Digitale o di carta ma lib(e)ro
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22 Cultura GIORNALEdelPOPOLO + SABATO 20 OTTOBRE 2012 il palchetto di GILBERTO ISELLA LA FILOSOFIA DI JEAN SOLDINI SUL SENSO DELLO STARE INSIEME Se c’è una parolina che può fungere da motivo conduttore per il nuovo saggio di Jean Soldini A testa in giù – per un’ontologia della vita in comune (prefazione di René Schérer, Mimesis, 2012), questa è la preposizione “con”. Indicatore di coesistenza in senso lato, anche prefisso designante il conoscere umano, se si presta fede all’etimologia popolare francese che vorrebbe ricondurre il termine (con-naître) al nascere-insieme. Ma il “con”, posto di fianco al “tra” (il trovarsi “tra” uomini) indica in particolare quel problematico legame tra un soggetto e l’altro su cui si fonda lo stare insieme, la comunità (tema che entra, seppure qui con tratti ben profilati, in una linea di ricerca cara a J.L.Nancy e Agamben, autori con i quali Soldini ovviamente fa i conti). Ed è appunto di vita in comune e ospitalità, basi dell’istanza politica, che si parla nel libro, dove la preoccupazione maggiore è quella di «immaginare la politica, d’immaginare uno spazio comune che sia condivisione delle eterogeneità e non si riduca a essere spazio di consenso formale con la sua cappa più o meno autoritaria». Ma a questo punto siamo già al capitolo conclusivo del saggio, forse il più accessibile al lettore comune (unitamente alle pagine dedicate a Kandinsky) mentre l’aspetto filosofico dell’argomento vien trattato nelle parti precedenti sul filo di una riflessione teorica rigorosa, difficilmente riassumibile in questa sede. Eviterò dunque, e mi dispiace, di prendere di petto i gangli concettuali del discorso, proprio per non banalizzarne la portata. Teniamo presente che l’impianto scelto è di natura LUGANO “ La politica è in primo luogo la formazione e lo sviluppo di un sapersi servire responsabile; è l’amministrazione della casa, di ciò di cui ci si sa servire, oikonomia in vista della prosperità collettiva. È l’amministrazione di quell’uno-e-molteplice, privato-pubblico che è l’oikos-teatro in cui gli altri sono ospiti nella nostra luce, mentre siamo necessariamente ospitati da altri godendo di un anomico, ontologico diritto e stato di visita, di un reciproco e delicato servirsi e sapersi servire dell’altro. Quanto abbiamo fatto emergere deve nondimeno essere pensato in relazione al sistema produttivo odierno, a un clima di iperdivisione del lavoro dove, per esempio, vi sono sempre più imprese che agiscono limitandosi agli aspetti legati alla concezione, mentre produzione, distribuzione, marketing, pubblicità sono affidati ad altri. La copertina del saggio. ontologica, supportato da una logica e da una terminologia peculiari, vedi le locuzioni «salto dell’ente sul proprio nulla», «lasciar-essere-il-lasciar-essere», o espressioni del tipo «l’intimità con l’esistente è resistenza a un orizzonte già deciso». Come tradurre ciò in parole povere? Preferisco distanziarmi dalla lettera, cioè dal tessuto vivo del testo in tutte le emergenze e curvature di pensiero – dove le metafore fisico-geometriche e i riferimenti all’arte visiva rivestono un ruolo importante – per tentare di segnalarne, molto alla buona, lo spirito e le intenzioni di fondo che lo pervadono. Mi sembra che la questione da cui tutto discende sia questa: l’essere non è ipòstasi (ossia sostanza una e invariabile) ma un essere sempre in relazione-con, votato inoltre a una sorta di compiuta incompiutezza. Per fare un esempio, noi uomini – l’idea l’aveva anticipata Deleuze, ma su premesse diverse – siamo noi e il nostro paesaggio: «Non siamo senza aria, senza terra, senza alberi, senza altri uomini. È ovvio. Eppure non riusciamo veramente a pensare l’essere come un divenire-con-altro, l’essere come con, un con costitutivo d’ogni cosa». Questo ci porta immediatamente al tema della molteplicità e della moltitudine, alle innumerevoli dinamiche che vi sono implicate fino al «divenire a-personale», situazione che risalta in particolare quando il creatore “devolve” il proprio sé all’opera d’arte. Ci muoviamo su una scena teatrale complessa, dove il singolo si sdoppia, si maschera e sperimenta la distanza, attore e spettatore in un continuo esercizio di riconoscimento e autospossessamento. E proprio su questa scena il soggetto incontra l’altro e fa esperienza dell’ospitalità: «Il rapporto tra uomo e uomo è quello tra attore e attore, tra persona e persona ognuna sulla pro- pria scena. L’ospitalità è in quest’ottica centrale sullo sfondo di un imprescindibile diritto di visita». Distanza e prossimità (l’una coinvolta nell’altra) sono le dimensioni inconciliabili ma necessarie perché l’ospitalità possa dirsi tale. Soldini, accennando tra le righe alla drammatica casistica di intolleranza e razzismo che sta sotto i nostri occhi, non nasconde gli inganni, i pregiudizi e i pericoli insiti in questo stato di cose. Così come, nel capitolo conclusivo “Tra” gli uomini: oikos e politica, non nutre illusioni sulla libertà di movimento e le facoltà di scelta di cui dispone l’uomo contemporaneo, in una società dominata dal lavoro spersonalizzante e dalla mercificazione. Ci sono, certo, occasioni di fuoruscita dal sistema. Le troviamo nella creazione artistica, così come in specifici gesti pietosi e spericolati, quello ad esempio di Domenica Tarroni, che «andò da sola a tirare giù dagli alberi» tre partigiani impiccati dai fascisti. Sono i «colpi di sonda", gli effetti di un conatus: microerranze, quel cadere «a testa in giù» che dà il titolo al libro. Alla Biblioteca Salita dei Frati una serie di incontri sul tema L’influsso esercitato dalla Bibbia sulle letterature europee Continua il ciclo di incontri biblici dedicati al tema “Bibbia e letteratura”, organizzato dall’Associazione Biblioteca Salita dei Frati a Lugano. Lo scopo di questo evento è di affrontare un tema di grande importanza storica: l’influsso costantemente esercitato dalla Bibbia nel corso dei secoli (dal Medioevo all’Età moderna e contemporanea). La Scrittura infatti, indipendentemente da come la si interpreta, si può definire “il grande codice” della letteratura occidentale, per citare il celebre titolo di Northrop Frye. Il ciclo si è inaugurato con una lezione introduttiva di Piero Stafani, noto studioso di ebraismo ed insigne biblista e uno dei principali animatori del dialogo cristiano-ebraico, che ha illustrato le innumerevoli “ri-scritture” della Bib- bia.Il secondo appuntamento è fissato per martedì 23 ottobre alle 20.30 con Pietro Boitani, socio dell’Accademia dei Lincei, della British Academy e della Medieval Academy of America è anche titolare di Letterature Comparate alla Sapienza di Roma e all’Università della Svizzera italiana di Lugano. Boitani analizzerà la tetralogia Giuseppe e i suoi fratelli (19331943) di Thomas Mann. Si tratta di una “ri-scrittura” enormemente amplificata rispetto all’originale, nella vicenda narrata nel Libro biblico della Genesi. In verità, la tetralogia, pur concentrata sui fatti di Giuseppe e dei suoi fratelli, ripercorre tutta la storia dei patriarchi e la straordinaria avventura del monoteismo cioè la scoperta, il riconoscimento e l’invenzione del Dio unico e solo. Giovedì 8 no- vembre, sempre alle 20.30, Adalberto Mainardi, monaco di Bose, mostrerà la stretta dipendenza da fondi bibliche in alcuni passi di tre opere di Dostoevskij: L’idiota (1868-69), I Demoni (1870-72) e I fratelli Karamazov (1879-80). La serata s’intitolerà L’evangelo come parabola nei romanzi di Dostoevskij. Il ciclo si concluderà giovedì 22 novembre con Il mistero di Natale. Sartre mette in scena il racconto biblico dell’Annunciazione. La relatrice del tema sarà Gabriella Farina, Professoressa di Storia della filosofia alla Facoltà di Scienze della Formazione a Roma, e presenterà una singolare opera di Sartre: Bariona, ou le Fils du tonnerre, dramma scritto per il Natale del 1940 quando lo scrittore francese, esponente di un esistenzialismo ateo, era prigioniero La Bibbia, fulcro degli incontri. dei nazisti a Treviri. L’opera, che fu rappresentata nel campo di prigionia, può essere definita una delle più notevoli interpretazioni del Natale nella letteratura del Novecento. Per informazioni: Associazione Biblioteca Salita dei Frati a Lugano. Tel. 091/923.91.88. www.bibliotecafratilugano.ch. CONVEGNO P.E.N. Digitale o di carta ma lib(e)ro Nel suo tradizionale convegno autunnale, il P.E.N. Centro della Svizzera italiana e Retoromancia, sotto la guida di Franca Tiberto, è tornato ad occuparsi delle nuove sfide tecnologiche, in particolare dei libri digitali. Come sempre questo tipo di confronto porta ad uno schieramento opposto, da una parte, entusiasti che evidenziano le opportunità, dall’altra, inguaribili scettici quando non apertamente pessimisti che vedono nell’e-book una minaccia alla soppravvivenza della qualità cartacea. Ci sono buone ragioni per considerare il supporto digitale un valido aiuto alla conservazione e diffusione del sapere. Ne è convinto Gerardo Rigozzi che ha fatto gli onori di casa come direttore della Biblioteca cantonale di Lugano, dove si è tenuto l’incontro, sabato 13 ottobre. E dove già esiste un cospicuo archivio digitale, anche per la consultazione di giornali. Inoltre, dal 20 agosto, il Sistema bibliotecario ticinese è in grado di offrire anche una serie di e-book. Attrezzate le biblioteche occorre formare anche i bibliotecari con un master postuniversitario che dovrebbe partire nell’aprile del 2013, se sarà raggiunto il minimo di 18 iscritti (www.sbt.ti.ch/master). Proprio sul piano dell’accessibilità, della moltiplicazione e differenziazione dei contenuti senza i limiti imposti dallo spazio fisico, le biblioteche e le librerie virtuali possono diventare straordinariamente vantaggiose, come sostiene Giulio Blasi che nel 2009 ha lanciato MLOL (MedialLibraryOnLine), il primo network italiano di biblioteche digitali pubbliche. Concetto ribadito da Paolo Lucini che si occupa dello sviluppo della biblioteca digitale per il Consorzio Sistema Bibliotecario Nord Ovest. Ma è soprattutto sul fronte editoriale che si è manifestato il gioco dei contrasti, con Mario Guaraldi, primo editore on-line, il quale osserva, citando il biblico Qoèlet, che non “c’è niente di nuovo sotto il sole”: liberato dalla sua corporeità cartacea, il libro resta quello di prima, costruito con le parole e non bisogna averne paura, anche se mutano le mosse strategiche. Non la pensa così la rappresentante di un editore tradizionale come Mursia, Lorenza Sala, per cui il libro elettronico, gli incontrollabili monopoli digitali che lo commercializzano nel web sono espressione di un sistema appiattito sui numeri e sulla presunta tipologia del consumatore, sono un attentato alla libertà di scelta e alla “bibliodiversità”. Facilità di vendere, possibilità di autopubblicarsi, senza passare dal filtro editoriale... E i lettori? Diminuiscono, almeno in Italia. Del resto, come ha dimostrato la ricerca che Monica Landoni (Senior researcher presso la facoltà d’informatica dell’USI) ha condotto su un gruppo di bambini, lo strumento digitale porta ad aumentare l’indice di lettura in chi è già un forte lettore, per cui un modo di leggere non esclude l’altro. In ogni caso, cartacei o digitali, occorre non perdere di vista qualità, creatività e anche il designer se si vuole rendere i libri degli strumenti stimolanti e accattivanti di conoscenza e (MAN.C.) fantasia. d i m m i u n l i b ro di MICHELE FAZIOLI AMARI RITRATTI DI UNO SCRITTORE SNOB È di Vanni Bianconi, critico, traduttore e poeta ticinese, la traduzione in italiano degli ultimi due volumi che Adelphi ha dedicato a W. Somerset Maugham. Si tratta di due raccolte di racconti, la più recente è Storie ciniche, uscita quest’anno, mentre Honolulu è di due anni fa. Maugham è scrittore vero, pur nel gioco un po’ snobistico delle sue raffinatezze, di una sua aristocrazia sociale trasudata in pagina. Medico e scrittore, protagonista della vita sociale del bel mondo britannico, con una giovinezza nell’800 e una maturità nel ’900 (1874-1965), Maugham con i suoi libri divenne celebre e ricchissimo. Da giovane era stato medico nelle colonie: da quell’esperienza nacquero alcuni dei suoi maggiori racconti (parte dei quali raccolti in Honolulu) e soprattutto il bellissimo romanzo Il velo dipinto (da leggere). Fu anche conoscitore attento, complice ma anche impietosamente critico del mondo ricco e viziato dell’aristocrazia in- glese. Di quest’altra esperienza parlano i racconti di Storie ciniche. La lievità formale della narrazione nulla toglie alla perspicacia psicologica e alla invenzione curiosa e sorprendente di storie amare, o divertite, o eccentriche. Ne viene fuori un ritratto di umanità di cui non si nascondono le ferite interiori, le stanchezze esistenziali, le ipocrisie ben celate sotto belletti ed eleganze verbali. Le storie coloniali sono uniche per la conoscenza profonda e non di maniera di un mondo (quello dell’Impero britannico nelle sue ultime luci) ritratto sotto una lente di elegante nostalgia da una parte ma anche, e soprattutto, di spietata indagine sociale e psicologica. Raramente i personaggi di quelle storie sono felici; ma sono sempre verissimi. Stupefacente è l’attaccamento alle forme esteriori (segno di tradizione e potere) di quella classe sociale di dirigenti coloniali e possidenti inglesi in Asia, lunatici e inappuntabili gentiluomini buttati dal destino all’altro capo del mondo. L’inglese delle colonie può ben essere confinato in un bungalow ai bordi della giungla ma state pur certi che ogni sera si cambierà minuziosamente per la cena, circondato dai silenziosi e ubbidienti boys indigeni: «Mr Warburton andò in camera, dove le sue cose erano disposte con un tale ordine che sembrava avesse al suo servizio un valletto inglese, si svestì, scese le scale diretto alla cabina da bagno e si risciacquò sotto l’acqua corrente. L’unica concessione che fece al clima fu una giacca da sera bianca; per il resto, camicia inamidata a colletto alto, calze di seta e scarpe di vernice, proprio come se andasse a pasteggiare al suo club londinese di Pall Mall». In quanto all’altro genere di racconti, Maugham eccelle nel passaggio armonioso e continuo fra la commedia, il fine humor e la sobria drammaticità delle imperfezioni morali. Scintillanti i dialoghi, come questo dello stes- so autore trovatosi a tavola a cena accanto a una amica un po’ pettegola: «Questa devo proprio raccontartela», mi disse; «penso che potrebbe tornarti utile come scrittore». «Be’, se è indispensabile… ma prima diamo un’occhiata al menu». «Ma come, non ti interessa?», disse lei, un po’ delusa. «Pensavo ti avrebbe fatto piacere». «Poteva andarmi peggio: pensa se tu avessi scritto una commedia e me la volessi leggere». «È una vicenda capitata a degli amici. È verissima». «Non è una credenziale. Una storia vera è sempre meno vera di una inventata». «Che cosa vuol dire?». «Niente, in fondo», ammisi. «Ma mi pareva che suonasse bene». Qui c’è dentro tutto l’estenuato gioco allusivo delle parole . Ma intanto Maugham ci consegna indirettamente una delle chiavi per gustare la lettura delle sue pagine: la constatazione, appunto, che una storia vera è sempre meno vera di una inventata. È il paradosso della letteratura, che mima la vita e la reinventa. W. Somerset Maugham STORIE CINICHE, HONOLULU Adelphi Le storie coloniali sono uniche per la conoscenza profonda e non di maniera di un mondo ritratto sotto una lente di elegante nostalgia da una parte ma anche di spietata indagine sociale.