, figura di intellettuale polemico la cui importanza solo di recente è stata rivalutata dalla critica. Nella sua recen14 INTRODUZIONE sione al libro, l’unica positiva – tranne un breve ma ironico appunto... sull’ortografia – Møller esordisce: Quando si attrezzano le navi per circumnavigare la terra, in genere si adopera molto zelo per avere a bordo un paio di naturalisti che possano farsi carico del fatto che il viaggio non vada solo a vantaggio di scopi mercantili, ma riporti anche frutti, come si dice, per la ‘scienza’. È strano che non sia mai venuto in mente a nessuno di ingaggiare nel viaggio un poeta che, interpretando la natura esteriore e la vita umana nella loro grandezza e ricca varietà, possa riportare per l’istruzione e la nobilitazione della nazione dei frutti più importanti della raccolta di oggetti secchi e impagliati che in genere è il risultato della partecipazione dei naturalisti al viaggio. Se tale punto di vista un giorno dovesse prendere piede presso di noi, allora in verità non conosciamo nessun poeta che per questo scopo sia più consigliabile del signor H.C. Andersen. Un punto di vista del tutto in sintonia con quello di Andersen, tanto più che Møller comprende quello che rappresenta il nucleo centrale del Bazar: la capacità – e la volontà – di cogliere in ogni stadio del viaggio «il lato pittoresco, e comprendere quasi per istinto il lato poetico e quello caratteristico negli ambienti apparentemente più insignificanti». Un punto di vista certamente ‘moderno’, che supera l’angusta atmosfera culturale della Copenaghen del tempo e, come dimostra il successo quasi immutato da più di un secolo e mezzo del più grande libro di viaggi di Andersen, colloca finalmente nella giusta prospettiva il Bazar che, con le Silhouettes e i successivi In Svezia e In Spagna, rimane un fondamentale documento letterario del laboratorio dello scrittore. BRUNO BERNI 15 Il bazar di un poeta GERMANIA Dedicato ai miei amici il poeta Ludwig Tieck a Dresda e il compositore Mendelssohn-Bartholdy a Lipsia I I DANZATORI SPAGNOLI Nell’estate del 1840 soggiornarono a Copenaghen alcuni danzatori spagnoli1 che attirarono i cittadini nel vecchio teatro della Kongens Nytorv: l’intera città parlava delle danze nazionali spagnole e i giornali ne rilanciavano l’eco in tutto il paese. In quel periodo soggiornavo dal barone Stampe a Nysø, che è diventato uno dei luoghi famosi della Danimarca perché Thorvaldsen vi ha trovato una dimora e vi ha creato alcune opere.2 Fu Thorvaldsen, in quella casa, a raccontarmi per la prima volta dei danzatori spagnoli; era estasiato, entusiasta come non lo avevo mai visto prima. «Quella è danza! Quelle sono posizioni! Ci sono forme e bellezza!», diceva, e mentre parlava i suoi occhi fiammeggiavano. «Guardate Voi stesso! A vedere quella danza ci si trova in pieno Meridione!». Una mattina entrai nel suo atelier e vidi un bassorilievo d’argilla che rappresentava una coppia di baccanti che danzavano. «L’idea me l’hanno data i danzatori spagnoli!», disse lui. «Sapevano ballare anche così! Mentre eseguivo questo bassorilievo pensavo alla loro armoniosa danza!». 21 IL BAZAR DI UN POETA Fui preso dalla brama di vedere quei figli della Spagna, di vedere la leggiadra Dolores Serral, che ora i copenaghesi hanno dimenticato: è passato un anno da quando è stata qui. Andai a Copenaghen e fui spettatore di una danza che mi fece dimenticare i fondali dipinti e le lampade del palcoscenico: ero anch’io nelle valli di Valencia, guardando quelle belle persone nelle quali ogni movimento è grazia e armonia, ogni sguardo è passione. Dal mio arrivo in città assistetti alle danze di Dolores ogni sera, ma non la incontrai mai fuori dalle scene, non la vidi mai se non quando danzava. Era già la fine di ottobre,3 un periodo freddo, piovoso e tempestoso come può esserlo nel nostro caro paese. I danzatori spagnoli volevano andar via; Dolores disse, come Preciosa:4 «A Valencia!». Ma la strada da Copenaghen a Valencia passa per Kiel. Ella dovette prendere il vaporetto Christian VIII in un nordico clima autunnale, freddo e tempestoso. La metà di quelle brave persone che la seguirono in barca per salutarla ebbe il mal di mare durante quel breve tragitto. Era la danza nordica delle onde! Dolores ben presto ne ebbe abbastanza; le belle membra si piegarono a un riposo che non era davvero tale; le onde spazzavano il ponte una dopo l’altra, il vento sibilava fra il cordame, e un paio di volte il vaporetto sembrò addirittura fermarsi e quasi riflettere sull’opportunità di tornare indietro. Le caraffe d’acqua e i piatti, sebbene fissati, tremavano di paura o d’istinto. Era tutto uno scricchiolio, tutta una vibrazione; ogni asse della nave gemeva e Dolores sospirava così forte che i suoi sospiri passavano attraverso il ponte della nave; il piede sottile e flessuoso si stendeva spasmodicamente contro la sottile paratia, la sua fronte toccava il divisorio... Una nave è uno strano mondo! A destra un pan22 GERMANIA nello ci separa dalla morte fra le onde, a sinistra un’altra asse sottile può essere la spada del cherubino. Dolores sospirava, e anch’io con lei! Per una notte intera giacemmo in quella nave e sospirammo letteralmente l’uno per l’altra; le onde danzavano come Dolores non sapeva danzare, e la tempesta cantava come io non sapevo cantare, mentre la nave percorreva potente la sua rotta, finché non fummo accolti dal golfo di Kiel e non vedemmo a poco a poco i passeggeri salire sul ponte, uno dopo l’altro. Raccontai a Dolores l’impressione che la sua danza aveva fatto al più grande scultore della nostra epoca, le raccontai dei baccanti. Lei arrossì e sorrise; mi sembrava veramente che ballassimo insieme il fandango nella verde pianura, sotto le acacie profumate. Lei mi porse la mano... ma era per congedarsi: andava dritta a Valencia. Fra molti anni Dolores sarà un’anziana signora e non danzerà più, ma allora le danzeranno davanti i paesi e le città in cui ha incantato il pubblico, e ricorderà la città reale sulla verde isola del Nord, al centro del mare in tempesta che attraversò, e penserà al bassorilievo sul quale ancora volteggia, giovane e bella; allora le sue dita scivoleranno sul rosario che tiene in mano sul balcone, e spingerà lo sguardo oltre i monti. E chi si troverà accanto all’anziana signora le chiederà: «Dove sei, Dolores?». E lei risponderà sorridendo: «Sono stata un po’ nei mari del Nord!». II BREITENBURG Dalla strada reale fra Kiel e Amburgo la mia carrozza si inoltrò nella brughiera: volevo fare una visita a Brei23 IL BAZAR DI UN POETA tenburg. Un uccellino mi volò incontro cinguettando, come se volesse augurarmi il benvenuto. Nella brughiera di Lüneburg, anno dopo anno, nascono sempre più boschi, case e strade, mentre il suo proseguimento, nei Ducati e nello Jütland, per la maggior parte ha ancora lo stesso aspetto che aveva nel secolo scorso. La brughiera danese ha carattere e poesia: la volta stellata è vasta e grande, le nebbie ondeggiano nella tempesta, come gli spiriti di Ossian, e la solitudine ci permette di ricevere la visita dei nostri pensieri più sacri. Gruppi di querce piegate, coperte di muschio fino ai rami più alti, sorgono nel bosco come fantasmi. Una stirpe egiziana dalla pelle bruna e gli occhi neri come il carbone vi conduce la sua vita nomade, cuoce sotto le stelle l’agnello rubato e festeggia matrimoni e danze fuori dalla casa di zolle d’erica, innalzata alla svelta nella brughiera solitaria. La mia carrozza avanzava affondando lentamente nella sabbia: credo che, a passare in carrozza su queste terre, si potrebbe provare il mal di mare. Sempre avanti, attraverso regioni desolate e spopolate; le poche case che si incontrano sono lunghi edifici dalle cui porte aperte il fumo esce vorticando. Queste case non hanno comignoli, è come se mancasse il focolare, come se all’interno non si trovasse alcuna abitazione, come se ci fosse solo il viandante, attraversando la brughiera in tutta fretta, ad accendere un fuoco sul pavimento e a scaldarsi un po’ per continuare il suo viaggio! I comignoli che di solito hanno le case dei contadini e il fumo turbinoso che ne esce creano un’atmosfera domestica, abbelliscono e ravvivano quasi quanto il giardinetto fiorito davanti alla casa, ma qui c’era armonia con la brughiera e con la fredda giornata autunnale. È vero che il sole splendeva, ma non aveva raggi caldi, e forse non era nemmeno il sole in persona, forse mandava at24 GERMANIA traverso il cielo solo la sua tunica splendente. Non incontrammo anima viva, non si vedeva un branco di bestiame; era quasi da credere che tutto si fosse addormentato o fosse prigioniero di un incantesimo. Solo nel pomeriggio avanzato apparve una campagna rigogliosa; vedemmo un grande bosco, la luce del sole sulle sue foglie marroni lo faceva sembrare di rame... Aveva qualcosa di stregato, al punto che, quando un grande branco di bestiame uscì dal folto degli alberi e ci guardò con i grandi occhi, mi venne l’idea di un’intera fiaba su una città incantata in un bosco di rame. Dietro il bosco attraversammo un grosso villaggio che, se non mi portò nel paese delle fiabe, almeno mi riportò indietro nel tempo, in un altro secolo. Nelle case la stalla, la cucina e la sala sembravano tutt’uno. La strada era inondata da un’abbondante fanghiglia in cui erano conficcati grossi macigni. Era abbastanza pittoresco e lo divenne ancora di più poiché, al centro del fitto bosco, splendeva nel sole serale un maniero con torri e merli, dal quale ci separavano le anse di un fiume ampio e profondo. Il ponte rimbombò sotto gli zoccoli dei cavalli. Dopo aver attraversato il bosco e il giardino, entrammo nel cortile aperto del maniero, dove le luci si muovevano affaccendate dietro le finestre, dove tutto aveva un aspetto ricco e accogliente. Al centro del cortile c’era un grande pozzo antico con una griglia di fattura ricercata, dalla quale si alzò in volo un uccellino: sicuramente era lo stesso che mi aveva dato il benvenuto al mio ingresso nella brughiera, era giunto qui prima di me e aveva annunciato il mio arrivo. Il proprietario del maniero, il nobile Rantzau,5 condusse il suo ospite in una casa benedetta, dove le portate fumavano, i tappi di champagne saltavano… Sì, do25 IL BAZAR DI UN POETA veva essere proprio un incantesimo! Una brughiera spoglia, un bosco di rame, e alle loro spalle un castello ospitale con splendidi quadri e fiori accanto ai morbidi divani. Era una magia! Pensai al mare in tempesta, alla brughiera solitaria, e sentii che comunque si può stare bene, in questo mondo. Là fuori l’uccellino cinguettò mentre guardavo dalla finestra; casualmente la luce cadeva sul pozzo, e sembrava che il secchio salisse e scendesse da solo, e che dentro vi fosse seduto un folletto che mi dava il benvenuto con un cenno del capo. Sicuramente non mi sbagliavo, perché un tempo un antenato del folletto, nel bosco, aveva porto un boccale dorato a un cavaliere della famiglia Rantzau zu Breitenburg, mentre questi cavalcava nel bosco al chiaro di luna.*6 Il boccale è ancora oggi conservato nell’armadio di quercia intagliata che si trova nella sala dei cavalieri, sopra la cappella; l’ho visto io stesso, e gli antichi ritratti dei fieri nobili alle pareti muovevano gli occhi. C’era la luce del sole, ma se fosse accaduto di notte, alla luce della luna, sarebbero sicuramente usciti dalle cornici e avrebbero brindato all’amabile conte che ora domina sull’antica Breitenburg. «La beatitudine del Paradiso non ha storia!», dice un poeta. «Il sonno migliore non ha sogni», aggiungo io, e a Breitenburg la notte non portò sogni. Alla luce del giorno, invece, antiche leggende e ricordi attraversavano la mente come sogni, mi salutavano sugli antichissimi viali del giardino, annuivano seduti sulla scala a chiocciola della torre di guardia, dove gli scozzesi stavano di vedetta quando le truppe di Wallen* Oltre al boccale la famiglia ricevette anche una rocca d’oro; la leggenda che narra di questi doni è stata cantata in tedesco da Lobedanz, in danese da H.P. Holst. 26 GERMANIA stein7 erano accampate fuori; Wallenstein fece passare gli uomini a fil di spada, e quando le donne del castello non vollero eseguire il suo ordine di lavare il sangue dal pavimento, fece abbattere anche loro. Tutt’intorno, nella natura eternamente giovane, vagavano antichi ricordi; dall’alta torre del castello vedevo in lontananza la rigogliosa campagna acquitrinosa, dove d’estate il grasso bestiame cammina nell’erba alta fino alle spalle. Gettai uno sguardo ai molti boschi in cui Ansgarius8 aveva vagato, predicando la dottrina di Cristo ai pagani danesi: laggiù un piccolo villaggio conserva ancora la memoria del suo nome,* più in là sorgeva la sua fattoria, qui egli viveva… La chiesa di Heiligenstedten, i cui muri sono stati nascosti dalla terra, risale alla sua epoca, e come allora si rispecchia nello Stören, nel punto in cui egli, con la sua povera barca da pescatore, lo attraversava fino al piccolo sentiero fra le canne. Passeggiavo nel giardino del castello sotto gli annosi alberi, lungo i canali serpeggianti. Il cespuglio di sambuco e quello di rose si chinavano sullo specchio d’acqua per vedere quanto erano belli i loro fiori. Il contadino camminava sugli argini, trascinando la barca in direzione opposta a quella della corrente. Il cacciatore si dirigeva con i suoi cani nel folto del bosco rosso come il rame. Il corno della posta risuonava, ed era come se il bosco e la campagna prendessero voce, come se intonassero l’inno di morte dell’autunno: «Il grande Pan è morto!». Al calar del sole risuonarono nel castello canti e tintinnio di boccali; attraversai la sala dalle pareti rosso scure che ospitano i bassorilievi di Thorvaldsen e fanno da sfondo alla bellezza dei busti e delle statue; * Willenscharen. 27 IL BAZAR DI UN POETA all’esterno la siepe di rosa canina si inchinava fino alla finestra con il suo ramo spoglio punteggiato di frutti rossi, e alla vista della vita estiva che si svolgeva nella sala sognava di essere anch’essa ancora giovane e fiorita, e che ogni frutto fosse un bocciolo che l’indomani si sarebbe aperto. Il folletto seduto sul bordo del pozzo batteva il tempo con i suoi piedini, e l’uccellino cinguettava: «Com’è bello qui al Nord! Come si sta bene qui al Nord!»; eppure volò verso i paesi caldi, e il poeta fece lo stesso! III RICORDO DEL VAPORETTO STÖREN Presso le acque dello Stören, sulle due rive opposte del fiume, c’erano due linde casette, entrambe con la facciata verde e un paio di cespugli. All’esterno di una di esse era stesa una rete, e una grande ala che si agitava al vento: quante volte due occhi belli avevano guardato, da una delle casette, quell’ala che sventolava, e un cuore fedele aveva tirato un profondo sospiro! In questo tratto prendemmo a bordo una bella donna. Apparteneva a quella che viene definita classe inferiore, ma era abbigliata in maniera così festosa, ed era così giovane e affascinante, e portava uno splendido bambino al petto. Da entrambe le case la gente la salutava col capo, augurandole felicità e gioia! L’ala sventolava tanto forte da sibilare, ma i begli occhi della donna non la guardavano più, perché ora non le interessava più sapere che vento c’era! Partimmo. Tutto era verde, uniforme ma mai uguale lungo il piccolo fiume, che creava un’ansa dopo l’altra. Ora eravamo sull’Elba, la grande strada reale della Germania. Le navi andavano e venivano, le barche 28 GERMANIA attraversavano il fiume, e anche noi dovevamo passare a imbarcare alcuni passeggeri sulla sponda dell’Hannover, poi su quella dello Holstein, quindi di nuovo su quella dell’Hannover, ma non salì alcun passeggero! Io guardavo la giovane. Sembrava impaziente come me; era sempre a prua, a guardare intorno con la mano sui begli occhi: cercava le torri di Amburgo? Baciò un paio di volte il suo bambino e sorrise, con le lacrime agli occhi. Due vaporetti ci passarono davanti, un battello a vele spiegate portava degli emigranti in America. Davanti a noi, con la bandiera agitata dal vento contrario, era ancorata una magnifica nave appena giunta da laggiù che faceva una sosta nel risalire il fiume! Mentre ci avvicinavamo se ne staccò una barca; quattro marinai presero i remi e un uomo gagliardo, dalla barba nera, aveva l’aria di essere il timoniere a bordo. Allora ci fermammo e la giovane non camminò, ma volò, con il bambino che dormiva, e in un attimo eccola nella leggera barca che ondeggiava, fra le braccia dell’uomo scuro con la barba nera. Quello sì che era un bacio: era il coronamento di un lungo anno di dolce nostalgia! Allora il bambino si svegliò e pianse, l’uomo lo baciò e abbracciò la donna, e la barchetta ondeggiava con loro, come se saltasse di gioia, mentre i marinai abbronzati si facevano cenni con il capo... Ma noi continuammo la navigazione, e io guardavo le coste piatte, nude. IV LISZT Era ad Amburgo, all’Hotel Stadt London, che Liszt9 dava un concerto! In pochi attimi la sala era gremita e nonostante fossi arrivato troppo tardi, ottenni ugual29 IL BAZAR DI UN POETA mente il posto migliore, proprio davanti alla tribuna dove si trovava il pianoforte, perché mi fecero salire da una scala posteriore. Liszt è uno dei re del regno delle note, e da lui mi portò la mia compagnia, come ho detto, salendo da una scala secondaria, non mi vergogno a confessarlo. La sala, così come le stanze attigue, splendevano di luce, catene d’oro e diamanti. Non lontano da dove ero seduto c’era, su un divano, una ragazza ebrea, grassa e agghindata, che somigliava a un tricheco col ventaglio. Un gruppo di robusti commercianti amburghesi stavano in piedi l’uno addossato all’altro, come se dovessero trattare un’importante questione di borsa: dal sorriso che avevano sulla bocca si sarebbe detto che avessero acquistato titoli estremamente vantaggiosi. L’Orfeo della mitologia sapeva far muovere pietre e alberi suonando, ma Liszt, il nuovo Orfeo, li aveva infervorati ancor prima di suonare! La fama, con il suo possente alone, aveva aperto gli occhi e le orecchie dei presenti, che sembravano già conoscere e sentire ciò che sarebbe seguito. Fra i raggi di quella miriade di occhi fiammeggianti provavo anch’io la stessa palpitazione densa di aspettative, all’approssimarsi di un grande genio che con le audaci dita segna i confini della sua arte nella nostra epoca! È singolare ascoltare Liszt per la prima volta a Londra, la grande metropoli delle macchine, o ad Amburgo, l’ufficio di commercio europeo: allora il tempo e lo spazio corrispondono l’uno all’altro, e io lo avrei ascoltato proprio ad Amburgo. La nostra epoca non è più quella della fantasia e del sentimento, ma quella della ragione. La capacità tecnica in ogni arte e in ogni mestiere è oramai una condizione generale per il loro esercizio; le lingue sono diventate così perfette che per scrivere in buono stile bisogna quasi saper mettere 30 GERMANIA i propri pensieri in versi, cosa che cinquant’anni fa sarebbe stata opera di un vero poeta; in ogni grande città ci sono dozzine di persone che eseguono la musica con un’abilità tale che solo vent’anni fa sarebbero stati considerati dei virtuosi. Al giorno d’oggi ogni aspetto tecnico, sia materiale sia spirituale, è al suo massimo sviluppo, così il nostro tempo fa volare anche la materia inerte! Se i nostri geni universali non sono nati solo dal fermento di questa contraddizione presente nella nostra epoca di progresso, se sono realmente spiriti insigni, devono essere in grado di sopportare il linciaggio della critica e di elevarsi molto al di sopra del livello raggiungibile, non accontentandosi di riempire ciascuno il proprio posto spirituale, ma dando qualcosa di più! Come i madreporari, devono aggiungere ancora uno strato all’albero dell’arte, altrimenti la loro attività non è grande! Nel mondo della musica, la nostra epoca ha due principi del pianoforte che riempiono in tal guisa il loro posto, e sono Thalberg10 e Liszt. La sala fu come attraversata da una scossa elettrica quando Liszt fece il suo ingresso. La maggior parte delle signore si alzò: era come se il sole risplendesse in ogni volto, come se tutti gli occhi ricevessero un caro, amato amico! Io ero vicinissimo all’artista, un uomo magro, giovane, dai lunghi capelli scuri intorno al pallido volto. Salutò e si sedette al pianoforte. Tutto l’aspetto esteriore e il modo di muoversi rivelano subito una di quelle personalità cui si fa caso per la loro peculiarità: la mano divina ha impresso loro un marchio particolare che li rende riconoscibili fra mille. Appena Liszt si sedette al pianoforte, la prima percezione che ebbi della sua personalità fu l’espressione delle forti passioni che trasparivano dal volto pallido, 31 IL BAZAR DI UN POETA tanto che mi apparve come un demone inchiodato a quello strumento dal quale le note sgorgavano a fiumi, venivano dal suo sangue, dai suoi pensieri. Era un demone che doveva liberare la sua anima suonando; era sotto tortura, il sangue scorreva e i nervi fremevano. Ma, mentre suonava, il demone scomparve; vidi che il bianco volto assumeva un’espressione più nobile e più bella, l’anima divina risplendeva dai suoi occhi, da ogni lineamento; divenne bello, bello come solo lo spirito e l’entusiasmo possono rendere una persona! Il suo Valse infernale è qualcosa di più di un dagherrotipo11 del Roberto di Meyerbeer!12 Noi non restiamo a guardare il noto dipinto dall’esterno, no, vi veniamo trascinati dentro, gettiamo lo sguardo nell’abisso e scopriamo nuovi vortici di figure. Non sembrava più il severo suono di un pianoforte, ogni nota somigliava al tintinnio delle gocce d’acqua! Chi nell’arte ammira l’abilità tecnica deve inchinarsi davanti a Liszt, chi si fa trasportare dalla genialità, dal dono divino, si inchina a qualcosa di più profondo! L’Orfeo della nostra epoca ha fatto risuonare le note attraverso la grande metropoli delle macchine, e qualcuno ha ritenuto, come ha detto un copenaghese, che «le sue dita fossero strade ferrate e macchine a vapore», ma la potenza del suo genio nel riunire gli spiriti del mondo è ancora più forte di tutte le strade ferrate della terra. L’Orfeo della nostra epoca ha fatto risuonare le note nell’ufficio di commercio europeo e, almeno in quell’istante, la gente ha creduto nel Vangelo: «L’oro dello spirito ha un suono più potente di quello del mondo». Spesso, senza rendersene conto, si usa l’espressione “un mare di note”, ed è proprio quello che sgorga impetuoso dal pianoforte al quale siede Liszt. Lo strumento sembra trasformato in un’intera or32 GERMANIA chestra, questo riescono a fare dieci dita che possiedono un’abilità, per così dire, fanatica, guidate dal genio possente; è un mare di note che proprio nella sua ribellione rispecchia il compito immediato della vita di ogni animo ardente. Ho incontrato politici che, sentendo suonare Liszt, avevano compreso come le note della Marsigliese potessero spingere il tranquillo cittadino a prendere il fucile, precipitarsi fuori di casa e combattere per un’idea! Ho visto tranquilli copenaghesi, con la nebbia autunnale danese nel sangue, che sentendolo suonare sono diventati politici forsennati, e matematici vinti dalla vertigine di figure armoniche e calcoli sul suono. I giovani hegeliani – e i più dotati di loro, non quelle teste morte che fanno una smorfia spirituale solo con la corrente galvanica della filosofia – vedevano in questo mare di note l’avanzata ondeggiante della scienza verso la coste della perfezione. Il poeta vi trovava la lirica di tutto il suo cuore o il ricco abito per le sue figure più audaci! Il viaggiatore – così mi suggerisce la mia personale esperienza – ottiene immagini musicali di ciò che vede o che dovrà vedere. Ascoltai la sua musica come un’ouverture al mio viaggio. Sentii quanto batteva e sanguinava il mio cuore al congedo dalla patria; sentii il saluto delle onde, le onde che avrei riascoltato solo sulle rupi di Terracina: sembravano note d’organo dalle antiche cattedrali della Germania; i ghiacciai scendevano dalle cime delle Alpi e l’Italia ballava in costume carnevalesco, agitando la spatola mentre, in fondo al cuore, pensava a Cesare, Orazio e Raffaello! Dal Vesuvio e dall’Etna sprizzavano fiamme, la tromba del Giudizio risuonava dai monti della Grecia dove gli antichi dèi sono morti; note che non conoscevo, note per le quali non ho parole, accennavano all’Oriente, 33 IL BAZAR DI UN POETA la terra della fantasia, la seconda patria del poeta! Quando Liszt ebbe finito di suonare gli piovvero intorno fiori, piccoli bouquet lanciati da giovani e graziose fanciulle o da anziane signore, un tempo anch’esse giovani e graziose… In fondo egli aveva lanciato nel loro cuore e nel loro spirito migliaia di mazzetti di note! Da Amburgo Liszt sarebbe volato a Londra. Lì avrebbe gettato nuovi mazzi di note, lì avrebbe sparso poesia sulla materiale vita quotidiana! Oh fortunato, che in tal modo può viaggiare per tutta la vita! Vedere sempre la gente nel suo abito spirituale della domenica, anzi persino nell’abito nuziale dell’entusiasmo! Lo incontrerò ancora? Fu questo il mio ultimo pensiero. E il caso volle che tornassimo a incontrarci durante il viaggio,13 a incontrarci nel luogo in cui il mio lettore meno potrebbe aspettarselo; incontrarci, diventare amici e di nuovo separarci; ma questo fa parte degli ultimi capitoli di questa fuga. Per il momento egli andò nella città di Vittoria, io in quella di Gregorio XVI. V LA PULZELLA DI ORLÉANS (Uno schizzo) Avevamo quasi attraversato l’Elba. Il vaporetto scivolava sul versante di Hannover, fra le basse isole verdi dove si scorgevano case di contadini e gruppi di bestiame. Vedevo bambini felici che giocavano fra le barche tirate quasi in secco e pensavo che presto quel gioco sarebbe finito, che presto, forse, sarebbero volati lontano, nel mondo, sarebbero cresciuti. Allora vidi nel ricordo queste piatte, piccole isole, come i 34 GERMANIA giardini delle Esperidi con i frutti d’oro e le arance della loro infanzia. Eravamo a Harburg; tutti controllavano che ogni loro cosa fosse caricata sui carrelli dei facchini, ma una signora alta, un po’ corpulenta, con un portamento fiero che mal si accordava con l’abito di stoffa indiana scolorita e il soprabito certamente rivoltato più volte, scuoteva la testa ogni volta che un garzone allungava la mano verso la piccola bisaccia che portava lei stessa. Era una bisaccia da uomo, ma la signora non voleva proprio mollarla, come se essa custodisse un prezioso tesoro. Lentamente si avviò dietro tutti noi, entrando nella città silenziosa. Apparecchiarono un tavolino per me e per un altro viaggiatore, chiedendoci poi se poteva prendervi posto una terza persona, la quale in effetti arrivò di lì a poco: era la donna dall’abito scolorito. Un boa grosso e un po’ consunto le pendeva dal collo, aveva l’aria molto stanca. «Ho viaggiato tutta la notte», disse; «sono attrice! Vengo da Lubecca, dove ho recitato ieri sera», e tirò un profondo sospiro sciogliendo il nastro del mantello. «Qual è il suo campo?» chiesi io. «I ruoli di punta!» rispose lei, e con un gesto ardito lanciò il boa sulla spalla. «Ieri sera ero la Pulzella di Orléans! Sono partita subito dopo la fine dello spettacolo perché sono attesa a Brema; domani mi esibirò lì, nella stessa opera», e tirò un respiro molto profondo, gettandosi nuovamente il boa sull’altra spalla. Chiese un postale straordinario e un solo carrozzino a un cavallo, o, ancora meglio, una carrozza dell’oste con un unico garzone, perché in caso di necessità sapeva guidare da sola. «Bisogna fare economia, specialmente in viaggio», disse. Osservai il suo pal35 IL BAZAR DI UN POETA lido volto; aveva certo trent’anni, sicuramente era stata molto bella... in fondo interpretava ancora la Pulzella di Orléans, e comunque ruoli di punta. Un’ora dopo sedevo nella diligenza; il corno della posta risuonò per le strade deserte di Harburg, un carrozzino camminava davanti a noi, si fece da parte e si fermò perché potessimo superarlo. Guardai fuori, era la Pulzella con la sua piccola bisaccia posata fra lei e il ragazzo che doveva farle da cocchiere. Salutò come una principessa, lanciandoci un bacio con la mano, mentre il lungo boa le svolazzava sopra la spalla. Il nostro postiglione suonò un brano allegro col corno, ma io, pensando alla Pulzella sul carretto, alla vecchia attrice che domani avrebbe fatto il suo ingresso a Brema, al suo sorriso e alla musica allegra del postiglione, divenni malinconico. Poi proseguimmo nella brughiera, ognuno per la sua strada. VI LA FERROVIA Poiché molti dei miei lettori non hanno mai visto una ferrovia, voglio subito provare a dargliene un’idea. Prenderemo una normale strada maestra – che corra diritta o faccia una curva fa lo stesso – ma dovrà essere spianata, spianata come il pavimento di una sala; perciò abbiamo fatto saltare tutte le montagne che la ostacolavano, e costruito forti arcate e ponti sopra le paludi e le valli profonde. Una volta ottenuta la strada spianata, laddove passerebbero le ruote collochiamo dei binari di ferro, sui quali possono far presa le ruote delle carrozze. Davanti viene attaccata la macchina a vapore, con sopra il suo fuochista in grado di governarla e fermarla, poi vengono 36 GERMANIA le carrozze con le persone o il bestiame, incatenate l’una all’altra: si parte! In ogni punto del tragitto la gente conosce l’ora e il minuto in cui arriverà la fila di carrozze e, quando il treno è in marcia, si sente il fischio di segnalazione anche a miglia di distanza. Laddove la ferrovia è attraversata da strade secondarie, c’è un guardiano, messo lì a bella posta, che abbassa la sbarra di legno per chi va in carrozza e a piedi, e quella brava gente deve aspettare finché non siamo passati. Lungo la ferrovia, per tutte le miglia del percorso, sorgono delle casette, a una distanza tale l’una dall’altra che chi sta di guardia riesce a vedere la bandiera dell’altro e fa in tempo a tenere liberi i binari da pietre o rami. Ecco, questa è una ferrovia! Spero che mi abbiate compreso. Stavo per vederne una per la prima volta in vita mia. Per mezza giornata e la notte successiva avevo percorso con la diligenza la terribile, pessima strada da Braunschweig a Magdeburgo, dove arrivai stanco, e un’ora dopo dovevo ripartire con la carrozza a vapore. Non voglio negare di aver provato già da prima una sensazione che chiamerò “febbre da ferrovia”, ed essa era al culmine quando entrai nel magnifico edificio dal quale parte la fila di carrozze. C’era un affollamento di viaggiatori, un correre con valigie e sacchi da notte, un sibilo e un ronzio di macchine dalle quali usciva il vapore. La prima volta uno non sa bene dove mettersi per non farsi venire addosso una carrozza o una caldaia o una cassa di bagagli; è vero che si sta al sicuro su un’altana sporgente davanti alla quale, come gondole a un molo, si trovano le carrozze su cui bisogna salire, ma, giù sulla massicciata, i binari di ferro si incrociano come nastri magici, e sono proprio dei nastri magici costruiti dall’ingegno umano; le nostre 37 IL BAZAR DI UN POETA carrozze incantate devono rimanervi sopra, perché se escono dal nastro magico, ebbene, allora si rischia la pelle. Io fissavo le carrozze, le locomotive, i carri staccati, i fumaioli ambulanti e Dio sa cos’altro, correvano avanti e indietro incrociandosi come in un mondo magico fatato; sembrava che ogni cosa avesse le gambe! E questo vapore, questo sibilo, insieme alla ressa per trovare posto, questo puzzo di sego, la marcia ritmica delle macchine e il fischio e lo sbuffo del vapore che esce, rafforzavano tale impressione, e quando, come ho detto, si è qui per la prima volta, ci si immagina di rovesciarsi, di rompersi le braccia e le gambe, di saltare in aria o di rimanere schiacciati nello scontro con un’altra fila di carrozze; ma credo che ci si pensi solo la prima volta. La fila di carrozze era divisa in tre sezioni, le prime due sono comode carrozze chiuse, in tutto e per tutto simili alle nostre diligenze, solo molto più larghe, la terza è aperta e incredibilmente economica, tanto che vi sale persino il contadino più povero, gli costa meno che se dovesse fare a piedi tutta la strada e rifocillarsi alla locanda o pernottare durante il viaggio. Ecco il fischio di segnalazione... ma non ha un bel suono, ha molto in comune con l’ultimo grido del maiale, quando il coltello gli entra in gola. Ci si siede nella carrozza più comoda, il conduttore chiude lo sportello e porta via la chiave, ma possiamo abbassare il finestrino, godere della fresca brezza senza temere alcun disturbo dalla pressione dell’aria; si sta proprio come in qualsiasi altra carrozza, ma più comodi; qui ci si riposa, se poco prima si è fatto un viaggio faticoso. La prima sensazione è un leggerissimo sobbalzo nelle carrozze, ora le catene che le tengono unite sono tese; suona ancora il fischio di segnalazione e inizia la 38 GERMANIA marcia, ma lentamente, i primi passi vanno piano, come se una mano di bambino tirasse la piccola carrozza. La velocità aumenta in maniera impercettibile, ma tu leggi il tuo libro, guardi la tua carta, e non sai ancora bene se la marcia è iniziata, perché la carrozza scivola come una slitta su un campo liscio e innevato. Guardi fuori dal finestrino e scopri che stai camminando di gran carriera, come con i cavalli al galoppo; va ancora più forte, ti sembra di volare, ma non ci sono scossoni, non c’è pressione dell’aria, niente di ciò che immaginavi di spiacevole! Cos’era quella cosa rossa che è passata vicinissima come un lampo? Era uno dei guardiani che stava lì con la sua bandiera. Guarda fuori! E fino a dieci o venti braccia di distanza la campagna scorre rapida come una freccia; erbe e piante si confondono, sembra di essere al di fuori della terra e di vederla girare. Fissare a lungo lo stesso punto fa male agli occhi, ma basta guardare alcune braccia più in là e allora gli altri oggetti non si muovono più velocemente di quando si va in carrozza di buon passo, e più lontano, verso l’orizzonte, tutto sembra rimanere fermo, si gode davvero la vista e l’impressione di tutta la zona. È così che bisogna attraversare i paesi pianeggianti! È come se una città fosse vicinissima all’altra; eccone una, eccone ancora un’altra! Si riesce a immaginare davvero il volo degli uccelli migratori, è così che si lasciano dietro le città. I normali viaggiatori in carrozza che si scorgono sulle strade laterali sembrano fermi, i cavalli che tirano le carrozze sollevano le zampe, ma sembrano tornare a posarle nello stesso punto, e noi li abbiamo già superati. C’è un aneddoto piuttosto noto su un americano che viaggiava con la carrozza a vapore per la prima volta. Poiché vedeva passare un’infinità di pietre mi39 IL BAZAR DI UN POETA liari una dopo l’altra, credeva che stessero attraversando un cimitero e che fossero lapidi; forse non dovrei raccontarlo, ma dà un’idea precisa della velocità; così mi è venuto in mente, anche se lungo il nostro percorso non si vedevano pietre miliari e perciò avrei dovuto parlare delle bandiere di segnalazione rosse, e lo stesso americano avrebbe potuto dire: «Perché oggi c’è tutta quella gente in giro con la bandiera rossa?». Invece voglio raccontare che mentre passavamo davanti a uno steccato, che vidi ridotto a una sbarra, un uomo al mio fianco disse: «Guardate, ora siamo nel principato di Köthen», e poi tirò una presa, offrì anche a me la scatola, io mi inchinai, provai il tabacco, starnutii e poi chiesi: «E per quanto tempo saremo a Köthen?». «Oh», rispose l’uomo, «ne eravamo già usciti prima del vostro starnuto!». Eppure le carrozze a vapore potrebbero camminare a una velocità doppia di questa; ci si ferma ogni momento a una nuova stazione dove alcuni passeggeri devono scendere e altri salire, così la velocità diminuisce, ci si ferma un minuto, e dai finestrini aperti i camerieri ci porgono rinfreschi, leggeri e solidi, a nostro piacimento! I piccioni arrosto, dietro pagamento, volano letteralmente dritti in bocca, e poi si corre via, si chiacchiera con il vicino, si legge un libro o si osserva la natura, e spesso un branco di mucche si gira stupito o dei cavalli si svincolano e scappano nel vedere che venti carrozze possono attraversare il mondo senza il loro aiuto, e ancora più velocemente che se dovessero pensarci loro, e d’improvviso ci ritroviamo di nuovo sotto una tettoia dove la fila di carrozze si ferma, abbiamo percorso quindici miglia in tre ore, siamo a Lipsia. Nella stessa giornata, quattro ore dopo, ripartiamo da qui per un tragitto simile, della stessa durata, ma at40 GERMANIA traverso montagne e fiumi... e siamo a Dresda. Ho sentito molte persone affermare che con le ferrovie scompare tutta la poesia del viaggio, e che si passa di corsa davanti alle cose belle e interessanti; per quanto riguarda quest’ultima cosa, ciascuno è libero di fermarsi in qualsiasi stazione voglia, e guardarsi intorno finché non arriva la prossima fila di carrozze; e per quanto riguarda il fatto che tutta la poesia del viaggio scompare, io sono di un’opinione del tutto opposta. È nelle carrozze e nelle diligenze anguste e piene di bagagli che scompare tutta la poesia del viaggio, ci si infiacchisce, nella stagione migliore si è tormentati dalla polvere e dalla calura, e d’inverno dalle strade cattive; e la natura viene goduta in porzioni più grandi che nella carrozza a vapore, ma solo a sorsi più lunghi. Oh, che capolavoro dello spirito è questa creazione! Ci si sente potenti, come maghi dell’antichità! Attacchiamo alla carrozza il nostro cavallo magico e lo spazio scompare; voliamo come le nubi nella tempesta, come volano gli uccelli migratori! Il nostro cavallo selvaggio sbuffa e soffia, il vapore nero sale dalle sue froge. Mefistofele, con Faust sul mantello, non sapeva volare più veloce! Nella nostra epoca i mezzi naturali ci danno una forza che nel Medioevo credevano prerogativa del diavolo! Con il nostro ingegno lo abbiamo raggiunto, e prima ancora che se ne accorga lo avremo superato. Poche volte, nella mia vita, ricordo di essermi sentito commosso come in questo caso, di aver quasi guardato faccia a faccia Dio con tutta la mia mente. Sentivo una devozione come ho provato solo da bambino, in chiesa, e da grande nel bosco illuminato dal sole o sul mare liscio come l’olio in una notte stellata! Nel regno della poesia il sentimento e la fantasia non sono i soli a regnare, essi hanno un fratello, altrettanto po41 IL BAZAR DI UN POETA tente, viene chiamato intelligenza e annuncia l’eterna verità, e in questo c’è grandezza e poesia! VII LA TOMBA DI GELLERT In uno dei cimiteri di Lipsia è sepolto Gellert.14 Quando andai in Germania per la prima volta, nel 1831, feci visita a questa tomba;15 l’intelligente figlia di Oehlenschläger, Charlotte, era in visita da Brockhaus, mi ci condusse lei e mi mostrò la tomba del poeta. Migliaia di nomi erano incisi sulla lapide e scritti sullo steccato di legno; anche noi scrivemmo i nostri nomi e lei staccò una rosa dalla tomba e me la donò in ricordo del luogo. Ora, dieci anni dopo, ho fatto la strada da solo; ho trovato facilmente il cimitero, ma la tomba non riuscivo a trovarla, chiesi a una povera vecchia dove fosse sepolto Gellert, e lei mi mostrò il posto. «Le brave persone vengono sempre cercate!», disse la vecchia. «Era un grand’uomo!», e guardò con silenziosa devozione la semplice tomba. Io cercai, fra i molti nomi scritti, i due aggiunti l’ultima volta che venni qui, ma lo steccato era stato riverniciato da poco, anzi, forse era stato riverniciato più volte da allora; v’erano scritti nuovi nomi, solo il nome sulla lapide, il nome di Gellert, era lo stesso. Esso sarà lì quando i nomi scritti da poco saranno scomparsi, e ne saranno stati scritti di nuovi; il nome immortale rimane, i singoli nomi della stirpe umana vengono cancellati. La vecchia staccò una rosa per me, una rosa giovane e fresca come quella che Charlotte, in tutta la freschezza della sua gioventù, mi diede nello stesso posto; e io la ricordai così viva, lei, la fresca rosa che ora è nella 42 GERMANIA tomba!16 Lei, la cui anima e la cui mente erano colme di voglia di vivere e ardore giovanile. Questa volta non scrissi il mio nome sulla cancellata; conservai la rosa bianca sul petto, e il mio pensiero era rivolto ai morti. VIII NORIMBERGA Se la Germania conoscere vorrai, e la Germania di cui val la pena, allora Norimberga visitar dovrai, nobile città di belle arti piena; mai certo invecchiare potrà quella città fida e laboriosa ove l’arte di Dürer sempre vivrà e il canto di Sachs per sempre riposa. Schenkendorf La storia di Kaspar Hauser17 porta l’impronta di un secolo passato, anzi, per quanto sappiamo che è vera, faremmo fatica a collocarla nella nostra epoca. Senza dubbio però, se dovesse svolgersi ai nostri tempi, fra le grandi città della Germania la scena dovrebbe essere Norimberga, e del resto è così. Si narra che Kotzebue18 avesse scritto I crociati appositamente per le decorazioni che il teatro già possedeva, perciò si sarebbe tentati di pensare che Kaspar Hauser sia stato scritto per la città di Norimberga; perché, se si fa eccezione di Augsburg, nessuna città, con il suo aspetto, sembra riportarci al Medioevo come l’antica libera “Reichsstadt” Norimberga. Molti anni fa, quando ero a Parigi, vidi una prospettiva di Daguerre,19 che poi divenne famoso in tutto il mondo; riproduceva, credo, il castello estivo 43 IL BAZAR DI UN POETA del Dey di Algeri; oltre il tetto piatto si vedevano il giardino, i monti e il Mediterraneo; ma prima di arrivare alla prospettiva, per creare l’atmosfera adeguata e preparare gli spettatori, si attraversavano un paio di stanze drappeggiate alla maniera orientale, e attraverso delle piccole finestre si vedeva la cima di una palma o degli alti cactus. Mentre entravo a Norimberga, dopo aver attraversato l’antica Franconia, mi venne da pensare a quella scenografia. Dal momento in cui, nella città di Hof, si entra in territorio bavarese, tutto comincia a poco a poco a dar man forte alla fantasia. A Norimberga, come sognando, si torna al Medioevo, ed è in quella città che il sogno trova la giusta scenografia. Dopo aver superato Münchberg eravamo in montagna, e la regione assumeva un carattere sempre più romantico. Tutto era avvolto dalla luce della sera. La Ochsenkopf, la montagna più importante qui, era completamente nascosta da nubi minacciose e dense di pioggia. La strada andava facendosi angusta e buia, e a Berneck era completamente circondata da pareti rocciose ripidissime; sulla sinistra, soltanto a qualche braccio sopra di noi, c’era una torre diroccata che anticamente doveva dominare l’ingresso della valle. La stessa Berneck, con le sue strade irregolari, le luci che si muovevano all’interno delle piccole finestre nelle antiche case, la musica del postiglione, che risuonava malinconica come la melodia di un antico canto popolare, tutto ispirava romanticismo ai nostri pensieri. Desiderai trovare parole per quelle note minori, parole sul brigante di vedetta in cima all’antica torre, mentre i mercanti di Norimberga percorrevano con le loro mercanzie la strada profondamente incassata fra le rocce; desiderai trovare parole sull’aggressione nella notte illuminata dalla luna, come la videro il 44 GERMANIA Meno bianco e il Meno rosso e poi la raccontarono al fratello Reno sotto le coste incoronate di viti. Attraversammo di corsa Bayreuth, la città di Jean Paul; e presto, nella nebbia mattutina, scorgemmo l’antica, magnifica Norimberga. Quando fui molto vicino vidi i suoi antichi bastioni coperti d’erba, le sue mura doppie, le molte porte con le torri a forma di cannoni puntati, le strade ben costruite, gli splendidi pozzi e gli edifici gotici, e dovetti riconoscere: “Tu sei la capitale della Baviera! È vero che hai dovuto cedere la tua corona a Monaco, ma conservi ancora la tua regale dignità, la tua caratteristica grandezza! Sotto il tuo scettro la laboriosità cittadina, l’arte e la scienza si tendevano la mano; per tutto il paese risuonavano i colpi di martello di Adam Kraft20 e le campane di Mastro Conrad e Mastro Andreas; i quadri di Albrecht Dürer21 cantavano il nome di Norimberga ancora più forte di quanto potesse farlo il calzolaio Hans Sachs,22 eppure il buon maestro aveva una voce immortale; Peter Vischer23 faceva scorrere il minerale in ardite immagini della bellezza, come le vedeva la sua mente; Regiomontano24 portò il tuo nome alle stelle, mentre i tuoi figli con lui divennero più grandi, compresero ciò che è utile e nobile. Il marmo si modellava sull’immagine stessa della bellezza, il blocco di legno si trasformava in un’opera d’arte. Il postiglione suonò per le strade di Norimberga; le case sono diverse fra loro, eppure hanno lo stesso carattere; e sono tutte antiche, ma ben tenute; la maggior parte è dipinta di verde, alcune hanno immagini sul muro, altre sono ornate di bovindi e altane sporgenti e provviste di finestre gotiche dai piccoli vetri ottagonali che interrompono le spesse mura; sui tetti a punta una fila di abbaini sovrasta l’altra, e ogni abbaino ha una piccola torre. I getti d’acqua cadono in 45 IL BAZAR DI UN POETA grosse vasche di metallo e le fontane sono circondate da cancellate forgiate ad arte. Eppure, certe cose non si possono raccontare, ma dovrebbero essere dipinte! Se ne fossi stato capace mi sarei messo sull’antico ponte in muratura che attraversa il fiume dall’acqua gialla e impetuosa, e lì avrei disegnato gli edifici laterali stranamente sporgenti, l’antico palazzo gotico che, posandosi sugli archi sotto i quali scorre l’acqua, si erge sul fiume con un piccolo giardino pensile di alti alberi e siepi in fiore. Se sapessi dipingere andrei in piazza, mi farei largo tra la folla ed eseguirei uno schizzo della fontana; è vero che ora essa non ha più la ricca doratura che un tempo la faceva risplendere, ma tutte le meravigliose statue di bronzo sono ancora in piedi. I sette principi elettori, Giuda Maccabeo, Giulio Cesare, Ettore... Sì, è gente famosa! Ce ne sono ben sedici ad abbellire la fila inferiore di colonne della fontana, mentre in alto compare Mosè in compagnia di tutti i profeti! Se fossi un pittore andrei alla tomba di san Tebaldo quando la luce del sole, attraverso i vetri variopinti della chiesa, cade sulle statue bronzee degli apostoli di Peter Vischer, ed entrambe, chiesa e tomba, andrebbero disegnate così come si rispecchiavano nei miei occhi. Ma non sono un pittore, non sono capace di riprodurre tutto questo. Sono invece uno scrittore, e perciò chiesi della casa di Hans Sachs. Mi indirizzarono in una stradina laterale, indicandomi una casa dalle forme antiche. In realtà era un edificio nuovo sul quale appariva l’immagine di Hans Sachs corredata del suo nome, ma non era la casa in cui egli aveva vissuto e cucito scarpe. Il posto è lo stesso, ma tutto è nuovo: il nome e l’immagine costituiscono soltanto l’insegna della locanda ospitata dall’edificio. Seimiladuecentosessantatré fra commedie, tragedie, canzoni e Mei46 Fine dell'anteprima Ti è piaciuta? Acquista l'ebook completo oppure guarda la scheda di dettaglio dell'ebook su UltimaBooks.it