D. Baratono, C. Piani

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D. Baratono, C. Piani
Diego Baratono, Claudio Piani
A.M.E.R.I.C.A. 1507
La genesi del Nuovo Mondo
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Capitolo I.
La ricerca
“…Chi aumenta sapienza, aumenta dolore…”.
Giordano Bruno, De gli eroici furori
Il mondo si fa in quattro
Riflettendo sulla scoperta dell’A.M.E.R.I.C.A., non possiamo fare a
meno di pensare a quell’oblio onirico in cui per secoli si è costretta, suo
malgrado, la “coscienza topografica” del Mondo. Si trattava di cognizioni
relegate in spazi geografici angusti, limitati da un’antica, quanto obsoleta,
visione cosmografica d’insieme. Amerigo Vespucci nel suo “Mundus
Novus” segnala la delicata questione nel momento in cui descrive la visione
geografica dei “vecchi padri”, apparentemente rimasti per secoli all’oscuro
e lontani da nuove scoperte. L’assioma è incontestabile: il Nuovo Mondo
non interagisce in nessuna maniera con la cultura del Vecchio Mondo,
e viceversa, fino al fatidico 1492. Simil giudizio risolve, per dir così,
un’equazione di primo grado: se non esistono prove o indizi a testimoniare
il contrario di quanto è comunemente accettato sull’argomento, la
questione dello “scoprimento dell’A.M.E.R.I.C.A.” è già chiusa in partenza.
Proprio la scoperta dell’A.M.E.R.I.C.A., almeno così Francisco López de
Gomara, storico, ha asserito nel secolo xvi nella sua “Historia general de las
Indias”, sarebbe quindi l’evento maggiormente significativo per la storia
dell’umanità, dopo la venuta di Cristo. Il che, non è poco…
Alcuni aspetti della questione, tuttavia, risultano per diversi motivi poco
chiari. Anzi, sono proprio sfuggenti. Certo è fuori luogo qui scomodare
ulteriormente l’antropologo Levi Strauss. Si vuole però ribadire che può
non essere soltanto pura fantasia l’idea che un segnale di quell’“antico
ronzio d’alveare”, seppur flebile, riesca a raggiungere tanto le corti europee
del secolo xv, quanto navigatori del calibro di un Diaz o di un Colombo,
sollecitandoli nelle loro imprese. Parlando di “A.M.E.R.I.C.A.” non si può
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prescindere poi dalla figura di chi, per tutti, n’è stato lo scopritore ufficiale,
ossia, appunto, Cristoforo Colombo. È fin troppo evidente, nondimeno,
che qui la domanda più imbarazzante, quella che ancora oggi più fa
discutere intere schiere di studiosi e storici, è perché l’A.M.E.R.I.C.A.
porta un nome inneggiante ad Amerigo Vespucci, quando, invece si dice
essere stato Cristoforo Colombo a scoprirla. La domanda, o meglio, la
riflessione che sta dietro a questa domanda, è tanto banale e semplice,
quanto è complesso e incerto rispondere razionalmente ad essa. Si deve
procedere quindi con ordine per cercare di comprendere meglio il tutto.
Dunque, vediamo un po’…
Cristoforo Colombo muore a Valladolid, in Spagna, nel 1506. L’anno
dopo a Saint-Dié, cittadina ai piedi dei Vosgi, in Lorena, quindi in
Francia, un geografo alemanno, Martin Waldseemüller, attraverso
un trattato cosmografico lì redatto, rende tutti gli onori ad Amerigo
Vespucci, battezzando il nuovo continente appena scoperto con il nome
“A.M.E.R.I.C.A.”. È ben evidente che qualche conto non torna come
dovrebbe: che senso ha tutto questo? Quanto è certo, è che le nuove
scoperte riferite da Colombo non fanno presa sul vecchio continente
come si sarebbe giustamente sperato. Sappiamo che né pepe, né chiodi
di garofano si sono trovati a testimonianza dell’avvenuto contatto con gli
abitanti delle presupposte Indie. Sappiamo pure che solo sei chilogrammi
d’oro sono lo scarso esito della seconda spedizione di Colombo. È un po’
poco…
Sappiamo, inoltre, che ai segnali d’euforia suscitati dal primo viaggio si
sostituiscono rapidamente comprensibili sintomi di forte scetticismo.
Scetticismo che nel periodo è maggiormente amplificato dai silenzi
sull’avvenimento, la cui scarsa diffusione propagandistica, a quanto
sembra, si deve piuttosto che ad altro, alla fiacchezza dei sistemi informativi
dell’epoca, magari non proprio efficientissimi, ma comunque esistenti. È
vero che la lettera di Colombo a Luis de Santángel, scritta il 15 febbraio
1493 al termine del primo viaggio transatlantico, è oggetto, tra il 1493 e
il 1494, di ben dodici edizioni a stampa, in latino1. Il suo effetto, tuttavia,
1 Le pubblicazioni sono tre a Barcellona, tre a Parigi, una ad Anversa, due a Basilea, una
a Roma e due a Firenze.
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non è certo paragonabile al brivido suscitato nel mondo accademico, dalle
coeve epistole d’Amerigo Vespucci. È altresì vero che l’umanista lombardo
alla corte di Castiglia, Pietro Martire d’Anghiera, amico di Colombo,
intuisce che le isole scoperte dal genovese sono, quasi certamente, parte
di nuovo e ben più vasto mondo. Le lettere spedite appunto da Pietro
Martire prima ad Ascanio Sforza nel 1493, poi a Giovanni Borromeo
nel 1494 e infine al Cardinale Bernardino de Carvajal nel 1495, lo
testimonierebbero. Gli stessi concetti, nondimeno, saranno pubblicati, a
questo punto però tardivamente, sempre da Pietro Martire nel 1504 e poi
nel 1511, all’interno della sua opera “Decades de orbe novo”, quando ormai
in Europa imperversano, già dal 1503-1504, le edizioni in latino delle
lettere d’Amerigo Vespucci, il “Mundus Novus”e la “Lettera (di Amerigo
Vespucci) a Pier Soderini”. Non bastando questo a remare contro Colombo,
s’aggiunge l’imprevedibilità del destino. È così che il testo del giornale di
bordo redatto di suo pugno, sfortunatamente, si è perduto in originale.
I contenuti dello scritto, tuttavia, in qualche modo saranno stampati, ma
solo nel 1572, grazie al prezioso lavoro di recupero e stesura, compiuto dal
figlio di Cristoforo, Fernando. Contro i Colombo, però, l’accanimento
della sorte non sembrerebbe finire certo qui: pure lo scritto in originale
di Ferdinando, infatti, è andato perduto… Sic erat in fatis…2 È così che
lentamente, ma pervicacemente, dal 1503 la figura d’Amerigo cresce,
sembrando destinata a far assumere al fiorentino sempre più la fisionomia
da vero eroe del Nuovo Mondo. Basti pensare che solo del “Mundus Novus”,
dal 1503 al 1550 se ne stamperanno ben 60 edizioni. Sono proprio le
lettere d’Amerigo Vespucci che permetteranno a Martin Waldseemüller, a
Gautier Lud e a Mathias Ringmann, di redigere e pubblicare il 25 aprile
dell’anno 1507, la formidabile “Cosmographiae Introductio”. È, questa,
l’eccezionale opera che oltre a segnare in profondità la storia della geografia
rinascimentale, al contempo renderà imperitura gloria ad Amerigo. È
nel nono capitolo di quest’eccelso lavoro, prima pubblicato a Saint-Dié
appunto nel 1507, poi a Strasburgo nel 1509, in seguito a Lione nel 1515 e
ancora nel 1518, che compare, straordinario, l’atto battesimale del Nuovo
2 “Così era scritto”, Ovidio, Fasti, I 481.
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Mondo. Il documento è accompagnato da chiara e “riformante” presa di
coscienza geografica: certifica l’esistenza di una “nuova” quarta parte di
mondo, addirittura separata dal vecchio continente. Ecco il celebre passo:
“… Oggi queste parti sono state ampiamente esplorate e una quarta parte è
stata scoperta da Amerigo Vespucci, come si dirà nelle pagine seguenti: io non
vedo ragione perché noi non la dobbiamo chiamare a partire dal nome di
colui che l’ha scoperta, Americo uomo dall’intelligenza penetrante, vale a dire
Amerige la terra di Americo, ovvero America…”.
A porre l’accento sull’importanza di così paradigmatico, e al contempo,
così poetico atto è, senza ombra di dubbio, la visione geograficoletteraria combinata alle precise informazioni “scientifiche” connesse,
che si materializzano nell’imbarazzante mappamondo e nell’altrettanto
imbarazzante globo suddiviso in dodici fusi che accompagnano il testo
della “Cosmographiae Introductio”. Della Cosmographiae originale stampata
dai canonici vosgensi, ne sopravvivranno solo due esemplari. Altre edizioni
dell’opera, vista la sua importanza, saranno nondimeno realizzate tra il
secolo xvi e il secolo xvii. Di queste, a tutt’oggi, ne esistono ancora 23
esemplari. Dei manufatti realizzati a stampa dal Waldseemüller, forse un
migliaio, ne rimangono del globo a fusi cinque, del grande mappamondo,
per quanto si conosce, soltanto uno.
È grazie a simili manufatti cartografici, ad ogni modo, che la visione
cosmografica rinascimentale ha un vero e proprio sussulto intellettuale.
Le carte nautiche realizzate su pergamena, che cercavano di descrivere
per prime i lineamenti di quelle terre sconosciute3, di colpo si mostrano
invecchiare di decenni, pur essendo coeve a quella del Waldseemüller. È
assodato che la carta del Waldseemüller del 1507, “aprirà le menti”, per dir
così, ad alcuni dei geografi più illustri del tempo: come non citare i lavori
di Johannes Shöner, Pietro Apiano, Glareano, Vesconte Magiolo; come
non ricordare Francesco Monaco, Sebastiano Munster, Gemma Frisio,
3 Ad esempio come quelle di Juan de la Cosa (1500), Alberto Cantino (1502), Kunstmann
(1503), Nicolò Caverio (1504), Oliveriana (1503), Visconte Maggiolo (1504), King –
Hamy (1504).
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Gerardo Mercatore, Oronzio Fineo. È aggiungendo a questi infine, i nomi
di Giacomo Gastaldi, Abramo Ortelio e proprio quel Caspar Vopel di cui
si avrà modo di ragionare diffusamente più oltre, che si avrà il quadro
abbastanza completo dell’enorme raggio d’influenza raggiunto dall’opera
siglata dal matematico alemanno. La carta vosgense del 1507 sembra
restituire interamente il netto, intenso profumo delle precise informazioni
geodetiche, registrate dai navigatori coinvolti, istruzioni di “prima mano”,
assorbite da questi intraprendenti esploratori dei mari attraverso esperienze
dirette e riversate, ormai assimilate e condivise “in toto”, nelle coscienze
dei compilatori che tracciarono l’incredibile documento in discorso. Nella
carta di Saint-Dié si è registrata la formidabile, sconvolgente consapevolezza
dell’esistenza di nuovi spazi topografici, non più circoscritti o erroneamente
identificati come stimato in precedenza, ma ora dilatati, resi “universali”4.
È quel “mundus novus” dove tutte le direzioni conducono a dei territori,
per dir così, ausiliari, tessere complementari di un puzzle altrimenti
incompleto. Spazi che sono, o possono diventare, intercomunicanti e
abitabili al genere umano. Per la prima volta, attraverso questa straordinaria
e innovativa carta, gli studiosi hanno la possibilità d’osservare il mondo da
un punto di vista prospettico privilegiato, quasi “grandangolare” poiché
onnicomprensivo.
Dai manufatti geografici realizzati dal Waldseemüller coadiuvato dai
“savants” di Saint-Dié, tuttavia, s’avverte emergere qualcosa di tanto
innovativo e anacronistico da elevare i manufatti stessi a veri e propri
fari di riferimento per l’intera cartografia rinascimentale. Ad esempio,
gli eruditi dei Vosgi sanno che per raggiungere le Indie navigando verso
4 In questo periodo esiste una certa confusione sul tipo di rendering da utilizzare nel
tentativo di descrivere morfologicamente e di collocare correttamente questo “nuovo”
quarto continente negli spazi da sempre rimasti vuoti sulle carte cosmografiche antiche.
A testimoniare ciò, è sintomatico osservare quanto impegno e quanta fatica consumano i
realizzatori anonimi dei globi gemelli di Lenox e Jagiellonian, entrambi del 1510, già solo
per arrivare a concepire tali ragionamenti scientifici. Nel Jagiellonian, ad esempio, emerge
un vero e proprio disorientamento su dove collocare il toponimo America. Si sceglierà
d’inserire la scritta, inspiegabilmente, su di una strana isola in pieno Oceano Indiano. La
confusione sembra essere dunque totale. Si deve dire, però, che osservando con maggior
attenzione il particolare territorio insulare scelto dai cartografi del Jagiellonian, ci si
accorgerà che questo sembra ricalcare in qualche modo l’andamento costiero proprio dei
litorali del Nord America come riprodotti nella grande carta del 1507.
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occidente, sono due gli oceani che si devono superare. Sanno, inoltre, che
tra queste distese liquide, due “nuove” masse continentali s’estendono,
senza soluzione di continuità, da Nord a Sud, fino alle estreme latitudini
australi. Non sono questi, tuttavia, i principali motivi d’interesse. Su tutti,
è un dettaglio a lasciare evidentemente perplessi. Emerge confrontando la
carta e il globo creati dal Waldseemüller nel 1507, con altri prodotti coevi.
Si tratta del sorprendente, smisurato gap epistemologico, e fors’anche
teleologico, che emerge tra l’accurata raffigurazione delle coste del Nuovo
Mondo, presente nelle due realizzazioni lasciateci dall’innovativo geografo
tedesco e le altre opere cartografiche contemporanee. Tale illustrazione è
sconcertante al limite dell’imbarazzo. La carta vosgense per qualità e per
carico d’informazioni geografiche contenute e trasmesse è concretamente
pre-scientifica, in qualsiasi modo vogliamo considerare la faccenda. È un
problema. Anzi. È un grosso problema, giacché, teoricamente e per logica,
non possono esistere carte geografiche già provviste d’ingredienti così
profondamente informativi, redatte “prima” delle dovute perlustrazioni
territoriali e delle conseguenti rilevazioni geodetiche. Soprattutto, non
possono esistere carte così precise nel disegno, senza l’acquisizione e la
conversione, ossia il “rendering” dei rilevamenti tecnici “ a monte” necessari
alla loro stesura. È insensato pensarlo. La scoperta di nuovi lidi procurata
da azzardate rotte marittime, in ogni caso, diventa fatto “scientifico” o,
per dir meglio, acquisisce la dignità di pregiato ingrediente cartografico,
ogni qual volta il “fumus” di forti interessi economici incomincia a
diffondersi. Di riflesso, nei paesaggi sociali coinvolti, il valore stimato
di simili interessi economici inevitabilmente sprona le società partecipi,
prima ad approfondire le nuove conoscenze stabilizzandole quanto più
possibile, per poi materializzarle in prodotti cartografici utili, ovviamente,
allo sfruttamento concreto delle informazioni stesse. In altri termini si
tratta di “semplici” operazioni commerciali, un investimento, insomma. Si
finalizzano così, in qualche misura, i “prodotti scientifici” a disposizione.
Nulla di nuovo sotto il Sole, a quanto pare…
Altra considerazione: in genere non sembrerebbero esistere rappresentazioni
del mondo incompatibili con il complesso intreccio di valori simbolici,
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culturali, politici ed economici, “imprinting genetico” ed espressione
univoca sia dell’organizzazione sociale sia del periodo storico, che li ha
precisati e prodotti. La carta del 1507, tuttavia, non sembra sottostare
“soltanto” a queste poche, semplici regole. Almeno, non sembrerebbero
esistere “soltanto” tracce che limitano e convogliano in simile direzione.
La carta vosgense possiede un sapore e delle caratteristiche ben più, come
dire, “estensive”. Allora, cos’è successo effettivamente? Quali segreti,
veri o presunti, si celano dietro le trame di quest’insolito, straordinario
documento? Proviamo a cercare una risposta plausibile. Ragioniamo.
Attualmente per cercare di scoprire qualcosa di nuovo nel campo
cartografico è almeno necessario l’adeguato processo di rilettura di quelle
opere, che la cartografia coralmente considera cardini per la storia degli
ultimi cinquecento anni. In tal senso, il mappamondo del 1507 e il globo
annesso, sono, forse, documenti unici. Certamente sono “strumenti
sapienziali” sopravvissuti in qualche modo alla macina del tempo. Si tratta
d’opere come in questo caso in grado d’innescare profondi cambiamenti
di paradigma sull’effettiva conoscenza, se non altro cartografica, del Nuovo
Mondo in epoca antecedente la sua scoperta ufficiale5. Una ristretta
cerchia di sapienti operanti all’inizio del secolo xvi, in ogni caso, si direbbe
pilotare, per lo meno a sua discrezione, questo genere di flussi cognitivi.
Esempio chiarificatore di quanto s’intende dire in tal senso, si può cogliere
nella sottile e al contempo potentissima simbologia individuata e risolta
da Diego6. A sorpresa, simbolo “carismatico”, in grado di trasferire
conoscenza si scopre essere la notevole matrice geometrica sulla quale
si plasma il sinuoso profilo del drappeggio esibito dal mantello di ben
determinata iconografia mariana, dipinta a Firenze intorno agli anni 147214757. La precisa decodificazione della lucida simbologia apre le porte su
orizzonti sconfinati, consentendo, al contempo, di penetrare in profondità
5 Esiste, in effetti, un terzo manufatto di Martin Waldseemüller. Si tratta del cosiddetto
“Globo verde”, che come avrà l’opportunità di verificare il lettore leggendo i successivi
capitoli di questo libro, aggiungerà indizi importanti alla nostra ricerca cartografica.
6 È Diego Baratono, ossia il coautore di questo libro.
7 Già le date indicate, ossia gli anni 1472 – 1475, sono interessanti. Si tratta, infatti, di
circa vent’anni esatti prima della scoperta ufficiale del Nuovo Mondo, ossia l’anno 1492.
È da tenere a mente.
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e svelare, almeno in parte, i segreti custoditi in uno dei documenti più
esclusivi della cartografia rinascimentale. Questo ha permesso di collocarci
in una prospettiva di studio trasversale rispetto a più “ortodosse” analisi dei
documenti sia storici sia cartografici noti. Il punto di vista, mai utilizzato
finora, legittima quei luoghi e personaggi, deputati per eccellenza al
risveglio della conoscenza europea rinascimentale, d’assumere finalmente
valenze e visibilità più consone e legittime. Ad ogni modo, per come si
conosce, la storia autorizza a pensare che, in linea di massima, nel secolo
xv l’uomo di cultura ha visioni geografiche del mondo cristallizzate sul
racconto biblico della Genesi. L’intransigente filtro delle Sacre Scritture,
costringe in direzioni ben precise l’idea, all’epoca peraltro quasi coralmente
condivisa, della composizione geografica del Mondo. Si deve ricordare,
infatti, che la tripartizione terrestre viene indicata proprio nel Testo
Sacro: Sem, Cam e Jafet sono i rispettivi destinatari di quelle poche terre
emerse dopo la terrificante esperienza del Diluvio Universale. Insieme
all’Arcobaleno, sono questi i tre territori concessi da Dio a suggello della
sua prima alleanza con l’uomo. Semiti, Camiti e Giapeti saranno così le
popolazioni discendenti a loro volta dai tre figli di Noè e saranno inoltre
coloro che colonizzeranno rispettivamente i continenti d’Asia, Africa
ed Europa. Per le credenze correnti all’epoca era quanto bastava sapere.
Era tutto ciò a cui si doveva prestar fede. Era il “Vecchio Mondo”. Per
la Bibbia, per i teologi, per gli uomini comuni, non potevano esistere
pertanto altri territori all’infuori di questi tre. È chiaro, quindi, e si avrà
modo di constatarlo, che per gli eruditi di Saint-Dié si prospettava un
arduo compito: far accettare ideologicamente, teologicamente e quindi
fideisticamente la scoperta “controcorrente” di un “Nuovo Mondo”, quasi
rivelazione che come avrà modo di scrivere Amerigo Vespucci nelle sue
lettere dopo averlo lui stesso recepito come tale, è un evento che: “… supera
l’intendimento di tutti…”. Questa è frase cardine per legittimare quanto
si è da noi ricostruito storicamente: l’evento straordinario della scoperta
del Nuovo Mondo è talmente eccezionale, da superare la “comprensione
umana”. La terra così modellata, tuttavia, è sorta d’inadeguato reclusorio
per chi invece, nello stesso periodo, curiosamente, sostiene l’esistenza
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“anche” di un’aggiuntiva quarta parte di mondo da cui, però ci si deve
tenere a debita distanza. Il bislacco territorio in questione, infatti, collocato
oltre una fascia equatoriale oceanica talmente bollente da bruciare ogni
cosa, sarebbe abitato da genti altrettanto bizzarre che vivono per esempio
camminando “a testa in giù”. Sono gli Antipodi, strana popolazione
dimenticata dallo stesso Creatore, che cammina sulle mani e c’è anche
di peggio: non sono certamente discendenti di Adamo, non sono terre
da frequentare, “hic sunt leones”. Si tratta d’idee considerate chiaramente
eretiche da parte della società intellettualmente ed economicamente
dominante, per tradizione orbitante in certi ambiti clericali. Si tratta
anche, nondimeno, di rappresentazioni mentali arcaiche. Immagini che,
emergenti prepotentemente dalle profondità del tempo, si ripropongono
in questo particolare momento storico, con l’importante riscoperta, la
fedele trascrizione e la conseguente traduzione d’opere filosofiche prodotte
dall’antico mondo classico. È frutto paziente del lavoro generazionale di
monaci benedettino-colombaniani e soprattutto cisterciensi, che operosi
lavorano fin dal secolo xii – si avrà modo di ritornare sull’argomento
nel capitolo V – per salvaguardare inestimabili patrimoni di conoscenze.
Sorprendente che, ancora oggi, il Medio Evo sia spesso considerato
e spiegato, come epoca buia, età primitiva i cui pensatori, al massimo,
riescono a immaginarsi fisicamente la Terra, quale estensione di territori
completamente piatti. Nulla di più falso!8 È sufficiente ricordare che Dio
e gli imperatori, a quanto sembra compreso Alessandro Magno, nelle varie
raffigurazioni propagandistiche arcaiche e medievali che li ritraggono,
sono sempre rappresentati con un globo in mano, e mai con una tavola o
un disco, quindi…
Inoltre, in rappresentazioni cosmogoniche del periodo, come ad esempio
in quella del 1121 elaborata dal monaco Lamberto di Saint Bertin, non si
può non notare l’intrinseca padronanza scientifica con cui si descrivono
8 A questo proposito si devono assolutamente ricordare i convincimenti circolanti
e divulgati dai pensatori della famosa “Scuola di Chartres”. Per ulteriori informazioni
in merito all’importante questione, si veda inoltre il testo: Le Abbazie ed il segreto delle
Piramidi. L’Esagramma, ovvero le straordinarie geometrie dell’Acqua, Diego Baratono,
2004, Ecig, Genova.
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le estensioni del mondo abitato9. È a Cristoforo Colombo che, in ogni
caso, va il merito incontestato d’aver abbondantemente dilatato i confini
di un mondo in “restringimento”, qual è percepito il continente protocapitalistico “Europa”, nel secolo xv. Il vecchio continente, infatti, è
sempre più affamato di nuove terre da coltivare, da sfruttare, da civilizzare,
anche brutalmente se necessario, dove poter rinascere a vita nuova. Il
Paradiso Terrestre, d’altronde, deve pur esistere da qualche parte: la
Bibbia non si discute. È così che, verso la metà del secolo xv, all’Europa si
presenta finalmente l’occasione d’esplorare la parte tenebrosa dell’oceano
occidentale e di svelarne alcuni segreti. A ben guardare, il clima è, in
generale, propizio per certe imprese, senza dubbio. Resta ad ogni buon
conto, una domanda in sospeso: ma perché ci sono paesi, anche potenti, che
rimangono spettatori indifferenti di fronte a quello che Italia, Portogallo,
e un po’ più tardi, Spagna, Francia e Inghilterra, s’accingono a realizzare?
L’Islam, sicuro delle proprie potenzialità economiche, è troppo impegnato
nello sforzo di scombinare il mondo cristiano e non s’arrischia a lanciarsi
in nuove avventure mercantili: i suoi traffici mediterranei e arabici sono già
lucrosi a sufficienza.
La Cina, dal canto suo, almeno per quel poco che è dato conoscere, è
presente sulla scena grazie alle esplorazioni dell’ammiraglio Zheng He
(1405-1433) che inizialmente appoggiato dall’imperatore Zhu Di, riesce
a condurre le sue flotte fino alle coste australi dell’Africa. L’imprevista
scelta della sua madrepatria di ritornare a una politica isolazionista, però,
interrompe bruscamente le perlustrazioni dell’ammiraglio Zheng He, che,
forse, può spingersi anche ben oltre l’attuale Capo di Buona Speranza
ma tant’è, e l’esploratore orientale dopo un amaro “obbedisco”, si ferma
rientrando in patria. L’Occidente cristiano, dietro la rovinosa caduta di
Costantinopoli, trova gravoso accesso ai mercati del Levante tramite il
consueto portale del territorio egiziano, con il suo sbocco sul Mar Rosso.
Ora, però, come si è visto, nel passaggio obbligato per il ricco e favoloso
Oriente, spadroneggiano le fameliche orde islamiche turche. Per non
9 In merito alla questione “Lamberto di Saint Bertin”, è in preparazione un nostro
approfondito studio che presenta risvolti decisamente sorprendenti e non privi di
“novità”quanto meno clamorose.
26
fibrillare, dunque, il mondo commerciale dell’Occidente si vede forzato
a cambiare strategia. La priorità, ora, è di by-passare le onerose pretese,
anche geopolitiche, reclamate dai potentati orientali regnanti su quelle
terre. Pur se poco coesa, benché oberata da mille difficoltà strutturali,
di natura economica, politica e sociale, verso la metà del secolo xv,
all’Europa si presenta in ogni caso la possibilità d’agire. Lo farà. Lo farà
lanciandosi senza troppi indugi in un’insolita partita, che vedrà soltanto
un concorrente e quindi un solo vincitore. La posta in palio? È altissima,
tanto quanto l’interesse per l’area dove si consumerà il gioco, che non sarà
più “solo” l’antico, consunto, polveroso territorio europeo. Da questo
momento in poi saranno bensì le liquide vastità dello sconosciuto Oceano
occidentale a divenir scacchiere. Ora l’Europa non si sente più limitata da
alcun argine né fisico, né teorico né, soprattutto, teologico. Il periodo è
particolarmente dinamico. Dopo anni non bui, ma di ristagno, si vedono
aprirsi nuovi, straordinari, immaginifici scenari anche tecnologici. A
comparire, ad esempio, sono arditi e innovativi accorgimenti tecniconavali, quasi esperimenti per ottimizzare la navigazione, che considerano
realizzabile e migliorativa, la fusione strutturale d’imbarcazioni quali la
“cocca” con la “caracca”. Sono, queste due, comuni tipologie di vecchie
imbarcazioni medievali, ma che così miscelate acquistano in manovrabilità,
capienza e velocità. È il nuovo che avanza. Si ha poi l’introduzione del più
comodo, giacché “portatile”, quadrante, congegno utile in navigazione per
determinare la posizione dei corpi celesti e del Sole rispetto all’orizzonte.
S’aggiungerà, inoltre, la scoperta di correnti e venti direzionali in pieno
oceano, che consentono di facilitare quando non proprio accelerare e
velocizzare i viaggi marittimi10. L’ingegno, la lungimiranza, la violenza,
la bramosia di conquista, sono “principi attivi”, catalizzatori, insiti nella
mentalità e nella cultura occidentale. Nel bene e nel male. Si direbbe essere
la somma di tutte queste condizioni peculiari, nondimeno, a permettere
a un manipolo di navigatori d’aprire una sorta di vero e proprio “vaso di
10 Ad esempio, la corrente di Irminger a Nord – Est della Scandinavia s’incontra con la
corrente del Labrador proveniente da Nord – Ovest, permettendo di giungere dall’Islanda
alla Groenlandia. Per il ritorno è grazie alla Passat del Nord che si può raggiungre
nuovamente l’Europa sbarcando in prima battuta sulle isole Azzorre.
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Pandora”. Da tempo, l’ambito, inaspettato “Sacro Graal” geografico sembra
indugiare, sospeso nei liquidi bagliori metallici di quel “Mare Oceano”
materno e protettivo, nella snervante e consapevole attesa d’essere, prima o
poi, scoperto. Il suo destino, tragico quanto ineluttabile, è ormai prossimo
al compimento. Ciò avverrà. Avverrà e le impreviste conseguenze per
decine di milioni di nativi cui appartengono le nuove terre disvelate dagli
europei, saranno apocalittiche.
Sarà sangue. Sarà storia…
Non appena Portoghesi e Italiani si lanciano insieme in questo forsennato
volo di conquista, nel momento in cui si rappresentano su pergamena o su
carta le linee di costa dei nuovi spazi geografici avvicinati e raggiunti, si ha
subito la netta, precisa sensazione che qualcosa non torni. Già, ma cosa?
Molto prima dell’avvio delle navigazioni lusitane, nel 1320 ad esempio, la
geografia straordinariamente precisa tracciata dal genovese Pietro Visconte
abbraccia orizzonti obiettivamente troppo vasti per gli scopi cui è destinata
“in chiaro”, ossia essere “solo” traccia geografica finalizzata a facilitare le
rotte del commercio navale nel cuore del Mediterraneo. È progetto poco
credibile in tal senso. Ora, osservando le isole Azzorre sulla carta nautica
del 1367 dei fratelli Pizzigano o l’isola Antilia presente sulla carta del
1424, sempre di un Pizzigano, Zuane in questo caso, a che cosa si deve
pensare in termini di conoscenze registrate? A influenze cartografiche
indo-arabe? Ad antiche reminescenze legate probabilmente a più o meno
mitiche navigazioni vichinghe o irlandesi? Difficile rispondere. Del resto,
che dire del mappamondo veneziano realizzato nel 1410 da Albertin da
Virga? Nel singolare manufatto sono rappresentate, a sud delle Molucche,
terre che sembrano riprendere linee di costa molto simili a quelle del
continente australiano… nella fantasia secondo gli esperti. Nella realtà,
però, quelle remote lande saranno meglio definite dal geografo francese
Pierre Desceliers nel suo planisfero. Questo, invero, accadrà, ma soltanto
dopo, “soltanto” nel 1550. Già, ovvio: centoquarant’anni dopo. È, però,
anche questo un bel problema. È un problema giacché la data indicata,
anziché rappresentare la soluzione della faccenda, sembra piuttosto portare
a nuove contraddizioni, come dire, “relativistiche”, ossia spazio-temporali.
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Didatticamente, in effetti, è il 1640 l’anno certificato in cui gli Olandesi
compirebbero le loro prime scoperte in questi lontani territori… australi.
Tra la prima data, il 1410, e l’altra, ossia il 1640, esiste un vuoto temporale
di almeno duecentotrent’anni. Il divario è notevole. Troppo: come si può
spiegare? Silenzio assoluto in sala…
“Anacronismi” simili, oltre che essere imbarazzanti, emergono
prepotentemente da diversi manufatti geografici e non solo da quelli
indicati al momento. Non è pertanto scientificamente corretto tacere
l’esistenza di simili incongruenze, anche se ciò complica, e non poco, le
cose. Sono proprio queste discrepanze temporali, tuttavia, che ci hanno
sempre spinti a pensare che in certe opere cartografiche non vi fosse profusa
“semplicemente” la profetica visione personale d’alcuni cosmografi, come
sostenuto da diversi studiosi. Anzi. La nostra idea condivisa, era, ed è,
che in queste opere straordinarie si sia registrato il preciso compimento, il
“rendering” materiale, la trasposizione in forma “leggibile” di rilievi metrici
geodetici, che solo reali operazioni di cartografia pre-scientifica potevano
consentire. Lo scenario anacronistico si ripresenta, ancor più pressante,
soprattutto nel momento in cui s’esamina la carta definita a Saint-Dié nel
1507. “Annus mirabilis” questo. Si badi, infatti, che da quando Colombo,
nel 1498, sbarca per la prima volta nei territori dell’attuale Venezuela,
ufficialmente questi luoghi sono di conseguenza ancora tutti da scoprire, al
momento in cui il Nuovo Mondo sarà interamente carteggiato, definito e
battezzato con il toponimo “A.M.E.R.I.C.A.”, ossia in quel fatidico 1507,
trascorrono “solamente” nove anni. Già, solo nove anni… com’è possibile
tutto ciò? Ad accompagnare lo straordinario atto celebrativo in cui Amerigo
si prende tutti i meriti, vi è quest’eccezionale documento di Saint-Dié,
con tutto il suo ponderoso carico d’informazioni per dir così, “criptate”,
che racconta e descrive scenari geografici trasversali integralmente diversi,
integralmente atipici rispetto all’ufficialità. L’orizzonte prospettico che vi è
tracciato è niente affatto fiabesco, anzi. È vero l’esatto contrario. Da troppo
tempo, tuttavia, questo “orizzonte” si è relegato per strani e incomprensibili
motivi, almeno per chi scrive, in angusti spazi marginali della storia e
della ricerca. È arrivata l’ora di rimediare a questa “distrazione”. Proviamo
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perciò ad alzare il pesante velo posato su quel lontano momento storico,
augurandoci di fornire i giusti elementi di riflessione sia agli studiosi sia ai
semplici lettori. Dunque…
Il punto di partenza, si è detto, è in Francia, è la località della Lorena di
Saint-Dié-des-Vosges. Protagonista fondamentale è quest’imbarazzante,
eccezionale, inspiegabile carta geografica, redatta nei primi anni del 1500…
Il ritrovamento
Il fatto è davvero molto, molto curioso. Per qualcuno, ancora oggi,
l’esclusiva carta geografica in discorso stampata il 25 aprile 1507 dai
sapienti di Saint-Dié, è solamente immagine “surreale”, meglio, si
tratterebbe del frutto di un’idea visionaria, è pura fantasia. Per certi studiosi,
in sostanza, la carta geografica redatta dal circolo dei “savants” francesi è la
“strana visione onirica forgiata dall’energia creativa di chi la compilò”.
Belle parole, ma sarà proprio così? È bene almeno accennarlo allora, a
scanso d’equivoci, che siamo stati noi, tra i primi, nel bene e nel male, a
insistere, attraverso varie pubblicazioni, sia di carattere divulgativo sia
accademico, sulla fondatezza scientifica “ab origine” delle anomalie storicogeografiche, che caratterizzano l’impianto cosmografico immortalato dal
Waldseemüller. Dopo l’incensamento personale torniamo al ritrovamento.
È il 1901, quando dalla biblioteca privata del castello di Wolfegg in
Germania, la carta viene riportata alla luce dal professor Joseph Fischer. Gli
storici e i geografi del periodo s’accorgono fin da subito, difficile del resto
non vederle, delle curiose anomalie presenti nel documento. Reagiscono
nell’unico modo possibile. Gli studiosi cercano di capire quale significato
possiede simile rappresentazione geografica tanto sbilanciata, per dir così,
nel futuro. I ricercatori dell’epoca, giustamente, assumono atteggiamenti
critici nei confronti del documento cartografico, del resto di bravi falsari
ne sono sempre esistiti, senza sottovalutare al contempo alcuna possibilità.
Il manufatto, proprio grazie ai suoi palesi contenuti “futuribili”, consente,
potenzialmente, di trasmettere dal punto di vista storico e cartografico una
nuova visione sull’ampiezza degli orizzonti conoscitivi posseduti all’epoca
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della sua compilazione. Passati i primi momenti d’interesse, tuttavia,
l’argomento cade nel più profondo silenzio e di conseguenza,
inevitabilmente, nel dimenticatoio. Anzi. A un certo punto, la carta del
1507 si direbbe diventare nient’altro che mera curiosità folcloristica. La
conclusione? È triste, ma è la solita: non vale la pena d’arrovellarsi per
tentare di capire come i savants di Saint-Dié, sono stati in grado
d’“inventarsi” la sorprendente sequela di dati geografici, così anticipatori e
così precisi, presenti nella carta in parola. Gli storici della cartografia
liquidano, dunque, forse un po’ troppo sbrigativamente l’argomento
sostenendo che la risposta è da ricercarsi soltanto nell’immaginazione del
matematico tedesco Martin Waldseemüller. Secondo noi, invece, vale
sicuramente lo sforzo, a più di cento anni di distanza, di riprendere quel
leggero filo lasciato in sospeso dai pionieri della storia cartografica. Servirà,
questo, per meglio capire dove le indagini si sono fermate e dove possono
ancora portare. A oggi solo pochi studiosi hanno intrapreso la rilettura di
questo documento e, curiosamente, tutti hanno iniziato le loro ricerche
quasi in contemporanea. Le prime pubblicazioni sulla questione, infatti, si
situano nei primi due anni del secolo xxi: Peter Withifield, Gunnar
Thompson, Enrique Garcia, Claudio Piani nel 200111, Peter Dickson nel
2002, Gavin Manzies, sempre nel 2002. È lecito chiedersi il perché
dell’improvviso interesse per una carta del 1507 da parte di studiosi che,
senza nessun collegamento tra loro, pervengono più o meno alle stesse
conclusioni. È altrettanto lecita un’altra domanda, del resto. Il mappamondo
che di sicuro può ritenersi un manufatto originale d’epoca, al contempo è
però anche documento dai contenuti evidentemente troppo “moderni”:
può dunque essere spiegabile “solo” con le conoscenze geografiche circolanti
all’epoca della sua elaborazione, la notevole completezza d’informazioni in
esso riportate? La conclusione affiorante in filigrana è duplice. Innanzi
tutto, a scatenare il rinnovato interesse degli studiosi per il prezioso
manufatto e a riportarlo in auge, potrebbe essere stata la notizia, clamorosa,
della sua commercializzazione. È, infatti, proprio nel 2001 che ricercatori
americani acquistano la carta dal suo originario detentore, ossia dal Principe
11 Claudio Piani, ossia il coautore del libro.
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Waldburg di Wolfegg. L’annuncio, è ovvio, fa rapidamente il giro del
mondo. Secondo poi, già in anni precedenti l’acquisto, alcuni esperti
avevano cercato di richiamare l’attenzione su determinati prodotti
cartografici medievali e rinascimentali, sottolineando un fatto curioso.
Sarebbe stato particolarmente difficile giustificare in modo compiuto la
modernità dei contenuti registrati in simili manufatti geografici, se pietre
di paragone fossero rimaste “solo” le conoscenze sviluppate dalle società
che li avevano prodotti. Si trattava, in effetti, di conoscenze che, in ogni
modo si guardassero, erano evidentemente inferiori al livello del contenuto
fissato nei manufatti stessi. Autori come Charles Hapgood, poi, hanno
avuto il merito di risvegliare, nel bene e nel male, curiosità e coscienze, in
chi prova un certo interesse per gli scenari storici alternativi. Limite di
questi autori, secondo il nostro personalissimo parere, è d’aver abbracciato,
per dir così, orizzonti di ricerca troppo ampi, rischiando in tal modo di
perdere il contatto con il reale milieu storico preso in esame. Del resto,
anche per noi, per chi si “limita” alla ricerca scientifica, sì, ma non
pretenziosa, cercare di spiegare il perché esistono certe anomalie nello
scenario cartografico antico è impresa che può veramente portare al più
totale smarrimento. A volte, infatti, le informazioni geografiche seguono
puntuali le tempistiche del progetto di rilevamento organico, dettato e
organizzato da volontà, per dir così, “istituzionali” ben precise. In questa
prospettiva si vedano, le carte tecniche redatte da Giovanni Vespucci nel
1523, dal Castiglioni nel 1525, dal Salviati nel 1525 o dal Ribeiro nel
1529. Altre volte, invece, le informazioni riscontrabili sui documenti
geografici, come quelli lasciatici da Alberto Cantino o da Martin
Waldseemüller, stravolgono completamente la tranquillità di questi
schemi. Risulta, dunque, alquanto difficile districarsi in simili labirinti
d’informazioni. Non sempre, come si è più volte detto, questi prodotti
sono in simmetria diretta rispetto alle conoscenze del momento. Si può
pensare a balzi quantici del sapere, ma benché possibili, è difficile crederci.
Per intenderci, in ogni caso, mostriamo subito alcune immagini a supporto
e prova di quanto si è esposto. È abbastanza evidente, che l’immagine della
carta di Giovanni Vespucci del 1523 (Figura n°1), s’avvicina di molto al
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reale lavoro di rilevamento e “rendering” di più flotte, che cercano di
definire i profili di terre scoperte in progressione. Osserviamo, però, la
carta di Cantino del 1502 (Figura n°2), che precede di venti anni la prima.
Per quanto noto, dovrebbe registrare le scoperte nautiche in corso. Ci si
accorge subito, tuttavia, che qualcosa non va. Di cosa si tratta? Orbene, le
linee costiere dell’intero continente africano, comprese quindi anche le
coste sul versante dell’Oceano Indiano, come si vede, sono precisamente
tracciate. È del tutto normale, allora, chiedersi in che modo è possibile
avere già così ben definiti i contorni dei due versanti del continente, se è
vero che Vasco de Gama è da poco rientrato dal suo primo viaggio,
avvenuto tra il 1497 e il 1499. Il navigatore partirà per il suo secondo
viaggio proprio nel 1502. La spiegazione, qui, è abbastanza nota. Il
planisfero del Cantino, per quanto riguarda l’area dell’Oceano Indiano, è
la summa d’innumerevoli rilevamenti e carteggi effettuati, oltre che da
esploratori veneziani e portoghesi, anche da ricognitori arabi e cinesi. Si
tratta, quindi, di conoscenze acquisite, elaborate e trasmesse dopo decine
d’anni e dopo innumerevoli missioni esplorative. La questione è che i
Portoghesi, e con loro anche le altre potenze marittime, nascondono
gelosamente, per ovvii motivi di sicurezza, le fonti che permettono la
realizzazione delle loro innovative carte geografiche. In questo periodo,
infatti, le navi che salpano da Lisbona dirigendosi verso le lontane e
sconosciute rotte asiatiche, devono sempre essere fornite di due grandi
mappamondi “generali”. Questi manufatti, durante il viaggio, sono
continuamente aggiornati grazie anche all’apporto cognitivo dei popoli
locali con cui vengono in contatto i navigatori lusitani.
Inutile ricordare che simili documenti sono custoditi con la massima
cautela e segretezza. I Portoghesi, come d’altro canto anche i navigatori
ingaggiati dalle altre nazioni, sono ben consapevoli che a lavoro ultimato i
meriti, e tutto quanto si troverà segnalato sulle carte da loro redatte, saranno
assegnati alla corona lusitana in un caso, alle nazioni d’appartenenza
all’altro. Molti altri documenti cartografici come questi rivelano particolari
intriganti. Si devono osservare però con prudenza, senza prescindere
né dalla destinazione d’uso finale, né dalla loro tipologia e neppure dal
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contesto che le ha prodotte. Può essere, ad esempio, che in una carta
nautica realizzata su pergamena, e perciò documento di solito altamente
tecnico, ci siano meno informazioni che in mappamondi realizzati per
illustrare talune visioni “teologiche” del creato.
Esemplificativo in tal senso, è il mappamondo disegnato nel 1459 dal
camaldolese veneziano Fra’ Mauro. Può altresì capitare di trovarsi di fronte
a certe carte a stampa, che per celebrare le bizzarre velleità di qualche
principe o imperatore impegnato a cercare di passare alla Storia, stravolgono
arbitrariamente le conoscenze geografiche fino a quel momento accertate
da navigatori e astronomi contemporanei di quelle. Sono proprio simili
carte che illustrano elementi geografici inesistenti, di pura fantasia, cui
si è accennato. Si è detto, che il tipo di ricerca che abbiamo affrontato è
stato senza dubbio lavoro complesso, il più delle volte, anche fuorviante.
Ad esempio, ci si è accorti che fino alla seconda metà del secolo xviii, la
cartografia s’avvale ancora di linguaggi iconografici che riproducono aree più
o meno vaste grazie a sistemi empirici di rilevamento. Le rappresentazioni
ottenute, in buona sostanza, non rispondono nemmeno agli standard
minimi cui oggi si è abituati. Ben differente invece il discorso per la carta
del Waldseemüller. Analizzando questo potente documento del 1507 si è
invece portati a credere che al suo interno sia registrato e codificato qualcosa
in più dei pochi e “semplici” indicatori utili per decifrare il mare d’ipotesi
circolanti sulla strana idea che ben prima del 1492, scambi culturali tra
Antico e Nuovo Mondo siano avvenuti, per dir così, “al coperto”. Per
noi, la carta del 1507, ha costituito l’imprescindibile “trait d’union” tra
la dimensione macrostorica, quella della scoperta dell’A.M.E.R.I.C.A., e
la dimensione microstorica, ossia quella dei luoghi interessati dalle nostre
ricerche. La carta, dunque, si è rivelata, oltre che valido documento ricco
di sorprese, il “cifrario” che ci ha permesso di leggere la storia attraverso
percorsi sì innovativi, ma allo stesso tempo tangibili, concreti e cogenti,
utili per testare “sul terreno” la bontà delle nostre asserzioni. Nel corso
delle nostre indagini abbiamo a lungo viaggiato in Italia e all’estero. Si
sono visitati musei, archivi, biblioteche, chiese, castelli. Abbiamo avuto
l’opportunità di visionare, in prima persona, alcuni tra i documenti
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cartografici più preziosi ed esclusivi ancora esistenti. Sono testimonianze,
queste, che hanno ancora il potere d’ammaliare e far sognare, trasmettendo
integra quell’energia dell’intelletto, che solo l’autore dei manufatti ha saputo
profondere, imprimere e sigillare in profondità. È tempo di far riemergere
questo patrimonio culturale. Tanto per iniziare, ora si cercherà, per quanto
possibile, di dar risposta a un’annosa quanto delicata e intrigante questione:
se esiste o no la possibilità che, da qualche parte, da certuni documenti
antichi, possano emergere elementi oggettivi tali da rimettere in discussione
le navigazioni e le scoperte di Colombo. Per tentare di trovare la risposta,
se esiste, dobbiamo a malincuore abbandonare le tiepide e cristalline
acque tropicali, per portarci in una zona montana, bella per carità, ma
non proprio caldissima, della Lombardia. Si va in Valtellina. È proprio da
qui, dalle montagne lombarde, che il viaggio inizia. L’affascinante tragitto
intellettuale si è intrapreso osservando il profilo sinuoso di certe particolari
rappresentazioni geografiche intimamente connesse con la carta francese di
Saint-Dié del 1507…
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Fig. 1 – La carta di Giovanni Vespucci del 1523. Biblioteca Reale, Torino.
Fig. 2 – La carta di Cantino del 1502. Biblioteca Estense Universitaria,
Modena.
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Il volume di Diego Baratono
e Claudio Piani è disponibile
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rodotto-a-m-e-r-i-c-a-1507-lagenesi-del-nuovo-mondo.html