Peppe Dell`Acqua_Non ho l`arma che uccide il

Transcript

Peppe Dell`Acqua_Non ho l`arma che uccide il
Peppe Dell'Acqua, Non ho l'arma che uccide il leone, La vera storia del cambiamento
nella Trieste di Basaglia e nel manicomio di San Giovanni, pp. 144 - 154
PARTE SECONDA
LA FINE DEL MANICOMIO
1. 1971: Il magnifico frenocomio
Dove la paura di uscire dal manicomio della maestra elementare Eleonora Cerdon dà inizio alla storia e il
presidente Michele Zanetti offre asilo ai naufraghi e ai profughi del sessantotto e una partita di rugby
porta un gruppo di giovani napoletani al cospetto di Franco Basaglia direttore a Parma.
Quando, nel corso dell’estate del 1965, finito il liceo dovevo iscrivermi all’università a tutto pensavo
meno che fare il medico e tanto meno lo psichiatra. Avevo altre cose per la testa: l’architettura,
l’ingegneria, i treni, le ferrovie. Più che altro l’architettura. La decisione maturò a settembre, come
accade a tutti, credo, nel corso di quella indimenticabile estate dopo la maturità. Uno dei miei fratelli,
allora già architetto, avversò molto il mio desiderio. Intanto alcuni dei miei compagni più cari avevano
deciso per medicina. Cominciai a pensarci, ne parlammo molto. Poteva essere una strada. E così fu alla
fine.
Nella mia famiglia non c’era mai stato un medico o un avvocato. Mio padre, come già suo padre, era
macchinista delle ferrovie. Aveva mostrato molte perplessità già quando avevo deciso per il liceo
scientifico. Desiderava per me un diploma di tecnico, come geometra o ragioniere, che mi avviasse presto
al lavoro. Sono ultimo di cinque fratelli e tutti, prima di me avevano scelto l’università. Per frequentare la
facoltà di medicina avrei dovuto lasciare Salerno, la mia città, e abitare a Napoli gravando la mia famiglia
di un ulteriore carico economico. Ma avevo scelto e nessuno in famiglia mi fece mancare il suo sostegno.
In questo, mio padre è stato davvero straordinario. Finché c’era solo la più piccola risorsa, faceva il
possibile per investirla per la nostra educazione. La sua responsabilità e il suo rispetto per il lavoro sono
stati di esempio per noi. Proverbiale, e noi ragazzi ne ridevamo, la cura che prestava alle sue locomotive:
prendeva servizio più di due ore prima per poter mettere personalmente a punto la sua macchina. Era
nel sindacato, leggeva e portava a casa l’Unità. Mio padre aveva dovuto rinunciare agli studi quando il
nonno, ferroviere, fu messo “a riposo” dopo la marcia su Roma. Era socialista. Mia madre doveva reggere
tutta la baracca, quotidianamente. Cattolica praticante mi ha portato in chiesa fin da piccolo ed è stato
così che fino alla tarda adolescenza ho frequentato i gruppi dei giovani dell’azione cattolica. Nella sua
famiglia c’erano due preti e sua madre, la mia nonna più importante, era maestra. Andavano da lei i
paesani per farsi leggere e scrivere le lettere per i loro parenti emigrati. Chissà se tutto questo ha a che
fare con la scelta della psichiatria.
Dopo quel settembre, nel corso dei primi anni di università molte cose dovevano cambiare nella mia vita.
Era il 1967 quando cominciavano a Napoli i primi fermenti del movimento studentesco. Di molte cose
che allora accaddero e che mi videro partecipe, talvolta perplesso, ho colto il senso e la dimensione
storica soltanto molti anni dopo. Nelle prime grandi assemblee si discuteva di formazione, di diritto allo
studio, della struttura di classe dell’università. Venivano contestate le organizzazioni studentesche legate
ai partiti. Nuove aggregazioni si formavano. In tutto questo “casino”, come ho detto, facevo fatica a
orientarmi e tuttavia ero evidentemente attratto da quella forza straordinaria che quegli eventi
possedevano.
Devo riconoscere oggi che la partecipazione alle discussioni, ai cortei, ai collettivi, ai gruppi di studio ha
avuto per me un forte impatto formativo e ha rafforzato il senso di responsabilità verso lo studio che non
ho mai perso di vista. Nel collettivo degli studenti di medicina si leggevano testi, si approfondivano tesi
ed emergevano le prime analisi, forse primitive, intorno alla funzione di classe della medicina, alle
coperture che forniva ai meccanismi di sfruttamento, alle organizzazioni del lavoro nocive e alienanti.
Ricordo le inchieste del collettivo sulle neuropatie da collanti. Nel centro storico di Napoli e in molte aree
periferiche innumerevoli laboratori per la manifattura di guanti di pelle, situati in spazi angusti e
malsani, occupavano donne e giovanissimi operai. Era evidente il danno da esposizione ai collanti e
altrettanto evidente appariva, a noi studenti, l’inerzia se non le connivenze delle strutture sanitarie. La
storia dei collanti, che è solo un esempio tra le altre infinite contraddizioni, appariva esemplare e
denunciava il classismo del sistema sanitario. Era anche il grande momento della rinascita della
medicina sociale, della medicina del lavoro, di Giulio Maccacaro, medico del lavoro a Milano e fondatore
di Medicina Democratica. Ed erano gli anni in cui si cominciava a costruire l’idea dello stato sociale e a
immaginare nel nostro paese la grande riforma sanitaria. Dovranno da allora passare 10 anni prima che
finalmente si realizzi.
In quel periodo non pensavo affatto di fare lo psichiatra. Avevo frequentato i laboratori di chimica
biologica inseguendo una qualche vaga inclinazione per la ricerca. Ma a partire dal quarto anno cercavo
di frequentare i reparti di medicina interna soprattutto. Per un intero anno non trovando l’attenzione che
cercavamo nelle cliniche universitarie, con alcuni amici, ho frequentato un reparto di medicina del
Grande Ospedale Cardarelli. Il rapporto che si instaurava con quei pazienti, le loro storie, i loro contesti
di vita davano finalmente un senso concreto al nostro studio.
All’università nelle assemblee e nei gruppi di studio sempre più frequente sentivo parlare di psichiatria.
Se ne parlava per esemplificare. La psichiatria, con le sue impresentabili istituzioni che rinchiudevano
più di centomila sottoproletari, denunciava senza possibilità di appello la medicina come parte
costitutiva del potere politico ed economico. Meglio avrei capito dopo leggendo Foucault e frequentando
il lavoro di Basaglia. Le testimonianze che portavano alcuni studenti e giovani assistenti che lavoravano
nell’istituto di malattie nervose e mentali erano coinvolgenti. È in quelle circostanze che ho sentito
parlare per la prima volta di manicomi. Di manicomi e di pazzia non se ne sentiva parlare mai. Ed è
proprio tra il ’67 e il ’68, con le prime immagini dell’esperienza di Gorizia, che si comincia a parlarne.
Eravamo attratti dalle analisi che mettevano al centro le disfunzioni, le disuguaglianze, i modi alienanti
delle organizzazioni del lavoro e della vita sociale come causa della malattia. Ed eravamo indignati di
fronte al potere assoluto dei baroni delle cliniche. I direttori delle cliniche delle malattie nervose e
mentali, poi, erano anche responsabili dei manicomi, e degli orrori che soltanto allora cominciavamo a
intravedere, in quanto direttamente coinvolti nella nomina dei direttori degli ospedali psichiatrici nelle
loro “aree di influenza”. Forse tutto questo, ma anche circostanze occasionali mi spinsero, ero al quinto
anno, a chiedere di fare l’internato nella clinica neurologica. Allora non esisteva ancora la
specializzazione in psichiatria. Il reparto di psichiatria, a Napoli, si trovava al quarto piano della clinica
delle malattie nervose e mentali. Vi si accedeva attraverso una porta di ferro sempre chiusa.
Naturalmente tutte le finestre erano protette da inferriate.
Avevo fatto una scelta “militante e impegnata” come si diceva allora, anche se il mio militare non era altro che
curiosare, guardare da vicino ciò che accadeva nel “misterioso” reparto psichiatrico della clinica neurologica.
Certo non mi attraeva la lunga coda di medici assistenti, specializzandi e studenti che si formava dietro al
direttore quando decideva di salire al quarto piano. Capirò soltanto dopo la profondità della mortificazione cui
erano sottoposte le persone ricoverate, interrogate e guardate dal direttore e mostrate a tutti noi. Era proprio
questo lo sguardo che solo dopo ho imparato a conoscere come “freddo e oggettivante” della psichiatria. Avevo
letto fino ad allora poco o niente. Ricordo di aver letto dopo la maturità, durante l’estate, nell’edizione tascabile
degli Oscar Mondadori, “Le libere donne di Magliano” di Mario Tobino, scrittore e psichiatra lucchese. Mi
appassionò la sua descrizione della follia, del delirio, della vita di quelle donne nel manicomio. Una descrizione
estetica, fantastica, estatica dell’oggetto follia, misterioso e ineluttabile. Quelle immagini mi suggestionarono
molto, devo confessare. Saprò dire solo dopo che quelle descrizioni erano false e stucchevoli e hanno fatto più
danni e creato più pregiudizi del manicomio stesso. Al sesto anno, trovandomi interno in psichiatria, chiesi la
tesi. Un assurdo argomento di psichiatria biologica: l’uso della dopamina nel trattamento dei disturbi mentali.
Per caso si erano notati dei miglioramenti in un paziente che soffriva di profondissimi disturbi ossessivi
compulsivi. Per questo aveva subito un intervento di “psicochirurgia” che gli aveva provocato spasmi e rigidità
senza per altro attenuare la sintomatologia ossessiva. Gli venne data la dopamina per far fronte ai sintomi
neurologici. Si notò una riduzione dei sintomi ossessivi. A un numeroso gruppo di internati del manicomio di
Potenza, il “Don Uva”, area di influenza dell’università di Napoli, venne somministrato quel farmaco. Il mio
compito era quello di registrarne e quantificarne gli effetti leggendo le note delle cartelle cliniche. La ricerca era
stata avviata senza un disegno preciso e senza chi sa quali garanzie di allora inesistenti comitati etici. La
sperimentazione si poteva fare senza particolari vincoli perché gli internati erano lì a disposizione, senza tutele e
senza diritti. Il lavoro fu davvero noioso. Superfluo dire che non scoprimmo niente. E tuttavia proprio in quel
periodo, malgrado l’oscenità di quella tesi, qualcosa stava accadendo.
L’anno precedente avevamo letto “L’istituzione negata” di Franco Basaglia. Nei gruppi cominciavamo
appena a capire, in maniera rozza e approssimativa, che si poteva discutere della malattia. Si facevano
equazioni tanto semplici quanto per noi allora originali intorno alla malattia, al suo significato, alle
cause, alle relazioni tra queste e i contesti di vita e di lavoro delle persone. Il reparto di psichiatria
cominciava con più chiarezza a spiegare tutto quello che con qualche difficoltà eravamo riusciti a cogliere
nei reparti di medicina, dove una copertura di tipo disciplinare, un sapere più o meno fondato
scientificamente sembrava rendere tutto più presentabile. Da questo punto di vista la psichiatria era
impresentabile.
Basaglia era lontano. Era un libro, un’idea vaga, qualcosa che, almeno io, ancora comprendevo poco.
Basaglia poi da quella clinica era letteralmente bandito. Alcuni giovani assistenti uscivano con i pazienti
per andare a prendere un caffè, cercavano di creare un clima di eguaglianza suggestionati dalle
esperienze comunitarie di cui sentivano parlare. Il direttore vietava quelle uscite e, con il suo forte
accento siciliano, in più di una circostanza aveva detto che nella sua clinica “non si doveva basagliare”.
Eppure, ma non se ne doveva parlare, in quella clinica aveva lavorato nei primi anni ’60 Sergio Piro. Era
stato il primo a portare in quella Università idee e sguardi critici e “rivoluzionari”. Proprio negli ultimi
anni, tra il ’67 e il ’69, mentre era Direttore dell’ospedale psichiatrico Materdomini di Nocera Superiore,
aveva iniziato, tra mille difficoltà e resistenze inaudite, un memorabile esperimento di psichiatria
alternativa costituendo un’impensabile comunità terapeutica. Di tutto questo io sapevo poco o nulla e
soltanto per caso ebbi modo di sentire una lezione di Piro presso la Facoltà di Lettere. Era stato
interdetto a frequentare la clinica delle malattie nervose e mentali dell’Università.
Anche di Freud in quella clinica si doveva parlare di nascosto.
C’era un ottimo docente, Tonino D’Errico, barbone nero, psichiatra e psicoanalista che teneva per noi piccoli seminari
clandestini in una stanzetta nel sottoscala della clinica. Non si doveva sapere troppo in giro. Parlare di psicodinamica e
di test proiettivi, di interpretazione dei sogni rappresentava una palese trasgressione, una minaccia di sovversione.
Credo che per questa ragione molti di noi allora rischiarono di credere che fare la psicoanalisi fosse di per sé “fare la
rivoluzione”.
Un giorno in reparto arriva un compagno, Elio Pomella, e dice: “Conosco uno di Napoli che lavora a
Parma con Basaglia”. Io neanche sapevo che Basaglia si trovasse a Parma. Cerchiamo, facciamo
telefonate, troviamo amici comuni,alla fine stabiliamo “il contatto”. Così è capitato che nella primavera
del ’71, mi sarei laureato a giugno, andai con la squadra di rugby del CUS Napoli a giocare a Parma. Sono
andato così a trovare il nostro contatto napoletano, Luciano Carrino, già medico dentista, guadagnato
alla psichiatria dopo uno stage nell’ospedale psichiatrico di Lione. Quello stesso giorno Luciano mi
presentò a Franco Basaglia.
Per quanto frequentassi il reparto di psichiatria fu quella la mia prima vera volta del manicomio e fu la
materializzazione di quanto di più terribile avessi mai potuto immaginare. Fui introdotto per l’attesa in un
reparto uomini. Un ammasso di persone, potevano essere più di cento, facce ed espressioni mai viste prima e
mai così in gran numero. Era una giornata di primavera, le porte-finestre erano aperte sul giardino e davano
luce e aria allo stanzone. Tuttavia ricordo l’odore, che poi ho imparato a riconoscere come l’odore delle
istituzioni chiuse, degli uomini ammassati, dei corpi giacenti e devastati; e ricordo di aver avvertito un senso di
nausea, di rifiuto. Un grande desiderio di fuga. È arrivata finalmente Marie Claude Amieux, la moglie francese
del mio contatto a prelevarmi. Sorridente, fresca, gentile, primaverile, lavorava in quel reparto. In questo posto
dove c’era lo sporco, lo sputo, i residui di cibo, l’odore fermentato di urina, Marie Claude è arrivata e così come se
nulla fosse ha stretto la mano a uno. Sorridendo si è lasciata carezzare il viso da un altro, un timido e taciturno
signore. Un terzo ha tirato fuori dalla giacca sporchissima delle caramelle, le ha offerte e lei ne ha presa una, l’ha
scartata e l’ha mangiata. Mentre lei ringraziava a me venne da vomitare. Corsi in giardino.
Dopo aver riso di me la dottoressa francese mi portò nella stanza dove Basaglia abitualmente lavorava e
dove in quel momento teneva una riunione con i suoi collaboratori. Un altro mondo mi apparve. Tutti si
davano del tu, stavano seduti in maniera non gerarchica, non indossavano i camici bianchi, non era
possibile apprezzare segnali di differenze. Basaglia mi venne incontro, mi fece accomodare con loro e
cominciò a parlarmi dandomi del tu chiedendomi di fare lo stesso. Non capivo bene di cosa stessero
parlando e tuttavia una cosa mi era chiara: c’erano altri modi di lavorare e di intrattenere relazioni e
quello che stavo vedendo assomigliava sicuramente a quel cambiamento di cui discutevo con i miei
compagni a Napoli. Basaglia mi disse che era sua intenzione reclutare giovani per il suo lavoro, che
presto si sarebbe trasferito a Trieste e che non appena laureato avrei potuto tornare a Parma per
cominciare. Il 6 settembre del 1971 sono partito per Parma. Di li a poco sono approdato a Trieste. Avevo
deciso di fare lo psichiatra.
L’ospedale psichiatrico di Colorno era tutto dentro il palazzo ducale di Maria Luigia di Borbone. I reparti
uno dentro l’altro; veramente orrendo. Per andare da un posto all’altro bisognava farsi aprire e chiudere
un numero smisurato di cancelli e porte. Sezione maschile e femminile e poi al solito tranquilli, agitati,
osservazione. Il grande e bellissimo parco della duchessa era occupato in buona misura da un
ippodromo. Alte reti dividevano un pezzetto di prato prospiciente i reparti del piano terra dal resto. In
questo pezzo di prato le infermiere del reparto Chiarugi-tranquille donne avevano organizzato una bella
colazione sull’erba invitando uomini e donne dagli altri reparti. Franco Rotelli, uno dei giovani psichiatri
del gruppo, si occupava di quel reparto. Di poco più vecchio di me, aveva già lavorato nell’ospedale
psichiatrico giudiziario di Castiglione delle Stiviere. Era a Colorno, da poco meno di un anno. È arrivata
una signora sui cinquant’anni, alta, robusta, una faccia larga da contadina, credo si chiamasse Attilia. Si
è avvicinata a Rotelli e ha tirato fuori da un tascone della giacca una mezza stecca di Nazionali
esportazioni lunghe con filtro malamente incartate in un foglio di giornale. Silenziosa, imbarazzata,
impacciatissima con le sue mani grandi ha cercato di posare il regalo nelle mani del dottore del suo
reparto. Rotelli ha sorriso altrettanto impacciato, senza dire una parola ha preso le sigarette e le ha
tenuto per un po’ le mani tra le sue. Poi ha continuato a stare vicino alla signora Attilia senza dire niente.
Ancora un attimo e la signora ha raggiunto le altre.
Di nuovo un altro mondo! Mi resi conto della stupida e violenta gratuità di quei corpi violati, esposti allo sguardo del
professore durante la visita. Stavo già rischiando di conformarmi al paternalismo, al camice bianco, alla supponenza e
alle istrionerie dei medici e degli infermieri della clinica universitaria. Accettarli come tratti costitutivi dell’essere
psichiatra. Rotelli semplicemente manifestando la sua difficoltà dava valore al dono e al gesto di Attilia. Capisci in quei
momenti qualcosa che ha a che fare con quello che stai cercando. Di sicuro avevo capito che in clinica non sarei più
tornato.
Da Parma, dal manicomio di Colorno dove lavoravamo, andammo a Trieste a visitare S. Giovanni. Era
autunno. Fu la prima e unica visita. Dopo qualche settimana cercavamo casa a Trieste. Quel giorno di
ottobre, era il 1971, varcato il grande cancello, il parco ci svelò tutta la sua bellezza allora ancora
nascosta, misteriosa, ambigua. Ci affascinarono i colori degli alberi, delle foglie: sfumature infinite di
verdi, di gialli, di rossi, rossi di una intensità mai vista prima. Era quello il secondo manicomio che
vedevo. Lo spazio, i viali, le architetture dei reparti sembrarono a me giovane medico inesperto di un
ordine e di una pulizia spropositati. Il proposito di quell’ordine lo avrei capito negli anni a venire. La
finestra del soggiorno del reparto offriva quella vista. Al di qua dei vetri un puzzo penetrante di piscio, di
cibo, di disinfettanti; tanti giovani uomini bavosi, urlanti, lamentosi. Occhi grandi, tristi, immobili,
profondi. Camici bianchi, rumori di chiavi. Un dialetto incomprensibile.
Avremmo lavorato a Trieste!
Tornando a Parma, per la fitta nebbia, dovemmo pernottare a Vicenza, in casa di amici ospitali. Quella
sera il fascino del parco e lo sguardo di quegli uomini era nei nostri discorsi. Gli internati, erano 1.200,
non potevano godere di quel parco. Ogni reparto, 22 in tutto, fruiva sul retro di un piccolo cortile in
cemento circondato da alte reti. Nei giorni di sole, non freddi, coloro cui era consentito, potevano
passeggiare su e giù per quei cortili invece che nel soggiorno del reparto, potevano sedersi al sole o
sdraiarsi per terra sul cemento. Per evitare le insolazioni il reparto aveva in dotazione un corredo di
cappelli di Panama a larga tesa. Alcuni potevano perfino camminare lungo i viali, di domenica. La
domenica, a piccoli gruppi, potevano andare a messa nella chiesa in cima alla collina. Lungo il viale le
donne camminavano in fila indiana sulla sinistra, gli uomini sulla destra. A destra si trovavano i reparti
per gli uomini, a sinistra quelli per le donne. Un’infermiera apriva la fila delle donne, una la chiudeva.
Così per gli uomini. Anche in chiesa le donne sedevano a sinistra, gli uomini a destra.
I più fortunati che potevano godere il parco erano quei pochi che lavoravano: spalavano il carbone, la
neve d’inverno, caricavano i sacchi della biancheria sporca e i pentoloni del cibo sul carretto tirato da
Marco Cavallo che allora era ancora un cavallo. E a fine settimana perfino una piccola paga. Tre pacchetti
di sigarette e una bottiglia di spuma. Oppure un conio di rame che valeva 3 pacchetti di sigarette e una
bottiglia di spuma. Una o due volte all’anno una festa nel parco. Per premio, quelli più buoni potevano
andarci. Si mangiava l’anguria. Una piccola banda suonava polke, valzer e mazurke. Erano una diecina di
suonatori: una chitarra, un mandolino, un violino, una fisarmonica, una grancassa, un tamburello, un
clarinetto. Il gruppo, tutti internati, era tenuto assieme da un mite infermiere, il signor Giorgio
Giovannini, che sapeva di musica e aveva studiato al Conservatorio. Perfino il Direttore, quel giorno, era
presente. Che bel ricordo che ho di quell’infermiere. Il teatrino del parco, vicino alle grandi cucine, ormai
inutilizzato era servito negli ultimi anni per una rappresentazione. Un gruppetto di pazienti messi
assieme da un anziano e colto capo-infermiere, il signor Vecchi, aveva messo in scena un lavoro
dialettale. Il signor Vecchi quando lo conobbi era caposala al reparto P-Tranquilli uomini. Mentre mi
faceva conoscere gli altri infermieri e i degenti, mi mostrò alcune fotografie del gruppo teatrale. I
costumi, il trucco, i mascheramenti non riuscivano a nascondere la tristezza e l’ingenuità degli sguardi.
Gli attori restavano goffi, mesti, incerti. Il ballo nel reparto la domenica pomeriggio, la musica della radio
e, dopo il boom degli anni ’60, qualche giradischi. Nei balli era vietata la promiscuità. Si ballava più
spesso nei reparti delle donne, naturalmente solo tra donne. L’infermiera di turno nel soggiorno apriva il
ballo invitando una paziente. Si faceva posto nel camerone spostando per quanto si poteva i pesantissimi
tavoli e le panche. Poche ballavano, solo alcune partecipavano divertite. Tristissimo era il ballo per soli
uomini. Altre, infastidite da quell’allegria insolita, dovevano sopportarla. Non era permesso uscire dal
soggiorno.
Nel manicomio chi era stato contadino poteva violare gli angoli più nascosti e misteriosi del parco. Molti
erano stati contadini prima di finire in manicomio. Pochi facevano parte della squadra campestre che
curava l’orto vicino alla chiesa. Potevano addirittura andare nella serra, nella parte bassa della collina.
Per arrivare fino alla serra il viale attraversava un boschetto di ippocastani e un prato ombroso. Nella
serra, non più urla, i rumori e le voci si sentivano attutiti e lontani. Alcuni, solo uomini, venivano
condotti all’atelier di pittura e ceramica. Per le donne solo ricamo e maglieria nello stesso reparto dove
erano ricoverate. La passeggiata per raggiungere il laboratorio di pittura situato nel reparto osservazione
uomini, detto Korea, che diventerà nel ’79 sede della scuola professionale con lingua d’insegnamento
slovena, rappresentava una salutare e attesa interruzione del tempo immobile del reparto. Due ore di
arte dalle nove alle undici, compresa la merenda alle dieci. Operine semplici, colorate, povere, sospese.
Fantasie, desideri, ricordi. I segni, le forme, i colori, rimandavano alla trasparenza dell’infanzia e ai
tempi ormai lontanissimi della scuola elementare; relitti di memoria.
Ai visitatori, ai parenti degli internati il parco di S. Giovanni offriva tutta la sua bellezza, i suoi colori,
l’ordine delle sue aiuole, le geometrie delle sue siepi ben rasate. I visitatori potevano vedere gli internati
nel parlatorio del reparto. Solo qui sentivano tutta la tristezza e l’orrore. Uscivano straziati dopo la mesta
visita. Lo splendore del parco li accoglieva e li rincuorava. E così l’ultimo ricordo di quel luogo era di
ordine, di aria buona, di serenità, di pace. Il manicomio finiva per essere, con la complice e ammiccante
bellezza del parco, un luogo di pace e di salute.
Anni dopo molti triestini soggiogati dalla magia del parco non hanno esultato, non si sono rallegrati per la liberazione
degli internati, hanno “sinceramente” sofferto per il rischio di abbandono che il parco correva. La gestione politica,
amministrativa ed economica dell’ospedale psichiatrico faceva capo all’amministrazione provinciale quasi a sancire e
garantire la separazione, l’autarchia e l’invalicabilità del recinto. Il manicomio era fuori dal campo della sanità. Altre
autorità e altre leggi gestivano gli ospedali generali, che per distinguerli dagli ospedali psichiatrici si chiamavano “civili”!
Statuti separati per cittadini ormai irrimediabilmente diversi e lontani.
La grande maggioranza degli internati vedevano gli alberi e le aiuole dalle finestre, dalle terrazze, dai
cortili. Sempre dietro sbarre e reti. Non attraversavano che raramente i viali e finivano per avere paura di
varcare la soglia del reparto. Come la maestra elementare Eleonora Cerdon. Donna sola, colta, esigente
era stata internata dopo 42 anni di dignitoso servizio. Aveva educato decine di scolaresche nel territorio
di Trieste, dal Carso all’Istria. Ricordava il vaporetto che la portava a Isola d’Istria, negli anni ’30. Molti
ex allievi andavano a farle visita fino a poco prima del suo ricovero. Nel reparto osservazione donne, un
medico che aveva notato la sua solitudine, l’aveva sottratta alla bolgia del grande camerone soggiorno,
anche perché era una donna educata e di buone maniere. Era riuscita a conquistare un posto a sedere su
una panca nel cosiddetto “triangolo”, uno stanzino attiguo al soggiorno, assieme ad altre poche donne di
stessa estrazione sociale. Poteva, senza chiedere il permesso, andare in gabinetto. Poteva, chiedendo il
permesso, ma non di frequente per non disturbare l’ordine del reparto, uscire in veranda, una sorta di
grande gabbione, una voliera, e sentire l’aria e il tempo del parco. Quel posto le permetteva soprattutto di
avere nel suo campo visivo una finestra. Un quadratino di cielo limitato in basso dalle foglie di un albero,
oltre il cortile. Il cielo, le foglie, la luce, il colore le concedevano il privilegio di sentire lo scorrere del
tempo e delle stagioni.
Grande era il suo desiderio di uscire nel corso dei primi mesi di internamento. Aveva chiesto aiuto, in
confessione, al cappellano del manicomio. Le altre donne le dicevano che era inutile chiedere di uscire.
Specialmente convincente era una certa Nerina Hafter, intelligente, alta, autorevole, dotata di una voce
profonda e suggestiva, da mattino a sera impegnata instancabilmente nei lavori più umili di pulizia del
reparto.
Aveva avuto una storia, una passione sconvolgente, con un capitano inglese ma non amava parlarne. Era
stata ricoverata poco dopo che gli alleati avevano lasciato Trieste. Le donne che escono di qui, diceva
Nerina, ritornano sempre, e sempre più disperate e sconfitte. La maestra elementare Eleonora Cerdon
era vinta dalla certezza di Nerina. Quando per intercessione del cappellano l’uscita sembrò possibile e
vicina ebbe paura. Paura di perdere il suo posto a sedere nel triangolo con la vista del cielo e dell’albero.
La sua paura sarebbe stato il nostro futuro.
Eppure San Giovanni era stato il più straordinario e innovativo manicomio d’Europa quando fu
progettato e costruito. Quando fu inaugurato la sua bellezza, la sua grandiosità, rafforzò l’orgoglio della
città per le sue istituzioni. Incarnava splendidamente le utopie e le promesse del progresso e della
scienza di allora. Prima del grande manicomio sulla collina, i matti triestini avevano vissuto le stesse
vicende comuni a tutta l’Europa: abbandoni, prigioni, ospizi.
Fino alla metà del Settecento, quasi tutti erano rinchiusi nelle ex prigioni in piazza Grande. Subito dopo
anche Trieste si dota del suo ospizio, il Conservatorio Generale dei poveri di via di Romagna. Fatto
costruire dall’imperatrice d’Austria Maria Teresa rinchiude tra le sue mura matti e poveri, diseredati e
falliti. Altri pazzi, intanto, specie quelli furiosi, continuavano a essere segregati nelle prigioni fino a
quando nella prima metà dell’ottocento tutti, sia i pazzi delle prigioni che quelli degli ospizi, furono
liberati e rinchiusi nel palazzo dell’ex vescovado sul colle di San Giusto in via Tigor, che diventò così il
primo Manicomio triestino. Sono le conseguenze degli esperimenti avviati da Philippe Pinel a Parigi. E
gli effetti del nascente stato borghese. Pinel, figura mitica della psichiatria, medico, scienziato, umanista,
sopravvissuto agli anni tumultuosi della rivoluzione, diventa prima medico nell’istituto di segregazione
di Bicêtre e poi medico capo della Salpêtrière, i due ospizi parigini. L’iconografia classica mostra Pinel,
l’umanista, che con l’aiuto del suo fido aiutante libera una donna dai ceppi. È la mitica nascita della
psichiatria che libera i folli.
Ma cosa libera in realtà Pinel?
Si potrebbe dire che libera davvero tutti, tranne i folli. Proprio loro da questo momento diventeranno
doppiamente reclusi: dentro l’inguaribilità della malattia e dentro le mura del manicomio. La
costruzione dei manicomi, la creazione degli ospizi per i poveri e la definizione del sistema penitenziario,
segnano il definitivo dominio delle nascenti scienze medico biologiche sulla follia e del razionalismo
illuminista sui conflitti e le contraddizioni che il nuovo assetto sociale, economico e politico va
determinando. Di lì a poco con la trionfante cultura positivista la malattia mentale diventerà “malattia
del cervello”. Questa affermazione che ancora oggi non trova alcun fondamento scientifico alimenterà il
pregiudizio della pericolosità e dell’inguaribilità, condizionerà i destini di milioni di persone, avvierà la
proliferazione di manicomi in ogni angolo del mondo: un autentico contagio, un’inarrestabile pandemia.
Verso la fine dell’Ottocento la situazione cambia. I folli, ora malati di mente, vengono ricoverati anche
nel nuovo ospedale Maggiore in un reparto detto degli ebeti o fatui. Il reparto chiamato poi Ottava
divisione diverrà popolare ed evocherà nei triestini l’immaginario della follia. L’Ottava divisione e il
manicomio di San Giusto avevano carattere segregativo ed era frequente l’uso della camicia di forza e dei
manicotti. I rimedi in voga erano gli stessi: op piacei, laudano, coca e caffeina, mentre le cure di routine
consi stevano in bagni caldi e freddi e lunghe degenze a letto.
Verso la fine dell’Ottocento la crescita demo grafica giustificò il progetto del nuovo manico mio.
L’Amministrazione della città fece le cose con molta serietà. Venne nominata una commissione per
verificare quale fosse la situazione manicomiale in Italia, in Austria e nel resto d’Europa. La commissione
viaggiò a lungo identificando le situazioni e le strutture più aggiornate ed efficienti. Scelse modelli e
criteri considerati più all’avanguardia: struttura disseminata con padiglioni sparsi in un vasto e
circoscritto comprensorio, porte aperte all’interno, terapia del lavoro.
Il 4 novembre 1908 venne inaugurato il Civico Frenocomio “Andrea di Sergio Galatti” nell’area di San
Giovanni. Luigi Canestrini che era stato il presidente della commissione, fu il primo direttore.
All’avanguardia sotto il profilo architettonico, più bello del manicomio di Vienna e di Praga dicevano, il
nuovissimo e grandioso frenocomio non dif feriva nell’impostazione e nei trattamenti da quella che era la
corrente psichiatrica dell’epoca: identificava la terapia con la reclusione, l’ordine e la disciplina. La
classificazione dei malati per l’assegnazione ai diversi padiglioni dell’ospedale era improntata a criteri di
custodia e di sicurezza, basata sul comportamento: agitati, semi-agitati, tranquilli, sudici e paralitici. La
mortalità era altissima e fra le principali cause allora indicate si trovano tubercolosi, malattie
gastroenteriche, marasma senile.
Col tempo vennero progressivamente eliminati i vecchi mezzi di contenzione, ma taluni, come il
camerino di isolamento, persi stettero fino agli inizi del 1971. Intorno agli anni Trenta si iniziarono ad
applicare terapie fisiche e chirurgiche quali la lobotomia, la terapia malarica l’elettroshock, la terapia
insulinica. Le visite erano strettamente regolamentate e si svolgevano attraverso un parlatorio.
Negli anni Venti lavorò a San Giovanni, in quasi completo isolamento professionale, Edoardo Weiss.
Allievo di Freud, avrebbe portato la psicanalisi in Italia. Ascoltava gli internati e parlava con loro. Le
cartelle scritte da lui che ho potuto consultare in archivio restituiscono qualcosa dei suoi tentativi di
cambiamento. La sua attività non diede impulso a interventi realmente innovativi. La capacità di
conservarsi del manicomio era ancora tanto più forte di qualsiasi psicanalisi.
Negli anni successivi all’arrivo a Trieste l’archivio delle vecchie cartelle ci ha restituito le lettere mai
spedite che gli internati scrivevano ai familiari e agli amici e alcuni straordinari diari miracolosamente
conservati dove ho trovato descrizioni di ambienti, relazioni, regole del tutto sovrapponibili all’ospedale
di San Giovanni così come si presentava, nel 1971, all’arrivo di Basaglia.
Basaglia aveva lasciato Gorizia nel 1969. In quegli anni aveva dovuto interrogarsi a fondo sulla consistenza scientifica
della psichiatria, sulla natura della malattia, sulla funzione del manicomio, sulla possibilità della cura. Scoprì così che le
certezze scientifiche assolute su cui la psichiatria fondava il suo operare erano quanto mai deboli e incerte. E che su
queste incertezze si costruivano istituzioni totalizzanti e violente, metodi di cura assoluti e oggettivanti fino alla
segregazione, all’elettroshock, alla negazione della persona stessa. Il lavoro di Basaglia scosse dalle fondamenta questa
costruzione ideologica. Scelse di guardare le persone e non la malattia, cercando ostinatamente di restituire significato
a percorsi umani devastati, alle storie, agli affetti, ai sentimenti fino ad allora negati dal manicomio.
Da un anno stava lavorando a Parma dove era stato chiamato dopo Gorizia a dirigere l’ospedale
psichiatrico. Era incalzato dall’urgenza di affrontare l’insopportabile violenza del manicomio, dal rischio
di restare complice di quella violenza. Doveva concretizzare esperienze esemplari di cambiamento. Di
questo parlava in interviste, conferenze, pubblicazioni. Qualche anno prima, nel ’68, Einaudi aveva
pubblicato L’istituzione negata. Il libro sull’esperienza condotta a Gorizia ebbe un successo tanto esteso
quanto insperato. Vendette subito 50.000 copie e divenne il testo che avrebbe appassionato generazioni
di studenti di medicina, di sociologia, di filosofia.
Negli anni precedenti l’eco dell’esperienza goriziana richiamava molti giovani operatori e
studenti. Nelle assemblee dei collettivi di medicina, a Napoli, si parlava delle esperienze in
corso negli ospedali psichiatrici come della prova evidente che cambiare era possibile. Molti
di noi erano attratti proprio da questi discorsi e dall’importanza che la critica alle istituzioni
andava assumendo in quegli anni nei movimenti, negli organi di informazione e nel dibattito
politico. Le discussioni, le manifestazioni, gli scioperi a sostegno della grande riforma
sanitaria erano nelle cose.
Basaglia si stava impegnando a cercare giovani. Era ormai sicuro che sarebbe andato a lavorare a Trieste.
Avrebbe fatto di tutto per formare un gruppo di giovani. Più semplice – diceva – formare nuovi psichiatri
mentre si sperimentano pratiche di trasformazione, piuttosto che tentare di cambiare testa e cultura a
psichiatri vecchi e già formati. In tanti arrivammo a Parma, e poi a Trieste. Tutti eravamo alla ricerca di
una collocazione professionale che potesse assicurare una qualche continuità tra le lotte studentesche e
la professione medica alla quale ci stavamo avviando. Avevamo la consapevolezza che ci stavamo
incamminando verso una vita professionale frustrante e dissociata: da un lato essere medici dentro le
corporazioni e distanti dalla concretezza dei problemi delle persone; dall’altro l’impegno politico, quello
che restava degli anni caldi dell’Università. Tanti compagni delle lotte universitarie si stavano già
perdendo nel carrierismo esasperato o al contrario in scelte politiche rigide e senza sbocco.
Con Basaglia, senza accorgercene, stavamo trovando la nostra strada, senza separazioni, senza
dissociazioni: la “lunga marcia attraverso le istituzioni” e il lavoro quotidiano, instancabile.
Scrive oggi Michele Zanetti, il presidente della Provincia che nel 1970 chiamò Basaglia a Trieste e che
sostenne con convinzione il progetto, ricordando quell’inizio: Trieste è stato forse l’unico angolo
d’Europa in cui un gran numero di “profughi” della generazione del ’68 ha avuto la possibilità di
esercitare concretamente il proprio impegno sociale, la propria vocazione professionale, così da
dimostrare quanto fossero capaci di fare senza rinunciare ai propri ideali, senza farsi “reclutare” o
“comperare” da quella società che essi volevano cambiare.