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Federazione Regionale Toscana
II edizione LibrAperto
Le fiabe di Hans Christian Andersen
“Proprio dalla realtà viene fuori la fiaba più meravigliosa”
L’Alba dell’io
20 ottobre 2012
MADDALENA ISOLDI
Medico chirurgo. Oltre alla professione svolge nelle scuole corsi su sessualità, affettività, vita, in un
orizzonte di valorizzazione della persona e della sua umanità.
S. MAGHERINI: La dottoressa Isoldi è medico chirurgo, e svolge la professione medica a Firenze. Nel
suo intervento tratterà di un aspetto che è scientifico ma affascinante e suggestivo tanto quanto
quello della fiaba. Come scrive Chesterton a proposito della fiaba: “la scrittura della fiaba implica
che l’universo sia imprevedibile e pieno di meraviglie”. Ciò che ci mostrerà la dottoressa sarà utile
a capire che anche noi siamo “imprevedibili e pieni di meraviglie”.
M. ISOLDI: “L’alba dell’io” è una lezione che, con alcuni amici medici, presentiamo frequentemente
nelle scuole, per introdurre i bambini e i ragazzi alla conoscenza di sé. Ho accettato di venire qui
perché il titolo della vostra iniziativa è molto stimolante: “proprio dalla realtà viene fuori la fiaba
più meravigliosa”. La realtà è complessa, è ingarbugliata, ma fa venir fuori qualcosa di
meraviglioso. Io porto un esempio di questa meraviglia, molto semplice: la creazione di noi stessi.
Vorrei allora iniziare riprendendo una fiaba di Andersen: l’usignolo.
Ma prima un passo indietro: il mio libro di biologia delle superiori, nell’introduzione al capitolo sul
corpo umano, parlando del carbonio riportava una frase che mi colpì molto: “Anche voi, come noi,
siete fatti di carne e sangue, ma anche di polvere di stelle”, perché il carbonio è l’elemento
fondamentale dell’organismo umano ma anche delle galassie e delle stelle! Quest’elemento è
straordinario dal punto di vista biologico, ma non solo: guardare le stelle desta dentro di noi una
coscienza maggiore, perfettamente espressa da Leopardi: “E quando miro in cielo arder le stelle; /
Dico tra me pensando: / A che tante facelle? / Che fa l’aria infinita, e quel profondo / Infinito
Seren? Che vuol dir questa / solitudine immensa? Ed io che sono?”. Sembra, spesso, che questa
domanda sia pertinente solo all’ambito letterario, e la scienza ne sia completamente separata.
Proviamo a capire perché può non essere così, e perché la scienza contribuisca a rispondere a
questa domanda.
Vediamo “L’usignolo”.
L’imperatore della Cina aveva un giardino bellissimo. Un giorno, leggendo un libro straniero che
racconta delle meraviglie del suo regno, scopre che in uno dei boschi del suo reame abita un
usignolo straordinario, che con il suo canto desta stupore in chiunque lo ascolti. Il re manda allora i
suoi soldati a prelevare l’uccellino: nessuno si aspettava di trovarlo così piccolo, marrone, non
straordinario nell’aspetto, ma dal meraviglioso canto. Chiedono all’usignolo di cantare per
l’imperatore, e cantò così meravigliosamente che il canto toccava tutti nel cuore, e l’imperatore
scoppiò in pianto. Rimasero così incantati dall’usignolo che l’imperatore decise di tenerlo a corte,
legato con la catenella. Un giorno arriva un pacco all’imperatore, con una cosa meravigliosa: un
usignolo meccanico tutto d’oro, tempestato di diamanti, che canta come quello vero. L’imperatore
decide di far cantare insieme i due uccelli, e il popolo preferisce l’usignolo meccanico perché è
proprio bello da guardarsi, mentre il piccolo usignolo vero ha un aspetto modesto. Mentre canta
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l’usignolo meccanico quello vero sparisce, scappa. Quando la corte se ne accorge il primo ministro
li consola dicendo: “Perché vedete, signore e Signori, e prima di tutti Vostra Maestà Imperiale, con
l'usignolo vero non si può mai prevedere quale sarà il suo canto; in questo uccello meccanico
invece tutto è stabilito. Così è e non cambia! Ci si può rendere conto di come è fatto, lo si può
aprire e si può capire come sono collocati i cilindri, come funzionano e come si muovono, uno dopo
l'altro, e come una nota richiami l’altra”. Sono allora tutti soddisfatti, ma un povero pescatore, che
aveva sentito cantare l’usignolo vero, disse: “è quasi come quello vero, ma qualche cosa ci manca”.
Così, un giorno, l’usignolo meccanico si ruppe per il troppo uso, e poté cantare solo una volta
all’anno. “Il povero imperatore non riusciva quasi a respirare, era come se avesse qualcosa sul
petto; spalancò gli occhi e vide che la morte sedeva sul suo petto e s'era messa in testa la sua
corona d'oro. In una mano teneva la spada d'oro e nell'altra una splendida insegna; tutt'intorno,
dalle pieghe delle grandi tende di velluto del letto, comparivano strane teste, alcune orribili, altre
molto dolci: erano tutte le azioni buone e cattive dell'imperatore, che lo guardavano, ora che la
morte poggiava sul suo cuore. «Ti ricordi?» sussurrarono una dopo l'altra. «Ti ricordi?» e gli
raccontarono tante e tante cose che il sudore gli colava dalla fronte. «Non l'ho mai saputo!» diceva
l'imperatore. «Musica musica, il grande tamburo cinese!» gridava «per non sentire quello che
dicono!» Ma loro continuarono e la morte faceva di sì con la testa a tutto quello che veniva detto.
«Musica! Musica!» gridò l'imperatore. «Tu, piccolo uccello d'oro canta, forza, canta! Ti ho dato oro
e oggetti preziosi, ti ho appeso personalmente la mia pantofola d'oro al collo, canta dunque,
canta!» Ma l'uccello stava zitto, non c'era nessuno che lo caricasse e quindi non poteva cantare. La
morte invece continuò a guardare l'imperatore con le sue enormi orbite cave, e stava in silenzio, in
un silenzio spaventoso. In quel momento si sentì vicino alla finestra un canto mirabile; era il piccolo
usignolo vivo che stava seduto sul ramo lì fuori; aveva sentito delle sofferenze dell'imperatore e era
accorso per infondergli col canto consolazione e speranza Mentre lui cantava, quelle immagini
diventavano sempre più tenui, il sangue si mise a scorrere con più forza nel debole corpo
dell'imperatore, e la morte stessa si mise a ascoltare e disse: «Continua, piccolo usignolo,
continua!». «Solo se mi darai la bella spada d'oro, se mi darai quella ricca insegna, se mi darai la
corona dell'imperatore!» E la morte gli diede ogni cimelio in cambio di una canzone, e l'usignolo
continuò a cantare, e cantò del tranquillo cimitero dove crescevano le rose bianche, dove l'albero di
sambuco profumava e dove la fresca erbetta veniva innaffiata dalle lacrime dei sopravvissuti;
allora la morte sentì nostalgia del suo giardino e volò via, come una fredda nebbia bianca, fuori
dalla finestra”.
C’è qualcosa di potente in questo piccolo e insignificante uccellino. L’imperatore farà poi pace con
l’usignolo vero, e gli chiede di rimanere sempre con lui. “«Dovrai restare con me per sempre!»
disse l'imperatore. «Canterai solo quando ne avrai voglia, e io farò in mille pezzi l'uccello
meccanico.» «Non farlo!» gridò l'usignolo. «Ha fatto tutto il bene che poteva. Conservalo come
prima. Io non posso vivere al castello, ma permettimi di venire quando ne ho voglia, allora ogni
sera mi poserò su quel ramo vicino alla finestra e canterò per te, perché tu possa essere lieto e
pensoso insieme. Ti canterò delle persone felici e di quelle che soffrono. Ti canterò del bene e del
male intorno a te che ti viene tenuto nascosto. Il piccolo cantore vola ovunque, dal povero
pescatore alla casa del contadino, da tutti quelli che sono lontani da te e dalla tua corte. Io amo il
tuo cuore più della tua corona, anche se la corona ha qualcosa di sacro intorno a sé. Verrò a
cantare per te!”.
C’è qualcosa che è dentro questo piccolo usignolo, capace di affrontare anche la morte. Scopriamo
dall’esperienza che quella piccolissima cosa è l’io. A volte sembra lontanissimo, la scienza ci mette
tantissimo ad ammetterne l’esistenza, ma anche prima il dottor Rialti diceva che c’è qualcosa,
all’interno delle emozioni, che ha a che fare col significato, che va a toccare corde profondissime
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della persona, indispensabili perché la persona sia desta davanti alla vita, perché impari ad avere
relazioni con gli altri.
Iniziamo adesso l’aspetto “medico”, dunque da questa domanda: “Ed io che sono?”.
Per rispondere compiamo un percorso strettamente biologico. L’alba dell’io è biologica, si, ma
bisogna verificare se il piano biologico e quello del significato realmente non possono avere un
dialogo e dei punti di contatto.
Noi ci rendiamo conto che uno viene al mondo quando nasce, ma si arriva a quel momento
attraverso un processo lungo trentotto settimane di gravidanza, e tutto quello di cui facciamo
esperienza quando il bambino viene al mondo è già presente prima, dal primissimo istante.
L’utero, che fino a pochissimi anni fa veniva ritenuto un semplice contenitore, non è
assolutamente così: è un luogo costruito apposta per far fare esperienze di ogni tipo al bambino:
sensoriali, linguistiche, percettive, emotive, forse anche cognitive, ma su questo stiamo
indagando. Tutto questo ha un inizio precisissimo: dalla realtà, in un preciso momento, inizia una
storia meravigliosa, quasi a nostra insaputa. È un inizio stranissimo: tra miliardi di spermatozoi e
una sola cellula uovo, un solo spermatozoo entra nella cellula uovo, che è fatta per accoglierne
uno solo. Questa allora si chiude appena il primo è entrato e inizia un’avventura incredibile, un
microscopico mondo, grande un centesimo di millimetro: i due nuclei, che hanno metà
cromosoma materno e metà paterno si fondono, e inizia ad affacciarsi una nuova vita. Il DNA è un
immenso insieme d’informazioni scientifiche, che possiamo leggere precisamente, ma quel livello
profondissimo, che è l’io, non è scindibile da questa catena di DNA. Si tende spesso, oggi, a
separare la scienza dalla biologia e dalla tecnica, e l’io resta pellegrino nel deserto. Invece quello
che il soggetto riconosce è l’io, ed emerge sempre di più come l’io è indispensabile perché la
conoscenza di ciò che c’è sia profonda, e abbia le basi per svilupparsi.
Il primo passaggio è lo zigote, che si forma quando il nucleo dello spermatozoo si fonde con quello
dell’ovulo il corredo cromosomico si unisce e si sviluppa per i primi sei giorni. In questo momento
la donna non si accorge di nulla, perché è ancora durante la fase del ciclo, ma lo sviluppo avviene
ad una velocità impressionante. I primi giorni si svolgono tutti all’interno della tuba, ma già al
sesto giorno, all’interno della fase della blastocisti, le cellule si stanno già specializzando: un polo è
formato da cellule embrionali, che danno origine all’embrione, l’altro formerà invece strutture
necessarie alla vita dell’embrione, che è una persona completamente diversa dalla mamma, non si
mischierà mai ad essa nonostante sia parte delle sue membra, tant’è che il sistema immunitario
della madre si modifica già in questi sei giorni, perché tutto si predispone ad accogliere il figlio. A
livello di sistema immunitario ogni cosa che non è proprio viene rigettato (come avviene per i
trapianti, che vanno trattati con terapia immunosoppressiva). Nella gravidanza invece il sistema
immunitario materno non rigetta il bambino, salvo che in alcune patologie particolarmente
problematiche: capisce che il figlio è altro dal corpo della madre, ma lo può accettare.
Dopo la fase della blastocisti, arrivato al sesto giorno di questo viaggio, il feto giunge all’utero, e vi
si impianta. In questi sei giorni le pareti uterine sono diventate ancora più soffici del solito, ricche
di sostanze nutritive. In questi primi giorni l’embrione aveva nutrimento al suo interno, come fosse
l’albume dell’uovo, poi inizierà a nutrirsi prendendo le sostanze dalla madre, fin dal sesto giorno.
Lo sviluppo quindi prosegue velocissimo: diciotto giorni dopo il nuovo individuo si è già impostato.
Solo in questo momento la madre inizia ad accorgersi di un lieve ritardo, perché la “finestra
fertile” della donna cade esattamente a metà del ciclo, quindici giorni dopo l’ultima mestruazione.
A diciotto giorni si vedono già le bozze dell’encefalo, il tubo neurale dove si sviluppa il midollo
spinale, la parte terminale del bambino che, in questi pochi giorni, ha già sviluppato differenti parti
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di sé. È un’evoluzione velocissima, ma non caotica: a diciotto giorni iniziano a battere le cellule
cardiache, tra il ventesimo e il ventunesimo giorno inizia a battere il cuore. È tutto presente in
bozza, in piccolissime gemme, ma tutto è già definito. Abbiamo l’encefalo, le bozze degli arti
superiori e inferiori, la colonna vertebrale, la coda, il cordone ombelicale, il fegato che produce
globuli rossi. Il bambino si auto-sostenta dall’inizio, ma la madre fornisce sostanze nutritive
attraverso la placenta attaccata alla parete dell’utero. Nella placenta c’è un sistema di irrigazione
che proviene dal sistema circolatorio materno, e c’è uno scambio di sostanze tra la madre e il
bambino senza che si tocchino: la madre fornisce nutrimento e porta via le scorie.
A questo punto c’è già un inizio di consapevolezza emotiva, ma il dialogo emotivo con la madre è
iniziato da prima: già quando la cellula-uovo è ancora nella tuba, la tuba registra attraverso
ricettori che la fecondazione è avvenuta, che essa non è più una cellula, ma è, da quel momento,
un figlio. Cominciano allora una serie di messaggi emotivi dalla madre, non coscienti, che si
possono documentare con strumenti non invasivi, perché sono perturbazioni che si riescono a
registrare. Il dialogo con la madre inizia da subito, ma la madre se ne accorge molto lentamente: in
questo cambia molto la tempistica a seconda della capacità di leggere le emozioni che la donna ha
sviluppato durante la sua vita.
Si iniziano a distinguere poi la colonna vertebrale, la testa, gli arti superiori e inferiori, e il bambino
è protetto all’interno del sacco amniotico, pieno di liquido amniotico.
Analizziamo alcune parti di cui è facile seguire lo sviluppo, perché molto evidenti: arti superiori e
inferiori, occhi e struttura della persona si sviluppano da subito, perché sono legati ai cinque sensi
che sono presenti fin dall’inizio, ed è importantissimo che si sviluppino e ci sia un dialogo emotivo
da subito. Queste strutture da piccole gemme vengono via via sbozzate, e in sei settimane sono
formate, fino alla diciannovesima settimana, in cui sono perfettamente definite. Queste mani non
sono mani inermi, non sono oggetti: attraverso le mani già sente, prova emozioni, infatti da subito
tocca l’ambiente circostante appena riesce fisicamente a stirare l’articolazione. Il bambino tocca se
stesso, si tocca la bocca, magari senza capire che è la sua, ma ne inizia a fare esperienza. I bambini
che nascono con gravi encefalopatie già a livello ecografico mostrano uno scarso movimento delle
mani: la mancanza di una percezione neurologica compromette lo sviluppo dei movimenti. Il
bambino toccando sente, e sentendo provoca in sé delle emozioni fondamentali per il prosieguo
dello sviluppo, esattamente come, dopo la nascita, chiama, tocca e mette in bocca qualunque
cosa. La mano è stimolata da impulsi neurologici, legati allo sviluppo personale indispensabile
perché cresca.
Ugualmente avviene per le gambe: la piccola gemma degli arti inferiori cresce, dopo sette o otto
settimane inizia a toccarsi centralmente e poi a svilupparsi. A sedici settimane il bambino sguazza,
ci sta perfettamente nell’utero e riesce a nuotare nel liquido amniotico.
La neonatologia studia anche i movimenti fetali attivi che sono analizzati come indicatori del
benessere del bambino, sia prima che dopo la nascita.
Una parte della comunità medica sostiene che tali movimenti, o il fatto che il bambino tocchi
l’ambiente circostante è solo la conseguenza di uno stimolo nervoso, un impulso elettrico. Questa
non è una questione etica, ma una questione scientifica: se è solo un impulso elettrico lo tratterò
come impulso elettrico. Dobbiamo allora riflettere su cosa siano gli impulsi sensoriali: se li tratto
come impulsi elettrici faccio fuori una parte oggettiva, che c’è, che dice del benessere del
bambino.
Quando il bambino arriva alla nascita lo sviluppo apparente sembra concluso, ma non è così: è
vero che ha piedi perfettamente formati, ma non sa camminare. Serve una conoscenza nuova di
sé, la coscienza della funzione del corpo, profonda rispetto a quella della formazione fisica, o a
quella percettiva delle mani.
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Gli occhi iniziano già a formarsi dal diciottesimo giorno, perché sono un’evoluzione diretta del
sistema nervoso centrale. Iniziano a svilupparsi, poi gli calano sopra le palpebre per proteggerli
dalla luce, poiché nonostante l’utero sia semibuio la luce filtra attraverso la parete. Anche lo
sviluppo degli occhi è continuo, persino dopo la nascita: in quel momento il bambino riesce a
vedere ad una distanza di circa venti centimetri, che è la distanza tra gli occhi e il seno della
madre: questa distanza è “progettata” proprio perché il bambino continui a sviluppare una sua
competenza, non solo organica ma anche relazionale, che permette al suo io di svilupparsi e
emergere in una relazione. Gli occhi sono fonte di conoscenza fondamentale, e partono da qui. Un
bambino percepisce i cambiamenti notte-giorno all’interno dell’utero, e un ritmo sonno-veglia che
inizia ad essere importantissimo i primi giorni dopo la nascita.
Per quanto riguarda le orecchie, alla settima settimana è già perfettamente formato il padiglione,
con tutto ciò che gli servirà per diventare padiglione definitivo. L’orecchio inizia già ad essere
competente all’interno della pancia: sente il ritmo del cuore, i rumori della casa, la voce materna e
paterna. Questo è fondamentale perché il bambino faccia esperienza di ciò che lo circonda.
Fino alle prime otto settimane di formazione il bambino si è completamente sviluppato, ma siamo
sulle dimensioni di pochi millimetri. Dopo le otto settimane cresce tantissimo, velocissimo, e tutte
le strutture che si sono formate a livello di bozze continuano a formarsi. Anche in questo
microbambino sono fondamentali le esperienze che fa.
A tre mesi continua la crescita, tutto è formato. Man mano che inizia a muoversi mento le
esperienze sensoriali di dialogo con il padre e la madre sono più fondamentali. Tantissimi
atteggiamenti che il bambino ha dentro l’ambiente uterino le ha anche fuori, e la madre li
riconosce. Iniziano a svilupparsi anche degli atteggiamenti tipici, che si vedono già nell’ecografia:
un certo modo di scalciare è identico prima o dopo la nascita, come il succhiarsi il dito. Il bambino
sviluppa competenze, e fa esperienza.
Nell’ambito scientifico viene spesso applicata l’analisi del primo ministro della fiaba come metodo
fondamentale: smonto tutto, imparo tutte le rotelle, così posso conoscere davvero l’usignolo. Ma
c’è altro: l’aspetto emotivo è fondamentale, nello sviluppo e nella conoscenza.
La sfida è per tutti: trovate il punto dove l’altro possa fare esperienza. Per la mia professione
medica il punto è la malattia, il dolore, per voi, che siete insegnanti, l’apprendimento. C’è sempre
un punto in cui l’individuo diventa cosciente che la polvere di carbonio è polvere di stelle, e quella
polvere è anche dentro di noi. In questo le fiabe sono state occasione d’incontro, le maestre
hanno sempre introdotto questa lezione con le fiabe, perché nei bambini nascesse lo stupore, il
desiderio di conoscere e conoscersi come qui. La sfida è questa: se non è desto io la conoscenza è
impoverita.
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