D. Baratono, C. Piani
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D. Baratono, C. Piani
Diego Baratono, Claudio Piani A.M.E.R.I.C.A. 1507 La genesi del Nuovo Mondo Questo libro è disponibile in versione a stampa www.liberfaber.com Maquette e impaginazione: AOC (06000 Nice) Copertina: Graph’im 64 (64600 Anglet) www.liberfaber.com Tutti i diritti riservati/ Tous droits réservés pour tous pays. LiberFaber Sarl, 23 boulevard des Moulins 98000 Monaco ISBN 978-2-36580-086-0 Capitolo I. La ricerca “…Chi aumenta sapienza, aumenta dolore…”. Giordano Bruno, De gli eroici furori Il mondo si fa in quattro Riflettendo sulla scoperta dell’A.M.E.R.I.C.A., non possiamo fare a meno di pensare a quell’oblio onirico in cui per secoli si è costretta, suo malgrado, la “coscienza topografica” del Mondo. Si trattava di cognizioni relegate in spazi geografici angusti, limitati da un’antica, quanto obsoleta, visione cosmografica d’insieme. Amerigo Vespucci nel suo “Mundus Novus” segnala la delicata questione nel momento in cui descrive la visione geografica dei “vecchi padri”, apparentemente rimasti per secoli all’oscuro e lontani da nuove scoperte. L’assioma è incontestabile: il Nuovo Mondo non interagisce in nessuna maniera con la cultura del Vecchio Mondo, e viceversa, fino al fatidico 1492. Simil giudizio risolve, per dir così, un’equazione di primo grado: se non esistono prove o indizi a testimoniare il contrario di quanto è comunemente accettato sull’argomento, la questione dello “scoprimento dell’A.M.E.R.I.C.A.” è già chiusa in partenza. Proprio la scoperta dell’A.M.E.R.I.C.A., almeno così Francisco López de Gomara, storico, ha asserito nel secolo xvi nella sua “Historia general de las Indias”, sarebbe quindi l’evento maggiormente significativo per la storia dell’umanità, dopo la venuta di Cristo. Il che, non è poco… Alcuni aspetti della questione, tuttavia, risultano per diversi motivi poco chiari. Anzi, sono proprio sfuggenti. Certo è fuori luogo qui scomodare ulteriormente l’antropologo Levi Strauss. Si vuole però ribadire che può non essere soltanto pura fantasia l’idea che un segnale di quell’“antico ronzio d’alveare”, seppur flebile, riesca a raggiungere tanto le corti europee del secolo xv, quanto navigatori del calibro di un Diaz o di un Colombo, sollecitandoli nelle loro imprese. Parlando di “A.M.E.R.I.C.A.” non si può 17 prescindere poi dalla figura di chi, per tutti, n’è stato lo scopritore ufficiale, ossia, appunto, Cristoforo Colombo. È fin troppo evidente, nondimeno, che qui la domanda più imbarazzante, quella che ancora oggi più fa discutere intere schiere di studiosi e storici, è perché l’A.M.E.R.I.C.A. porta un nome inneggiante ad Amerigo Vespucci, quando, invece si dice essere stato Cristoforo Colombo a scoprirla. La domanda, o meglio, la riflessione che sta dietro a questa domanda, è tanto banale e semplice, quanto è complesso e incerto rispondere razionalmente ad essa. Si deve procedere quindi con ordine per cercare di comprendere meglio il tutto. Dunque, vediamo un po’… Cristoforo Colombo muore a Valladolid, in Spagna, nel 1506. L’anno dopo a Saint-Dié, cittadina ai piedi dei Vosgi, in Lorena, quindi in Francia, un geografo alemanno, Martin Waldseemüller, attraverso un trattato cosmografico lì redatto, rende tutti gli onori ad Amerigo Vespucci, battezzando il nuovo continente appena scoperto con il nome “A.M.E.R.I.C.A.”. È ben evidente che qualche conto non torna come dovrebbe: che senso ha tutto questo? Quanto è certo, è che le nuove scoperte riferite da Colombo non fanno presa sul vecchio continente come si sarebbe giustamente sperato. Sappiamo che né pepe, né chiodi di garofano si sono trovati a testimonianza dell’avvenuto contatto con gli abitanti delle presupposte Indie. Sappiamo pure che solo sei chilogrammi d’oro sono lo scarso esito della seconda spedizione di Colombo. È un po’ poco… Sappiamo, inoltre, che ai segnali d’euforia suscitati dal primo viaggio si sostituiscono rapidamente comprensibili sintomi di forte scetticismo. Scetticismo che nel periodo è maggiormente amplificato dai silenzi sull’avvenimento, la cui scarsa diffusione propagandistica, a quanto sembra, si deve piuttosto che ad altro, alla fiacchezza dei sistemi informativi dell’epoca, magari non proprio efficientissimi, ma comunque esistenti. È vero che la lettera di Colombo a Luis de Santángel, scritta il 15 febbraio 1493 al termine del primo viaggio transatlantico, è oggetto, tra il 1493 e il 1494, di ben dodici edizioni a stampa, in latino1. Il suo effetto, tuttavia, 1 Le pubblicazioni sono tre a Barcellona, tre a Parigi, una ad Anversa, due a Basilea, una a Roma e due a Firenze. 18 non è certo paragonabile al brivido suscitato nel mondo accademico, dalle coeve epistole d’Amerigo Vespucci. È altresì vero che l’umanista lombardo alla corte di Castiglia, Pietro Martire d’Anghiera, amico di Colombo, intuisce che le isole scoperte dal genovese sono, quasi certamente, parte di nuovo e ben più vasto mondo. Le lettere spedite appunto da Pietro Martire prima ad Ascanio Sforza nel 1493, poi a Giovanni Borromeo nel 1494 e infine al Cardinale Bernardino de Carvajal nel 1495, lo testimonierebbero. Gli stessi concetti, nondimeno, saranno pubblicati, a questo punto però tardivamente, sempre da Pietro Martire nel 1504 e poi nel 1511, all’interno della sua opera “Decades de orbe novo”, quando ormai in Europa imperversano, già dal 1503-1504, le edizioni in latino delle lettere d’Amerigo Vespucci, il “Mundus Novus”e la “Lettera (di Amerigo Vespucci) a Pier Soderini”. Non bastando questo a remare contro Colombo, s’aggiunge l’imprevedibilità del destino. È così che il testo del giornale di bordo redatto di suo pugno, sfortunatamente, si è perduto in originale. I contenuti dello scritto, tuttavia, in qualche modo saranno stampati, ma solo nel 1572, grazie al prezioso lavoro di recupero e stesura, compiuto dal figlio di Cristoforo, Fernando. Contro i Colombo, però, l’accanimento della sorte non sembrerebbe finire certo qui: pure lo scritto in originale di Ferdinando, infatti, è andato perduto… Sic erat in fatis…2 È così che lentamente, ma pervicacemente, dal 1503 la figura d’Amerigo cresce, sembrando destinata a far assumere al fiorentino sempre più la fisionomia da vero eroe del Nuovo Mondo. Basti pensare che solo del “Mundus Novus”, dal 1503 al 1550 se ne stamperanno ben 60 edizioni. Sono proprio le lettere d’Amerigo Vespucci che permetteranno a Martin Waldseemüller, a Gautier Lud e a Mathias Ringmann, di redigere e pubblicare il 25 aprile dell’anno 1507, la formidabile “Cosmographiae Introductio”. È, questa, l’eccezionale opera che oltre a segnare in profondità la storia della geografia rinascimentale, al contempo renderà imperitura gloria ad Amerigo. È nel nono capitolo di quest’eccelso lavoro, prima pubblicato a Saint-Dié appunto nel 1507, poi a Strasburgo nel 1509, in seguito a Lione nel 1515 e ancora nel 1518, che compare, straordinario, l’atto battesimale del Nuovo 2 “Così era scritto”, Ovidio, Fasti, I 481. 19 Mondo. Il documento è accompagnato da chiara e “riformante” presa di coscienza geografica: certifica l’esistenza di una “nuova” quarta parte di mondo, addirittura separata dal vecchio continente. Ecco il celebre passo: “… Oggi queste parti sono state ampiamente esplorate e una quarta parte è stata scoperta da Amerigo Vespucci, come si dirà nelle pagine seguenti: io non vedo ragione perché noi non la dobbiamo chiamare a partire dal nome di colui che l’ha scoperta, Americo uomo dall’intelligenza penetrante, vale a dire Amerige la terra di Americo, ovvero America…”. A porre l’accento sull’importanza di così paradigmatico, e al contempo, così poetico atto è, senza ombra di dubbio, la visione geograficoletteraria combinata alle precise informazioni “scientifiche” connesse, che si materializzano nell’imbarazzante mappamondo e nell’altrettanto imbarazzante globo suddiviso in dodici fusi che accompagnano il testo della “Cosmographiae Introductio”. Della Cosmographiae originale stampata dai canonici vosgensi, ne sopravvivranno solo due esemplari. Altre edizioni dell’opera, vista la sua importanza, saranno nondimeno realizzate tra il secolo xvi e il secolo xvii. Di queste, a tutt’oggi, ne esistono ancora 23 esemplari. Dei manufatti realizzati a stampa dal Waldseemüller, forse un migliaio, ne rimangono del globo a fusi cinque, del grande mappamondo, per quanto si conosce, soltanto uno. È grazie a simili manufatti cartografici, ad ogni modo, che la visione cosmografica rinascimentale ha un vero e proprio sussulto intellettuale. Le carte nautiche realizzate su pergamena, che cercavano di descrivere per prime i lineamenti di quelle terre sconosciute3, di colpo si mostrano invecchiare di decenni, pur essendo coeve a quella del Waldseemüller. È assodato che la carta del Waldseemüller del 1507, “aprirà le menti”, per dir così, ad alcuni dei geografi più illustri del tempo: come non citare i lavori di Johannes Shöner, Pietro Apiano, Glareano, Vesconte Magiolo; come non ricordare Francesco Monaco, Sebastiano Munster, Gemma Frisio, 3 Ad esempio come quelle di Juan de la Cosa (1500), Alberto Cantino (1502), Kunstmann (1503), Nicolò Caverio (1504), Oliveriana (1503), Visconte Maggiolo (1504), King – Hamy (1504). 20 Gerardo Mercatore, Oronzio Fineo. È aggiungendo a questi infine, i nomi di Giacomo Gastaldi, Abramo Ortelio e proprio quel Caspar Vopel di cui si avrà modo di ragionare diffusamente più oltre, che si avrà il quadro abbastanza completo dell’enorme raggio d’influenza raggiunto dall’opera siglata dal matematico alemanno. La carta vosgense del 1507 sembra restituire interamente il netto, intenso profumo delle precise informazioni geodetiche, registrate dai navigatori coinvolti, istruzioni di “prima mano”, assorbite da questi intraprendenti esploratori dei mari attraverso esperienze dirette e riversate, ormai assimilate e condivise “in toto”, nelle coscienze dei compilatori che tracciarono l’incredibile documento in discorso. Nella carta di Saint-Dié si è registrata la formidabile, sconvolgente consapevolezza dell’esistenza di nuovi spazi topografici, non più circoscritti o erroneamente identificati come stimato in precedenza, ma ora dilatati, resi “universali”4. È quel “mundus novus” dove tutte le direzioni conducono a dei territori, per dir così, ausiliari, tessere complementari di un puzzle altrimenti incompleto. Spazi che sono, o possono diventare, intercomunicanti e abitabili al genere umano. Per la prima volta, attraverso questa straordinaria e innovativa carta, gli studiosi hanno la possibilità d’osservare il mondo da un punto di vista prospettico privilegiato, quasi “grandangolare” poiché onnicomprensivo. Dai manufatti geografici realizzati dal Waldseemüller coadiuvato dai “savants” di Saint-Dié, tuttavia, s’avverte emergere qualcosa di tanto innovativo e anacronistico da elevare i manufatti stessi a veri e propri fari di riferimento per l’intera cartografia rinascimentale. Ad esempio, gli eruditi dei Vosgi sanno che per raggiungere le Indie navigando verso 4 In questo periodo esiste una certa confusione sul tipo di rendering da utilizzare nel tentativo di descrivere morfologicamente e di collocare correttamente questo “nuovo” quarto continente negli spazi da sempre rimasti vuoti sulle carte cosmografiche antiche. A testimoniare ciò, è sintomatico osservare quanto impegno e quanta fatica consumano i realizzatori anonimi dei globi gemelli di Lenox e Jagiellonian, entrambi del 1510, già solo per arrivare a concepire tali ragionamenti scientifici. Nel Jagiellonian, ad esempio, emerge un vero e proprio disorientamento su dove collocare il toponimo America. Si sceglierà d’inserire la scritta, inspiegabilmente, su di una strana isola in pieno Oceano Indiano. La confusione sembra essere dunque totale. Si deve dire, però, che osservando con maggior attenzione il particolare territorio insulare scelto dai cartografi del Jagiellonian, ci si accorgerà che questo sembra ricalcare in qualche modo l’andamento costiero proprio dei litorali del Nord America come riprodotti nella grande carta del 1507. 21 occidente, sono due gli oceani che si devono superare. Sanno, inoltre, che tra queste distese liquide, due “nuove” masse continentali s’estendono, senza soluzione di continuità, da Nord a Sud, fino alle estreme latitudini australi. Non sono questi, tuttavia, i principali motivi d’interesse. Su tutti, è un dettaglio a lasciare evidentemente perplessi. Emerge confrontando la carta e il globo creati dal Waldseemüller nel 1507, con altri prodotti coevi. Si tratta del sorprendente, smisurato gap epistemologico, e fors’anche teleologico, che emerge tra l’accurata raffigurazione delle coste del Nuovo Mondo, presente nelle due realizzazioni lasciateci dall’innovativo geografo tedesco e le altre opere cartografiche contemporanee. Tale illustrazione è sconcertante al limite dell’imbarazzo. La carta vosgense per qualità e per carico d’informazioni geografiche contenute e trasmesse è concretamente pre-scientifica, in qualsiasi modo vogliamo considerare la faccenda. È un problema. Anzi. È un grosso problema, giacché, teoricamente e per logica, non possono esistere carte geografiche già provviste d’ingredienti così profondamente informativi, redatte “prima” delle dovute perlustrazioni territoriali e delle conseguenti rilevazioni geodetiche. Soprattutto, non possono esistere carte così precise nel disegno, senza l’acquisizione e la conversione, ossia il “rendering” dei rilevamenti tecnici “ a monte” necessari alla loro stesura. È insensato pensarlo. La scoperta di nuovi lidi procurata da azzardate rotte marittime, in ogni caso, diventa fatto “scientifico” o, per dir meglio, acquisisce la dignità di pregiato ingrediente cartografico, ogni qual volta il “fumus” di forti interessi economici incomincia a diffondersi. Di riflesso, nei paesaggi sociali coinvolti, il valore stimato di simili interessi economici inevitabilmente sprona le società partecipi, prima ad approfondire le nuove conoscenze stabilizzandole quanto più possibile, per poi materializzarle in prodotti cartografici utili, ovviamente, allo sfruttamento concreto delle informazioni stesse. In altri termini si tratta di “semplici” operazioni commerciali, un investimento, insomma. Si finalizzano così, in qualche misura, i “prodotti scientifici” a disposizione. Nulla di nuovo sotto il Sole, a quanto pare… Altra considerazione: in genere non sembrerebbero esistere rappresentazioni del mondo incompatibili con il complesso intreccio di valori simbolici, 22 culturali, politici ed economici, “imprinting genetico” ed espressione univoca sia dell’organizzazione sociale sia del periodo storico, che li ha precisati e prodotti. La carta del 1507, tuttavia, non sembra sottostare “soltanto” a queste poche, semplici regole. Almeno, non sembrerebbero esistere “soltanto” tracce che limitano e convogliano in simile direzione. La carta vosgense possiede un sapore e delle caratteristiche ben più, come dire, “estensive”. Allora, cos’è successo effettivamente? Quali segreti, veri o presunti, si celano dietro le trame di quest’insolito, straordinario documento? Proviamo a cercare una risposta plausibile. Ragioniamo. Attualmente per cercare di scoprire qualcosa di nuovo nel campo cartografico è almeno necessario l’adeguato processo di rilettura di quelle opere, che la cartografia coralmente considera cardini per la storia degli ultimi cinquecento anni. In tal senso, il mappamondo del 1507 e il globo annesso, sono, forse, documenti unici. Certamente sono “strumenti sapienziali” sopravvissuti in qualche modo alla macina del tempo. Si tratta d’opere come in questo caso in grado d’innescare profondi cambiamenti di paradigma sull’effettiva conoscenza, se non altro cartografica, del Nuovo Mondo in epoca antecedente la sua scoperta ufficiale5. Una ristretta cerchia di sapienti operanti all’inizio del secolo xvi, in ogni caso, si direbbe pilotare, per lo meno a sua discrezione, questo genere di flussi cognitivi. Esempio chiarificatore di quanto s’intende dire in tal senso, si può cogliere nella sottile e al contempo potentissima simbologia individuata e risolta da Diego6. A sorpresa, simbolo “carismatico”, in grado di trasferire conoscenza si scopre essere la notevole matrice geometrica sulla quale si plasma il sinuoso profilo del drappeggio esibito dal mantello di ben determinata iconografia mariana, dipinta a Firenze intorno agli anni 147214757. La precisa decodificazione della lucida simbologia apre le porte su orizzonti sconfinati, consentendo, al contempo, di penetrare in profondità 5 Esiste, in effetti, un terzo manufatto di Martin Waldseemüller. Si tratta del cosiddetto “Globo verde”, che come avrà l’opportunità di verificare il lettore leggendo i successivi capitoli di questo libro, aggiungerà indizi importanti alla nostra ricerca cartografica. 6 È Diego Baratono, ossia il coautore di questo libro. 7 Già le date indicate, ossia gli anni 1472 – 1475, sono interessanti. Si tratta, infatti, di circa vent’anni esatti prima della scoperta ufficiale del Nuovo Mondo, ossia l’anno 1492. È da tenere a mente. 23 e svelare, almeno in parte, i segreti custoditi in uno dei documenti più esclusivi della cartografia rinascimentale. Questo ha permesso di collocarci in una prospettiva di studio trasversale rispetto a più “ortodosse” analisi dei documenti sia storici sia cartografici noti. Il punto di vista, mai utilizzato finora, legittima quei luoghi e personaggi, deputati per eccellenza al risveglio della conoscenza europea rinascimentale, d’assumere finalmente valenze e visibilità più consone e legittime. Ad ogni modo, per come si conosce, la storia autorizza a pensare che, in linea di massima, nel secolo xv l’uomo di cultura ha visioni geografiche del mondo cristallizzate sul racconto biblico della Genesi. L’intransigente filtro delle Sacre Scritture, costringe in direzioni ben precise l’idea, all’epoca peraltro quasi coralmente condivisa, della composizione geografica del Mondo. Si deve ricordare, infatti, che la tripartizione terrestre viene indicata proprio nel Testo Sacro: Sem, Cam e Jafet sono i rispettivi destinatari di quelle poche terre emerse dopo la terrificante esperienza del Diluvio Universale. Insieme all’Arcobaleno, sono questi i tre territori concessi da Dio a suggello della sua prima alleanza con l’uomo. Semiti, Camiti e Giapeti saranno così le popolazioni discendenti a loro volta dai tre figli di Noè e saranno inoltre coloro che colonizzeranno rispettivamente i continenti d’Asia, Africa ed Europa. Per le credenze correnti all’epoca era quanto bastava sapere. Era tutto ciò a cui si doveva prestar fede. Era il “Vecchio Mondo”. Per la Bibbia, per i teologi, per gli uomini comuni, non potevano esistere pertanto altri territori all’infuori di questi tre. È chiaro, quindi, e si avrà modo di constatarlo, che per gli eruditi di Saint-Dié si prospettava un arduo compito: far accettare ideologicamente, teologicamente e quindi fideisticamente la scoperta “controcorrente” di un “Nuovo Mondo”, quasi rivelazione che come avrà modo di scrivere Amerigo Vespucci nelle sue lettere dopo averlo lui stesso recepito come tale, è un evento che: “… supera l’intendimento di tutti…”. Questa è frase cardine per legittimare quanto si è da noi ricostruito storicamente: l’evento straordinario della scoperta del Nuovo Mondo è talmente eccezionale, da superare la “comprensione umana”. La terra così modellata, tuttavia, è sorta d’inadeguato reclusorio per chi invece, nello stesso periodo, curiosamente, sostiene l’esistenza 24 “anche” di un’aggiuntiva quarta parte di mondo da cui, però ci si deve tenere a debita distanza. Il bislacco territorio in questione, infatti, collocato oltre una fascia equatoriale oceanica talmente bollente da bruciare ogni cosa, sarebbe abitato da genti altrettanto bizzarre che vivono per esempio camminando “a testa in giù”. Sono gli Antipodi, strana popolazione dimenticata dallo stesso Creatore, che cammina sulle mani e c’è anche di peggio: non sono certamente discendenti di Adamo, non sono terre da frequentare, “hic sunt leones”. Si tratta d’idee considerate chiaramente eretiche da parte della società intellettualmente ed economicamente dominante, per tradizione orbitante in certi ambiti clericali. Si tratta anche, nondimeno, di rappresentazioni mentali arcaiche. Immagini che, emergenti prepotentemente dalle profondità del tempo, si ripropongono in questo particolare momento storico, con l’importante riscoperta, la fedele trascrizione e la conseguente traduzione d’opere filosofiche prodotte dall’antico mondo classico. È frutto paziente del lavoro generazionale di monaci benedettino-colombaniani e soprattutto cisterciensi, che operosi lavorano fin dal secolo xii – si avrà modo di ritornare sull’argomento nel capitolo V – per salvaguardare inestimabili patrimoni di conoscenze. Sorprendente che, ancora oggi, il Medio Evo sia spesso considerato e spiegato, come epoca buia, età primitiva i cui pensatori, al massimo, riescono a immaginarsi fisicamente la Terra, quale estensione di territori completamente piatti. Nulla di più falso!8 È sufficiente ricordare che Dio e gli imperatori, a quanto sembra compreso Alessandro Magno, nelle varie raffigurazioni propagandistiche arcaiche e medievali che li ritraggono, sono sempre rappresentati con un globo in mano, e mai con una tavola o un disco, quindi… Inoltre, in rappresentazioni cosmogoniche del periodo, come ad esempio in quella del 1121 elaborata dal monaco Lamberto di Saint Bertin, non si può non notare l’intrinseca padronanza scientifica con cui si descrivono 8 A questo proposito si devono assolutamente ricordare i convincimenti circolanti e divulgati dai pensatori della famosa “Scuola di Chartres”. Per ulteriori informazioni in merito all’importante questione, si veda inoltre il testo: Le Abbazie ed il segreto delle Piramidi. L’Esagramma, ovvero le straordinarie geometrie dell’Acqua, Diego Baratono, 2004, Ecig, Genova. 25 le estensioni del mondo abitato9. È a Cristoforo Colombo che, in ogni caso, va il merito incontestato d’aver abbondantemente dilatato i confini di un mondo in “restringimento”, qual è percepito il continente protocapitalistico “Europa”, nel secolo xv. Il vecchio continente, infatti, è sempre più affamato di nuove terre da coltivare, da sfruttare, da civilizzare, anche brutalmente se necessario, dove poter rinascere a vita nuova. Il Paradiso Terrestre, d’altronde, deve pur esistere da qualche parte: la Bibbia non si discute. È così che, verso la metà del secolo xv, all’Europa si presenta finalmente l’occasione d’esplorare la parte tenebrosa dell’oceano occidentale e di svelarne alcuni segreti. A ben guardare, il clima è, in generale, propizio per certe imprese, senza dubbio. Resta ad ogni buon conto, una domanda in sospeso: ma perché ci sono paesi, anche potenti, che rimangono spettatori indifferenti di fronte a quello che Italia, Portogallo, e un po’ più tardi, Spagna, Francia e Inghilterra, s’accingono a realizzare? L’Islam, sicuro delle proprie potenzialità economiche, è troppo impegnato nello sforzo di scombinare il mondo cristiano e non s’arrischia a lanciarsi in nuove avventure mercantili: i suoi traffici mediterranei e arabici sono già lucrosi a sufficienza. La Cina, dal canto suo, almeno per quel poco che è dato conoscere, è presente sulla scena grazie alle esplorazioni dell’ammiraglio Zheng He (1405-1433) che inizialmente appoggiato dall’imperatore Zhu Di, riesce a condurre le sue flotte fino alle coste australi dell’Africa. L’imprevista scelta della sua madrepatria di ritornare a una politica isolazionista, però, interrompe bruscamente le perlustrazioni dell’ammiraglio Zheng He, che, forse, può spingersi anche ben oltre l’attuale Capo di Buona Speranza ma tant’è, e l’esploratore orientale dopo un amaro “obbedisco”, si ferma rientrando in patria. L’Occidente cristiano, dietro la rovinosa caduta di Costantinopoli, trova gravoso accesso ai mercati del Levante tramite il consueto portale del territorio egiziano, con il suo sbocco sul Mar Rosso. Ora, però, come si è visto, nel passaggio obbligato per il ricco e favoloso Oriente, spadroneggiano le fameliche orde islamiche turche. Per non 9 In merito alla questione “Lamberto di Saint Bertin”, è in preparazione un nostro approfondito studio che presenta risvolti decisamente sorprendenti e non privi di “novità”quanto meno clamorose. 26 fibrillare, dunque, il mondo commerciale dell’Occidente si vede forzato a cambiare strategia. La priorità, ora, è di by-passare le onerose pretese, anche geopolitiche, reclamate dai potentati orientali regnanti su quelle terre. Pur se poco coesa, benché oberata da mille difficoltà strutturali, di natura economica, politica e sociale, verso la metà del secolo xv, all’Europa si presenta in ogni caso la possibilità d’agire. Lo farà. Lo farà lanciandosi senza troppi indugi in un’insolita partita, che vedrà soltanto un concorrente e quindi un solo vincitore. La posta in palio? È altissima, tanto quanto l’interesse per l’area dove si consumerà il gioco, che non sarà più “solo” l’antico, consunto, polveroso territorio europeo. Da questo momento in poi saranno bensì le liquide vastità dello sconosciuto Oceano occidentale a divenir scacchiere. Ora l’Europa non si sente più limitata da alcun argine né fisico, né teorico né, soprattutto, teologico. Il periodo è particolarmente dinamico. Dopo anni non bui, ma di ristagno, si vedono aprirsi nuovi, straordinari, immaginifici scenari anche tecnologici. A comparire, ad esempio, sono arditi e innovativi accorgimenti tecniconavali, quasi esperimenti per ottimizzare la navigazione, che considerano realizzabile e migliorativa, la fusione strutturale d’imbarcazioni quali la “cocca” con la “caracca”. Sono, queste due, comuni tipologie di vecchie imbarcazioni medievali, ma che così miscelate acquistano in manovrabilità, capienza e velocità. È il nuovo che avanza. Si ha poi l’introduzione del più comodo, giacché “portatile”, quadrante, congegno utile in navigazione per determinare la posizione dei corpi celesti e del Sole rispetto all’orizzonte. S’aggiungerà, inoltre, la scoperta di correnti e venti direzionali in pieno oceano, che consentono di facilitare quando non proprio accelerare e velocizzare i viaggi marittimi10. L’ingegno, la lungimiranza, la violenza, la bramosia di conquista, sono “principi attivi”, catalizzatori, insiti nella mentalità e nella cultura occidentale. Nel bene e nel male. Si direbbe essere la somma di tutte queste condizioni peculiari, nondimeno, a permettere a un manipolo di navigatori d’aprire una sorta di vero e proprio “vaso di 10 Ad esempio, la corrente di Irminger a Nord – Est della Scandinavia s’incontra con la corrente del Labrador proveniente da Nord – Ovest, permettendo di giungere dall’Islanda alla Groenlandia. Per il ritorno è grazie alla Passat del Nord che si può raggiungre nuovamente l’Europa sbarcando in prima battuta sulle isole Azzorre. 27 Pandora”. Da tempo, l’ambito, inaspettato “Sacro Graal” geografico sembra indugiare, sospeso nei liquidi bagliori metallici di quel “Mare Oceano” materno e protettivo, nella snervante e consapevole attesa d’essere, prima o poi, scoperto. Il suo destino, tragico quanto ineluttabile, è ormai prossimo al compimento. Ciò avverrà. Avverrà e le impreviste conseguenze per decine di milioni di nativi cui appartengono le nuove terre disvelate dagli europei, saranno apocalittiche. Sarà sangue. Sarà storia… Non appena Portoghesi e Italiani si lanciano insieme in questo forsennato volo di conquista, nel momento in cui si rappresentano su pergamena o su carta le linee di costa dei nuovi spazi geografici avvicinati e raggiunti, si ha subito la netta, precisa sensazione che qualcosa non torni. Già, ma cosa? Molto prima dell’avvio delle navigazioni lusitane, nel 1320 ad esempio, la geografia straordinariamente precisa tracciata dal genovese Pietro Visconte abbraccia orizzonti obiettivamente troppo vasti per gli scopi cui è destinata “in chiaro”, ossia essere “solo” traccia geografica finalizzata a facilitare le rotte del commercio navale nel cuore del Mediterraneo. È progetto poco credibile in tal senso. Ora, osservando le isole Azzorre sulla carta nautica del 1367 dei fratelli Pizzigano o l’isola Antilia presente sulla carta del 1424, sempre di un Pizzigano, Zuane in questo caso, a che cosa si deve pensare in termini di conoscenze registrate? A influenze cartografiche indo-arabe? Ad antiche reminescenze legate probabilmente a più o meno mitiche navigazioni vichinghe o irlandesi? Difficile rispondere. Del resto, che dire del mappamondo veneziano realizzato nel 1410 da Albertin da Virga? Nel singolare manufatto sono rappresentate, a sud delle Molucche, terre che sembrano riprendere linee di costa molto simili a quelle del continente australiano… nella fantasia secondo gli esperti. Nella realtà, però, quelle remote lande saranno meglio definite dal geografo francese Pierre Desceliers nel suo planisfero. Questo, invero, accadrà, ma soltanto dopo, “soltanto” nel 1550. Già, ovvio: centoquarant’anni dopo. È, però, anche questo un bel problema. È un problema giacché la data indicata, anziché rappresentare la soluzione della faccenda, sembra piuttosto portare a nuove contraddizioni, come dire, “relativistiche”, ossia spazio-temporali. 28 Didatticamente, in effetti, è il 1640 l’anno certificato in cui gli Olandesi compirebbero le loro prime scoperte in questi lontani territori… australi. Tra la prima data, il 1410, e l’altra, ossia il 1640, esiste un vuoto temporale di almeno duecentotrent’anni. Il divario è notevole. Troppo: come si può spiegare? Silenzio assoluto in sala… “Anacronismi” simili, oltre che essere imbarazzanti, emergono prepotentemente da diversi manufatti geografici e non solo da quelli indicati al momento. Non è pertanto scientificamente corretto tacere l’esistenza di simili incongruenze, anche se ciò complica, e non poco, le cose. Sono proprio queste discrepanze temporali, tuttavia, che ci hanno sempre spinti a pensare che in certe opere cartografiche non vi fosse profusa “semplicemente” la profetica visione personale d’alcuni cosmografi, come sostenuto da diversi studiosi. Anzi. La nostra idea condivisa, era, ed è, che in queste opere straordinarie si sia registrato il preciso compimento, il “rendering” materiale, la trasposizione in forma “leggibile” di rilievi metrici geodetici, che solo reali operazioni di cartografia pre-scientifica potevano consentire. Lo scenario anacronistico si ripresenta, ancor più pressante, soprattutto nel momento in cui s’esamina la carta definita a Saint-Dié nel 1507. “Annus mirabilis” questo. Si badi, infatti, che da quando Colombo, nel 1498, sbarca per la prima volta nei territori dell’attuale Venezuela, ufficialmente questi luoghi sono di conseguenza ancora tutti da scoprire, al momento in cui il Nuovo Mondo sarà interamente carteggiato, definito e battezzato con il toponimo “A.M.E.R.I.C.A.”, ossia in quel fatidico 1507, trascorrono “solamente” nove anni. Già, solo nove anni… com’è possibile tutto ciò? Ad accompagnare lo straordinario atto celebrativo in cui Amerigo si prende tutti i meriti, vi è quest’eccezionale documento di Saint-Dié, con tutto il suo ponderoso carico d’informazioni per dir così, “criptate”, che racconta e descrive scenari geografici trasversali integralmente diversi, integralmente atipici rispetto all’ufficialità. L’orizzonte prospettico che vi è tracciato è niente affatto fiabesco, anzi. È vero l’esatto contrario. Da troppo tempo, tuttavia, questo “orizzonte” si è relegato per strani e incomprensibili motivi, almeno per chi scrive, in angusti spazi marginali della storia e della ricerca. È arrivata l’ora di rimediare a questa “distrazione”. Proviamo 29 perciò ad alzare il pesante velo posato su quel lontano momento storico, augurandoci di fornire i giusti elementi di riflessione sia agli studiosi sia ai semplici lettori. Dunque… Il punto di partenza, si è detto, è in Francia, è la località della Lorena di Saint-Dié-des-Vosges. Protagonista fondamentale è quest’imbarazzante, eccezionale, inspiegabile carta geografica, redatta nei primi anni del 1500… Il ritrovamento Il fatto è davvero molto, molto curioso. Per qualcuno, ancora oggi, l’esclusiva carta geografica in discorso stampata il 25 aprile 1507 dai sapienti di Saint-Dié, è solamente immagine “surreale”, meglio, si tratterebbe del frutto di un’idea visionaria, è pura fantasia. Per certi studiosi, in sostanza, la carta geografica redatta dal circolo dei “savants” francesi è la “strana visione onirica forgiata dall’energia creativa di chi la compilò”. Belle parole, ma sarà proprio così? È bene almeno accennarlo allora, a scanso d’equivoci, che siamo stati noi, tra i primi, nel bene e nel male, a insistere, attraverso varie pubblicazioni, sia di carattere divulgativo sia accademico, sulla fondatezza scientifica “ab origine” delle anomalie storicogeografiche, che caratterizzano l’impianto cosmografico immortalato dal Waldseemüller. Dopo l’incensamento personale torniamo al ritrovamento. È il 1901, quando dalla biblioteca privata del castello di Wolfegg in Germania, la carta viene riportata alla luce dal professor Joseph Fischer. Gli storici e i geografi del periodo s’accorgono fin da subito, difficile del resto non vederle, delle curiose anomalie presenti nel documento. Reagiscono nell’unico modo possibile. Gli studiosi cercano di capire quale significato possiede simile rappresentazione geografica tanto sbilanciata, per dir così, nel futuro. I ricercatori dell’epoca, giustamente, assumono atteggiamenti critici nei confronti del documento cartografico, del resto di bravi falsari ne sono sempre esistiti, senza sottovalutare al contempo alcuna possibilità. Il manufatto, proprio grazie ai suoi palesi contenuti “futuribili”, consente, potenzialmente, di trasmettere dal punto di vista storico e cartografico una nuova visione sull’ampiezza degli orizzonti conoscitivi posseduti all’epoca 30 della sua compilazione. Passati i primi momenti d’interesse, tuttavia, l’argomento cade nel più profondo silenzio e di conseguenza, inevitabilmente, nel dimenticatoio. Anzi. A un certo punto, la carta del 1507 si direbbe diventare nient’altro che mera curiosità folcloristica. La conclusione? È triste, ma è la solita: non vale la pena d’arrovellarsi per tentare di capire come i savants di Saint-Dié, sono stati in grado d’“inventarsi” la sorprendente sequela di dati geografici, così anticipatori e così precisi, presenti nella carta in parola. Gli storici della cartografia liquidano, dunque, forse un po’ troppo sbrigativamente l’argomento sostenendo che la risposta è da ricercarsi soltanto nell’immaginazione del matematico tedesco Martin Waldseemüller. Secondo noi, invece, vale sicuramente lo sforzo, a più di cento anni di distanza, di riprendere quel leggero filo lasciato in sospeso dai pionieri della storia cartografica. Servirà, questo, per meglio capire dove le indagini si sono fermate e dove possono ancora portare. A oggi solo pochi studiosi hanno intrapreso la rilettura di questo documento e, curiosamente, tutti hanno iniziato le loro ricerche quasi in contemporanea. Le prime pubblicazioni sulla questione, infatti, si situano nei primi due anni del secolo xxi: Peter Withifield, Gunnar Thompson, Enrique Garcia, Claudio Piani nel 200111, Peter Dickson nel 2002, Gavin Manzies, sempre nel 2002. È lecito chiedersi il perché dell’improvviso interesse per una carta del 1507 da parte di studiosi che, senza nessun collegamento tra loro, pervengono più o meno alle stesse conclusioni. È altrettanto lecita un’altra domanda, del resto. Il mappamondo che di sicuro può ritenersi un manufatto originale d’epoca, al contempo è però anche documento dai contenuti evidentemente troppo “moderni”: può dunque essere spiegabile “solo” con le conoscenze geografiche circolanti all’epoca della sua elaborazione, la notevole completezza d’informazioni in esso riportate? La conclusione affiorante in filigrana è duplice. Innanzi tutto, a scatenare il rinnovato interesse degli studiosi per il prezioso manufatto e a riportarlo in auge, potrebbe essere stata la notizia, clamorosa, della sua commercializzazione. È, infatti, proprio nel 2001 che ricercatori americani acquistano la carta dal suo originario detentore, ossia dal Principe 11 Claudio Piani, ossia il coautore del libro. 31 Waldburg di Wolfegg. L’annuncio, è ovvio, fa rapidamente il giro del mondo. Secondo poi, già in anni precedenti l’acquisto, alcuni esperti avevano cercato di richiamare l’attenzione su determinati prodotti cartografici medievali e rinascimentali, sottolineando un fatto curioso. Sarebbe stato particolarmente difficile giustificare in modo compiuto la modernità dei contenuti registrati in simili manufatti geografici, se pietre di paragone fossero rimaste “solo” le conoscenze sviluppate dalle società che li avevano prodotti. Si trattava, in effetti, di conoscenze che, in ogni modo si guardassero, erano evidentemente inferiori al livello del contenuto fissato nei manufatti stessi. Autori come Charles Hapgood, poi, hanno avuto il merito di risvegliare, nel bene e nel male, curiosità e coscienze, in chi prova un certo interesse per gli scenari storici alternativi. Limite di questi autori, secondo il nostro personalissimo parere, è d’aver abbracciato, per dir così, orizzonti di ricerca troppo ampi, rischiando in tal modo di perdere il contatto con il reale milieu storico preso in esame. Del resto, anche per noi, per chi si “limita” alla ricerca scientifica, sì, ma non pretenziosa, cercare di spiegare il perché esistono certe anomalie nello scenario cartografico antico è impresa che può veramente portare al più totale smarrimento. A volte, infatti, le informazioni geografiche seguono puntuali le tempistiche del progetto di rilevamento organico, dettato e organizzato da volontà, per dir così, “istituzionali” ben precise. In questa prospettiva si vedano, le carte tecniche redatte da Giovanni Vespucci nel 1523, dal Castiglioni nel 1525, dal Salviati nel 1525 o dal Ribeiro nel 1529. Altre volte, invece, le informazioni riscontrabili sui documenti geografici, come quelli lasciatici da Alberto Cantino o da Martin Waldseemüller, stravolgono completamente la tranquillità di questi schemi. Risulta, dunque, alquanto difficile districarsi in simili labirinti d’informazioni. Non sempre, come si è più volte detto, questi prodotti sono in simmetria diretta rispetto alle conoscenze del momento. Si può pensare a balzi quantici del sapere, ma benché possibili, è difficile crederci. Per intenderci, in ogni caso, mostriamo subito alcune immagini a supporto e prova di quanto si è esposto. È abbastanza evidente, che l’immagine della carta di Giovanni Vespucci del 1523 (Figura n°1), s’avvicina di molto al 32 reale lavoro di rilevamento e “rendering” di più flotte, che cercano di definire i profili di terre scoperte in progressione. Osserviamo, però, la carta di Cantino del 1502 (Figura n°2), che precede di venti anni la prima. Per quanto noto, dovrebbe registrare le scoperte nautiche in corso. Ci si accorge subito, tuttavia, che qualcosa non va. Di cosa si tratta? Orbene, le linee costiere dell’intero continente africano, comprese quindi anche le coste sul versante dell’Oceano Indiano, come si vede, sono precisamente tracciate. È del tutto normale, allora, chiedersi in che modo è possibile avere già così ben definiti i contorni dei due versanti del continente, se è vero che Vasco de Gama è da poco rientrato dal suo primo viaggio, avvenuto tra il 1497 e il 1499. Il navigatore partirà per il suo secondo viaggio proprio nel 1502. La spiegazione, qui, è abbastanza nota. Il planisfero del Cantino, per quanto riguarda l’area dell’Oceano Indiano, è la summa d’innumerevoli rilevamenti e carteggi effettuati, oltre che da esploratori veneziani e portoghesi, anche da ricognitori arabi e cinesi. Si tratta, quindi, di conoscenze acquisite, elaborate e trasmesse dopo decine d’anni e dopo innumerevoli missioni esplorative. La questione è che i Portoghesi, e con loro anche le altre potenze marittime, nascondono gelosamente, per ovvii motivi di sicurezza, le fonti che permettono la realizzazione delle loro innovative carte geografiche. In questo periodo, infatti, le navi che salpano da Lisbona dirigendosi verso le lontane e sconosciute rotte asiatiche, devono sempre essere fornite di due grandi mappamondi “generali”. Questi manufatti, durante il viaggio, sono continuamente aggiornati grazie anche all’apporto cognitivo dei popoli locali con cui vengono in contatto i navigatori lusitani. Inutile ricordare che simili documenti sono custoditi con la massima cautela e segretezza. I Portoghesi, come d’altro canto anche i navigatori ingaggiati dalle altre nazioni, sono ben consapevoli che a lavoro ultimato i meriti, e tutto quanto si troverà segnalato sulle carte da loro redatte, saranno assegnati alla corona lusitana in un caso, alle nazioni d’appartenenza all’altro. Molti altri documenti cartografici come questi rivelano particolari intriganti. Si devono osservare però con prudenza, senza prescindere né dalla destinazione d’uso finale, né dalla loro tipologia e neppure dal 33 contesto che le ha prodotte. Può essere, ad esempio, che in una carta nautica realizzata su pergamena, e perciò documento di solito altamente tecnico, ci siano meno informazioni che in mappamondi realizzati per illustrare talune visioni “teologiche” del creato. Esemplificativo in tal senso, è il mappamondo disegnato nel 1459 dal camaldolese veneziano Fra’ Mauro. Può altresì capitare di trovarsi di fronte a certe carte a stampa, che per celebrare le bizzarre velleità di qualche principe o imperatore impegnato a cercare di passare alla Storia, stravolgono arbitrariamente le conoscenze geografiche fino a quel momento accertate da navigatori e astronomi contemporanei di quelle. Sono proprio simili carte che illustrano elementi geografici inesistenti, di pura fantasia, cui si è accennato. Si è detto, che il tipo di ricerca che abbiamo affrontato è stato senza dubbio lavoro complesso, il più delle volte, anche fuorviante. Ad esempio, ci si è accorti che fino alla seconda metà del secolo xviii, la cartografia s’avvale ancora di linguaggi iconografici che riproducono aree più o meno vaste grazie a sistemi empirici di rilevamento. Le rappresentazioni ottenute, in buona sostanza, non rispondono nemmeno agli standard minimi cui oggi si è abituati. Ben differente invece il discorso per la carta del Waldseemüller. Analizzando questo potente documento del 1507 si è invece portati a credere che al suo interno sia registrato e codificato qualcosa in più dei pochi e “semplici” indicatori utili per decifrare il mare d’ipotesi circolanti sulla strana idea che ben prima del 1492, scambi culturali tra Antico e Nuovo Mondo siano avvenuti, per dir così, “al coperto”. Per noi, la carta del 1507, ha costituito l’imprescindibile “trait d’union” tra la dimensione macrostorica, quella della scoperta dell’A.M.E.R.I.C.A., e la dimensione microstorica, ossia quella dei luoghi interessati dalle nostre ricerche. La carta, dunque, si è rivelata, oltre che valido documento ricco di sorprese, il “cifrario” che ci ha permesso di leggere la storia attraverso percorsi sì innovativi, ma allo stesso tempo tangibili, concreti e cogenti, utili per testare “sul terreno” la bontà delle nostre asserzioni. Nel corso delle nostre indagini abbiamo a lungo viaggiato in Italia e all’estero. Si sono visitati musei, archivi, biblioteche, chiese, castelli. Abbiamo avuto l’opportunità di visionare, in prima persona, alcuni tra i documenti 34 cartografici più preziosi ed esclusivi ancora esistenti. Sono testimonianze, queste, che hanno ancora il potere d’ammaliare e far sognare, trasmettendo integra quell’energia dell’intelletto, che solo l’autore dei manufatti ha saputo profondere, imprimere e sigillare in profondità. È tempo di far riemergere questo patrimonio culturale. Tanto per iniziare, ora si cercherà, per quanto possibile, di dar risposta a un’annosa quanto delicata e intrigante questione: se esiste o no la possibilità che, da qualche parte, da certuni documenti antichi, possano emergere elementi oggettivi tali da rimettere in discussione le navigazioni e le scoperte di Colombo. Per tentare di trovare la risposta, se esiste, dobbiamo a malincuore abbandonare le tiepide e cristalline acque tropicali, per portarci in una zona montana, bella per carità, ma non proprio caldissima, della Lombardia. Si va in Valtellina. È proprio da qui, dalle montagne lombarde, che il viaggio inizia. L’affascinante tragitto intellettuale si è intrapreso osservando il profilo sinuoso di certe particolari rappresentazioni geografiche intimamente connesse con la carta francese di Saint-Dié del 1507… 35 Fig. 1 – La carta di Giovanni Vespucci del 1523. Biblioteca Reale, Torino. Fig. 2 – La carta di Cantino del 1502. Biblioteca Estense Universitaria, Modena. Continuate la lettura su www.liberfaber.com Il volume di Diego Baratono e Claudio Piani è disponibile al link http://liberfaber.com/it/storia/p rodotto-a-m-e-r-i-c-a-1507-lagenesi-del-nuovo-mondo.html