Sant`Elena - VENDERE QUADRI

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Sant`Elena - VENDERE QUADRI
Sant’Elena
olio su tela di 88x75 cm
Jacopo Negretti detto Palma il Giovane ( bottega di.)
di
Arch. Ph.D. Gian Camillo Custoza
Il dipinto oggetto del presente studio, un olio su tela di 88x75 cm, come si avrà modo di dimostrare, è opera,
storicamente e culturalmente compatibile con il prestigioso catalogo delle tele attribuibili al magistero del pittore
veneziano Jacopo Negretti detto Palma il Giovane, artista nato a Venezia, probabilmente tra il 1548 e il 1550, morto
nella città lagunare nel 1628. Figlio di Antonio, pittore, nipote di Jacopo Negretti detto Palma il Vecchio, nonché, figlio
di Giulia Brunello, a sua volta nipote di Bonifacio de’Pitati, Palma il Giovane, fu artista celebrato di amplissimo
magistero tra i più significativi del suo tempo. La tela qui presentata, di buona qualità, ed in discreto stato di
conservazione, è credibilmente conciliabile con una possibile datazione risalente all’epoca della maturità di questo
grande maestro veneziano.
Come segnalato dalla Mason Rinaldi,1 lo spostamento della nascita di Jacopo, al biennio 1548-1550, introdotta dalla
critica più recente in linea di discontinuità rispetto alla primitiva indicazione relativa all’anno 1544, tradizionalmente
accolta sulla base dell’analisi della biografia di Carlo Ridolfi,2 è dovuto all’incrocio virtuoso di diversi elementi: tra
questi, la valutazione di un disegno, l’Autoritratto della Morgan Library di New York,3 datato 1606, dove Palma
dichiara di avere anni 58, ed ancora un documento rintracciato a Venezia, nella Parrocchia di S. Giustina,4 nel quale, il
17 ottobre 1628, si registra la morte del signor Giacomo Palma pittor d’anni 78. Figlio d’arte, il giovane Jacopo, dopo
un primo, probabile, apprendistato nella bottega paterna, nell’anno 1564, è chiamato a corte dal duca d’Urbino
Guidobaldo II della Rovere, il quale, in visita a Venezia, ha modo di apprezzare il valore dell’adolescente talentuoso,
offrendogli l’opportunità di vivere un’esperienza assai significativa, della quale, il nostro, avrebbe riconosciuto
l’importanza per tutta la vita, per esser stato levato da Venetia e mantenuto in Roma quattro anni.5
Non abbiamo riscontro documentale del periodo urbinate, notizie precise sono invece fornite relativamente all’arrivo di
Jacopo a Roma, nel maggio 1567. Le relazioni accurate, inviate dall’ambasciatore del duca, Traiano Mario, che ebbe
1 S. MASON RINALDI, Palma il Giovane. L’opera completa, Milano 1984.
2 C. RIDOLFI, Le maraviglie dell’arte (Venezia 1648), a cura di D. von Hadeln, II, Berlin 1924, pp. 172-205.
3 Morgan Library, New York inv. n. 142243
4 Parrocchia di S. Giustina, Venezia, Morti, reg. 2, c. 32v
5 G. GRONAU, Documenti artistici urbinati, Firenze 1936, p. 151.
1
Palma ospite almeno fino al novembre 1568, ricostruiscono, nei dettagli, il profilo di un giovane promettente, ansioso di
lavorare con altri artisti, accomodato alcuni mesi in dozena in casa d’uno dell’arte.6
Risalgono probabilmente a quest’epoca gli esercizi sulla statuaria antica, sul Cartone di Michelangelo, e sulle pitture di
Polidoro da Caravaggio, si vedano in proposito il Ridolfi7 ed il Baglione,8 come pure si consideri, che proprio a questo
periodo, risale la partecipazione di Jacopo alla decorazione della bella Galleria9 e delle Logge vaticane. Al medesimo
soggiorno romano sono inoltre riferite la Gloria di angeli in adorazione del Sacramento, dipinta per la chiesa di S.
Maria in Trivio, presso la fontana di Trevi, e la Madonna della chiesa dei SS. Vincenzo e Anastasio, opere queste oggi
entrambe perdute.10 Scomparsa è anche la Discesa dello Spirito Santo, dipinta per la chiesa di S. Silvestro a Monte
Cavallo, mentre si conserva la S. Teresa trafitta dall’angelo, eseguita vari anni più tardi, verosimilmente nel 1615, per
la chiesa della Madonna della Scala in Trastevere, un dipinto questo oggi conservato in S. Pancrazio a Roma.
Appare utile rilevare che il disegno datato 1568, raffigurante il Ritratto di Matteo da Lecce, oggi esposto a New York,11
è la sola opera nota, certamente riferibile a questi anni. Oltre a chiarire le inclinazioni e gli interessi del giovane Jacopo,
il foglio qui menzionato, documenta i rapporti di amicizia intrattenuti dal giovane Palma con uno dei più appassionati
divulgatori di Michelangelo, maestro della tecnica del gesso nero abbinato a quello rosso, nonché contestualmente
segnala, il contatto con la cerchia di Federico Zuccari, ed ancora accerta la vocazione per la presa dal naturale, peraltro
contraddetta sul verso del documento, da una figura derivata fedelmente dall’affresco raffigurante la Deposizione di
Daniele da Volterra, dipinta dal maestro nella chiesa romana di Trinità dei Monti.
Nel 1569 l’inserimento di Palma nel coevo ambiente artistico romano è pienamente realizzato, in quell’anno Jacopo è
annotato, in diverse occasioni, nel registro di spese del cardinale Ippolito II d’Este, qui, il nostro è segnalato in
compagnia di una serie di artisti, tra i quali Matteo da Lecce, verosimilmente perché egli è ormai entrato a far parte
dell’équipe di Cesare Nebbia, artista che in questi stessi anni lavora alla decorazione di villa d’Este a Tivoli.12 Una
lettera del settembre 1570, inviata al duca Guidobaldo II, un missiva in cui l’ambasciatore ducale, Giovanni Francesco
6 G. GRONAU, Documenti artistici urbinati, Firenze 1936, p. 149.
7 C. RIDOLFI, Le maraviglie dell’arte (Venezia 1648), a cura di D. von Hadeln, II, Berlin 1924, p. 173.
8 G. BAGLIONE, Le vite de' pittori, scultori, architetti, ed intagliatori dal Pontificato di Gregorio XII del 1572. fino a' tempi de Papa Urbano VIII
nel 1642, Roma 1642, pp. 183 s..
9 G. BAGLIONE, Le vite de' pittori, scultori, architetti, ed intagliatori dal Pontificato di Gregorio XII del 1572. fino a' tempi de Papa Urbano VIII
nel 1642, Roma 1642, pp. 183 s..
10 G. BAGLIONE, Le vite de' pittori, scultori, architetti, ed intagliatori dal Pontificato di Gregorio XII del 1572. fino a' tempi de Papa Urbano VIII
nel 1642, Roma 1642, pp. 183 s..
11 The Morgan Library, inv. n. 142246)
12 P. TOSINI, Girolamo Muziano e la nascita del paesaggio alla veneta nella villa d’Este a Tivoli: con alcune osservazioni su Federico Zuccari, Livio
Agresti, Cesare Nebbia, Giovanni de’ Vecchi ed altri, in Rivista dell’Istituto nazionale d’archeologia e storia dell’arte, s. 3, XXII (1999 [2001]), p.
219.
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Agatone, affermava che il giovane dipintore di V. Ecc.za, si veda Gronau,13 era andato con lui a Venezia per eseguire il
disegno di una coppa e di un vaso di cristallo, che il duca intendeva acquistare, potrebbe essere assunta quale prova del
fatto che in quell’anno, Palma, con mansioni di pittore di corte, fosse rientrato nella sua città natale. In realtà le fonti,
Borghini,14 Baglione,15 Ridolfi,16 sono tutte concordi nel situare, tra il 1567 ed il 1574 circa, l’esperienza romana del
Palma, dunque attestandosi sulla linea di un soggiorno durato circa otto anni. Una conferma indiretta è offerta dal fatto
che la commissione della Gloria degli angeli in adorazione del Sacramento, è affidata dai Crociferi, nell’anno 1571, ed
è poi rinnovata nel 1573, date queste da assumere quindi come termini post quem per l’esecuzione dell’opera; come
pure, ancora, appare utile considerare che il Baglione17 menziona Palma tra gli artisti attivi durante il papato di Gregorio
XIII iniziato nell’anno 1572. Come ottimamente segnalato dalla Mason Rinaldi,18 la questione del ritorno di Jacopo a
Venezia, anabasi verificatasi probabilmente non prima del 1574, pone il problema di un eventuale discepolato di Palma
presso Tiziano, l’argomento già sollevato dal Boschini,19 il quale ritiene che Palma pure anco hebbe fortuna di godere
degli eruditi precetti di Tiziano, muove dall’analisi della descrizione accurata fornita da Palma, della tecnica del
maestro cadorino, facendo supporre una sua reale presenza in quella bottega. Da qui sarebbe derivato anche l’incarico
di ultimare la Pietà, oggi esposta a Venezia nelle Gallerie dell’Accademia. Non è noto quando la Pietà sia passata, per
volere del Senato, nelle mani di Palma, cui certo spettano il piccolo angelo reggi torcia situato in alto a destra, qualche
ritocco e l’iscrizione in basso in cui egli attesta di avere portato a termine l’opera. Se in ipotesi non può essere escluso
un contatto tra i due pittori nel breve arco di tempo che intercorre tra il rientro di Palma a Venezia e la scomparsa di
Tiziano, nel 1576, appare scarsamente attendibile l’ipotesi di un alunnato da parte di un artista di circa 26 anni,
cresciuto nella cultura figurativa centro-italiana, antitetica agli esiti personalissimi della fase estrema di Tiziano. Né
trova alcuna conferma la recente proposta, formulata da Tagliaferro,20 di vedere Jacopo fanciullo apprendista presso
Tiziano, tesi questa del tutto destituita di fondamento, sia perché in contrasto con l’abituale prassi organizzativa di una
famiglia di pittori, sia perché priva di qualsiasi riscontro nelle fonti. Per contro, le poche opere note risalenti al periodo
immediatamente successivo al rientro di Palma a Venezia, il Cristo al Limbo dipinto per la chiesa di S. Nicolò della
Lattuga, ora conservato nella parrocchiale di Quero, Belluno, l’affresco della chiesa dei SS. Giovanni e Paolo,
13 G. GRONAU, Documenti artistici urbinati, Firenze 1936, p. 21
14 R. BORGHINI, Il Riposo, Firenze, Marescotti, 1584, pp. 559-561.
15 G. BAGLIONE, Le vite de' pittori, scultori, architetti, ed intagliatori dal Pontificato di Gregorio XII del 1572. fino a' tempi de Papa Urbano VIII
nel 1642, Roma 1642, pp. 183 s..
16 C. RIDOLFI, Le maraviglie dell’arte (Venezia 1648), a cura di D. von Hadeln, II, Berlin 1924, pp. 172-205
17 G. BAGLIONE, Le vite de' pittori, scultori, architetti, ed intagliatori dal Pontificato di Gregorio XII del 1572. fino a' tempi de Papa Urbano VIII
nel 1642, Roma 1642, p. 183.
18 S. MASON RINALDI, Palma il Giovane. L’opera completa, Milano 1984.
19 M. BOSCHINI, Breve instruzione, in Le ricche minere della pittura veneziana, Venezia 1674, pp. n.n..
20 G. TAGLIAFERRO, Le botteghe di Tiziano, Firenze 2009, pp. 174 s.;
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raffigurante Marte, Nettuno ed i prigionieri di guerra, risalente al 1577 circa, eseguito per il Monumento funebre di
Gerolamo Canal, palesano il persistere della lectio romana declinata sapientemente nelle soluzioni compositive e nel
forte interesse per le forme plastiche.
L’anno 1578 è segnato dal prestigioso incarico relativo al grande ovato rappresentante Venezia coronata dalla Vittoria
che riceve l’omaggio dei popoli soggetti, nonché da quello relativo ai due riquadri laterali, la Vittoria di Francesco
Bembo sulla flotta di Filippo Maria Visconti e Andrea Gritti che riconquista Padova, opere queste dipinte per la
renovatio della decorazione del soffitto della sala del Maggior Consiglio in Palazzo Ducale, incendiatasi nel 1577.
Se la Venezia coronata dalla Vittoria che riceve l’omaggio dei popoli soggetti, è opera segnata da un cromatismo
prezioso, tendente a tinte fredde che ne accentuano la plasticità, nonché caratterizzata da un singolare, scenografico,
illusionismo prospettico e compositivo, qui inteso come armatura di figure dinamiche e scorciate, tutti elementi questi,
nei quali si evidenzia l’influenza della maniera romana, nei due dipinti laterali, comunque capaci di integrarsi
perfettamente con il precedente, si inizia a palesare la considerazione di Palma per Tintoretto, artista reinterpretato qui
in chiave maggiormente scenografica.
Stando al Lorenzi,21 nell’anno 1578, a riprova della considerazione di cui il nostro doveva godere da parte degli
organismi preposti al governo della res pubblica, Palma è chiamato a valutare, in collaborazione con Veronese, le
quattro Allegorie dipinte da Tintoretto nell’atrio quadrato di palazzo ducale.
Nello stesso anno Jacopo riceve l’incarico di approntare il modello ad olio del S. Giovanni Evangelista che bacia il
libro ricevuto dall’angelo, eseguito per il mosaico posto sul piedritto meridionale della volta dell’Apocalisse nella
basilica di S. Marco, un modello questo terminato nell’arco di due anni, se, come risulta dai documenti, viene pagato il
31 marzo 1580.22 La collaborazione al rifacimento musivo della basilica marciana riprende ancora nell’anno 1623,
quando il Negretti riceve 155 ducati per i modelli ad olio dei mosaici raffiguranti la Crocifissione di S. Pietro e la
Decollazione di S. Paolo, opere queste destinate alla parete di fondo della volta settentrionale della cupola della
Pentecoste. Tra il 1580 e i primi mesi del 1581 Palma termina il complesso ciclo pittorico della sacrestia vecchia di S.
Giacomo dall’Orio, un opera descritta il 7 maggio 1581 come ex pulcherrimis picturis ornata.23 Commissionato dal
parroco, don Giovanni Maria da Ponte, sacerdote celebrato nella tela in cui il prete è presentato alla Madonna dai suoi
santi protettori, questo ciclo, teologicamente perfettamente allineato con le istanze post-tridentine, prevede, sulle pareti,
una serie di episodi tratti dall’Antico e dal Nuovo Testamento, quindi culmina, sul soffitto, nel Trionfo dell’Eucarestia.
Questo celebre apparato decorativo palmesco rivela, dal punto di vista formale, un artista capace di guardare
21 G.B. LORENZI, Monumenti per servire alla storia del palazzo ducale di Venezia, Venezia 1868, p. 449, doc. 880.
22 P. SACCARDO, Les mosaiques de St. Marc à Venise, Venise 1896, p. 301.
23 Archivio storico del Patriarcato di Venezia, Visitatio dominorum visitatorum apostolicorum anni 1581, cc. 69-70, in S. Mason Rinaldi, op.cit. 1984,
p. 67.
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efficacemente alla grande lectio del Cinquecento veneto, ispirato, nella pennellata impastata, ed ancora, nei passaggi
vaporosi di luce e di ombra, da Tintoretto, da Jacopo Bassano, e soprattutto da Tiziano.
Si pensi a tutta una serie di opere ascritte al catalogo palmesco contraddistinte da un colorismo di tocco e da un uso
della luce che sfrangia le forme, quali ad esempio, il Crocifisso con la Maddalena della Galleria Franchetti alla Ca’
d’Oro, la Visitazione di S. Maria del Giglio, ed il S. Paterniano che cura gli infermi originariamente dipinto per la
chiesa omonima, ed ora conservato nella parrocchiale di San Cassiano del Meschio presso Treviso. Ancora, le due
importanti tele parietali della cappella Malipiero in S. Giacomo dall’Orio a Venezia, cioè il S. Lorenzo che distribuisce
le ricchezze della Chiesa ai poveri ed il Martirio di S. Lorenzo, di poco più tarde rispetto a quelle sopra discusse,
evidenziano il configurarsi di un delicato momento evolutivo di trapasso che maggiormente si manifesta nei due teleri
raffiguranti, I quattro cavalieri dell’Apocalisse e Gli angeli sterminatori, dipinti questi ultimi facenti parte di una serie
di quattro: gli altri due sono I dodicimila crocesegnati e la Vergine coronata di stelle con l’angelo che uccide l’Idra,
entrambi terminati tra il 1582 e il 1584, opere queste che compongono il ciclo dell’Apocalisse, eseguito da Palma per la
sala dell’albergo della Scuola di S. Giovanni Evangelista.
Come opportunamente segnalato dalla Mason Rinaldi,24 tali dipinti sono cronologicamente collocati ante estate 1582,
data entro la quale si interrompono le notizie raccolte a Venezia dal Borghini, autore del Il Riposo, edito nel 1584. Oltre
ai dipinti qui sopra menzionati, tra quelli a noi pervenuti, alla data predetta, si devono considerare già eseguiti: la
Presentazione della Vergine al tempio oggi esposta a Dresda, alla Gemäldegalerie; l’Annunciazione dell’Alte
Pinakothek di Monaco, originariamente conservata nella chiesa di S. Maria Assunta dei Crociferi, ora divenuta chiesa
dei Gesuiti; la Crocifissione della chiesa della Ss. Trinità, ora custodita nella chiesa veneziana della Madonna dell’Orto;
la Resurrezione di Cristo presente in S. Zulian.
Appare utile considerare che nel momento in cui Borghini completava le sue note veneziane, era in lavorazione la
grande Assunzione della Vergine dipinta per il soffitto della sala dell’albergo della Scuola di S. Maria della Giustizia e
di S. Gerolamo. È in quest’ultima opera, oggi dibattuta solo attraverso l’esame del piccolo modello conservato nella
collezione della Fondazione Querini Stampalia di Venezia, nonché, ancora, discussa sulla base dell’analisi di due
importanti frammenti, l’uno esposto all’Ermitage di San Pietroburgo, l’altro conservato a Milano in collezione privata,25
che possiamo registrare una coeva certa accelerazione di Palma nell’aderire alla tradizione pittorica veneziana, che
riscontriamo cioè un forte interesse per il Veronese, del tutto evidente nella spettacolarità della composizione di
quest’ultimo dipinto, ove grandi figure decorative si librano nello spazio in un vortice di nubi. A quest’epoca si ascrive
anche il confronto di Palma con uno degli artisti più significativi tra quelli frequentati a Roma, Federico Zuccari, allora
presente a Venezia per eseguire il telero raffigurante L’Imperatore Federico che rende omaggio al papa Alessandro III,
24 S. MASON RINALDI, Palma il Giovane. L’opera completa, Milano 1984.
25 S. MASON RINALDI, Palma il Giovane. L’opera completa, Milano 1984, figg. 72 s.
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un opera questa facente parte del ciclo parietale della sala del Maggior Consiglio, un dipinto quest’ultimo, accanto al
quale, in strettissima relazione spaziale e figurativa, Palma, collocherà, nel 1583, il suo Alessandro III e il doge
Sebastiano Ziani che concedono a Ottone di trattare la pace. Risale ancora all’anno 1583, l’Assunzione della Vergine
commissionata dalla confraternita dei marzeri per il proprio altare in S. Zulian; questa pala, connotata da un’ardita
articolazione delle masse, nonché segnata da una salda costruzione spaziale di ascendenza veronesiana, è altresì
testimone del rapporto instaurato tra Palma e lo scultore Alessandro Vittoria, autore delle due statue poste ai lati della
pala, amico e protettore di Jacopo, a cui, nel 1592, come conferma il disegno inv. n. 3475 della Staatliche Graphische
Sammlung di Monaco, egli affida la decorazione ad affresco della facciata della propria casa. In questi stessi anni, post
1582, Palma, in concorrenza con i più importanti pittori della sua epoca, quali ad esempio, Tintoretto, Veronese e
Francesco Bassano, partecipa al concorso per il nuovo Paradiso,26 l’enorme tela da collocarsi sulla parete orientale
della sala del Maggior Consiglio, di quest’opera palmesca ci resta testimonianza nel grande modello della Pinacoteca
Ambrosiana a Milano. La notorietà di Palma travalica i confini della Serenissima, nel febbraio 1582, egli riceve
l’incarico da parte di Carlo Emanuele di Savoia di celebrare il padre Emanuele Filiberto, in un dipinto raffigurante la
Battaglia di San Quintino, un opera questa terminata solo nel 1585, una tela oggi esposta a Torino a Palazzo reale.27 Gli
anni Ottanta del Cinquecento sono poi segnati dallo straordinario episodio della decorazione dell’oratorio annesso
all’ospizio per le donne anziane ed indigenti, a Cannaregio, istituzione retta dai Crociferi sotto la giurisdizione dei
procuratori di S. Marco. L’opera impegna Palma per un decennio; ne seguiamo l’evoluzione diacronica attraverso il
libro di spese del reggente fra Priamo Balbi. Nel 1583 Jacopo riceve l’acconto per la pala d’altare rappresentante
l’Adorazione dei magi, opera oggi perduta; l’anno seguente gli viene versata la caparra per il Cristo in gloria che
benedice il doge Renier Zen, nel 1586 gli sono anticipati i corrispettivi relativi ai tre dipinti celebrativi raffiguranti il
doge Pasquale Cicogna, saldati nell’agosto dell’anno 1587. Nel 1589 Palma firma l’accordo per la decorazione del
soffitto con l’Assunta e gli angeli musicanti; nel dicembre 1590 viene collocato sopra la porta d’ingresso, il Trasporto
di Cristo al sepolcro, e nell’agosto del 1592, sono saldati, la Flagellazione di Cristo e due Profeti. Queste tele, alcune di
soggetto storico apologetico, relative alla storia della fondazione dell’Ordine dei Crociferi, altre volte a celebrare i vari
esponenti del patriziato veneto, benefattori dell’ospizio, altre ancora, di tema religioso, si collocano tra i maggiori
capolavori di Palma. Negli anni compresi tra il 1588 e il 1627 il Negretti è iscritto alla fraglia dei pittori.28 Dal
censimento dei savi alle Decime, per il triennio 1595-1598, la sua famiglia, abitante nella parrocchia di S. Croce, risulta
composta dalla moglie Andriana, da sette figli, da una sorella dell’artista e da tre servi.29 Tra il 1588 ed il 1589 è
26 S. MASON RINALDI, Le Paradis de Palma le Jeune: la ‘fortune’ d’un exclu, in Le Paradis de Tintoret: un concours pour le palais des Doges, a
cura di J. Habert, Milano 2006, pp. 74-87.
27 A.M. BAVA, Le collezioni di pittura e i grandi progetti decorativi, in Le collezioni di Carlo Emanuele I di Savoia, a cura di G. Romano, Torino,
1995, pp. 212 s.
28 E. FAVARO, L’arte dei pittori a Venezia e i suoi statuti, Firenze 1975, p. 148.
29 S. MASON RINALDI, Palma il Giovane. L’opera completa, Milano 1984, p. 71.
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collocata, sul soffitto della chiesa di S. Zulian, l’Apoteosi di S. Giuliano; agli stessi anni risalgono la Caduta della
manna, il David e il pane della preposizione, l’Elia e l’angelo, eseguiti per la sagrestia dei Crociferi, chiesa che Palma
avrebbe poi arricchito, tra il 1592 ed il 1593, e poi ancora nel 1620 circa, con una serie di altre tele molto interessanti,
opere queste ultime legate alla storia dell’Ordine committente, nonché tematicamente collegate al tema del ritrovamento
della Santa Croce, quindi in qualche modo, come vedremo, particolarmente connesse a questa nostra Sant’Elena. Sul
calare del secolo, Jacopo è il protagonista indiscusso del panorama pittorico veneziano, egli si propone ormai come
autorevole depositario della grande eredità della pittura veneziana, ruolo quest’ultimo che gli viene in parte
riconosciuto, ad esempio, dal Boschini, 30 il quale gli conferisce il grado primiero tra i pittori delle sette maniere. Gli
anni Novanta del Cinquecento vedono Palma molto impegnato, sia in opere religiose, sia in tele celebrative, tanto a
Venezia, quanto nelle città del Dominio. Risalgono a questo decennio, la Lavanda dei piedi e Cristo davanti a Caifa,
dipinti per la cappella del Sacramento in San Giovanni in Bragora, a Venezia, come pure il ciclo parietale della sala
dell’albergo della Scuola di S. Maria della Giustizia, opera questa in origine costituita da otto tele, ora suddivise tra le
chiese di S. Giorgio, a San Giorgio delle Pertiche, Padova, e di S. Gerolamo, a Venezia. Parimenti complesso è inoltre il
coevo ciclo delle Storie di S. Saba, dipinto per la cappella Tiepolo, in S. Antonin a Venezia,31 risalente al 1593, anno in
cui data anche il Massacro degli abitanti di Ippona, dipinto per la chiesa di S. Pietro al Po, a Cremona, ed ora esposto al
Musée Fabre di Montpellier. Databili al 1595 sono invece le Stimmate di S. Francesco della chiesa di S. Rocco a
Bianzano, Bergamo, ed il Trionfo di David delle portelle d’organo di S. Zaccaria a Venezia. Tra le coeve opere
celebrative, di carattere apologetico, ricordiamo: la Madonna con il Bambino e i Santi Ermagora e Marco,
simboleggiante la dedizione della città di Udine a Venezia, dipinto nel 1595, per il palazzo della Comunità di Udine, ed
ora esposto, nelle gallerie dei Musei civici della città friulana; Il Doge Alvise Mocenigo che ringrazia la Vergine per la
vittoria di Lepanto, della chiesa di S. Fantin; l’Esaltazione dei rettori di Padova Jacopo e Giovanni Soranzo dipinta per
la sala del Podestà di Padova, ora conservata a Padova nei Musei civici; le tele votive dei dogi Lorenzo e Gerolamo
Priuli, Leonardo Loredan, Francesco Venier e Pasquale Cicogna, tutte e quattro eseguite nell’ultimo decennio del secolo
per la sala dei Pregadi in palazzo ducale. Il 1599 è un anno denso di committenze, Palma firma e data il Cristo e
l’adultera della Galleria di Palazzo Rosso a Genova, dipinge il Cristo e la samaritana della Galleria di Palazzo Bianco,
sempre a Genova, crea, il Crocifisso e santi della chiesa degli Zoccolanti a Potenza Picena, e poi ancora, i Santi
Agostino e Domenico nel duomo di Trogir. Risultano invece pagate tra il 1599 e il 1602, la Crocifissione ed il Battesimo
di Cristo, due opere oggi conservate nella chiesa di S. Maria Assunta, a Lentiai, presso Belluno. Ancora, all’anno1599
risale la commissione del parroco di S. Pantalon, relativa alle due tele raffiguranti S. Pantaleone che risana un
paralitico e la Decapitazione del santo; come pure, ancora, nel medesimo 1599, Palma, sull’altare costruito in
30 M. BOSCHINI, Breve instruzione, in Le ricche minere della pittura veneziana, Venezia 1674, pp. n.n..
31 S. MASON RINALDI, La cappella di S. Saba a S. Antonin: committenza e devozione nella Venezia di fine Cinquecento, in Chiesa di S. Antonin.
Storia e restauro, a cura di T. FAVARO, Venezia 2010, pp. 135-147.
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quell’anno da Alessandro Vittoria, in S. Zaccaria, colloca la pala di S. Zaccaria in gloria. La collaborazione con lo
scultore si ripeterà nei primissimi anni del Seicento, nell’altare della Scuola dei Luganegheri in S. Salvador, quando
Jacopo dipingerà la Madonna con il Bambino in gloria e i Santi Antonio Abate, Giovanni Battista e Francesco d’Assisi.
L’inizio del XVII secolo vede Jacopo coinvolto in una commissione di grande impegno, un progetto assai rilevante per
dimensioni e tema: la produzione della serie dei famosi dipinti dedicati al Purgatorio, progettati per la decorazione del
soffitto della sala posta al piano terra della Scuola di S. Maria della Giustizia a Venezia. Come segnalato da Stefania
Mason Rinaldi,32 nei tredici pannelli che compongono questo ciclo, databili, stando al relativo cartiglio, al dicembre
dell’1600, Palma instaura una strettissima relazione, tra il tema della funzione esercitata dalla confraternita,
accompagnare i condannati all’esecuzione operando contestualmente per l’espiazione dei loro peccati, e la decorazione
pittorica, illustrante, le anime purganti, gli strumenti per l’espiazione, e i dottori della Chiesa che questi mezzi avevano
definito nella loro opera. Tali soggetti si rivelano perfettamente consoni, sia alla sensibilità di Jacopo, che alla religiosità
tridentina; sono emblematici, in particolare, i dipinti connessi alla passione di Cristo, nei quali il soggetto rappresentato
è reso con grandissima attenzione per gli effetti luministici, producendo esiti comuni a quelli analoghi rivelabili in
diverse altre opere del periodo, quali, le portelle del tabernacolo dell’altar maggiore di S. Zaccaria, databili al 1600
circa, i tre dipinti del soffitto dell’oratorio della SS. Trinità, a Chioggia, per cui Jacopo è pagato nell’anno 1601, e quelli
della cappella del Sacramento, in S. Giacomo dall’Orio, risalenti all’anno1604 circa: l’Andata al Calvario e il Trasporto
di Cristo al sepolcro. Altro cantiere palmesco di grande importanza, per altro protrattosi, dall’inizio del Seicento, per
quasi un trentennio, è la decorazione del duomo di Salò. Come indicato dal Riccioni,33 il 4 dicembre 1601, l’assemblea
degli Eletti delibera di invitare Palma per tratar e discorrere sopra il disegno et pictura del coro; restio a spostarsi,
Palma invia in loco, Antonio Vassilacchi detto l’Aliense, suo aiuto nell’impresa, il quale è incaricato della stesura di una
prima ipotesi progettuale. Un più preciso piano dei lavori è formulato il 25 gennaio 1602, questo documento è
addirittura sottoscritto presso un notaio di Venezia: a Palma spetta la realizzazione degli affreschi del catino absidale
con l’Assunzione della Vergine e gli Evangelisti, la decorazione delle portelle dell’organo con il Serpente di bronzo e
l’Uccisione di Abele, nonché l’esecuzione della pala della Visitazione, posta sull’altare a sinistra nell’abside. Questi
primi lavori, tra difficoltà varie, impedimenti, ed interruzioni, troveranno compimento solo nel 1605. Nel 1609 gli Eletti
mostrano l’intenzione di affidare a Palma la commissione della pala dell’Annunciazione, prevista per l’altare maggiore,
ma, nonostante l’approvazione del relativo disegno inviato da Jacopo, quest’opera viene ufficialmente commissionata
solo nell’anno 1627; verrà poi conclusa, e posta sull’altare privilegiato solo nel gennaio 1629. Nell’anno 1604, Palma
riceve i denari relativi al saldo del Martirio di S. Teonisto e dei diaconi Tabra e Tabratha, un opera pensata
originariamente per l’altare maggiore della chiesa di S. Teonisto a Treviso, ed ora conservata in San Vincenzo Martire, a
Brusuglio, presso Varese, gli vengono anche versati i quattrini per la Conversione di S. Paolo, dipinta per la chiesa di S.
32 S. MASON RINALDI, Palma il Giovane. L’opera completa, Milano 1984.
33 M. RICCIONI, Una riforma nella pittura bresciana del Seicento. Palma il Giovane. La decorazione del coro nel duomo di Salò, Roccafranca (BS)
2008, pp. 41-59.
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Pietro a Padova; ancora, sempre nel medesimo anno, Jacopo dipinge il Battesimo di Cristo della chiesa di S. Giorgio dei
Genovesi a Palermo, e, due anni più tardi, realizza le pale raffiguranti l’Annunciazione e il Martirio di S. Giorgio,
commissionategli da alcuni membri della locale nazione genovese, per le cappelle laterali dello stesso edificio cultuale.
Se da un lato le numerose commissioni, resisi concrete non solo in ambito lagunare, documentano, la grande fortuna di
Palma, dall’altro, dimostrano la rara capacità del maestro veneziano, nel gestire rapporti e relazioni privilegiate con
tutta una serie di allievi e collaboratori, dunque rivelano l’esistenza di una bottega strutturata ed efficiente, capace di
assolvere alle diverse necessità produttive di Jacopo. Ad esempio, tra il 1601 ed il 1602, negli Stati estensi, in
particolare nel Reggiano, su commissione dell’avvocato Giovanni Battista Busana, Palma, in S. Domenico, a Reggio
Emilia, dipinge la Madonna in gloria e i Santi Raimondo da Peñafort e Sebastiano, nella stessa chiesa, nel 1603, per la
contessa Camilla Ruggeri Brami, crea la Madonna in gloria e S. Giacinto, quindi, verosimilmente nel 1607,34 sempre su
commissione della medesima nobildonna, questa volta però per la nuova cappella voluta dalla dama nel duomo
cittadino, realizza il Compianto sul Cristo morto, una drammatica scena notturna rischiarata solo da due torce, un’opera
a noi nota anche attraverso il modelletto ora conservato nei Musei civici della città. Ancora, nell’anno 1608, Palma
firma e data, l’Adorazione dei magi, un dipinto ordinato, già nel 1606, dall’arte della seta per la propria cappella nella
basilica della Madonna della Ghiara, un quadro questo ora esposto presso la Galleria Estense di Modena. Inoltre, alla
fine del primo decennio del Seicento Palma colloca, nella chiesa di S. Agostino, la pala con la Madonna della Ghiara e
donatore. Altre opere ascrivibili al magistero di Jacopo, conservate in territorio reggiano, sono: il S. Giovanni Battista,
risalente al 1602, un legato di don Gerolamo Corradini alla chiesa parrocchiale di Bagno; il Crocifisso con la Madonna,
S. Giovanni e la Maddalena, dipinto per l’oratorio della Confraternita della Misericordia di Castelnuovo di Sotto, un
lavoro questo per il quale, Palma, nel 1614, riceve la caparra dal committente, Filippo Cagnolati, notaio e sindaco della
confraternita stessa; l’Assunta, risalente al 1626 circa, un’opera in origine dipinta per il convento dei cappuccini di
Reggio,35 ed ora esposta nella Pinacoteca di Brera, dove è giunta nel 1811, insieme all’Autoritratto in atto di dipingere
una Resurrezione, databile al 1580 circa. Nello stesso periodo Palma ottiene ancora numerosi incarichi nel Modenese:
risale ai primi anni del Seicento, il Martirio di S. Lorenzo, secondo la Mason Rinaldi,36 un vero e proprio omaggio a
Tiziano, un dipinto donato alla chiesa di S. Bernardino di Carpi, da monsignor Paolo Coccapani; è invece databile tra il
1610 ed il 1611 la Visitazione, un opera dipinta per la chiesa del Paradiso a Modena, ed ora esposta nella Galleria
Estense. Il linguaggio di Palma nel nuovo secolo, affatto caratterizzato da sensibili segni di rinnovamento, si mantiene
cautamente entro i limiti di una tradizione consolidata, capace di tradurre in pittura i temi portanti della Chiesa posttridentina: l’esempio dei martiri, i diversi soggetti cristologici, le pale, soprattutto di carattere devozionale, con la
Vergine ed i santi; sono questi ultimi elementi propri di una formulazione strutturata entro piani prospettici sovrapposti,
34 A.CADOPPI, J. N. detto Palma il Giovane (1548 - 1628): documenti inediti e nuove datazioni per i quadri ‘reggiani’ del pittore veneziano, in
Reggio storia, XXVII( 2005), 106, pp. 2-19.
35 M. OLIVARI, in Pinacoteca di Brera, Addenda e apparati generali, Milano 1996, p. 167.
36 S. MASON RINALDI, Palma il Giovane. L’opera completa, Milano 1984.
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caratterizzati dalla Madonna ed il Bambino in gloria, con sotto le figure dei santi dislocate su assi divergenti sullo
sfondo di un’apertura paesaggistica, destinata a ripetersi sino alla fine della carriera. Oltre alla fondamentale creazione
di opere d’arte sacra, un aspetto assai importante dell’apporto del magistero di Palma, in territorio estense, può essere
riscontrato nella produzione profana, soprattutto entro quella commissionata per la raffinata reggia di Mirandola. Nel
1608, il principe Alessandro I Pico, affida a Jacopo, qui in associazione con Sante Peranda, la decorazione di due sale
del palazzo Nuovo. Nella prima fase di questo lavoro, quella relativa alla Favola di Psiche, l’apporto del nostro è
individuabile attraverso l’analisi di un disegno preparatorio già conservato a Londra, nella collezione Rudolf,37 altri
dipinti, sempre facenti parte di questa committenza, ma ora esposti a Mantova in palazzo ducale, sono, Psiche
presentata a Giove da Venere e Psiche soccorsa da Amore; infine dell’altro ciclo, tratto dalle Metamorfosi di Ovidio,
quello relativo alle Età del mondo, si conserva l’Età del ferro, databile intorno all’anno 1609. Nel primo decennio del
Seicento Palma collabora inoltre alla realizzazione di alcune incisioni destinate a costituire parte dell’iconografia di due
importanti trattati: Il vero modo et ordine per dissegnar tutte le parti et membra del corpo humano, edito, nel 1608, a
Venezia, da Justus Sadeler, insieme al bolognese Odoardo Fialetti, e il De excellentia et nobilitate delineationis libri
duo, edito a Venezia nel 1611, per i tipi di Giacomo Franco. È significativo il valore dell’esercizio grafico nella
formazione di Palma,38 d’altra parte, egli fu un disegnatore fecondo e versatile per tutta la sua vita, i disegni a lui
attribuibili sono tali da renderlo un fenomeno singolare nella Venezia contemporanea. Almeno un migliaio sono quelli
pervenuti in fogli sparsi, oggi conservati nei musei di tutto il mondo, come anche raccolti in volumi che spesso sono
utile ausilio per la ricostruzione di dipinti perduti.39In questo senso, un’ulteriore, approfondita, ricerca archivisticodocumentale, un’ennesima puntuale ricognizione delle carte, e soprattutto dei numerosi disegni, conservati in Italia ed
all’estero, in diverse collezioni, private e pubbliche, si pensi, ad esempio, a quelli della Staatliche Graphische
Sammlung di Monaco, o ancora, si valutino gli altri oggi finiti al British Museum di Londra, o di nuovo, si considerino,
l’importante fondo del Museo Correr di Venezia, e quello, altrettanto rilevante, dell’Ashmolean Museum di Oxford,
potrebbe, forse, restituire un qualche ulteriore elemento aggiuntivo di riscontro, probabilmente, probante, al fine di
comporre un assegnazione piena del dipinto qui esaminato all’ambito del magistero del Palma. Nel primo decennio del
Seicento Jacopo conosce il poeta Giambattista Marino, giunto in visita a Venezia, per la prima volta nel 1602, in
occasione della pubblicazione delle Rime; è questa un amicizia preziosa, dimostrata da numerose lettere, una
frequentazione documentata anche da un disegno ora conservato al British Museum,40 una carta raffigurante Il poeta
Marino incoronato da Apollo e dalle Muse. Marino ricambia il nostro con un apprezzamento sincero, alcune
37 S. MASON RINALDI, Domenico Tintoretto, Palma il Giovane e Sante Peranda per il Ducato estense, in La pittura veneta negli Stati estensi, a
cura di J. BENTINI - S. MARINELLI - A. MAZZA, Modena 1996, pp. 135-161.
38 S. MASON RINALDI, Intorno a Palma il Giovane: disegni e dipinti in raccolte francesi, in Venise et Paris 1500-1700. Actes des Colloques de
Bordeaux et de Caen, …2006, a cura di M. HOCHMANN, Genève 2011, pp. 83-100.
39 S. MASON RINALDI, Palma il Giovane 1548-1628. Disegni e dipinti (catal., Venezia), Milano 1990, pp.11-29.
40 British Museum inv. n. 197* d.1, P 67, 116.
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commissioni di dipinti, ed elogiandolo nella sua celebre opera La galleria del cavalier Marino divisa in pitture e
sculture, pubblicato a Venezia nel 1620.41 Le tele commissionate dal poeta sono in predominanza afferenti a temi
profani, è una produzione questa relativamente limitata nel corpus di Palma; tra gli esempi più significativi per
sensualità raffinata e teatralità esibita, cito, la Venere e Marte della National Gallery di Londra, la Venere e Cupido nella
fucina di Vulcano, il Perseo e Andromeda, ed il Tarquinio e Lucrezia, tutti e tre oggi esposti nella Gemäldegalerie Alte
Meister di Kassel, l’Apollo e le Muse della Galleria nazionale di Parma, il Giudizio di Mida e lo Scorticamento di
Marsia attualmente conservati nell’Herzog Anton Ulrich-Museum di Braunschweig. Degni di nota, in particolare
nell’ambito del presente lavoro, sono poi le opere di Palma dipinte per diverse collezioni private. Queste tele
rappresentano spesso donne: Sante; o figure femminili desunte dalla Bibbia, è il caso della serie delle seduttrici
dell’Accademia di S. Luca a Roma, Betsabea al bagno, Susanna e i vecchioni, Sansone e Dalila, Lot e le figlie, o
ancora il caso della sequenza delle varie, Salomè con la testa del Battista, del Kunsthistorisches Museum di Vienna,
Giaele e Sisara, del Musée d’art Thomas-Henry di Cherbourg, Giuditta e Oloferne, del Louvre. A fianco di una
tradizione iconografica antica, nel caso di Sant’Elena, come vedremo, già presente in ambito veneto almeno dalla metà
del Quattrocento, già alla fine del Cinquecento infatti, anche legittimato attraverso il definirsi di tutta una serie di
comuni principi estetici derivati dal pensiero antico, si accosta, e si sviluppa, un nuovo interesse degli artisti per i temi
tratti, ad esempio, dai poemi epici dell’Ariosto, del Tasso e delle Metamorfosi di Ovidio. È questa una consuetudine
segnata da una spiccata predilezione per i personaggi femminili. Ecco dunque comparire, si veda nel merito Mina
Gregori,42 eroine come Giuditta, Lucrezia, Cleopatra, Porzia, Semiramide. All’inizio del Seicento, le opere di Palma
iniziano a popolarsi di tipologie femminili; queste tele sono, spesso, vere e proprie esegesi figurative di donne che
diverranno, a seguito della rilettura di Jacopo, archetipi iconografici. È questa una re-invenzione dell’antichità classica,
che ha radici antiche. Le donne, i cavalier, l’arme, gli amori, le cortesie, l’audaci imprese, aveva ad esempio cantato
Ludovico Ariosto nell’incipit dell’Orlando Furioso,43 ancora una volta, lo aveva già fatto nel suo primo poema epico
l’Obizzeide, 44 aveva ribadito la contaminazione, per altro già compiutamente operata dal Boiardo, tra il tema delle armi,
tipico del ciclo carolingio, ed il tema dell’amore, caratteristico del ciclo arturiano. Se l’Orlando innamorato45 fu forse la
prima, e più diretta fonte del Furioso,46 non fu certo l’unica; si pensi, per restare nell’ambito dell’epica cavalleresca, ai
41 G.B. MARINO, La galleria del cavalier Marino divisa in pitture e sculture, Venezia 1620.
42 M. GREGORI, Cantatrici, pittori eroine. Da Maria Callas a Checca Costa, un percorso personale, in Musica e Arti figurative. Rinascimento e
Novecento, a cura di M. RUFFINI e G. WOLFF, Venezia 2005, pp.144-175.
43 L. ARIOSTO, Orlando Furioso, Newtom Compton editori, 1999.
44 L. ARIOSTO. Opere minori, UTET 2013
45 M.M. BOIARDO, Orlando innamorato, Einaudi 1995.
46 L. ARIOSTO, Orlando Furioso, Newtom Compton editori, 1999
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romanzi francesi medioevali come il Palamédes ed il Tristan, paradigmatico in questo senso è Rustichello da Pisa,47 o
alle analoghe opere spagnole ed italiane, ai tanti cantari popolareschi, e naturalmente al Morgante di Luigi Pulci,48 che
segnò il ritorno della materia carolingia nella letteratura colta, o ancora al Mambriano di Cieco da Ferrara,49 o al
proseguo dell’Innamorato di Niccolò degli Agostini.50 Tra le innumerevoli fonti dell’Ariosto sono fondamentali i
classici greci e latini, Omero, Virgilio, Orazio, Catullo, Ovidio, Stazio ed Apuleio, Claudiano, Manilio e Valerio Flacco,
così come i classici volgari, Dante e Petrarca innanzi tutto, e poi Boccaccio, Poliziano, e gli umanisti del primo
Quattrocento. È un modus operandi, quello dell’Ariosto, che, tra il primo ed il terzo decennio del Cinquecento, riedita
gli antichi τοποι della traditio classica; interpreta, i tradizionali modelli letterari, fonti assai note queste, spesso tradotte
in tipi iconografici molto diffusi. Fondamento e presupposto irrinunciabile del processo creativo ariostesco, è l’ideale
umanistico dell’otium, l’idea cioè, che a partire dal Petrarca, durante il Quattrocento ed il Cinquecento si è venuta
diffondendo tra gli umanisti; una nobile aspirazione cui ogni gentiluomo si dedica nel tempo sottratto al negotium.
L’esercizio dell’otium non è l’opposto della vita reale, bensì il presupposto indispensabile perché i dati della
quotidianità, con la loro multiforme varietà e anche con la loro disperante contraddittorietà, possano comporsi in una
sintesi armoniosa che li trascende ma non li dimentica, anzi se ne nutre. In tale contesto in pieno Cinquecento, si veda la
Gerusalemme liberata di Torquato Tasso, la Città Santa, Gerusalemme appunto, è un luogo, ed un nome, strettamente
collegato ad un idea di liberazione, solo in parte coincidente con un’azione bellica; liberazione è nel XVI secolo, un
avvenimento del sentire, attuato sempre nell’intimo dell’individuo, prima che sperimentato da una collettività. Il τοποσ
della liberazione della Città Santa è in quest’epoca il luogo ove trovano spazio la traduzione di una serie di istanze di
natura interiore, intimamente connesse con la spiritualità dell’individuo. In questo senso, la narrazione Tassesca della
vicenda della liberazione di Gerusalemme, viene a coincidere con l’investigazione, e con il racconto, della crisi, delle
difficoltà e delle vicissitudini, che lo spirito incontra nel suo procedere verso il traguardo redenzionale. Ecco perché la
Gerusalemme liberata51 può essere letto come il poema del racconto della battaglia interiore dello spirito, al suo piano
di sistemazione letterale e recitativa si adattano i sistemi regolatori aristotelici, il principio dell’unità ad esempio, come
pure concorrono, fondendosi, le diverse tendenze platoniche, così come, ancora, interagiscono, le necessità affabulatorie
proprie della traditio letteraria della crux transmarina, le quali, in questo grande romanzo, procedono intessendosi ed
esplicandosi nelle istanze del tema sotteso: la narrazione della crisi dell’animo umano. Analogamente, il soggetto
dell’olio su tela qui discusso, Sant’Elena, è tema privilegiato di quel fenomeno di diffusa fortuna goduta dalle sante e
dalle eroine dell’antichità nella pittura del Seicento, è exempla di virtù eroiche e di coraggio esemplari. L’opera oggetto
47 Il romanzo arturiano di Rustichello da Pisa, Edizione critica, traduzione e commento a cura di Fabrizio Cigni, premessa di Valeria Bertolucci
Pizzorusso, Ospedaletto, Pacini ed., 1994.
48 L.PULCI, Morgante, Garzanti 1989.
49 G. RUA, il Mambriano di F. Bello, il Cieco da Ferrara I-III Torino 1926
50 N. DEAGOSTINI, M.M. BOIARDO, L’orlando Innamorato, G. Antonelli 1832.
51 T. TASSO, La Gerusalemme liberata, Rusconi, 1982.
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del presente studio ottimamente si inserisce nell’ampio catalogo dell’iconografia relativa alle sante della pittura del
Seicento, in parte rimanda ad un archetipo proprio della cultura figurativa cinquecentesca, un soggetto quest’ultimo, qui
reinterpretato anche alla luce delle istanze dell’iconografia canonica della santa, tradizionalmente legata al tema del
pellegrinaggio. Dunque, è segnatamente all’interno della rilettura dell’iconografia dell’iter hirosolymitanum, che Jacopo
trova il soggetto per questa Sant’ Elena, un olio su tela di 88x75 cm, un dipinto, certo, storicamente e culturalmente
compatibile, con il catalogo delle opere attribuibili al suo magistero. Appare utile sottolineare che intorno all’anno 1611
si collocano le sei pale con S. Giovanni Battista, S. Elena, appunto, S. Lorenzo, S. Sebastiano, Ss. Pietro e Paolo, e
l’Assunta, realizzate da Palma per le cappelle, ideate da Vincenzo Scamozzi, che con la chiesa posta sulla sommità del
colle di Monselice costituiscono il paesaggio devozionale di pellegrinaggio delle Sette Chiese, intitolate ai santi titolari
delle sette basiliche di Roma: una struttura sacrale di pellegrinaggio questa assai significativa, per la costruzione della
quale, il N.H. Pietro Duodo, aveva ottenuto, nel 1605, da Sua Santità Paolo V l’indulgenza plenaria. Per quanto
concerne la tarda produzione veneziana di Jacopo, appare utile considerare che nell’anno 1616, il maestro riceve il
saldo relativo alla grande tela raffigurante la Moltiplicazione dei pani e dei pesci, dipinta per il presbiterio dei Carmini a
Venezia, un’opera commissionata tre anni prima, nel 1613. Nello stesso anno, si veda la data iscritta sul relativo disegno
preparatorio oggi conservato al British Museum di Londra,52 Palma esegue, un’altra opera assai rilevante nell’ambito di
quelle, come vedremo, legate al tema del pellegrinaggio: il Trasporto del corpo di Santa Caterina sul monte Sinai, una
tela distrutta da un incendio nel 1977. È un soggetto questo assai eloquente, collegato alla pia pratica devozionale della
venerazione delle reliquie, non a caso facente parte del ciclo dedicato alla santa nell’omonima chiesa veneziana, un
tema ottimamente espresso nella relativa serie di dipinti che comprendeva anche S. Caterina davanti alla Vergine con il
Bambino, oggi perduta, S. Caterina battezzata dall’eremita, ora conservata nel duomo di Conegliano, e La madre di
Caterina che si consiglia per le nozze della figlia, oggi in deposito presso il palazzo Patriarcale di Venezia. Ancora, il 1°
giugno 1614 il capitolo della Scuola Grande di S. Marco incarica a Palma di preparare una pala per l’altare della sala
superiore, una committenza questa in precedenza assegnata a Domenico Tintoretto, è il Cristo in gloria con i Santi
Marco, Pietro e Paolo, l’opera è terminata entro lo stesso anno. Il 1614 è anche l’anno nel quale, per la chiesa della
Croce, Jacopo decora le portelle d’organo raffiguranti S. Bonaventura e S. Ludovico, opere queste ora conservate in S.
Alvise.53 Non mancano altre commissioni assai significative, come il telero raffigurante il Doge Marcantonio Memmo
dinnanzi alla Vergine assistito dai Santi Marco Antonio Abate, Alvise e Rocco dipinto per l’andito del Maggior
Consiglio, firmato e datato nel 1615. Nel secondo e terzo decennio del Seicento poi, aumenta la richiesta di pale d’altare
da collocare in diverse chiese, sia nei vari domini della Serenissima, penso alla Dalmazia, al S. Francesco in gloria e i
santi. Bernardino, Ludovico e Cecilia, della chiesa di S. Francesco a Zara, databile al 1625 circa, sia al di fuori di
questi, ad esempio nelle Puglie, si pensi alla Madonna in gloria e i Santi Rocco e Sebastiano, della cattedrale di
52 British Museum inv. n. 197* d.1, P 4, 11.
53 M. BISSON, Palma il Giovane: le ritrovate portelle d’organo della chiesa di S. Croce a Venezia, in Arte veneta, LXV (2008 [2009]), pp. 157-161.
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Monopoli, risalente al 1610 circa, o ancora si consideri la tela raffigurante il Compianto sul Cristo morto della
parrocchiale di Tricase, databile all’anno 1620 circa. In questo periodo le committenze proliferano, per ciò che concerne
la Toscana, si valuti il S. Benedetto tra i rovi della chiesa di S. Martino a Pisa, collocabile intorno 1619 circa,54 per
quanto riguarda la Francia si veda la Flagellazione di Cristo, del 1620 circa, dipinta per la cappella di Benoît Voisin in
St-Nizier a Lione, un dipinto ora conservato a Lione, presso il Musée des beaux-arts; è una diffusione quasi capillare
che attesta il perdurare della fortuna del maestro, nonostante il limitarsi della sua produzione in formule ormai definite.
Una certa nobiltà di impianto mantengono, la pala di S. Benedetto che riceve nella religione i fanciulli Mauro e Placido
dipinta per S. Giustina a Padova, pagata nel settembre 1618, e l’Imperatore Eraclio che porta la croce realizzata per il
duomo di Urbino, un opera questa terminata nell’agosto 1619, o ancora la Madonna in gloria e S. Ubaldo, oggi esposta
a San Paolo del Brasile, presso il Museu de arte), ed originariamente pensata per S. Ubaldo a Pesaro, una tela palesante
l’eloquente iscrizione Iacobus Palma/Palmam de robore/sumpsit/1620, ad attestazione del perdurare del legame e della
gratitudine verso i Della Rovere. È invece del 1620 la concessione del permesso di avere sepoltura nella basilica dei
Santi. Giovanni e Paolo, ove Palma, sopra la porta della sacrestia, pone eloquentemente i busti di se stesso, di Palma il
Vecchio e di Tiziano, entro un’emblematica operazione genealogica, attuata in cambio di due dipinti, la Crocifissione e
la Resurrezione.55 Tra le ultime opere del maestro ricordiamo, in quanto particolarmente significative nell’ambito del
presente studio: il S. Michele Arcangelo della cattedrale di Monopoli, datato 1625 al pari del relativo disegno
preparatorio oggi conservato a New York, presso la Morgan Library;56 il Cristo che consegna le chiavi a Pietro, una
pala destinata alla chiesa di S. Polo, per la quale, alla fine degli anni Novanta, Palma esegue altre tre tele, la
Conversione di S. Paolo, S. Antonio Abate tormentato dai demoni e S. Antonio Abate sollevato dagli angeli; la Trinità e
i Santi. Giuseppe, Francesco, Lucia e Margherita di S. Maria Assunta ad Arquà Petrarca, firmata e datata al 1626, anno
in cui egli si impegna anche a consegnare, per la Pasqua successiva, la Madonna con il Bambino in gloria e i Santi
Stefano papa, Gerolamo e Carlo Borromeo della cattedrale di Lesina; la pala con i Santi Carlo Borromeo, Francesco e
il vescovo Marin Zorzi in adorazione dell’Assunta commissionatagli nel 1627 per il duomo nuovo di Brescia. Il 1°
aprile 1627 Jacopo stende il suo testamento,57 chiede di essere sepolto nell’arca predisposta nella basilica dei Santi
Giovanni e Paolo, disponendo lasciti in favore delle due figlie, Giulia e Lucrezia, e lasciando tutto il materiale inerente
la professione al nipote Giacomo, figlio di Lucrezia. All’allievo Giacomo Alborello, destina 100 ducati, due quadri e 30
disegni, a Domenico Tintoretto lascia quattro disegni. Jacopo Palma il Giovane muore a Venezia il 17 ottobre 1628.
Appare utile considerare che il dipinto qui esaminato trova comparazione in un altro “gemello,” un olio su tela di
96,5x73,5 cm, identificabile nel lotto 253 passato in asta a Vienna nell’Alte Meister, di Dorotheum il 2 Ottobre 2002. Se
54 R.P. CIARDI, in R.P. CIARDI - R. CONTINI - G. PAPI, Pittura a Pisa tra manierismo e barocco, Pisa 1992, p. 100.
55 M. HOCHMANN, Peintres et commanditaires à Venise (1540-1628), Paris 1992, pp. 349 s..
56 Morgan Library New York inv. n. s It. 16.32.
57 R. DE MAS LATRIE, Testament et codicille de Jacques Palma le Jeune, in Gazette des beaux-arts, XXII (1867), pp. 295-299.
14
l’imponente impaginazione frontale di tipo “cinquecentesco,” unitamente al rilevante livello pittorico ed interpretativo,
di quest’ultima Sant’Elena, possono in qualche modo rendere conto dell’altisonante riferimento alla mano di Palma il
Giovane, parallelamente, la riconduzione dell’opera gemella qui presentata, necessariamente indirizzata al riscontro di
una effettiva paternità, autorizza, per il momento, unicamente, ad un equo apprezzamento di questa suggestiva
Sant’Elena, considerandola una replica, con ogni probabilità, almeno, attinente, all’ambito della scuola del maestro, ma
più probabilmente, valutandola una tela pertinente alla mano di uno degli elementi più dotati della bottega del Negretti,
rivelandola dunque opera indubbiamente caratterizzata dall’estrinsecarsi delle peculiarità tipiche dell’artista veneziano,
cioè quel suo tipico ductus pittorico generante effetti di vibrante cromatismo, nei quali, appunto, si stempera la
pomposità espositiva di questa Sant’Elena, volutamente esibita nelle sue vesti “imperiali,” dotata di diadema, ed
opportunamente fornita degli attributi canonici, la Vera Croce di Cristo, che ella processionalmente reca in mano, e la
corona di spine, quest’ultima, emblematicamente, rappresentata nelle forme del sol invictus degli imperatori romani, a
richiamo della perfetta sintonia dei modelli assunti dal figlio Costantino, nell’azione di fusione virtuosa della traditio
romana con la novitas cristiana.
Riconoscendo, dunque, nel dipinto qui esaminato, la manifestazione del riferimento, attento, dell’autore ad alcune tra le
più positive peculiarità proprie di Palma il Giovane, cioè il rapporto tangibile del dipinto con quel ductus pittorico
generatore di effetti caratterizzati da una vibrante morbidezza, tipico dell’insigne maestro veneziano, nel quale, per
altro, in quest’opera, si stempera l’iconografia canonica di questa Sant’Elena, qui, volutamente, riprodotta nella sua
duplice identità di pellegrina, e prima dama cruce-signata, dotata degli opportuni attributi della Santa, la corona di spine
e la Vera Croce di Cristo, l’assegnazione sopra formulata, condivisibile anche in relazione ad alcuni elementi
pienamente riscontrabili, relativi ad un semplice approccio operato per via stilistica, appare oggi un’aggiudicazione
legittimamente definita, in quanto, correttamente, ricondotta entro la migliore espressione della mano di uno degli
elementi più dotati della bottega del Negretti.
La giusta consegna di questo pregevole dipinto alla paternità di uno degli elementi più promettenti, tra i collaboratori di
Palma il Giovane, consente un collocamento di questo suggestivo olio su tela di 88x75 cm, nell’ambito eccellente della
pittura veneziana della prima metà del XVII secolo.
Testimone attento, della grande lectio della pittura veneta del Cinquecento, di Giorgine, di Tiziano, chiaramente assunta
attraverso il magistero del maestro Palma il Giovane, l’autore di questo dipinto, ha il grande merito di avere saputo
rivisitare gli exempla illustri dei suoi predecessori, declinandoli con uno spirito nuovo, già fervidamente aperto alle
istanze del primo Seicento.
L’opera qui presentata certo si caratterizza per il rilevantissimo livello qualitativo e l’imponente impaginazione frontale
della figura; la notevole tecnica pittorica ed interpretativa esibite dall’autore in questa Sant’Elena, si qualificano
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evidentemente, a partire dalla eccezionale capacità dell’artista, particolarmente vocato ad interpretare felicemente, i
caratteri tradizionali, formali, propri dell’iconografia della Santa.
Artista colto e raffinato, capace di imprimere alle sue tele un andamento pittorico riccamente elaborato, caratterizzato
da un sontuoso effetto visivo nel quale la lectio della grande traditio della pittura veneziana del Cinquecento, da Tiziano
a Tintoretto, è autorevolmente rielaborata attraverso modi autonomi ed immediatamente identificabili, Palma il
Giovane, si palesa, tradizionalmente, oltre che per il riscontro dei cromatismi tipici del migliore Cinquecento veneziano,
anche per la colta ed aggiornata iconografia, della quale, volendo qui limitarsi all’ambito di quella relativa a Sant’Elena,
diffusa in area veneta almeno dalla seconda metà del Quattrocento, consideriamo gli exempla celeberrimi, della
Sant’Elena dipinta da Giovanni Battista Cima, detto Cima da Conegliano, nel 1498, un olio su tavola di 40,6x32,4 cm
già conservato nelle collezioni, Kress, Knoedler’s and Agnew’s, Hason, Peyronnet Browne, oggi esposto alla National
Gallery di Washinton, di quella, di medesimo autore, ma di diversa iconografia di tipo, orientale, dipinta nella pala di
140x73cm raffigurante Sant’Elena e Costantino adoranti la Vera Croce di Cristo, della Chiesa di San Giovanni in
Bragora a Venezia, databile tra il 1501 ed il 1503, come pure di quella dipinta dal prozio, Jacopo Palma il Vecchio, una
tavola di 41,4x32,4 cm oggi conservata nella collezione Weitzner di New York, o ancora dell’altra, notissima, opera di
Paolo Veronese, una tela di 166x134 cm, ora custodita nella Pinacoteca Vaticana. Appare utile rilevare che, l’opera
oggetto del presente studio, sia nel caso si azzardi una sua problematica ascrizione al catalogo delle tele attribuibili alla
mano di Jacopo, sia che, più convenientemente, si propenda per una assegnazione, più contenuta, alla mano di uno degli
elementi più dotati della bottega del maestro, sia ancora, ci si riduca all’ambito della scuola del Negretti, questa, è
comunque, certamente, una significativa aggiunta alla lista delle opere verosimilmente riconducibili al magistero di
Jacopo Negretti detto Palma il Giovane.
Dunque un dipinto di altissimo valore storico e culturale. Un opportuno ragionamento relativo all’iconografia di questa
Sant’Elena ci porta a considerare inoltre la questione della diffusione della pia pratica devozionale del pellegrinaggio, come
noto, sviluppatasi anche in relazione all’affermarsi del culto dei Santi, e della corrispondente venerazione delle reliquie, una
pratica questa che è stata, almeno dal IV secolo d.C., elemento ordinatore per la restituzione di una relativa geografia delle
peregrinationes maiores, dei luoghi, e delle architetture ad essa legate. Il costituirsi, a partire dall’epoca costantiniana, di nuovi
centri di venerazione e di preghiera, in tutta la Cristianità, è infatti storicamente e culturalmente, strettamente connesso, alla pia
pratica religiosa dell’iter hirosolymitanum. La sosta dei pauperes presso i martyria era l’occasione per pregare sulle tombe dei
santi e dei martiri, esempio eroico di virtù cristiane. In relazione a ciò sono da leggersi gli acta martyrum; non casualmente infatti
il modello dei martyria ha informato per molti secoli l’architettura cultuale sorta, in Oriente come in Occidente, lungo i principali
itinerari di pellegrinaggio della Cristianità. Venite, saliamo sul monte del Signore,58 con queste parole, già Isaia, aveva
profetizzato un ritorno dei popoli al Padre, un pellegrinaggio ideale ed unificante verso il monte del tempio del Signore,
58 Is 2, 3.
16
aveva invitato a ritornare, come in un grandioso pellegrinaggio, al tempio di Dio, per ricevere dal Signore l’indicazione
delle sue vie e camminare sui suoi sentieri. Quella prefigurata da Isaia è un’immagine del nuovo popolo di Dio, la
Chiesa, che è pellegrina verso il suo Sposo e Signore ogni giorno della sua esistenza.59 Il tema del rapporto tra la Chiesa
pellegrina ed iter hierosolymitanum è vasto e complesso, e percorre, non solo la storia della crux transmarina, ma in
generale, la storia della Rivelazione; il pellegrinaggio, scriveva San Giovanni Paolo II nella Incarnationis Mysterium,
[…] riporta alla condizione dell’uomo che ama descrivere la propria esistenza come un cammino. Dalla nascita alla
morte, la condizione di ognuno è quella peculiare dell’homo viator. La Sacra Scrittura attesta a più riprese il valore del
mettersi in cammino per raggiungere i luoghi sacri; era tradizione che l’Israelita andasse in pellegrinaggio verso la città
dove era conservata l’arca dell’alleanza, oppure che visitasse il santuario di Betel (cfr. Gdc 20, 18) o quello di Silo, che
vide esaudita la preghiera di Anna, madre di Samuele (cfr. Sam 1, 3). Sottomettendosi volontariamente alla Legge,
anche Gesù, con Maria e Giuseppe, si fece pellegrino alla città santa di Gerusalemme (Lc 2, 41). La storia della Chiesa
è il diario vivente di un pellegrinaggio mai terminato. In cammino verso la città dei Santi Pietro e Paolo, verso la Terra
Santa, o verso gli antichi e nuovi santuari dedicati alla Vergine Maria ed ai Santi: ecco la meta di tanti fedeli che
alimentano così la loro pietà.60 […] Il pellegrinaggio è sempre stato un momento significativo nella vita dei credenti,
rivestendo nelle varie epoche espressioni culturali diverse. Esso evoca il cammino personale del credente sulle orme
del Redentore, è esercizio di ascesi operosa, di pentimento per le umane debolezze, di costante vigilanza sulla propria
fragilità, di preparazione interiore alla riforma del cuore. Mediante la veglia, il digiuno, la preghiera, il pellegrino
avanza sulla strada della perfezione cristiana sforzandosi di giungere, col sostegno della grazia di Dio, “allo stato di
uomo perfetto nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo” (Ef 4, 13).61 Secondo la Dottrina cristiana farsi
pellegrini significa andare alla ricerca di Dio: l’uomo viene da Dio e la sua vita ha senso solo se interpretata e realizzata
come un cammino di ritorno alla casa del Padre; per questo il pellegrinaggio vuole essere un segno ed un richiamo, esso
deve sempre mantenersi inserito nel contesto vitale di un autentico cammino di conversione: nel suo significato
interiore di passaggio dal male al bene, dall’uomo vecchio all’uomo nuovo, esso deve necessariamente avvenire nel
cuore prima ancora che nello spazio materiale.62 Le fonti attestano la genesi dell’iter hierosolymitanum già in epoca antica;
stando al Peri Pascha di Melitone, nel 170 d.C., il vescovo di Sardi sarebbe giunto pellegrino in Gerusalemme;63
certamente, a partire dal III secolo d.C., il pellegrinaggio diviene parte integrante delle pratiche religiose cristiane,64 alcuni
59 G. SCARABELLI, Linee di spiritualità del Sovrano Militare Ospedaliero Ordine di San Giovanni di Gerusalemme, detto di Rodi, detto di Malta,
Commissione Scientifica per gli Approfondimenti Biografici sui Santi e sui Beati del Sovrano Militare Ordine di Malta, Milano 2001.
60 GIOVANNI PAOLO II, Incarnationis Mysterium, Città del Vaticano 2000.
61 Ivi.
62 G. SCARABELLI, Linee di spiritualità del Sovrano Militare Ospedaliero Ordine di San Giovanni di Gerusalemme, detto di Rodi, detto di Malta,
cit.
63 MELITONE DA SARDI, in O. PERLER, Meliton “Peri Pascha”, in Forma Futuri, studi in onore del cardinale Michele Pellegrino, Torino 1975.
64 S. RUNCIMAN, Storia delle Crociate, Torino (I ed. 1967) 1993, vol. I, pp. 36-45.
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luoghi santi, quali la grotta della natività di Betlemme, il Monte degli Ulivi e l’orto del Getsemani, risultano, almeno dalla
seconda metà del secolo, documentata meta di pellegrinaggi: Fermiliano, vescovo di Cesarea, stando al San Girolamo del
De viris illustribus,65 presente in Terra Santa agli inizi del III secolo, è ricordato come uno dei primi pellegrini,66 ancora
San Gerolamo, nelle Epistulae,67 indica la Palestina del III secolo quale punto d’arrivo dell’iter hierosolymitanum;
Eusebio, nell’Historia ecclesiastica, riferisce di Alessandro, vescovo in Cappadocia, peregrino in Gerusalemme intorno al
210 d.C.68 Le fonti citate ci permettono di determinare, attraverso un preciso taglio sincronico, la genesi storicodocumentale del pellegrinaggio; questa pia pratica religiosa cristiana ha dunque un’origine molto antica, almeno dal III
secolo d.C., è un documentato esercizio di ascesi operosa69 che considera Gerusalemme e la Terra Santa luoghi prediletti per
l’incontro con Dio. San Girolamo, stabilitosi in Terra Santa verso la fine del IV secolo, riteneva un virtuoso atto di fede pregare
nella terra dove il Verbum caro factum est, tanto che, nella lettera XLVII,70 raccomanda al suo amico Desiderio, di visitare
la Terra Santa, spiegando come il proprio soggiorno in Palestina gli avesse permesso di meglio comprendere le Sacre
Scritture.71 Come evidenzia un’importante testimonianza documentale d’ambito girolaminiano, l’epistola di Paola ed
Eustochio a Marcella, una carta pubblicata tra le lettere del santo,72 nella propria cella di Betlemme, San Girolamo,
riceveva frequentemente folle di fedeli che in processione venivano a rendergli omaggio dopo avere pregato nei luoghi
santi.73Appare utile considerare allora, che, se da un lato, queste fonti, ottimamente, descrivono la vita all’interno del
cenobio di San Gerolamo, documentando contestualmente la finalizzazione di questa, entro un preciso percorso di
fede, dall’altro, indubitabilmente, attestano anche la diffusione della pratica devozionale del pellegrinaggio già nel
IV secolo d.C. Le considerazioni sino a qui operate, ottimamente, si accomunano nel sottendere la genesi del
pregevolissimo dipinto qui esaminato, un olio su tela di 98x75 cm, un’opera raffigurante Sant’Elena, Flavia Iulia Helena,
madre dell’Imperatore Costantino, nata intorno al 250-257 d.C., probabilmente in Bitinia. Già moglie di Costanzo
Cloro, cui diede il figlio Costantino, nato verosimilmente tra il 280 ed il 288 d.C., Elena, fervente cristiana, in seguito
alla salita al trono del figlio, si dedicò attivamente alla pratica religiosa, intorno al 326 d.C. intraprese un fondamentale
pellegrinaggio in Terra Santa, adoperandosi grandemente nella ricerca del Calvario, e delle reliquie della Passione di Cristo.
Rinvenuta la più importante di queste, la Vera Croce di Cristo, allo scopo di favorire la venerazione, di questa e di altre
65 SAN GEROLAMO, De viris illustribus, Città Nuova, Roma 2000.
66 SAN GEROLAMO, op. cit.
67 SAN GEROLAMO, Epistulae, XLVI, 9, col. 489.
68 EUSEBIO, Historia ecclesiastica.
69 GIOVANNI PAOLO II, op. cit.
70 SAN GEROLAMO, Lettere, XLVII, 2, col. 493, in J.-P. MIGNE, Patrologia Latina, 221 voll., Paris 1844-1855.
71Liber Paralipumenon, prefazione, in J.-P. MIGNE, Patrologia Latina, cit., vol. XXVIII, coll. 1325-26.
72 SAN GEROLAMO, Lettere, n. XLVI, 10, coll. 483 sgg., in J.-P. MIGNE, Patrologia Latina, cit.
73 S. RUNCIMAN, op. cit., vol. I, pp. 36-45.
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reliquie, Elena, onorata dal figlio del titolo di augusta dell’Impero, promosse la costruzione di una serie di fabbriche volte ad
ufficializzare il culto dei luoghi della vita di Cristo: la basilica della Natività a Betlemme, la chiesa dell’Ascensione sul
Monte degli Ulivi e quello che in brevissimo tempo sarebbe diventato il massimo santuario della Cristianità, la basilica del
Santo Sepolcro a Gerusalemme. Particolarmente significativo ed eloquente ai fini della discussione in atto, appare un
passaggio contenuto nella già citata epistola di Paola ed Eustochio a Marcella, documento nel quale si ritrova un
riferimento specifico all’azione processionale posta allora in essere dai pellegrini, un’azione questa evidentemente
richiamata nell’iconografia del dipinto oggetto del presente studio, nel quale Sant’Elena è appunto rappresentata,
pellegrina, in processione, in atto di portare la Croce di Cristo. Torneremo tra poco a trattare delle pratiche liturgiche
processionali in uso nel IV secolo d.C., in relazione a quanto qui introdotto, appare utile considerare, preliminarmente, che
fin dai primi secoli del Cristianesimo, Gerusalemme ed i luoghi santi della Palestina sono stati capaci di attrarre un
movimento continuo di pellegrini. All’inizio del IV secolo sembra vi fossero, nella Città Santa e nei suoi dintorni, circa
duecento monasteri ed ospizi costruiti per l’accoglienza dei pauperes.74 Le antiche vie consolari romane, per la brevità e la
sicurezza che offrivano, erano in quest’epoca frequentemente utilizzate da moltitudini di devoti viaggiatori; il concilio
di Nicea, nel 325 d.C., aveva affidato ai vescovi la funzione assistenziale, esortandoli ad istituire presso le proprie sedi,
ospizi per il ricovero dei pellegrini, dei poveri, dei mutilati e degli infermi.75 Non solo a Gerusalemme ma in tutta la
Palestina, e nelle innumerevoli città, mansiones e mutationes, disposte lungo le più importanti arterie della romanità, in
Oriente come in Occidente, erano sorti, in conseguenza delle decisioni conciliari, innumerevoli hospitales per il riposo
ed il ristoro dei pellegrini, un fatto questo che non aveva mancato di accendere una viva discussione sull’iter
hierosolymitanum.76 San Girolamo, San Gregorio di Nissa,77 Sant’Agostino78 e San Giovanni Crisostomo,79 nei loro scritti,
attestano ampiamente tale dibattito; in particolare due epistole, l’Ep. 58 di Girolamo80 e l’Ep. 2 di Gregorio di Nissa,81
quest’ultima databile tra il 381 ed il 382 d.C., documentano quali fossero gli argomenti più diffusi a sostegno di quanti
prediligevano praticare l’esercizio di un pellegrinaggio interiore.82 Il 28 ottobre 312, Flavio Valerio Costantino, al potere
dall’anno 306 d.C., aveva sconfitto Massenzio nella storica battaglia di Ponte Milvio, l’anno successivo, aveva emanato,
74 A. COURET, La Palestine sous les Empereurs grecs, Grenoble 1869, p. 212.
75 S. RUNCIMAN, op. cit., vol. I, pp. 36-45.
76 Ivi.
77 SAN GREGORIO DI NISSA, II, in J.-P. MIGNE, Patrologia Greco-Latina, Paris 1857-1866, vol. XLVI, col. 1009.
78 SANT’AGOSTINO, Lettere, LXXVIII, 3, in J.-P. MIGNE, Patrologia Latina, cit., vol. XXXIII, coll. 268-269; SANT’AGOSTINO, Contra Faustum,
XX, 21, coll. 384-385.
79 SAN GIOVANNI CRISOSTOMO, Ad Populum Antiochenum, V, 2, in J.-P. MIGNE, Patrologia Greco-Latina, cit., vol. XLIX, col. 694; SAN
GIOVANNI CRISOSTOMO, In Ephesianos, omelia VIII, 2, in J.-P. MIGNE, Patrologia Greco-Latina,, cit., vol. LXII, col. 57.
80 SAN GEROLAMO, Epistulae, LVIII, in J.-P. MIGNE, Patrologia Latina, cit.
81 GREGORIO DI NISSA, Epistole, 2, trad. it. di R. CRISCIUOLO, Napoli 1981, pp. 72 sgg.
82 A. MARAVAL, Egérie et Grégoire de Nysse. Pèlerins aux lieux saints de Palestine, in Atti del convegno internazionale sulla “Peregrinatio
Egerie”, Città di Castello 1990, pp. 315-331.
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con Licinio, il famoso rescritto noto come editto di Milano;83 come sopra ricordato, intorno al 326 d.C., Elena, madre
dell’imperatore, era partita in pellegrinaggio per la Palestina, adoperandosi grandemente nella ricerca del Calvario e delle
reliquie della Passione di Cristo, rinvenuta la più importante di queste, la Vera Croce di Cristo, allo scopo di favorire la
venerazione di questa e di altre reliquie, Elena, onorata dal figlio del titolo di augusta dell’Impero, aveva promosso la
costruzione della basilica della Natività a Betlemme, della chiesa dell’Ascensione sul Monte degli Ulivi, e della basilica del
Santo Sepolcro a Gerusalemme, fabbriche queste, volte ad ufficializzare il culto dei luoghi della vita di Cristo.84 Testimone
fedele, oltre che propugnatore dell’instauratio costantiniana,85 favorita da Elena nei luoghi dell’Antico e del Nuovo Testamento, fu
Eusebio, che conobbe a Nicea l’imperatore Costantino.86 Nella sua opera, questo autore, sintetizza i fattori interiori ed esteriori
che portarono alla grande diffusione del pellegrinaggio: nella vita Costantini,87descrive la nascita della nuova Gerusalemme, nella
Demonstratio Evangelica, auspica che i pellegrini cristiani, provenienti da tutto il mondo, si radunino sul Monte degli Ulivi per
opporsi con la loro testimonianza all’adorazione giudea del Tempio,88 nell’Onomasticon,89 un vero e proprio inventario dei luoghi
santi, compilato verso il 290 d.C.,90 sancisce la nascita, e avvia l’evoluzione, di quella geografia sacra, che da questo momento in
poi andrà costituendosi proprio in osservanza al pio desiderio, anche topografico, delle origini del Cristianesimo.91 Appare utile
rilevare che l’azione di Sant’Elena contribuì notevolmente all’affermarsi di quel culto dei santi che in breve tempo avrebbe
determinato il costituirsi di nuovi centri di venerazione e di preghiera, disseminati lungo i principali itinerari di pellegrinaggio
dell’Europa cristiana.92 Il propagarsi di tale culto fu parallelo alla diffusione del pellegrinaggio, la sosta dei pellegrini presso i
martyria era l’occasione per pregare sulle tombe dei santi, esempio eroico di virtù cristiane, che talvolta ‒ è il caso dei santi
martiri ‒ durante la loro esperienza di vita, si erano accostati alla Passione di Cristo. In relazione a ciò, a partire dal IV secolo, gli
Acta Martyrum vennero avvertiti come continuazione del Nuovo Testamento.93 Significativamente, a partire da quest’epoca,
troviamo documentata tutta una serie di esperienze di pellegrinaggio che si trasformano in testi scritti. Assai preziose
83 “Cum feliciter tam ego [quam] Constantinus Augustus quam etiam ego Licinius Augustus apud Mediolanum convenissemus atque universa quae
ad commoda et securitatem publicam pertinerent, in tractatu haberemus, haec inter cetera quae videbamus pluribus hominibus profutura, vel in
primis ordinanda esse credidimus, quibus divinitatis reverentia continebatur, ut daremus et Christianis et omnibus liberam potestatem sequendi
religionem quam quisque voluisset, quod quicquid <est> divinitatis in sede caelesti, nobis atque omnibus qui sub potestate nostra sunt constituti,
placatum ac propitium possit existere”; cfr. LATTANZIO, De mortibus persecutorum, cap. XLVIII.
84 EUSEBIO, Vita Constantini, capp. XXV-XL, in Palestine Pilgrims’s Text Society, cit., vol. I.
85 P. WALKER, Holy City. Holy Places? Christian Attitudes to Jerusalem and Holy Land in the Fourth Century, Oxford 1990.
86 T.D. BARNES, Constantine and Eusebius, Cambridge 1981, pp. 265-267.
87 EUSEBIO, Vita Constantini, cit., capp. XXV-XL.
88 EUSEBIO, Vita Constantini, 6, 18, in Eusebius Werke, a cura di I.A. HEIKEL, VI, GCS 23, 1913, p. 278.
89 T.D. BARNES, op. cit., pp. 108-109.
90 Ivi, p. 110.
91 P. MARAVAL, Lieux saints et pèlerinages d’Orient: Histoire et géographie des origines à la conquête arabe, Paris 1985, pp. 23-104.
92 A. ALONI, Viaggi e viaggiatori nell’antichità, Milano 1978.
93 A.A.R. BASTIAENSEN, A. HILTHORST, G.A.A. KORTEKAAS, A.P. ORBAN, M.N. VAN ASSENDELFT, Atti e Passioni dei Martiri, Milano
1987, pp. XII- XVI.
20
risultano le descrizioni degli itinerari di pellegrinaggio che citano città e luoghi di sosta, favorendo una restituzione
complessiva della geografia delle peregrinationes maiores e dei luoghi, e delle strutture, ad essa collegate.94 Intorno al 333
d.C., probabilmente, prima ancora che i lavori delle fabbriche costantiniane fossero conclusi, un anonimo pellegrino aquitano,
scrisse l’itinerarium a Burdigala Jerusalem usque et ab Heraclea per Aulonam et per urbem Romam Mediolanum usque,95
ossia redasse la descrizione puntuale dell’itinerario, da lui stesso percorso, per portarsi pellegrino da Bordeaux alla Città
Santa di Gerusalemme.96 Il testo, anche noto come Itinerarium Burdigalense, steso verosimilmente tra il 333 ed il 334
d.C., è il più antico cammino gerosolimitano che si conosca. Tale testimonianza è a noi pervenuta completa in tre libri
manoscritti che poco si differenziano l’uno dall’altro: il primo costituisce il Codice Parigino 4808, il secondo il Codice
Veronese 52 ed il terzo il Codice Sangallese 732. Il ms. LII veronese, conservato nella Biblioteca Capitolare di Verona,
è un codice membranaceo risalente all’VIII-IX secolo, scritto in bella grafia ed ottimamente conservato.97
L’Itinerarium, in esso minuziosamente descritto, si snoda inizialmente in Gallia, lungo la via Domizia, quindi valicate
le Alpi al Moncenisio, prosegue attraverso la Pianura padana, lungo la via Postumia, da Torino ad Aquileia, toccando fra
l’altro Milano, Bergamo, Brescia, Verona, Vicenza, Padova e Altino. Attraversato da est ad ovest il territorio friulano,
valica nuovamente le Alpi nel loro settore orientale, imbocca la valle del Danubio, piega a sud verso Costantinopoli, e
poi, passando per la penisola anatolica e la Siria, giunge a Gerusalemme. Il ritorno segue invece un percorso alternativo
che per la via Egnatia e la Macedonia porta ad Aulona (Valona), quindi attraversato l’Adriatico, tocca Hydruntum
(Otranto), proseguendo poi lungo la via Traiana e la via Appia, fino a Roma. Da qui per la via Flaminia e la via Emilia,
raggiunge Mediolanum. Un percorso di ritorno diverso prevede il rientro via mare, da Gerusalemme direttamente a Pisa
e, quindi, lungo la via Aemilia Scauri e la via Iulia Augusta, il ritorno in Gallia. Altra fondamentale testimonianza
documentale, di poco più tarda rispetto all’Itinerarium Burdigalense, è la Peregrinatio Aetheriae,98 un testo latino, forse
composto tra il 393 ed il 394 d.C.,99 ovvero la descrizione del percorso compiuto da Aetheria per giungere pellegrina
94 G. ANDREOTTI, Geografia delle peregrinationes maiores medioevali nella regione trentino tirolese, Trento 1990.
95 L’itinerario del pellegrino di Bordeaux, cit.
96 P. GEYER, Itinera Jerosolimitana Saeculi IV-IX, Vindobonae 1898.
97 Ms. LII veronese, Biblioteca Capitolare di Verona.
98 AETHERIA, Pellegrinaggio in terra santa / Egeria, trad., intr. e note a cura di P. SINISCALCO e L. SCARAMPI, Roma 1999.
99 Il complesso problema della datazione dell’opera, abbondantemente discusso dalla critica, ha ormai trovato soluzione nella concorde accettazione,
per convenzione, della seguente proposta: post quem al 363 d.C., termine fissato sulla base del passo 20, 12 dell’opera, in cui Egeria riferendosi alla
città di Nisibe non accenna ad una presenza romana perché la città è occupata esclusivamente dai Persiani e dunque il periodo deve necessariamente
essere successivo alla campagna di Giuliano in Oriente, alla sua morte nel 363, ed in particolare all’abbandono della città ai Persiani attuato dal
successore di Giuliano, l’imperatore Gioviano; ante quem al 540 in quanto il soggiorno di Egeria ad Antiochia, narrato nei passi 17, 3; 18, 1; 20, 1;
deve essere necessariamente anteriore alla distruzione della città per mano di Cosroe nel 540 d.C. Inoltre appare utile notare che i monasteri visitati da
Egeria non denunciano le trasformazioni giustinianee attuate tra il 527 ed il 557 d.C.; se dunque la peregrinatio potrebbe datarsi tra il 363 d.C. ed il
540 d.C. il fatto che Egeria non faccia alcun accenno alle atroci devastazioni dei Vandali in Gallia, Spagna ed Africa, ma anzi si rivolga alle “sorelle”
con straordinaria serenità, ha indotto il Dévos (cfr. P. DEVOS, La data du voyage d’Egérie, in Analecta Bollandiana, 85, 1967, pp. 165-194) ed il
Bagatti (cfr. B. BAGATTI, Ancora sulla data di Eteria, in Bibbia e Oriente, 10, 1968, pp. 73-75.) a propendere per la fine del IV secolo e gli inizi del
V.
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dall’Europa occidentale a Gerusalemme. A partire dal Gamurrini,100 identificata in Silvia o Silvania di Aquitania,101 una
nobildonna della Gallia, sorella o cognata di Ruffino d’Aquitania,102 l’autrice della Peregrinatio ad loca sancta103 ha trovato
nuova identità, nel 1903, ad opera del padre benedettino Dom Férotin,104 il quale avendo riscontrato alcune singolari
coincidenze tra il pellegrinaggio di Silvia e quello di Ethéria o Egeria, una pia dama, verosimilmente originaria della Galizia,
citata dall’abate Valerio, nel VII secolo,105 ha proposto l’identificazione con questa gentildonna, anche detta Eteria, Echeria,
Etheria, Heteria, Aetheria, Eitheria. Nelle carte prese in esame da Férotin, si parla delle peregrinazioni di Egeria, in Egitto,
nel deserto del Sinai ed in molti altri luoghi dell’Antico e Nuovo Testamento, dando così testimonianza, al di là degli irrisolti
enigmi dell’identità e della provenienza dell’autrice della Peregrinatio ad loca sancta, dell’importante, documentata,
relazione esistente tra il sistema stradale romano tardo-antico, gli itinerari di pellegrinaggio, la relativa costruzione di una
geografia delle peregrinationes maiores, la connessa architettura cultuale, ed il configurarsi di una vera e propria liturgia
dell’iter hierosolymitanum, elemento quest’ultimo di grande interesse e significato, soprattutto se considerato in relazione
alla fruizione dell’architettura cultuale d’età costantiniana da parte di schiere di pellegrini dei quali Eteria rappresenta un
esempio paradigmatico. Abbiamo accennato della complessa, ed ancora aperta, questione dell’identità di Eteria,
consideriamo le numerose congetture formulate dalla critica circa l’individuazione del paese di origine della gentildonna:
se il Gamurrini,106 sulla base della personale interpretazione di alcuni passi del testo,107 proponeva la Gallia,
precisamente l’Aquitania, quale paese d’origine della dama, a partire dal Férotin, la critica più recente ha messo in
discussione tale parere, attestandosi senza incertezze su di un’ipotesi eminentemente galiziana,108 supposizione questa
che sembra non trovare corrispondenza con quanto testimoniato da un passo della Peregrinatio ad loca sancta, oggi perduto,
citato però da Pietro Diacono,109 nel quale il monaco benedettino affermava: omne autem genus piscium in eodem mari sunt
tanti saporis ut pisces maris Italici.110Si evidenzia dunque l’impossibilità di determinare con precisione il paese di origine di
100 G.F. GAMURRINI, I Misteri e gli Inni di S. Ilario vescovo di Poitiers ed una “Peregrinazione” ai luoghi santi nel quarto secolo scoperti in un
antichissimo codice, in Studi e documenti di Storia e di diritto, 5, 1884, pp. 81-107.
101 J.H. BERNARD, The Pilgrimage of Silvia of Aquitania to the Holy Places circa 385 A.D. translated with introductio and notes, with an Appendix by
Colonel Sir C.W. Wilson, in Palestine Pilgrim’s Text Society, cit., 16.
102 PALLADIO, Storia Lausiaca, LV, 1.
103 G.F. GAMURRINI, op. cit.
104 M. FÉROTIN, Le véritable auteur de la “Peregrinatio” Silviae: la vierge espagnole Ethéria, in Revue des questions historiques 74, 1903, pp.
367-397.
105 M.G. RATTO, Tipologie femminili nel “diario di viaggio di Egeria”, tesi di laurea, Facoltà di Teologia dell’Italia settentrionale, sez. di Torino,
A.A. 1990-1991, pp. 3-8.
106 G.F. GAMURRINI, op. cit.
107 EGERIA, Pellegrinaggio in Terra Santa, trad., introd. e note a cura di P. SINISCALCO e L. SCARAMPI, Roma 1985, 18, 2.
108 M. FÉROTIN, op. cit., pp. 367-397; M.G. RATTO, op. cit.
109 PIETRO DIACONO, Liber de locis sanctis, in Itineraria et alia geographica, CCL 175, Turnhout 1958, pp. 93-103.
110 L. ALFANO CARANCI, L’ambiente e la personalità dell’autrice della “Peregrinatio”, in Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia
dell’Università di Napoli, 10, 1962-1963, p. 163.
22
Egeria e, pertanto, di fissare con precisione il punto di partenza del suo itinerario; la difficoltà di definire precisamente ciò
che Pietro Diacono intenda con l’espressione mare italicum mostra i limiti delle ipotesi citate, alle quali, per la verità, poco
aggiunge anche quella del Meister,111 il quale, rilevando un’osservazione di Eteria relativa al modo impetuoso con cui scorre
l’Eufrate paragonato al Rodano,112 deduce che la pia dama fosse originaria della Gallia Narbonense. In definitiva, sulla
scorta di quanto qui evidenziato, è solo possibile circoscrivere una vasta area geografica, comprendente la Spagna e la Gallia
Narbonense, limitata ad occidente dall’oceano atlantico, ed ad oriente dal Rodano. Concluse le valutazioni relative
all’identità ed alla provenienza dell’autrice della Peregrinatio ad loca sancta,113 consideriamo ancora, che il manoscritto a
noi pervenuto è una copia parziale di un antico originale, una carta risalente all’XI secolo, quasi certamente proveniente
dall’abbazia di Montecassino,114 un documento ritrovato dal Gamurrini nel 1884 nella biblioteca della Fraternità di Santa
Maria di Arezzo.115 Costituito da sole quarantaquattro pagine, ossia la parte centrale del testo originale, priva dell’inizio e
della fine, il codice contiene la descrizione di un frammento di un pellegrinaggio straordinario, sia in ordine alla lunghezza
del percorso, sia rispetto alle condizioni dei tempi e dei luoghi in cui venne compiuto. Mentre porta a termine questo
eccezionale iter hierosolymitanum, l’autrice racconta alle “sorelle” i lunghi cammini attraverso i deserti, gli incontri con i
monaci che abitavano tali solitudini, i colloqui con i vescovi delle città attraversate, le liturgie alle quali aveva assistito a
Gerusalemme, fornendoci un’insostituibile testimonianza di una peregrinatio tra le più significative del IV-V secolo. Il testo
di Egeria attesta, a differenza dell’Itinerarium Burdigalense limitato ad un’informazione essenzialmente relativa alle
distanze ed ai luoghi di sosta, l’attenzione dell’autrice, donna colta capace di spirito critico, rispetto a tutta una serie di
questioni eminentemente significative: la condizione dei santuari di Terra Santa negli anni novanta del IV secolo d.C.;
l’attestazione del pio esercizio dell’adorazione delle Sante Reliquie in questo periodo, tema quest’ultimo importantissimo
soprattutto nel contesto delle descriptiones successive; la descrizione, fondata su di una rara testimonianza diretta, della
liturgia in uso a Gerusalemme, in particolare nella Settimana Santa, intorno all’anno 393-394 d.C., elemento quest’ultimo
che rimanda direttamente alla fondamentale dimensione liturgica del pellegrinaggio, entro la quale i singoli manufatti
costituenti l’architettura religiosa legata al culto delle reliquie, acquisiscono un ruolo centrale, ed un’importanza sostanziale,
proprio in ragione della loro funzione di stazioni dell’ideale via crucis condotta dalla gens Christi verso Gerusalemme. La
Peregrinatio Aetheria è dunque assai significativa poiché pone in evidenza la dimensione liturgica del pellegrinaggio, la
condizione di esistenza fondamentale ed indispensabile dell’iter hierosolymitanum, l’essere ideale via crucis verso la
Gerusalemme celeste. L’architettura cultuale di età costantiniana è modello di quella successiva proprio in ragione dello
speciale rapporto che quest’ultima stabilisce con il modello d’Ultramare; è questa un’architettura, monumentale, nel senso
111 K. MEISTER, De itinerario Aetheriae abbatissae perperam nomini S. Silviae addicto, in Rheinisches Museum fur Philologie, NS 64 1909, pp.
337-392.
112 EGERIA, Diario di viaggio, 18.2, Milano 2006.
113 G.F. GAMURRINI, op. cit., pp. 81-107.
114 Ivi.
115 Ivi.
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etimologico del termine, capace di segnare il luogo della memoria, interpretando il concetto stesso di spazio sacro. Tale
rapporto è caratterizzato dall’insistere di questi edifici entro uno specifico percorso, non solo fisico e spaziale, ma anche
simbolico, un cammino che ha in Gerusalemme la meta irrinunciabile del pellegrinaggio, un itinerario strutturato in un
sistema articolato di edifici cultuali ed assistenziali, dispiegato tra Oriente ed Occidente, costituito da una serie di luoghi
sacri che sono anche stazioni di un’ideale via crucis verso la Città Santa di Gerusalemme, solo pallida imago di quella
celeste. Appare utile richiamare allora il rapporto che tradizionalmente, da un punto di vista liturgico, ed entro una specifica
riflessione teologica, la liturgia del pellegrinaggio instaura con l’architettura cultuale, tradizionalmente legata al modello dei
martyria. È la percezione spirituale ad informare il viaggio di Egeria: ogni qualvolta ella raggiunge una località, sosta in
ascolto della pagina biblica appropriata che diventa così, principalmente, occasione di preghiera. La Bibbia costituisce il
vero canovaccio dell’itinerario, la guida sicura del viaggio. Questa, scrive la pia dama, era sempre la nostra abitudine: tutte
le volte che potevamo arrivare ai luoghi desiderati, per prima cosa dire lì un’orazione, poi leggere il brano relativo dalla
bibbia, poi recitare un salmo adatto alla circostanza e poi di nuovo fare una preghiera.116 Si tratta di una vera e propria
liturgia di pellegrinaggio cui in alcuni casi si aggiunge la benedizione del vescovo o l’oblazione in luoghi particolarmente
significativi. Diverse sono ancora le testimonianze documentali che attestano la crescente diffusione della pratica devozionale
del pellegrinaggio in relazione al corrispondente sviluppo della venerazione delle reliquie,117 ad esempio l’Itinere di
Bertrandon de la Broquiere,118 databile al 432 d.C., gli scritti di Ennodio,119 ed ancora, tradizionalmente, quelli di San
Basilio,120 San Vittricio,121 Sant’Ambrogio122 e Prudenzio.123 Entro tale orizzonte appare utile considerare che verso la metà del
V secolo, l’imperatrice Eudossia si stabilì a Gerusalemme con una piccola corte di pii membri dell’aristocrazia bizantina; sul
modello di Sant’Elena, Eudossia favorì grandemente la ricerca delle reliquie, ponendo le basi della costituzione di quella che
diventerà la grande raccolta di Costantinopoli.124 Sull’esempio di Sant’Elena e di Eudossia, molti altri fedeli si misero in
cammino verso Gerusalemme, per pregare nella Città Santa e per venerare le Sante Reliquie; le più importanti furono
trasportate a Costantinopoli, altre raggiunsero i paesi d’origine dei santi; altre ancora cominciarono a giungere in Occidente.
Ciò determinò una nuova abbondante fioritura letteraria di genere, ad esempio: l’Historia Translationum sancti Mamantis
116 EGERIA, Diario di viaggio, cit., 10, 7, p. 36.
117 S. RUNCIMAN, op. cit., vol. I, p. 38.
118 V. FERRARIO e D. LONGHI, op. cit.
119 Magni Felicis Ennodii Opera, in F. VOGEL (a cura di), Monumenta Germaniae Historica, AA. 7, Berlin 1885.
120 SAN BASILIO, Lettera CXCVII, in J.-P. MIGNE, Patrologia Greco-Latina, cit., vol. XXXII, coll. 109-113.
121 SAN VITTRICIO, Liber de Laude Sanctorum, coll. 453-454.
122 SANT’AMBROGIO, Lettere, XXII, in J.-P. MIGNE, Patrologia Latina, cit., vol. XVI, coll. 1019 sgg.
123 PRUDENZIO, Peristephanon, VI, pp. 132, 135; C. MARCHESI, Le corone di Prudenzio, Roma 1917.
124 J.B. BURY, History of the Later Roman Empire (A.D. 395-565), vol. I, pp. 225-231; NICEFORO CALLISTO, Historia Ecclesiastica, in J.-P.
MIGNE, Patrologia Greco-latina, cit., vol. CXLVI, col. 1061.
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vel Mammetis;125 gli Annales Ordinis sancti Benedicti;126 e laVita Genovefae Virginis Parisiensis127 di Gregorio di Tours.128
Quella del pellegrinaggio è una dimensione ottimamente richiamata nel dipinto qui esaminato, qui Sant’Elena si mostra in abiti
imperiali, fornita di diadema, e dotata degli attributi canonici propri dell’iconografia della Santa: la Santa Croce, una delle più
importanti reliquie della Cristianità, che l’Augusta non casualmente reca processionalmente in mano, in riferimento allo stato del
cristiano, sempre pellegrino sulla terra, in cammino verso la Gerusalemme celeste, ed ancora, relazionata con l’esperienza
dell’iter hierosolymitanum da lei stesso intrapreso; la corona di Spine, da lei ritrovata, che la Santa porta sul capo, in segno
di condivisione piena dell’esempio della passione di Gesù. Appare allora evidente, in relazione alla disamina dell’iconografia
dell’opera oggetto del presente studio, l’importanza storica della Sant’Elena dipinta da Palma il Giovane nella pala d’altare
conservata nella terza cappella del santuario delle Sette Chiese di Monselice, la statio ad S. Crucem in Jerusalem,
rappresentante la Basilica romana di Santa Croce in Gerusalemme, l’edificio cultuale presso il Laterano, costruito sul luogo
ove sorgevano i palazzi imperiali di Elena. Si comprende cioè l’importante nesso che, a partire dall’epoca post costantiniana,
lega l’iconografia tradizionale di Sant’Elena, la diffusione della pia pratica devozionale dell’iter hirosolymitanum, e la
connessa geografia delle peregrinationes maiores, dei luoghi, e delle architetture ad essa legate, come noto, sviluppatasi
anche in relazione all’affermarsi del culto dei Santi, e della corrispondente venerazione delle reliquie. Nella Basilica romana di
Santa Croce in Gerusalemme sono infatti conservate le reliquie della Santa Croce, cioè parte della Vera Croce di Cristo, la
croce di uno dei due ladroni, la spugna imbevuta di aceto, parte della corona di spine, i chiodi della Croce, nonché il titulus
croce, le sette chiese del Santuario di Monselice, ricostruiscono, in terra veneta, la topografia delle sette basiliche romane, e
dunque una nuova geografia delle peregrinationes maiores, dei luoghi, e delle architetture ad essa legate.
125 Historia Translationum Sancti Mamantis vel Mammetis, in Acta Sanctorum Bollandiana, vol. III, pp. 441-443.
126 J. MABILLON, Annales Ordinis Sancti Benedicti, Lucca 1739-1745, vol. I, p. 481.
127 GREGORIO DI TOURS, Vita Genovefae Virginis Parisiensis, p. 226.
128GREGORIO DI TOURS, Liber in Gloria Martyrum, in J.-P. MIGNE, Patrologia Latina, cit., vol. LXXI, coll. 719-20; H. DELEHAYE, Les
Origines du culte des martyres, in Analecta Bollandiana, vol. XLIV, Bruxelles 1925.
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