La mia storia idiota - Transeuropa Edizioni

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La mia storia idiota - Transeuropa Edizioni
VIKTOR EROFFEV
La mia storia idiota
Qualche giornо fa mi è arrivata una mail di C., un’amica italiana:
sono vent’anni che ci conosciamo, auguri!
Le ho risposto con un messaggio amichevole (è amici che siamo)
e affettuosamente banale e ho pensato: «Potevo essere italiano da
vent’anni. E le ho scardinato la vita. Almeno un po’.»
I russi hanno per l’Italia un’adorazione parossistica. Persino quelli
che l’Europa non l’hanno mai amata. Tipo Gogol’. L’Italia è un alibi. Nel
cuore di un russo l’Italia esiste a prescindere dall’Europa. E il concetto
russo di bellezza combacia perfettamente con lo Stivale. Se non ami
l’Italia hai solo da vergognarti e sei uno zotico. L’Italia è l’altra faccia della
Russia, una sorta di altra faccia della Luna, per intenderci. Rispetto alla
Russia in Italia è tutto diverso, ma di una diversità che certe volte è più
nostra che mai. Non conosco un solo russo che sia felice di tornarsene
a casa, quand’è in Italia. In Italia il tempo non basta. In Italia si vorrebbe
sempre restare un giorno, una settimana, un mese in più… La Russia è
un’Italia interrupta. Un’Incompiuta.
Per vent’anni - escludendo quel paio in cui, offesa a morte, non mi
ha rivolto la parola - nelle sue mail C. non mancava di chiedermi che
tempo facesse. E ogni volta, eccezion fatta forse per luglio, ho perso la
sfida. In Italia anche il meteo è amico dell’uomo…
Di recente mi è capitato di prendere il primo aliscafo che, la mattina,
collega Capri a Napoli. Al bar di fronte alla stazione degli autobus, un
gruppo di operai con i ciglioni neri e la tuta arancione schiamazzava
convinto. Qualcuno con un bicchiere di vino da finire, qualcun altro con
il primo caffè del mattino. Qualcuno reduce dal turno di notte, qualcun
altro all’inizio della giornata di lavoro. Ho bevuto il mio caffè, ma invece
di aspettare l’autobus - stretto stretto, bidimensionale quasi - ho preso
un taxi, che ha subito imboccato la discesa. Il primo a sfilarmi accanto
è stato il ristorante “Verginiello”: con C. ci avevamo mangiato spesso,
perdendoci in chiacchiere su un ricciuto feticista indigeno. E con il
pensiero alle mutandine di pizzo della mia amica (di cui involontariamente abbassavo l’elastico), mi sono ritrovato al porto in preda a una
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pur vaga eccitazione antelucana. Ho fatto la coda alla cassa avanzando
lentamente fra altra gente normale, niente turisti. Avrei potuto sposarle,
quelle mutandine di pizzo bianco…
L’ultimo tiro, il mozzicone che finisce nel secchio e salgo a bordo.
All’inizio il cielo è un tappeto nero con migliaia di stelle e una falce
di luna imbarazzata dal suo stesso candore virginale. Poi inizia il riassetto che sempre precede l’alba. Il cielo si copre di macchie azzurre.
Che diventano laghi celesti in cui ancora scivolano le stelle. Poi l’alba
arrotola l’arazzo, come un palloncino il sole sorge nel cielo, felice e soave
come se fosse la prima volta, e guarda i gabbiani che si svegliano intorno
all’aliscafo e i visi rasserenati dei passeggeri. L’Italia ha vinto di nuovo.
Le conoscenze fra esseri umani sono sempre casuali, ma la mia con
C. lo è oltre ogni misura. Stavo scrivendo la sceneggiatura per un film
italiano. E il regista, italiano anche lui, mi aveva trovato un appartamento
a Milano, poco distante da Porta Romana. Era un tipo assurdo - massone, parvenu e socialista insieme - che pretendeva di saperla più lunga
di chiunque altro, me compreso. Opposi una breve resistenza, poi gli
diedi ragione. Lui, però, pretendeva conferme quotidiane: sua moglie
Urania era la migliore delle mogli, la sua amante croata bionda era la
migliore delle amanti, lui era il miglior regista del mondo e il nostro
sarebbe stato un film pazzesco. Quell’inverno a Milano faceva freddo
e la nebbia - fitta - si tagliava con il coltello come il formaggio. La casa
era gelida. Finivo di lavorare e mi infilavo nella vasca, ma l’acqua calda
si raffreddava in un attimo: era parsimonioso anche il boiler. Uscivo
dall’acqua che battevo i denti. Il regista mi invitava a cena per dire che
la cattedrale di San Basilio non reggeva il confronto con le cattedrali
fiorentine, che la moglie Urania voleva aiutarmi a scrivere la sceneggiatura (anzi, che erano le stelle a volerlo) e che il Cremlino era un’idea
degli italiani. Non lo contraddissi quanto al Cremlino, opposi un “niet”
categorico a Urania (maniaca dell’astrologia) e pur dispiacendomi per
San Basilio il mio affetto restò muto, consentendomi di scampare a
lunghe discussioni.
Un bel giorno scoprii che il mio regista non amava granché il caos
di un’Italia che aveva ancora fresco il ricordo degli anni di piombo, e
che per questo lavorava alla Radio svizzera, a Lugano. La Svizzera era il
meglio! Di nuovo, non osai contraddirlo. Mi ci portò anche, in Svizzera,
e illegalmente: al confine avrei dovuto fingermi italiano, ma nessuno mi
degnò d’uno sguardo. A Lugano registrammo una prima puntata sulla
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nostra sceneggiatura, a cui il mio regista propose che ne seguissero altre
trenta. La radio non disse di no e prese tempo. Compiaciuti per i futuri
introiti, ci infilammo nell’ascensore, dove trovammo un giornalista italiano che mi aveva intervistato tempo prima. E che ignorò il “mio” regista
invitandomi a cena da lui, a Milano. Con annessa qualche signorina
simpatica, disse. Non mi sognai di rifiutare. Passò a prendermi il sabato
seguente. Me e la mia sinusite. Sul sedile posteriore c’era un’amica della
sua amante. La mia futura C.
C. era un ottimo partito, con un padre neurochirurgo e sindaco di
una cittadina di tutto rispetto a nord di Milano e una famiglia composta
da un discreto numero di fratelli e di attici con terrazzo.
Trovammo da subito una koinè: l’inglese. Lei era “slim and funny”.
Un po’ troppo “slim”, magari. Con un bel naso aristocratico, achmatoviano. E studi milanesi d’ottimo livello. Aveva negli occhi quello che i
francesi chiamano élan e a cui parole come “slancio, impeto” - selvagge
e sfrenate - non rendono il dovuto in eterea levità.
Porta Romana ci è testimone: osservammo con coscienza le norme
che il galateo amoroso impone alla prima notte di passione, ignorammo intenzionalmente il letto e - persa ormai la testa - ci concedemmo
all’élan sul divano.
La chiamavano tutti “dottoressa”. Ci mettemmo subito a girare
l’Italia. Per il primo viaggio C. prese il macchinone del padre, mi cedette il volante e una volta in autostrada cominciò a fare sesso con me.
Arrivammo a Roma per miracolo. Scesi dall’auto che ero un italiano
fatto. Iniziammo dai nomi più altisonanti: Roma, Firenze, Venezia. Poi
toccò alle isole. Capii così che la quiddità dell’Italia non sono i musei
e non è l’indole degli italiani, ma la composizione dell’aria. E l’aria più
italiana di tutte la respirai un giorno di fine marzo nel Chianti, vicino a
Cerbaia, nella villa di alcuni amici viticultori. Immaginate una collina
di viti ancora nude che si sgranchiscono i tralci ai blocchi di partenza
della primavera, baciate dal sole e circondate da olivi da poco ridesti e
da fiorellini di campo che sbucano un po’ da ogni dove: è questo l’élan
etereo dell’Italia.
C. mi faceva girare come una trottola. Dissi addio alla mia compostezza di nordico. Potevo saltellare su un piede solo, se me lo chiedeva,
e non ero mai sazio di sesso al volante.
L’amore per la Toscana è una delle cose più banali che ci sia. Orde di
arruffati professori tedeschi e di ricchi inglesi in pensione hanno scelto
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di attendere la morte in quei luoghi meravigliosi e si aggirano per strade
e stradine di paesi e città toscane. Stelle di Hollywood o popstar come
Sting vivono da eremiti in castelli d’altri secoli. Ombre nell’ombra,
gufi dagli occhi di brace… Francamente, e alla faccia di tutto e di tutti,
preferisco i venti aridi della Mongolia o l’Artico russo! La colpa, però,
non è solo della Toscana. L’Italia intera è spesso un incubo di banalità
in congiura, un trionfo di stereotipi sull’amore, è venerazione quasi
liturgica delle guide turistiche. Come aprirsi un varco, dunque, fra gli
arbusti sempreverdi e spinosi del banale, come ficcare proditoriamente
l’immaginario collettivo nell’immondizia e concedersi a un’Italia tutta
nostra? Alla “mia” Italia arrivai grazie a Giotto: nei meandri del mio animo lo scovai artefice - avo - delle mie stesse scoperte. Da quel momento
fu tutto più semplice. L’Italia diventò una spirale capace di incurvare
l’asse dei miei stessi pensieri.
Infoiato, logorroico, racconto a C. dell’intreccio limite fra sacro e
profano negli affreschi di Giotto.
«Se per Vermeer l’arte nasce dal nulla, con Giotto…»
«Bravo, bravissimo!» le esce di bocca di tanto in tanto, mentre finge
di ascoltarmi.
«Ferma lì!» esce di bocca a me - testa all’indietro - nella basilica superiore di Assisi, sul versante meridionale del monte Subasio. «Guarda
come la maschera sacra si fa volto per…»
«Sbrigati. Dobbiamo essere dal direttore degli Uffizi prima di sera…
Non possiamo farlo aspettare.»
Ci avventiamo sui musei come sciacalli famelici.
«Il sindaco di Capri ci aspetta alle quattro in punto. Se tardiamo
finisce che va a pescare e addio.»
«Fanculo al sindaco.»
«Smettila! Era così dispiaciuto quando ti hanno perso i bagagli, a
Napoli…»
«Fanculo ai bagagli.»
«Finiscila!»
«Non sta bene…» mi rimprovera ogni volta che, a tavola, bevo tre
bicchieri di vino invece dei due d’ordinanza.
«Sta bene eccome!» le ribatto mandando giù in un sol sorso il mio
limoncello ghiacciato.
Mi fissa come se fossi malato e posa cauta la mano premurosa e
amorevole sulla mia fronte.
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«Giotto ha varcato la soglia fra due mondi… No, il limoncello è
troppo dolce. Chiedimi una grappa!»
«Adesso ti calmi!»
Taccio.
«Mi ci porterai, a Mosca, prima o poi? Mi farai da guida?»
«Sì, certo!» le rispondo in Italiano.
«Senti come parli bene! Dimmi qualcos’altro, dai!»
«Figa!»
«Ma no!» ride lei, fino alle lacrime.
«Se ci fai caso, Giotto…»
«Basta!» e mi tappa la bocca. «Parlami di noi, piuttosto…»
In Italia ho imparato a sorridere. In Italia si è risvegliato in me un certo
interesse per i bambini, che in Italia sono sacri come le vacche in India.
Bambini? Lascia perdere, mi esortava C. Nella mia agenzia fotografica
mi tengono in gran conto, diceva, so sempre scegliere la foto giusta per
ogni giornale, insisteva, sono insostituibile… Andammo all’Elba. Dove
scoprii che Napoleone aveva trascorso l’esilio in un paradiso d’oleandri.
E mi venne voglia di imitarlo. Poi andammo a Capri. Dove scoprii che
l’esilio di Gor’kij era stato in un paradiso di pompelmi. E mi venne voglia di imitare pure lui. Poi andammo in Sicilia, e di lì a Pantelleria. E mi
venne voglia di comprare un appartamento a Palermo e un “dammuso”
sul mare. Ah, Pantelleria! Isola di tavole apparecchiate in attesa di prede
per la cena. Dove, ignari delle lotte di classe, VIP e falliti mangiano allo
stesso tavolo!
A Pantelleria ci raggiunse il regista. Il nostro sarà un film pazzesco, ripeté. E io diventerò una giornalista famosa e imparerò il russo, gli ribatté
C. Seguì un accorato confronto fra la Jaguar del regista e il macchinone
del papà-sindaco, con tanto di lite quanto ai sedili di pelle.
Le piaceva molto la tessera-stampa internazionale verde che mi
garantiva l’ingresso gratis nei musei. La teneva fra le dita come se fosse
un gioiello. Si vantava di conoscere alcuni fotografi di fama mondiale,
dal Giappone agli Stati Uniti. Le tremava il labbro quando parlava
dell’arte della fotografia come del mistero insolubile del Triangolo
delle Bermuda, e se ai ricevimenti capitava di incontrarli, quei grandi
nomi tutt’altro che altezzosi che l’avevano sfiorato, il mistero, senza
però riconoscerlo tale, lei li fissava curiosa, dritto negli occhi. Ora negli
occhi potrebbero fissare curiosi anche lei, dato che ha tenuto fede alle
sue parole, che lavora per un giornale di fama mondiale e che possiede
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pure lei una tessera verde. Ha anche imparato il russo, dunque può
leggermi senza dizionario.
Il regista fece il suo film, il film girò l’Italia per tre settimane, ma a
differenza del generalissimo Suvorov non passò mai le Alpi. La Tv russa
ogni tanto lo ripropone, e su una spiaggia del mar Nero, ad Anapa, il
regista Anatolij Vasil’ev mi ha confessato che gli piace, tanto è assurdo.
In italiano io capisco le domande dei giornalisti e me la cavo con il
macellaio, ma non vado oltre. Perché ho alzato bandiera bianca? Forse
perché l’italiano per me non è più la lingua dell’Italia, ma dell’intimità
perduta con C.
A ogni mia visita italiana C. prima mi chiedeva come stavo, poi mi
fissava perplessa: allora, ti decidi?
L’ennesima isola. Ischia non ci conquistò: litigammo nelle vasche
termali. Capri invece fu persino meglio della fama che l’aveva preceduta, soprattutto in autunno inoltrato, quando nei giorni di pioggia i
pini seminano delicatamente a terra i loro aghi rossastri e profumano,
profumano in un modo assurdo. Fu con il sottofondo di quel fruscio
d’aghi che ci ritrovammo avvinghiati accanto alla villa di Tiberio: C. mi
strofinava addosso il ventre appena pronunciato e languida, sorniona,
mi teneva per le palle. Lì decidemmo di rivederci a Capri.
Ci siamo tornati dodici volte. Ventiquattro aliscafi ci hanno portato
avanti e indietro per il Golfo di Napoli. Migliaia di gabbiani sono stati
testimoni dei nostri baci. Quattro stagioni ci hanno mostrato i loro
tesori capresi. Dodici volte nello stesso albergo, dove ogni singola volta
il responsabile riccioluto e tarchiato del mini-bar - noto feticista - le
rubava un paio di mutandine di pizzo bianco. Una mattina, dal terrazzo, lo vedemmo sotto la palma del giardino dell’hotel che le annusava
stringendole fra i palmi tremanti come la colomba della pace di Picasso,
con per sottofondo le campane della vicina Piazzetta e con C. che si
scopriva stranamente lusingata. Del fedele Fausto, feticista ricciuto di
mezza età che incanutiva sotto i nostri occhi, parlavamo spesso nelle
nostre peregrinazioni capresi o a un tavolo del “Verginiello”, poco
distante dalla stazione degli autobus e unico luogo al mondo in cui i
camerieri - tutti quanti - ci credevano marito e moglie e, porgendoci il
pesce, si informavano su eventuali gravidanze.
Anche il papà-sindaco - nonché neurochirurgo - aspettava che mi
decidessi. E aspettavano i fratelli di C. E la mia futura suocera italiana.
Se ci sposiamo - diceva C. - questa sarà la nostra casa, questo il nostro
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giardino, questo il nostro verdissimo bambù. Era bello davvero, il bambù. E mi piaceva. Tutto.
Non mi sono mai deciso. E non c’è mai stata una tredicesima volta a
Capri. Né ci sono state altre cene al “Verginiello”. Non mi sono sposato.
Perché? Perché sono un idiota.
Traduzione di Claudia Zonghetti
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