Globale Universale Comune
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Globale Universale Comune
Francesco Botturi Globale, universale, comune Questo intervento cerca di contribuire a un chiarimento semantico di termini ricorrenti nel discorso sulla cosa pubblica: i termini in gioco sono portatori, anche inconsapevoli, di influenti concezioni antropologiche, sociali e politiche. L’idea e la realtà della globalizzazione portano all’estremo il problema dello statuto di ciò che è universale in ambito socio-politico. La questione degli universali, infatti, non è solo problema logico-epistemologico, ma è anche questione antropologica ed eticopolitica, di primaria importanza lungo tutta la vicenda moderna. Da quando la cultura europea non ha più comunemente riconosciuto il riferimento religioso quale orizzonte unificante, la questione dell’universalità culturale ed eticopolitica ha costituito il luogo di massima tensione teorica e di ampio conflitto a riguardo di quali debbano essere le nuove realtà universali (siano esse complementari, sostitutive o eversive quelle tradizionali) accomunanti sul piano teorico e pratico. La vicenda della modernità, da questo punto di vista, ha come esemplare – potremmo dire – il mito (secolarizzato) della ricerca del santo Graal, nei termini appunto della ricerca di un nuovo assetto di valore universale, spesso concepito come risolutivo e perciò sacralizzato. Scienza e Tecnica, Stato e Mercato, Natura e Storia, Tradizione e Rivoluzione, sono alcuni degli dèi del pantheon moderno, in cui si concreta il processo reale della cosiddetta “secolarizzazione”. Postmodernità e tecnocrazia Da questo punto di vista la condizione postmoderna si definisce sulla base di una sorta di secolarizzazione alla seconda potenza, cioè di delegittimazione delle grandi realtà universali moderne e di denuncia della loro impotenza accomunante. Gli universali moderni sono espressioni di concezioni sostantive, considerate oggi inaffidabili. Le loro alternative postmoderne hanno per questo un significato piuttosto procedurale, anche se accompagnato da una qualche carica ideale, per quanto incerta o ambigua; si pensi alle idee di tecnica, di rete, di ambiente, di diritti umani e identitari. Il tema della globalizzazione è in proposto eloquente: da una parte è universalizzazione empirica del mondo, dall’altra assume il valore simbolico di un ideale di mondializzazione (auspicato o avversato che sia). Di fatto la globalizzazione “globalizza”, cioè procede a una unificazione del mondo su base tecnica ed economica e apre insieme un vastissimo spazio di compresenza di luoghi, popoli, culture che si profila come una nuova ideale universalità. In realtà la globalizzazione ha un inedito potere di uniformare il globo ma non di accomunare il mondo, di far coesistere estensivamente ma non di far convivere intensivamente, perché la sua tecnicità infrastrutturale è fatta di generalità pratico-operative e di procedure efficienti, non di 1 realtà superiori accomunanti. La globalizzazione è efficiente nella produzione di nuova ricchezza, ma non altrettanto nella redistribuzione tra quanti hanno partecipato a quella produzione, perché le relative conoscenza e capacità tecnologiche hanno condizioni e tempi di assimilazione e messa in opera che sfavoriscono le aree geoeconomiche meno sviluppate e più deboli. Negli ultimi vent’anni le inuguaglianze sociali sono esponenzialmente cresciute, mentre la ricchezza mondiale complessiva è aumentata a tassi eccezionali: nell’attuale modello globale di sviluppo crescita economica e progresso civile non riescono a marciare insieme1. Analogamente, nel contesto della globalizzazione l’integrazione socio-economica nei vari Paesi (convergenza verso livelli decenti di benessere) e pluriculturalità (come ricchezza sociale) non si armonizzano facilmente, ma sono piuttosto grandezze inverse (l’integrazione socio-economica induce omogeneizzazione culturale): «la globalizzazione sta estendendo in modo formidabile l’area di applicazione del contratto», cioè del rapporto di scambio, a scapito di altre forme relazionali (a componente di gratuità e di reciprocità) socialmente rilevanti2. A questo squilibrio si può rispondere trasformando la realtà di fatto in idea universale, cioè elevando la generalizzazione tecnica a universalità antropologica e sociale. È questa l’operazione tecnocratica, favorita dalla poderosa pressione delle esigenze che la tecnostruttura porta con sé: il suo carattere elitario a livello di invenzione, di produzione e di gestione delle tecnologie, il suo bisogno di ingenti risorse umane e finanziarie per la ricerca avanzata, la produzione e la commercializzazione; in sintesi, la tecnostruttura di estensione planetaria porta con sé la spinta verso la massima concentrazione di potere non solo tecnico, ma anche economico, sociale e politico. Diversa dalla vecchia astratta universalità della ragione filosofica illuminista o della ragione scientifica positivista, l’universalità tecnocratica, inedita nella sua portata pratico-operativo e produttivo-funzionale, ha il potere di circoscrivere e ricollocare ogni altra tradizione universalistica (come quelle religiose o quelle politiche), portandone all’estremo la crisi. Inoltre, indipendente da tradizioni di cultura sociale e da idee politiche accomunanti, l’universalità tecnocratica può vantare un’ampiezza metaculturale e metasociale, cha appare più forte e più pacificante rispetto a quelle politiche e religiose. Il modello di riorganizzazione del potere in chiave tecnocratica compie e insieme sovverte quello moderno tipico. Questo con la sua appassionata ipostatizzazione della statualità si era strutturato sovvertendo il fondamento tradizionale (antico-medievale) del civile condiviso, delle comunità d’origine e d’appartenenza e ponendo fine alle varie forme di “umanesimo civile” su base comunitaria apparse al declino del feudalesimo. Il primato universalistico statuale moderno inizia processi di accentramento, al cui servizio stanno weberianamente le forze impersonali del diritto pubblico, della burocrazia, della finanza, dell’esercito e rispetto a cui le varie forme 1 2 Cfr. S. Zamagni, L’economia del bene comune, Città Nuova, Roma 2007, pp. 126 e 25. Ibi, pp. 128.129 e 225. 2 della comunanza, da quella municipale a quelle associative e quella famigliare divengono fattori subordinati; quando non sono ridotti a puri terminali del potere, come nelle statualità totalitarie. Tecnocrazie e democrazia Il modello tecnocratico cerca di rispondere in termini di efficienza politica al primato della potenza tecnica (in primis info-telematica e finanziaria), da cui l’universale statuale è messo in crisi nella sua sovranità territoriale insidiata sia dall’espansione di poteri esterni di portata internazionale e transnazionale, sia dalla corrispettiva accresciuta richiesta di autonomie locali e identitarie. Come scrive F. Viola, «la comunità politica tradizionale è stata dissolta nella sua autonomia dalla congiunzione tra universalismo dei diritti e il particolarismo delle identità, tra la globalizzazione e il multiculturalismo. Da una parte, le istanze delle persone si globalizzano e perdono la loro connotazione cultuale specifica, ma, dall’altra, il senso della vita comunitaria si concentra nel localismo, dove non si discute dei valori fondamentali. Ciò che veramente conta spesso viene deciso altrove o, comunque, sfugge al pieno potere decisionale di una comunità concreta, nonostante i suoi disperati tentativi di riappropriazione»3. La democrazia costituzionale sente il contraccolpo dei processi di globalizzazione che ne minacciata la funzione politica. Come scrive P.P. Portinaro, nel contesto della globalizzazione e del suo «capitalismo indisciplinato e anarchico», il processo democratico subisce forme di colonizzazione «da parte di interessi privati e particolaristici, mettendo capo a una condizione di “post-democrazia” o di “democrazia depoliticizzata”», a cui reagisce una «spirale populistica», che induce «un’involuzione verso la “democrazia plebiscitaria”»4. La progressiva colonizzazione della sfera pubblica ad opera dei poteri economici aggrava il problema, sempre attuale nella democrazia costituzionale, della rappresentanza e della legge, a favore di burocrazia e tecnocrazia (o “espertocrazia”), delle loro lobbies e dei relativi poteri “invisibili”. A questa crisi il sistema politico reagisce con una generale tendenza populista e con forme specifiche di rifugio «nell’illusoria fortezza della comunità identitaria», cioè in comunità chiuse come «unità sociali che si definiscono in base all’appartenenza (come tutte le società involontarie) e a un’identità particolare che si arrocca elevando soglie di esclusione. Il paradosso è pertanto che la globalizzazione favorisce la regressione al tribalismo proprio nel momento in cui il massimo di culture e politiche dell’inclusione sarebbe richiesto. […] Per il cittadino dell’epoca globale la società aperta è così soltanto più il luogo di poteri eteronomi, mentre la comunità appare come l’ultimo spazio di autonomia sociale»5. 3 F. Viola, Autorità e bene comune nella società del pluralismo, in S. Biancu – G. Tognon, Autorità. Una questione aperta, Diabasis, Reggio Emilia 2010, pp. 90. 4 P.P. Portinaro, La democrazia alla prova della globalizzazione. Tramonto o trasformazione, in C. Danani (a cura di), Etica pubblica e democrazia, “Archivio di Filosofia”, LXXXI, 2013, 3, pp. 55-56. 5 Ibi, pp. 57, 57 e 60-61. 3 Con tutto ciò, osserva però Viola, «la comunità politica particolare [adeguatamente ripensata] continua a essere necessaria e forse ancor più del passato, perché difende l’individuo dal pericolo della decontestualizzazione e dall’essere solo nei confronti di una mega-società che lo sovrasta»6. Dunque, le idee universali moderne avevano ottenuto la loro supremazia al prezzo della riduzione e della subordinazione delle realtà comunitarie (sociali, religiose, culturali); la sovversione tecnocratica degli universali moderni avviene piuttosto in forza di procedure uniformanti ma impotenti a ricostituire un reale intero sociopolitico. Il regime tecnocratico è quello delle generalità neutrali e omogeneizzanti, entro cui trova spazio, oltre all’ideologia tecnocratica, anche l’individualismo libertario e il narcisismo organizzato della società del consumo, insieme alla cultura dei nuovi diritti legittimati con la tradizione dei diritti umani, insieme a forme aggregative comunitarie residuali rispetto agli assetti del potere, impotenti a costituire effettiva alternativa ed esposte alla degenerazione comunitarista. Nulla che possa rispondere alla realistica istanza espressa da F. Viola. Uniformità e universalità Per avanzare in questa diagnosi è necessario procedere a un’analisi più astratta, ma più essenziale a riguardo dei rapporti fra uniformità, universalità e comunanza. Questi tre termini hanno come comun denominatore l’idea di unità, ma la significano in modo affatto diverso e anche contrapposto. Più precisamente, dovremmo parlare del significato classico di comunanza, di quello moderno di universalità e di quello postmoderno di uniformità oppure del significato di universalità da disambiguare rispetto a uniformità e comunanza. La realtà sociale e quella politica, infatti, non possono vivere senza qualche forma di universalità; ma questa può assumere diversi statuti. «Universale e uniforme: il mondo di oggi sembra confonderli, come se il secondo fosse la realizzazione del primo», osserva F. Jullien, mentre ne è il «duplicato corrotto che la globalizzazione sta ormai diffondendo ovunque», come «infinita riproposizione dello stesso» e quindi segreta «perversione» dell’universale7. L’uniforme infatti – dice l’Autore – non è un «concetto della ragione, ma della produzione», è espressione del «principio di funzionalità», «essenzialmente di carattere economico e gestionale», che ha una logica semplicemente cumulativa e, a suo livello, potente. Mentre la dimensione universale è apertura di senso, potremmo dire, il processo di uniformazione è il derivato di procedimenti tecnico-produttivi e gestionali. La globalizzazione rappresenta questo fenomeno di massima, planetaria uniformazione, che «impone propri standard come unico paesaggio concepibile, mascherando il fatto che di imposizione si tratta. Da ciò deriva la sua dittatura discreta»8, ma implacabile. 6 F. Viola, Autorità e bene comune nella società del pluralismo, p. 91. F. Jullien, L’universale e il comune. Il dialogo tra le culture, Laterza, Roma-Bari 2010, pp. 13 e 1. 8 Ibi, pp. 14 e 16. 7 4 Con maggiore profondità potremmo dire che la globalizzazione non è portatrice, al di là delle apparenze, di un’idea accomunante, bensì è un potere che pone come unico fattore di identità l’univoca, ripetitiva, uniformante, anonima, inglobante produzione di tutti i suoi prodotti (finanziari, informativi, commerciali); l’uniformità che dunque non va colta solo a livello del contenuto dei prodotti, ma anche a quello del potere di farli esistere (produzione) e circolare (gestione)9. La rete da questo punto di vista è a oggi l’insuperabile metafora: l’unica identità della sterminata varietà dei suoi elementi sta nell’esserne nodi, che hanno rilevanza solo in quanto elementi in rete. Il proceduralismo globale uniformante, d’altra parte, è l’esito dell’implosione e della disgregazione degli universali moderni in quanto già, a loro volta, universali astratti e ipostatizzati, “estratti” dalla fattualità storica e idealizzati. Universali scritti con la maiuscola e posti a capo dell’esistenza minuscola dei popoli e degli individui, contro i quali la cultura contemporanea ha reagito con la loro più radicale secolarizzazione, la loro dissoluzione pluralista. L’universalità astratta, infatti, «distaccandosi dall’esperienza […] suscita apertamente la rivolta della singolarità […]», in quanto universalità logica (post rem) che pretende di regolare dall’esterno la realtà10. Così che si passa culturalmente – afferma Jullien – da un «facile universalismo» a un «pigro relativismo», sino – possiamo constatare – a un nichilismo compiuto. Questo giustifica la detronizzazione dell’universale “astratto”, mentre lascia inesplorate le possibilità dell’universalità “reale”, che molto ha da dire alla condizione postmoderna. Diversa, infatti, può essere la funzione dell’universalità ontologica (in re) in quanto “universale concreto” o istanza universale nel e del particolare. La sua «operatività» nelle diverse forme culturali dà fondamento alla loro trasversalità e comunicabilità, ma esclude ogni diretta e totale universalizzazione di qualcuna di esse, in quanto legate alla particolarità concreta delle loro origini e condizioni. La dimensione universale del concreto ha piuttosto una «funzione negativa», quella di «svuotare ogni formazione-istituzione della propria sicurezza e [di] riaprire un varco in questa comoda chiusura». Il significato universale del reale concreto evidenzia la limitatezza di questo in rapporto all’ampiezza del suo significato: «L’universale – dice suggestivamente Jullien – è questa pienezza mancante, questo continuo incompleto». Questo significa che la vera funzionalità dell’universale consiste anzitutto nel preservare una «trascendenza interna» al singolo fenomeno particolare. Anzi, il particolare e l’universale, l’esperienza e l’ideale sono sempre reciprocamente in eccesso, si trascendono costantemente l’un l’altro, dal momento che la ricchezza di 9 Ritroviamo qui, nei fatti della presente riorganizzazione del mondo, la logica filosofica di un autore influente come Gilles Deleuze, espressa dal titolo della sua opera maggiore Différence et répétition, (P.U.F, Paris 1968) che in termini teoretici significa l’univoco e uniforme accadere delle equivoche, disparate differenze della realtà effettiva. A cui corrisponde di fatto, come dice in un altro suo testo Capitalisme et schizophénie. L’Anti-Oedipe (Minuit, Paris 1972), un movimento globale del capitalismo contemporaneo, che mentre produce tale frammentazione anarchica del mondo, è impegnato, in modo contrastante, a un’opera di ricorrente contenimento dei flussi nomadi e ribelli. 10 Ibi, pp. 101, 14 e 22. 5 contenuto del particolare non può essere esaurita dal suo significato universale e che il senso ideale di questo non può mai essere pienamente realizzato da quello11. Questa è la ragione per cui singole realtà possono assumere il valore di ideale e di esemplare, come accade nel mito e nei simboli di una cultura, nell’opera d’arte e nelle istituzioni, ecc. Dal punto di vista dell’universale ciò significa che la sua funzionalità può essere sinteticamente caratterizzata, allora, come «universalizzante», come apertura di senso trascendente il già esistente e come ideale di ciò che ha ancora da essere; come sempre in via di realizzazione nel concreto e insieme «vettore» di tale attuazione storica. Per questo motivo la funzionalità universalizzante dell’universale costituisce anche principio di intelligibilità delle realtà storiche nel loro concreto divenire culturale12. Comunanza: beni comuni e bene comune Questo è il modo di funzionare dell’universalità concreta, che è generatrice di realtà storica, in cui l’universale e il particolare né si giustappongono né si combattono, ma coesistono indissolubilmente in modo produttivo di nuova realtà. Secondo l’esempio grande ed eloquente della storia del diritto romano, in cui, come osserva opportunamente ancora Jullien, la vicenda dell’istituto della cittadinanza, originariamente ristretta alla zona delle origini, si estende progressivamente sino a rendere la «patria romana» comune all’intero impero (editto di Caracalla 212 d.C.): «l’importanza di Roma sta precisamente nell’aver riunito sotto il medesimo vincolo legale sia la “Città” che il “Mondo”, urbs et orbis», con un’operazione in cui si annodano realisticamente convenienza e idealità politiche. Roma riuscì a inserire «la sua estensione territoriale e civile – promotrice del comune – in uno statuto legale unico (la cittadinanza romana) che istituisce l’universalità»; è pertanto a Roma che attraverso il diritto «la comunità ha iniziato a universalizzarsi in modo positivo»13. Esempio di una idealità universalistica che non si sostituisce o non si sovrappone alla particolarità storica (come avviene nel caso dell’universale illuminista), ma che abita dall’interno una comunanza storica e così la fonda, la trascende e la trasforma; appunto la universalizza progressivamente, senza mai abbandonare il riferimento 11 Ibi, pp. 97, 100-101 (cfr. 150). Cfr. ibi, pp. 127 e 150. 13 Ibi, pp. 45, 48 e 49. La considerazione del processo universalizzante del diritto romano, come suo carattere qualificante, è oggetto importante della riflessione di G.B. Vico (cfr. in particolare Diritto Universale, 1720), come esempio paradigmatico di un giusnaturalismo non astorico, ma pensato secondo un principio evolutivo della storia umana. Qui, infatti, l’affermarsi dell’idea universalista non è concepito come progressivo abbandono del particolare, ma come forza universalizzante che agisce dall’interno delle mitologie particolariste delle culture e che fornisce loro forme (mitopoietiche, religiose, istituzionali) accomunanti. L’universale lavora originariamente dall’interno del particolare immaginario, secondo le leggi creative dell’«universale fantastico» (cfr. F. Botturi, La sapienza della storia. Giambattista Vico e la filosofia pratica, Vita e Pensiero, Milano 1991). Questa antropologia, che porta in sé l’impronta profonda della tradizione romanistica, umanistica e barocca, tipica della cultura latina, costituisce un paradigma alternativo a quello dell’astrazione razionalista (cartesiana e giusnaturalista), di cui infatti tutta l’opera vichiana è una contestazione. 12 6 essenziale alla sua realtà storica concreta. Per questo l’autentica realizzazione storica concreta di un’idea universale non mira alla sua pura universalizzazione e, corrispettivamente, la comunanza non può realizzarsi in modo autentico come chiusura antiuniversalistica e quindi come realtà più escludente che includente. La cultura socio-politica moderna è stata portatrice di un’idea universalistica ambigua, per lo più ispirata da universali astratti e perciò immunizzati dalla loro incarnazione in una realtà storica accomunante, secondo processi esaminati e riproposti da Roberto Esposito14. Si comprende, perciò, che nel contesto del processo globalizzante in corso e della sua tendenza tecnocratica riappaia l’istanza comunitaria. La problematica dei beni comuni costituisce oggi la formula più accreditata di tale istanza, in grado di cointeressare l’economico e il politico. Al di là delle dispute teoriche di cui sono stati oggetto e dei manifesti contrapposti che hanno ispirato15, la problematica dei beni comuni porta alla luce dimensioni relazionali dei beni economici ulteriori a quella dello scambio equivalente e, dunque, un loro diverso rilievo a livello sociale e politico. I cosiddetti beni comuni, common-pool resources (E. Ostrom), infatti, non sono tali in senso materiale, ma per i sistemi di regole in forza delle quali essi danno fondamento ad azioni collettive, modi d’esistenza e attività di comunità (Charlotte Hess)16. La regolazione dei beni comuni li distingue dai beni privati (esclusivi e rivali) e dai beni pubblici (non esclusivi, non rivali) in quanto beni non esclusivi e rivali17. Le teorie dei beni comuni individuano una pluriforme categoria di beni qualificati da una comunanza di (regole di) fruizione e di una universalità di valore che fanno già intravedere un diverso fondamento della convivenza, che però esse non mi pare siano ancora in grado di mettere a fuoco. Secondo la terminologia di Ch. Taylor gli uomini non si avvalgono solo di beni «convergenti», di cui si gode collettivamente ma in modo funzionale all’esclusivo interesse individuale (come i servizi pubblici); l’esistenza è tessuta anche di beni che acquistano valore aggiunto proprio dall’essere goduti insieme, cioè di beni «mediatamente» comuni; ma anche da quei beni che consistono addirittura nell’essere tali perché fruiti in comune, i beni «immediatamente» comuni, come i beni culturali. Ancor più vi sono beni che sono in comune perché fatti esistere dall’interazione dei soggetti; come nel caso della conversazione, che è un bene realizzabile non come 14 Cfr. R. Esposito, Communitas. Origine e destino della comunità, Einaudi, Torino 1998; Immunitas: protezione e negazione della vita, Einaudi, Torino 2002. 15 Cfr. in Italia la vivace contrapposizione tra U. Mattei, Beni comuni. Un manifesto, Laterza, Roma-Bari 2011 e E. Vitale, Contro i beni comuni. Una critica illuminista, Laterza, Roma-Bari 2013. 16 Per questa loro caratteristica il regime dei beni comuni potrebbe/dovrebbe stare a fondamento di un sostanziale cambiamento dell’assetto economico e politico; cfr. la proposta di «transizione ecologica» a fronte della questione epocale di un’economia globalizzata incentrata essenzialmente sul consumo di energie fossili da parte di G. Giraud (Illusion financière. Des subprimes à la transition écologique, Les Editions de l’Atelier, Ivry-sur-Seine 2014). 17 Ibi, p. 140. 7 somma di due monologhi18. Secondo Taylor, poi, è questo tipo di beni che è essenziale per la buona vita delle società politiche, che hanno bisogno di essere «animate dalla sensazione di un bene comune immediato condiviso. In questa misura, il legame sociale assomiglia al legame dell’amicizia, come vide Aristotele»19. In altri termini, la dimensione del comune ha diverse profondità: dall’avere in comune dei beni in quanto individui al condividere un bene in quanto modo di essere in relazione tra soggetti. È questo il caso dei beni relazionali, in cui la relazione non è solo modo o condizione del bene (in quanto bene in qualche misura connotato socialmente), ma è costitutiva del bene stesso, in quanto “fatto” di relazioni. La tematica dei beni comuni evidenzia l’implicazione relazionale di beni fondamentali, come l’aria, l’acqua, il cibo, ecc.; ma esistono beni comuni che sono tali in quanto esistono avendo la relazione non solo come componente funzionale a un certo contenuto, ma come loro principale contenuto, come lo sono la famiglia, luoghi di educazione, luoghi di cura, imprese cooperative, ecc. Ciò che mi sembra mancare ancora alle teorie dei beni comuni è una visione complessiva e graduata della comunanza dei beni e in particolare un approfondimento dell’idea dei beni relazionali. Questi – come si è detto – non hanno in comune una fruizione di realtà più o meno indispensabili, ma consistono in una comunanza attiva tra soggetti in relazione; sono beni comuni in cui si passa dal regime dell’avere in comune a quello dell’essere-in comune. Di conseguenza, muta anche il significato dell’universalità intrinseca alla comunanza. Nei beni comuni di fruizione l’universalità sta sul lato del contenuto condiviso, tanto più quanto più questo è di soddisfazione di bisogni universali; nei beni comuni di relazione l’universalità sta invece nella relazione stessa, tanto più quanto più questa è una realtà indispensabile o comunque fondamentale per i soggetti. È in questa distinzione che sta, a mio avviso, il passaggio, non elaborato dalle teorie dei beni comuni, tra questi e il bene comune al singolare20, che è il bene relazionale per eccellenza, quello più comprensivo e unificante ovvero il bene sociale (e politico) stesso, che fornisce ai beni comuni il loro pieno rilievo in quanto orizzonte e fondamento della comunanza, cioè del legame sociale che non può trovare soddisfazione nelle sole relazioni di scambio. L’idea di bene comune esige però un recupero critico21. La crisi contemporanea dell’universale astratto e il prevalere della generalità tecnico-procedurale uniforme aprono oggettivamente lo spazio per un ripensamento dell’idea del comune, del bene comune sociale e del bene comune politico (come autentico universale politico). Ma a questo recupero creativo fa ostacolo una visione della cosa incerta e confusa. 18 Cfr. Ch. Taylor, Il dibattito tra sordi di liberali e comunitaristi, in A. Ferrara (a cura di), Comunitarismo e liberalismo, Editori Riuniti, Roma 1992, pp. 147-150. 19 Ibi, p. 151; per Aristotele cfr. Etica Nicomachea, 1167 b 3. Qualche indicazione in E. Vitale, Contro i beni comuni, pp. 90-93. 21 Cfr. F. Botturi, Bene comune politico, in F. Botturi – A. Campodonico (a cura di), Bene comune. Fondamenti e pratiche, Vita e Pensiero, Milano 2014, pp. 21-34. 20 8 Quale è la logica del bene comune? Per Tommaso d’Aquino, che ne ha formulato una teoria organica, l’idea di bene significa la relazione che ogni cosa intrattiene con la sua perfezione, con il compimento realizzativo di cui ha bisogno. In questo senso il bene di una cosa è il suo fine conveniente, nel quale essa raggiunge un incremento del suo essere proprio. Così la finalità comune di una totalità organizzata non è un'opzione, ma una necessità costitutiva del tutto considerato, senza di cui esso non potrebbe esistere e operare secondo il suo dinamismo proprio. La società umana è un complesso stratificato di operazioni, che trova la sua unità appunto nel fine comune che le dà il suo senso, pena il dissolversi come totalità operativa. «Tutte le comunità (umane) – scrive Tommaso nel suo commento alla Politica aristotelica – hanno di mira un certo bene, cioè sono tese a un qualche bene come fine»22. L’idea del bene comune implica perciò una concezione relazionale e dinamica della società umana. La comunità politica è quella comunità, comprensiva delle altre forme associative minori, istituita allo scopo di garantire», l’essenziale necessario per una vita associata degna dell’umanità dei suoi membri. Concetto evidentemente funzionale, che non definisce a priori la fisionomia delle realtà socio-politiche, ma fornisce criteri generali di realtà storicamente variabili, dalla civitas medievale alla eventuale struttura multipolare della comunità internazionale planetaria e delle sue localizzazioni regionali. Ciò che è evidente è che la nozione di “bene comune” non è anzitutto di natura morale e non vincola a una certa etica sostantiva (come spesso viene obiettato), anche se si capisce che senza una qualche iniziativa morale tale bene non potrebbe esistere e sussistere. Il bene comune è piuttosto una condizione di possibilità “ontologica” (di ontologia sociale) e un principio strutturale. Ma soprattutto l’idea di bene comune non è qualcosa che preesiste, come fosse una tavola di valori oppure un progetto di città ideale, alle concrete realtà sociali, bensì ne è la condizione fondamentale d’esistenza. Per questo il primato va allo spontaneo costituirsi della società, detta civile per distinzione dal politico che ne è l’inevitabile mediazione istituzionale. La comunanza originaria è perciò quella civile, che porta in sé la sua finalità fondatrice di cura, salvaguardia e realizzazione storica delle relazioni di cui è fatta. L’ontologia dell’essere sociale che è l’essere-in-comune in quanto essere-incomunicazione, in-interazione, in-sinergia; che è la convivenza sociale come bene sociale condiviso, anzi come “iperbene” – si potrebbe dire con la terminologia di Ch. Taylor – della rete relazionale attiva, interattiva e cooperativa, dialettica e concorrenziale, in breve della comunicazione sociale in cui si concreta l’essere-insocietà. 22 Sententia Libri Politicorum, I, l. 9-10. 9 Dunque, il bene comune di una società è quel bene umano già sempre condiviso, che è in comune tra persone appartenenti a una stessa realtà sociale; in sintesi, è il bene del loro stesso essere in comune per una vita buona partecipata. Per questo esige di essere protetto e garantito, cioè consapevolmente assunto e amministrato, cioè di diventare bene comune politico, istituzionalizzato e normativo. Il corpo politico nasce quando la società riconosce la condizione relazionale che la costituisce, giudica che essa sia bene e si istituisce come fine comune vincolante. Il potere politico coerentemente inteso, perciò, non ha per oggetto la società, né vi aggiunge un’ulteriore finalità, bensì ha la società come suo fine, che esso assume come suo compito responsabile. In questo senso il potere politico (corretto) costituisce l’autofinalizzazione consapevole di una società umana nel suo insieme. Per la sua stessa natura il bene comune politico non sta a fondamento di realtà comunitarie chiuse, ma di società politiche aperte, perché esso è l’universale politico concreto illimitatamente partecipabile, che non porta in sé ragioni di esclusione se non per chi non rispetta il patto della “cooperazione ragionevole”. Di conseguenza, il bene comune politico, pur non potendosi ridurre a neutra procedura, non presuppone l’adesione a una visione sostantiva selettiva, perché poggia esclusivamente sull’evidenza di una possibilità d’esistenza dell’unità sociopolitica, che può essere diversamente fondata secondo diverse e anche contrastanti visioni teoriche, ma che non per questo non può essere condivisa come tale; per questo l’idea di bene comune è compatibile, entro certi ampi limiti, con una società plurale. Infine, il bene comune politico non resta un ideale inoperoso, perché il suo giudizio fondamentale secondo cui “è bene l’essere-in-comune” si traduce immediatamente nel perseguimento di grandi beni realizzativi della vita sociale: il bene politico della pace, quello economico dello standard di vita, quello etico di comportamento consono alla dimensione comune di tutte le attività sociali. Questo è il livello storico attuativo del bene comune, oggetto costante di interpretazioni e di scelte, di competenza tecnica e di dialettica e deliberazione politiche. Questo è, a mio avviso, il significato universale di “bene comune”, massima espressione della comunanza, che l’universalismo statuale moderno ha emarginato e quello globalistico in atto rischia di cancellare. 1 0