acqua calda - Creative People
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acqua calda - Creative People
ACQUA CALDA E' meglio svegliarsi per un mal di denti. O per un improvviso attacco di diarrea. In tutti e due i casi, almeno, sai perche' ti sei svegliato, e se e' abbastanza tardi, tipo le quattro del mattino, magari ti metti a guardare la TV fino a vedere il mondo che riacquista un colorito decente, fuori dalla finestra. Ma se ti svegli semplicemente perche' credi aver sentito qualcuno respirare nell'altra stanza, non c'e' vecchio film in bianco e nero con Marty Feldman che tenga. Ti svegli e basta, e non hai piu' sonno. E in quelle tre ore in meno di riposo, per quel giorno, continuerai a domandarti perche', perche' diavolo da circa 4 mesi, almeno un paio di volte la settimana, sogni qualcuno che respira cosi' forte da svegliarti. Il respiro che Alfredo sognava verso le quattro del mattino, due volte la settimana, era un respiro veloce e leggero. All'inizio poteva sembrare il respiro di una donna spaventata nel buio, che a stento contiene l'impulso di gridare aiuto. Poi, pensandoci bene, quel respiro era sempre identico a se stesso, nessuna evoluzione verso il meglio o il peggio. Non era di una persona spaventata. Era' un respiro fatto proprio cosi: veloce e lieve. I gatti hanno un respiro cosi', e, in genere, gli animali di piccola taglia. Gatti, forse topi nell'altra stanza.... In tre ore rubate all'ultima fase di sonno, puoi benissimo cercare di ammazzare il tempo analizzando il tuo incubo. C'e' chi sogna di cadere, di correre eppure di non riuscire a muoversi. Un tale che Alfredo aveva conosciuto a una riunione di condominio un anno prima, e col quale si era attardato, una sera, per via di un pettirosso incastrato nella sua canna fumaria, gli racconto' di aver sognato di essere l'addetto alla saldatura dei bulloni di carena di una nave che stava per partire. Lui era in ritardo e la nave stava gia' salpando. Allora, freneticamente cercava di saldarne il piu' possibile, ma l'acqua cominciava a filtrare dalle fessure delle pareti. In breve tempo aveva l'acqua alle caviglie. Sentiva le prime lamentele dietro la porta stagna del locale dove lavorava. E sentiva il peso della responsabilita' di tutte le persone a bordo. Aveva guardato verso il basso e aveva visto galleggiare, nell'acqua nera, mucchi sempre piu' numerosi di banconote rosse. E a quel punto si era svegliato. Avete mai fatto caso a come vi sentite quando fate un sogno talmente verosimile che vi lascia il segno per un paio di giorni? Provate a raccontarlo con tutti i particolari e il giusto pathos alla persona piu' sensibile che conoscete: il massimo che vi meritate e' un «caspita!». E' cosi: i sogni sono solo di chi li fa. E non c'e niente di speciale a sognare, con una certa ricorrenza, un respiro di un animale di piccola taglia, e a svegliarsi dopo appena un'oretta di sonno (secondo il tempo dei sogni). Magari lo racconti al tuo migliore amico e finisce li per lui, e fra una settimana di silenziose domande per te. Se pero' insisti magari il tuo migliore amico si preoccupa di sfogliare per te le pagine gialle alla voce psichiatria. E se continui, forse dovrai cercarti un altro migliore amico. Fatto sta che Alfredo non parlo' mai con nessuno del suo sogno ricorrente. Della sua sveglia . Il fatto nuovo e' che quella mattina, ancora giovane e nera, Alfredo si era svegliato ascoltando il respiro e aveva continuato ad ascoltarlo nella luce abbacinante dell'unica lampadina impolverata della sua Stanza. Immediatamente dopo essersi seduto sul letto, e aver accusato il frastuono delle molle sotto il suo culo e dell'interruttore della luce, dopo essersi abituato ai normali rumori di una casa, gli era sembrato di sentire altri due o tre respiri... Si mise a sedere sulla sponda, cercando le pantofole. Non si curo' troppo di tirarsi su i calzini: quello destro abbondava di un buon palmo oltre la punta del piede, e ne imbotti' la pantofola. Si alzo', e fece la cosa piu' importante del mondo: ando' dritto a pisciare. Entro' in bagno senza accendere la luce, accontentandosi del riverbero che proveniva dalla stanza da letto. Aprendo la porta, il rumore continuo dell'acqua che scorreva in un tubo mai riparato, divento' qualcosa di piu' del sottofondo a cui era abituato da due anni. Fra qualche ora, come ogni giorno, non ci avrebbe fatto piu' caso. Si allineo' lentamente al water, come un automobilista che rincasa a pezzi alle quattro del mattino, cercando di parcheggiare l'auto davanti casa da dietro le cataratte della stanchezza.. Poggio' la mano sinistra sul muro, altezza della faccia; mentre con la destra estraeva il tubo di scarico; piego' lentamente il gomito sinistro per posizionarsi esattamente al disopra della tazza, e nello stesso istante avvio' le pompe di sentina ... Ogni volta che si svegliava con "il colpo in canna', finche' le coperte pesanti gli rallentavano i movimenti malediceva mentalmente la sua vescica. Poi, una volta a destinazione, era proprio bello poter liberarsi di una simile zavorra, tutta insieme, senza fermarsi. Come diavolo facevano i cani a distribuirla col contagocce un po' qui, un po' la? Tiro' lo sciacquone e resto' per qualche secondo ad osservare l'operato della macchina. Svanita chissa' dove ogni traccia, anche il mozzicone annegato la sera prima, cesso' lentamente il rumore. °hhhhh - hhhhh°. Altri due respiri. O meglio sembravano, come fai a dirlo? Erano cosi' rapidi e lievi e nel tubo misterioso continuava a scrosciare acqua. Ando' nel salotto. Si lascio' andare sul divano, e nella caduta sul soffice, agguanto' con atletica noncalanche telecomando, sigarette e accendisigari. Un attimo prima che la sua schiena sprofondasse nella gommapiuma, il televisore era gia' acceso sul primo canale. Fu mentre il professor Sponsali spiegava i campi di forza nelle lezioni universitarie notturne, che gli venne in mente la soluzione: un gatto selvatico si era installato a casa sua. Probabilmente stazionava nella scarpiera del bagno, la notte, dopo aver cenato con i rimasugli della sua spazzatura. Ecco perche' da qualche mese la busta di plastica chiusa, piena di rifiuti del giorno prima, sembrava piu' leggera. Mentre pensava questa idiozia, noto' che il professor Sponsali lo guardava. Probabilmente era una pausa televisiva, per permettere a un normale studente di fisica che segue una lezione alle quattro del mattino, di annotare quanto recepito. Il fatto e' che il professore stava guardando Alfredo come si guarda un idiota. Quindi, nessun gatto selvatico consumava la siesta nella scarpiera. Improvvisamente senti' la necessita' di lavarsi la faccia. In realta' voleva tornare nel bagno e ascoltare il respiro. Oltrepasso' (non senza una punta di timore reverenziale) il professor Sponsali, usci' dal salotto e rientro' nella stanza da bagno. Davanti al lavabo, mentre faceva scorrere l'acqua calda, in attesa che si meritasse quel nome, guardo' la sua immagine nello specchio. Poi guardo' oltre la sua faccia, alle sue spalle. Penso' che se ci fosse stato qualcosa fuori posto, vedendolo riflesso nel vetro, lo avrebbe notato piu' facilmente. Lo aveva sentito dire a suo nonno paterno, moltissimi anni prima. Si sciacquo' la faccia e il sonno svani' del tutto. Nessun gatto nella scarpiera. Nessun respiro, neppure dopo aver chiuso l'acqua. Resto' per alcuni secondi a guardarsi negli occhi e a decidere se controllare la scarpiera oppure no. La voce del professore, che dal salotto parlava del «momento torcente", gli sembro' un segno divino. E decise di mettere fine alle sue angosce. Si giro' lentamente verso la scarpiera verde, con le manopoline in finto ottone, sotto la finestra. Si fermo' davanti alla scatola di compensato, allungo' le entrambe le mani a sfiorararne per un secondo la superficie superiore, dove erano poggiati un libro, una pettine e un piccolo bicchiere di vetro spesso. Poi, si accovaccio' davanti ai due piccoli sportelli, ritirando le mani davanti alla pancia, una dentro l'altra. Stava valutando la ferocia di un gatto selvatico spaventato. E si domandava quanto sarebbe stato disposto, Malachia il Sospiro Assassino, a farsi sorprendere nel sonno senza opporre resistenza. Vedeva un piccolo demonio esplodergli in faccia con unghie e denti. No, si rialzo' e, chinato, afferro' entrambe le maniglie della scarpiera. In quella posizione si sposto' verso sinistra, una posizione scomodissima, ma cosi' anche le sue parti basse sarebbero state al sicuro... Al sicuro da che? Aspettava che la stanza da bagno gli desse il via, poi guardo' la porta. Era socchiusa e il gattaccio nero (ma magari aveva delle rassicuranti chiazze bianche, magari una sul muso) avrebbe potuto scappare. Meglio cosi' forse, cosi il suo istinto avrebbe dato la precedenza alla fuga, piuttosto che alla lotta, per difendersi dal grosso e pesante scimmione in piedi, piu' vulnerabile di lui. E se fosse scappato, sarebbe andato a respirare in soggiorno. Oppure in cucina: ecco che sono le 13 e 30, Alfredo apre una nuova invitante scatoletta di chili e ne versa il contenuto in una padella con dell'olio gia' scaldato; da dietro il ripostiglio delle bottiglie Mister Gatto Nero decide che e' ora di movimentare la festa. Ed si produce nella piu' memorabile imitazione di respiro umano che gatto abbia mai eseguito. Respiro Umano? Forse era meglio circoscrivere la cattura alla piccola stanza da bagno. Ecco, ora siamo soli. lo e te, animale-gatto contro animale-uomo (Respiro Umano?). Tu hai lo scatto, le unghie e una paura sfottuta di me. lo... lo, beh, diciamo circa un milione di anni d'evoluzione e ancora sono cosi' stupido da affrontare un nemico a mani nude. Ci voleva un'arma. Un'arma abbastanza robusta per tramortire il gatto. Uccidere no, per canta'! Non era solo una questione di rimorso. Era che cosi' poche volte in vita sua aveva assistito al fenomeno della morte, che non era sicuro di aver imparato a riconoscerla. Si immaginava agguantare con una pinza la coda del gatto inerme, infilarlo in una busta di plastica e adagiarla nel bagagliaio dell'auto. Guidare per qualche isolato per cercare un cassonetto discreto e all'improvviso vedere, dallo specchietto retrovisore, la busta bianca fare un piccolo salto. E poi sentirla muovere nel bagagliaio. Non avrebbe saputo cosa fare: di riacchiappare busta e gatto e liberarsi del fardello a un lato della strada non se ne parlava proprio. Magari avrebbe aperto il bagagliaio e avrebbe atteso che la bestiaccia si fosse liberata della busta con le unghie, di sentirlo saltar giu' dal bagagliaio e correre lontano. Al che avrebbe ingranato la prima e sarebbe schizzato a razzo col bagagliaio aperto. Ma ci voleva un'arma. Abbastanza leggera perche' potesse utilizzarla sul gatto e non su una parte del proprio corpo. Questo contrattempo lo stava innervosendo sempre di piu'. Si diresse verso la porta del bagno, per andare a cercare una scopa o un bastone. Si fermo' quasi subito per prendere la piccola sediola vicino al lavandino e bloccare, con la spalliera, i due pomelli della scarpiera. Che al condannato non venisse in mente di defilarsi quando lui non c'era. In cucina non c'era un gran che. Si guardo' in giro e tutte le volte che il suo sguardo incontrava il lavello con i coltelli ficcati nel piccolo triangolo di legno, cercava di fare finta di niente coi suo istinto. No, di coltelli non se ne parla: gatto morto, busta, auto, busta che salta, attesa... Allora afferro' una scopa di saggina nell'angolo fra la lavastoviglie e il carrello porta pietanze. La osservo' e la soppeso', come un cliente di un negozio di armi che decide se acquistare quel modello di M16 da guerra usato nella Guerra Del Golfo, sotto lo sguardo immobile e orgoglioso del commesso. Decise di svitare la spazzola dal manico di legno. Dopodiche' si ritrovo' fra le mani un bastone leggero e decisamente rigido. Lo agito' come un samurai per alcuni istanti, poi si diresse di nuovo verso il bagno. Chiuse la porta alle sue spalle senza guardarla. Teneva d'occhio la scarpiera per capire se c'era stato un cambiamento. Poi si avvicino' al mobiletto, delicatamente sposto' la sediola dagli sportelli e si rimise nella posizione di partenza. Era alla sinistra del mobiletto, in piedi. Con la mano destra brandiva il bastone e con la sinistra, un po' scomodamente, afferro' la manopolina dello sportello sinistro. Era sufficiente aprire quello, perche' il mostro si proiettasse fuori, clandestino scoperto. Agito' leggermente un paio di volte il bastone. Dopo alcuni istanti spalanco' con tutta la velocita' che poteva, la porticina, pronto al peggio. Una cosa nera e pelosa sbuco' di poco dall'armadietto e si fermo' sull'uscio, come se avesse intuito che qualcuno lo aspettava. Alfredo immagino' la propria faccia inorridire, e inorridi' sul serio, a riflettere sulla rapidita' dell'animale nel reagire: aveva fatto capolino nello stesso istante in cui aveva aperto lo sportello. Tanto bastava per non esitare piu': sferro' una manganellata che avrebbe mandato al Creatore Gozzilla. L'essere, in bilico sul bordo del pavimento dell'armadietto, venne catapultato verso l'esterno, colpendo la porta chiusa e adagiandosi, rimbalzando, inerme sul tappetino davanti al lavabo. E giu' altre botte, la paura della busta era sparita e ora voleva solo uccidere. Le domande le avrebbe fatte dopo. Appena ebbe dato un sufficiente numero di randellate per calmare la sua furia, il suo cervello pian piano si riavvio' e gli fece notare che aveva appena fatto a pezzi una scarpa sinistra. Aveva colpito con tanta veemenza che la parte anteriore della suola si era scucita e scollata dalla tomaia. Sembrava un gatto morto con la bocca aperta. Alfredo si accorse che aveva il cuore a mille e il bastone di scopa non sarebbe piu' servito allo scopo originale. Doveva anche riprendere fiato, afferrare quello che rimaneva della scarpa, e riporla inutilmente nella scarpiera, sperando che non ci fossero telecamere nascoste, collegate in diretta mondiale con i televisori in tutti i bar del globo. Poi, il solo pensiero bizzarro che qualcuno avesse potuto osservarlo mentre dimostrava al box doccia e al water di essere un imbecille, gli fece venire la pelle d'oca: il piccolo mostro era alle sue spalle e lo osservava in piedi, nella scarpiera, poggiato tranquillamente a un'anta, le mani in tasca ma pronte a un sarcastico applauso lento e un'espressione di divertita finta pieta'. E probabilmente una Camel gli pendeva dal labbro inferiore. Si giro' lentamente, stringendo nuovamente con forza il bastone. Non trovo' che scarpe. Quattro paia nere sul ripiano superiore, un mocassino nero, un paio di stivali e una scatola di lucido in quello inferiore. Il professore stava facendo un'altra pausa. Magari con gli occhi in gloria, nel televisore. "hhhh'. Alfredo volto' la testa all'istante, con i peli della schiena dritti. Ora l'aveva sentito bene. Era dietro di lui. Ma dove? Dietro le sue spalle cera solo la doccia, il piccolo boiler, la porta chiusa e un piccolo asciugamani appeso a un gancio su di essa. Alla sua destra c'era il water con le fauci spalancate. Alla sua sinistra, un passo dietro di lui c'era il lavabo. Il respiro era lievissimo, ma aveva il tipico riverbero acustico della stanza da bagno, quindi era per forza in quella stanza. Nello scarico della doccia? Un animale piccolissimo, in grado di stanziare in un tubo del diametro di cinque centimetri, e di nutrirsi dei suoi capelli? Un piccolo animale con le bombole da sub. Chissa' che ne pensava il professore. Era una cosa cosi' assurda quel respiro, che qualche minuto dopo averlo sentito, gli sembro' di esserselo sognato. Il respiro del piccolo sub. Mentre trafficava goffamente con la caffettiera, gli venne in mente che la settimana prima aveva versato dell'acido nello scarico, dei tipo che si adopera per stappare gli scarichi intasati. Quindi non poteva esserci nulla di vivo la dentro, nemmeno un batterio. Forse lo scarico intasato era in qualche neurone del suo cervello. Eh? E cosi? Eh, professore? Che ne pensi? Il caffe' bolliva. Un minuto dopo il fumo grigio e odoroso saliva lentamente dalla tazzina, sul piccolo tavolo rotondo davanti al divano. II televisore acceso con l'audio al minimo trasmetteva immagini girate nella notte su certi scontri fra polizia e dimostranti in Argentina. Sassaiole contro lacrimogeni. Alfredo penso' che avrebbe fatto meglio a preparare la valigetta per il lavoro. Insegnare in una scuola media richiedeva un'insospettabile quantita' di appunti, fogli, annotazioni. E poi c'erano i compiti della settimana scorsa da riconsegnare... I ragazzini erano impegnativi. Insegnava da circa 20 anni. Aveva iniziato con le scuole serali, quando era ancora un ragazzo. Nel 1986 insegnava Letteratura ai corsi serali per adulti che volevano riguadagnarsi una certa figura quando staccavano dal lavoro e andavano a ritrovarsi al bar, insieme con i colleghi. In genere erano autisti di autobus, camerieri attempati, governanti, infermieri. C'era anche un "ferrivecchi". Uno che un tempo aveva posseduto un negozio di ferramenta, che non aveva saputo stare al passo coi tempi (cioe' non aveva mai cominciato a vendere cose di plastica anziche' di ferro, come attrezzi da giardino di plastica, amache di plastica, trapani a percussione di plastica con punte in plastica) e che era fallito nel '73. Ma invece di chiudere bottega, aveva trasformato il negozio in un deposito di metallo di ogni genere: dai fili di rame ai cavi delle antenne TV. Pentole, pistoni di motori, pezzi di montature di occhiali. Li pagava alla gente che vuotava le soffitte e li rivendeva a qualcosa in piu' alle fonderie e ai centri di riciclaggio sperimentali, che negli anni ottanta stavano nascendo come funghi porcini dopo una piovosa notte autunnale. Andava alla scuola serale dopo aver "staccato": alle 19 e 30 in punto. Non che avesse un orario da rispettare: spesso tornava al vecchio capannone pieno di ferro, dopo il corso. Ma restare aggrappato a un orario fisso, anche quando non hai piu' un vero lavoro, ti fa sentire leggerissimamente un po' piu' al sicuro. Una specie di protesta, se volete. Come quella di non voler fare il “plasticamenta” e continuare a comprare e vendere ferro. E arrugginire lentamente come il prezioso metallo. Lo chiamavano Tartaglia, ma era nato Alfonso di anni 58. Da circa due mesi, Tartaglia apriva ogni mattina la serranda di ferro del suo deposito di ferro, con le sue mani arrugginite riceveva piccoli pezzi di metallo dalla gente e in cambio dava altri piccoli pezzi di metallo, rotondi, che stanno tranquillamente in un piccolo borsellino. In fondo faceva la stessa cosa che aveva fatto per 17 anni. Ma da un paio di mesi sapeva capire dallo sguardo della signora che gli tendeva una busta di plastica piena di vecchi pentolini, se aveva letto Scritti Politici di Cesare Battisti o magari I Ragazzi Terribili di Cocteau. Alla fine del corso, durato 5 mesi, Alfredo aveva creduto di aver fatto della grande scuola, soprattutto per se stesso. Ma non aveva fatto i conti con le tempeste neuronali di un cervello che cresce. Gli adulti, meno memoria ma maggiore capacita' di organizzazione del pensiero, facevano in genere poche domande e pertinenti. Ma qualche anno dopo, nel periodo fra il 1988 e il 1989, quando aveva cominciato a fare supplenze in una scuola media era stato investito da una sassaiola di domande assolutamente fuori copione. Come "quanti anni hai", "esistevano i gatti quando eri piccolo", "ma tu davvero eri piccolo?". Sono strani, i ragazzini di quell'eta'. Nella classe di adulti poteva capire, a grandi linee, dal modo di muoversi, di utilizzare le mani, dal modo di ascoltare la propria voce, il tipo di atteggiamento verso gli altri di ognuno degli attempati studenti. Sapeva chi avrebbe votato cosa alle prossime elezioni politiche, cosa ne pensasse della riapertura delle case chiuse e chi preferiva Neil Young a Mark Murphy. Ma con i ragazzini non gli riusciva. Alla fine degli anni ottanta l'omologazione era ancora allo stadio sperimentale, e tutti quei piccoli progetti di uomini e di donne erano assolutamente allo stato brado. Potevi chiedere a qualunque di loro, il primo giorno di scuola, il suo nome e fino all'ultimo non avresti saputo cosa avrebbe risposto. Il primo mese era il panico. Poi lo smarrimento. Ma dopo un anno era fantastico! Linfa vitale. Dopo il primo anno Alfredo aveva voglia di rispondere una cosa diversa dal suo nome quando andava in municipio a rinnovare la carta d'identita'. Certo, dopo vent'anni le cose erano cambiate. Aveva visto le divise lasciare il posto ai maglioni di lana, i piu' fortunati avevano certi maglioni Gucci con i bottoni sulla spalla sinistra. Aveva visto sempre meno cartelle e sempre piu' zaini, variopinti e voluminosi. Poi un anno aveva visto sparire gli zaini variopinti e voluminosi e al loro posto, sulla schiena dei ragazzi, erano apparsi gli "Invicta". "Ce l'hai una riga da prestarmi?" "Guarda nell'Invicta". Poi l'omologazione, da sperimentale divento' sempre piu' ufficiale, fino a ricoprire tutta la scorza della vita dei ragazzi: vestiti e scarpe erano praticamente tutti della stessa marca; i ciclomotori degli studenti delle classi superiori erano tutti scooter Yamaha, dello stesso colore, allineati a decine dietro il recinto della scuola, come pedine di un domino. Solo nella scelta musicale erano ancora pervasi da un'insospettabile indipendenza mentale: non tutti andavano matti per la Techno: c'era anche chi adorava la Trance. A parte questo, era sempre entusiasmante avere a che fare con quelle piccole menti nervose. Non c'era giorno, negli ultimi 16 anni, che non fosse andato a lavoro con una punta d'impazienza. Tutto questo fino a giugno 1999. Cosa era successo? A lui nulla di particolare. Era successo a Roberto, 12 anni. Era stato bocciato! E per quanto potesse avere un significato differente per il piccolo allievo e per il suo maestro, era la prima volta per entrambi. Alfredo non aveva mai bocciato nessuno. Non si bocciano i ragazzini delle medie. Gli si fa un po' paura, verso aprile, se proprio non danno segni di aver capito che fra qualche anno potranno chiedere il rinvio al servizio militare per ragioni di studio. Ma non si bocciano. Il fatto e' che Roberto era impossibile! Ora, da un paio d'anni, sui banchi (anzi sul banco, un unico banco componibile a incastri, color avorio, che girava in mezzo alla grande aula come un grosso serpente in letargo) non c'era piu' posto per libri, quaderni e foglietti per messaggi aerei. Al loro posto c'erano una serie di tastiere e monitor di computer, collegati con un sottobosco di cavi e fili scuri, con i quali le agitatissime gambe dei ragazzini avevano imparato agilmente a convivere, molto meglio di quanto avesse potuto Alfredo. Quelli piu' svegli avevano gia' imparato a usare Internet e spesso, durante la pausa (Alfredo la ricordava coi nome di "ricreazione"), chattavano fra di loro o con persone ignote dalle altre parti del mondo. Alcuni di loro non aspettavano affatto la pausa, e durante le lezioni, ogni tanto si sentiva un "tac". La natura, eterna avversaria, sviluppa l'ingegno dell'uomo, e Laura, Marcello e Federico erano diventati dei veri assi della "digitata silenziosa". Accompagnare il tasto dolcemente fino a fine corsa, senza farlo scattare, e tuttavia mantenere una fluida conversazione elettronica richiedeva abilita'. Alfredo lo sapeva, e i primi tempi era infastidito da quella sorta di complotto silenzioso. Poi aveva capito che se alla sua eta' gli avessero dato una scatola per comunicare col mondo, non sarebbe nemmeno piu' uscito di casa. Quindi tollerava l'arte dello stenografo fantasma. Solo che ogni tanto, per poter spedire una foto o un file mp3, era necessario premere il tastone invio. E quando stai inviando un divertentissimo audio di una scoreggia di 38 secondi al tuo compagno che gia' ride sotto i baffi, l'entusiasmo e' troppo per contenere i nervi inesperti di un bimbo. E quindi ogni tanto un 'tac' era piu' che normale. Alfredo sottolineava il fatto di accorgersene alzando la voce su alcune frasi mentre leggeva alcune pagine del sussidiario. Ma come fai a sottolineare il fatto che Roberto, seduto sulla coda del serpente, in fondo all'aula, stava osservando le performance atletiche di Tabatha Cash insieme con due... no, tre! Tre ragazzi di colore? Roberto era un ragazzino che sembrava un uomo ristrettosi per essere stato immerso in acqua calda. Non aveva troppi capelli, li portava medi e un paio di ciuffi incorniciavano la parte superiore dell'ovale, dandogli un'aria di stanchezza, un'aria vissuta. Contribuivano anche quegli strani accenni di borse sotto gli occhi e lo sguardo perennemente a palpebre semichiuse. Inoltre aveva la faccia magra, la mascella si restringeva di botto sotto gli zigomi e il mento era prominente e rotondo. Era piacevole guardare quel bambino serio, che somigliava in modo inquietante a Cristopher Walken. Il famoso attore de “Il Cacciatore", non fece una piega quando Roberto, osservando per un minuto le immagini della favolosa Tabatha, e facendo scivolare lo sguardo sul suo, gli faceva capire che non va, ragazzino, io e te dobbiamo parlare. La prima cosa che Alfredo si domando' era come diavolo aveva fatto quel ragazzino a eludere la password di protezione dai siti pornografici, inserita da un tecnico di 42 anni che faceva il programmatore da quando Dio faceva ancora la pipi' a letto. Poi tutto passava in secondo piano. Conversazioni coi genitori del ragazzino. Sempre con la madre, il padre non lo aveva mai visto venire ai colloqui. Le parole dure, umilianti, di sua madre a lui. Davanti a tutti, davanti al suo maestro. Ma sempre le stesse, come un copione di una commedia, le cui battute non sarebbero cambiate alla prossima rappresentazione. E cosi' fu. Roberto guardava siti pornografici e chattava furiosamente durante tutte le lezioni. Ovviamente non apriva bocca alle interrogazioni. Ovviamente, dopo un po' non veniva piu' nemmeno interrogato. Una volta, l'anno prima, doveva essere fine maggio, la classe era quasi vuota. Era primavera inoltrata e in quei giorni si presentano solo quelli che hanno qualche dubbio sugli esami imminenti. E chi non si vuole perdere le ultime chat della stagione. Le dita di Roberto sulla tastiera erano particolarmente fragorose nella stanza assorta nel ripasso. Alfredo per un attimo perse la sua favolosa pazienza. Si alzo' rumorosamente dalla cattedra e comincio' a fare jogging in direzione di Roberto e del suo quartier generale di chiacchiere. Roberto non alzo' neppure lo sguardo. Non si capiva se era perche' non aveva intuito che era per lui che il maestro aveva abbandonato la sua lettura, agguantato gli occhiali dalla cattedra e iniziato a puntare gli occhi sulla sua zazzera, mentre si avvicinava a passo di parata militare verso la sua postazione. Oppure perche' non glie ne fregava nulla. "Adesso voglio proprio vedere con chi..." Cerco' una parola piu' adatta a un bimbo di 13 anni, di quella che vedeva stampata davanti agli occhi "...diavolo stai chattando da circa un'ora e mezza!" Non era un esperto, ma conosceva abbastanza i meccanismi delle chat da capire che per sapere quanta gente c'e' in una chat e con chi stai parlando, basta guardare la lista degli utenti in linea e individuare il nickname dell'utente dei computer che hai di fronte. Nella lista c'era un solo nome: "SecondaChance". E un mare di messaggi, ognuno iniziava col nome di chi lo spediva, un segno di "due punti' seguito, finalmente dal messaggio. SecondaChance: stavo guardando il video che mi hai detto... e' una CAGATAAAA! SecondaChance: una cagata l'hai fatta tu quando nato! SecondaChance: anche tu, minchione, pero' puoi rimediare, crepando. SecondaChance. Alfredo qualche volta aveva provato ad abbonarsi a un forum o a una chat, piu' che altro per capire come funziona tutta la cosa. Forse per evitare di farsi prendere troppo per i fondelli quando scopriva qualche tresca sui monitor dell'aula. In quella breve esperienza aveva capito, per esempio, che devi battere in fantasia tutti quelli gia' iscritti: devi trovarti un "nickname", un soprannome che nessuno abbia ancora usato. E quando con orgoglio tento' di registrarsi come un certo OzzyOsborne, scoprendo che ce l'aveva gia' qualcun altro, dovette strizzare il suo cervello per diversi minuti, prima di optare per una parola che non significava nulla, ma almeno era l'unico ad averla inventata: zapfammerbi11250. Certo pero' che Seconda Chance era proprio forte. E la cosa strana e' che, nonostante fosse semplicemente una particella idiomatica comunissima, non l'aveva pensata nessun altro che Roberto. E poi gli ricordava qualcosa. Gli era familiare. Non tanto quando la vedeva scritta sul monitor di Roberto, quanto quelle rare volte che, sottovoce, da solo, la pronunciava. Era come se l'avesse gia' sentita uscire dalla sua bocca tantissime altre volte. Per un momento ricordo' di averla anche gridata, ma non avrebbe saputo dire ne dove ne quando. Osservo' ancora per qualche minuto pagine e pagine di insulti fra due chattatori con lo stesso nome. Nessuno dei due ne aveva mai abbastanza. Nessuno dei due decideva mai di andarsene piuttosto che farsi insultare per ore. A meno che... entrambi non fossero la stessa persona. II giorno dopo, con l'aiuto del programmatore che aveva cambiato i pannolini a Dio, scopri' che era cosi': Roberto chattava da un' anno con se stesso, il piu' del tempo per lanciarsi insulti. Alfredo aveva pensato di parlare in privato coi genitori, ma aveva ricevuto soltanto frettolose e imbarazzanti risposte telefoniche dalla madre. Il direttore lo sconsiglio' di prendersi troppa pena, visto che la famiglia del ragazzino stava per trasferirsi all'estero. Cosi', per la prima volta in vent'anni, aveva bocciato qualcuno. Non aveva piu' visto Roberto, nessuna notizia ne di lui ne della madre. Finche' non lesse sui giornali che un ragazzino di 13 anni e mezzo (c'erano solo le iniziali, ma era sicuro che fosse lui) da qualche mese trasferitosi in svizzera con la famiglia, era "caduto" dalla finestra di un sesto piano, ed era deceduto un'ora dopo in un efficientissimo e profumato ospedale della Svizzera che parlava italiano. Era da quel giorno, che Alfredo aveva cominciato a pensare sempre piu' spesso a Seconda Chance. Perche'? E soprattutto un bambino di 13 anni, poteva capire il significato di quella parola? E se lo capiva che significava per lui? Era ripetente e faceva ancora la terza media invece della liceo. Era la sua seconda chance? Questo nugolo di frazioni di pensiero lo tormentavano di sera, quando rincasava da solo, da scapolo di una certa eta'. Un nomignolo da chat inizia a passare inosservato dopo la terza volta che lo leggi. Piccolo auto-elogio alla personalita' assunta per un minuto o per un'ora, passata a mostrare agli altri sconosciuti quello che saremmo voluti essere nella vita. Ma se apparteneva a un bambino di 13 anni, se questo bambino se ne va al Creatore qualche mese dopo che l'hai bocciato... e soprattutto se il suo soprannome ti suona maledettamente familiare, allora la cosa cambia. In che cosa consisteva la Seconda Chance di Roberto? E se... e se la seconda chance riguardava, invece Alfredo? Alla fine se la pose, la domanda. Che resto' senza risposta. Ma si erano fatte le 8 del mattino, e bisognava uscire. Raccolse le carte, i libri e le penne e li rinchiuse velocemente nella valigetta. Si avvio' alla porta, ma la sua vescica gli ricordo' che aveva bevuto due bicchieroni da birra pieni d'acqua fresca, almeno un'ora prima. Cosi' torno' verso il bagno con la valigetta in mano. Apri' la porta, si diresse verso il water e comincio' ad armeggiare goffamente cercando di aprire la lampo attraverso la maniglia della valigetta. Comincio' a espellere il fluido corporale quando senti'... "houfff' Dietro le sue spalle, leggermente alla sua destra, c'era un meccanico che aveva appena finito di svitare un bullone impossibile, e adesso, sudato, si era rialzato dal cofano-motore sbuffando di fatica. Alfredo si volto' con tutto il corpo, orinandosi sulle scarpe e un po' anche sulla valigetta. Il cuore cercava di darsela a gambe uscendo direttamente dal suo esofago. Non c'era nessuno. Nulla, solo l'eco dello sbuffo da fatica umana, ancora chiaramente stampato nella parte interna delle sue orecchie. Si accorse che stava stringendo la valigetta con tutta la forza che aveva nella mano sinistra. Gli faceva male. Ma il dolore svani' quando, subito dopo ricomincio' a sentire il respiro. Questa volta non era piu' tanto lieve e veloce. Era piu' adulto, forte e affaticato. Ed era molto chiaro. Come la direzione da cui veniva. Non era nello scarico della doccia, era piu' in alto, poco piu' in alto della punta della sua testa. Il respiro di un gigante invisibile. Veniva... no, impossibile! Ma d'altronde il respiro stesso era impossibile. Si avvicino' al piccolo scaldabagno appeso alla parete e percepi' il respiro chiaramente come non aveva mai notato. Era li dentro! Il respiro proveniva dall'interno dello scaldabagno. Resto' per circa un minuto immobile, con la mascella disarticolata a fissare il metallo laccato bianco del boiler. Poi, lentamente, alzo' la mano destra e poggio' il palmo sulla superficie candida. Era calda, ma in fondo era uno scaldabagno. Scosto' la mano leggermente ed esito' un'istante prima di bussare sul metallo. Lo fece, e il trasalire di spavento del tizio accovacciato li dentro, gli fece fare un balzo indietro. Ora era a circa due metri dallo scaldabagno, con la mano sinistra all'altezza del petto, che serrava la maniglia della valigetta, la bocca spalancata e la mano destra a mezz'aria, col pugno stretto dopo la "bussatina". Sembrava un comunista commosso dopo un comizio coi fiocchi. li respiro riprese, ma questa volta si alternava a dei mugolii. La sua mente vagava in un vespaio di ricordi non necessariamente legati fra di loro. E approdo' al fatto che erano le 8 e 15 e doveva andare a lavorare. Che diavolo avrebbe potuto dire? "Scusate, ma c'era un essere nello scaldabagno e volevo assicurarmi che non combinasse guai mentre sono via..." Invece, entrando nell'edificio scolastico a un passo piu' svelto di quanto le suole lisce delle scarpe gli consentissero, insieme a un nugolo di ragazzini in ritardo (sembrava il ripetente ritardatario piu' vecchio del mondo), scorse a circa quindici metri Alberto, suo amico da circa 10 anni nonche' preside dell'istituto. Con il linguaggio dei distanti Alberto lo guardo' inclinando lievemente la testa verso sinistra, afferrando con la destra il quadrante del vistoso Omega da polso in acciaio, facendolo oscillare in avanti e indietro. Alfredo gli si era avvicinato quel tanto che bastava a far sentire la sua voce senza perdere il sentiero per le scale verso il primo piano (andare a scusarsi direttamente davanti a lui sarebbe stato troppo evidente e imbarazzante per entrambi). "Il dannato catorcio ha deciso di andare in ferie, ho dovuto spingere per un chilometro..." Inventava le parole mentre uscivano dalla bocca. "C'e' il carro attrezzi per questo, Alfredo". Ribbatte' Alberto, sempre nella stessa posizione ma seguendolo con la testa. "Lo so, scusami, Alberto.". Alfredo comincio' a salire le scale e senza piu' guardarlo aggiunse: "Volevo cercare di cavarmela da solo." Il carro attrezzi. Se ti si ferma la macchina a un semaforo c'e' il carro attrezzi. Se si squarcia un tubo dell'acqua de' l'idraulico. Se ti rapinano c'e' la polizia. C'e' un farmaco per ogni male. Ma nessun governo, nessun grande statista ha mai previsto cosa deve fare un normale cittadino in caso di respiro nello scaldabagno. Un Servizio Accertamenti su Scaldabagni Vivi? SASV. Oppure un manuale ministeriale su come affrontare la morte di un alunno di 13 anni, che voleva darti una seconda chance? Eccheccazzo! A raccontarlo a uno psicologo, ti consiglierebbe di riconciliarti con tuo padre, uno psichiatra ti prescriverebbe del Remeron. Sullo scaldabagno, meglio tacere anche col tuo cane. Solo una persona, nel mondo, avrebbe potuto capirlo. Vincenzo era l'unico amico col quale, anche a distanza di migliaia di chilometri, riusciva a parlare praticamente di ogni cosa gli facesse capolino nel cervello. Avrebbe capito anche questo. Vincenzo era stato italiano fino ai 39 anni. Poi era diventato sudamericano. Faceva il barman da Zoe's, dove Alfredo, certe volte, andava a bere e ad ascoltare l'unico dj di vent'anni che conosceva Erikah Badu. Era nata cosi', la loro amicizia. Scivolando discreta e silenziosa fra le pieghe dei loro discorsi. Certe serate passavano proprio in fretta, fra i due. E spesso si ritrovavano tutti e due col bicchiere in mano, bicchieri che a volte si toccavano in onore a questo o di quello. L'ultima sera che lo vide in carne ed ossa, era marzo di tre anni prima. Era seduto al banco. Aveva una giacca nera che copriva lo sgabello sul quale era seduto. Aveva delle scarpe troppo leggere per la stagione. E portava gli occhiali. Lo aveva sempre visto senza, e a momenti non lo riconosceva. Aveva una grossa valigia poggiata vicino alle gambe. Beveva il quinto bicchiere di qualcosa di forte. "Sei in partenza?" Un sorriso accennato e morto sul nascere, piu' una leggera alzata di sopracciglia furono la risposta. Poi gli racconto' che era stato sbattuto fuori casa dalla sua ex la mattina, che non aveva un soldo e che si era licenziato dal Zoe's il pomeriggio. Si sbronzarono in due, e alle quattro del mattino, mentre Alfredo lo accompagnava alla stazione, si salutarono con un abbraccio. Dopo venne da ridere a entrambi, non seppero mai il perche'. Cosi Alfredo tiro' fuori da una tasca un biglietto del lotto, e glie lo mise nella tasca destra della sua giacca. Scoppiarono di nuovo a ridere. Quello che restava della notte la passarono cosi: Alfredo a guardare il pavimento, seduto sul bordo di un piccolo divano, col televisore acceso. E Vincenzo a viaggiare sul treno per Chissaddove. Solo che a Chissadove non ci arrivo' mai: il biglietto del lotto era vincente. Non una cifra da nababbi, ma quanto bastava per partire e realizzare il famoso progetto che Vincenzo aveva in mente da dieci anni. Mettere su un localino coi fiocchi a Porto Rico. Da quando era partito aveva avuto abbastanza fortuna da rimettere insieme la,somma che l'amico gli aveva donata, e non erano mancate le occasioni di comunicarglielo. Una serie costante di lettere e cartoline fra i due, finivano spesso in: "ps. lo e i tuoi soldi ti aspettiamo" "ps. Non posso, se non insegno non vivo" Allora Vincenzo comincio' a scrivergli che il Paese offriva possibilita' non solo ai barman col pizzetto, ma anche a insegnanti esperti coi bambini. Anche se lo scopo delle lettere non era quello, Vincenzo cercava di trascinarlo dolcemente dalla sua parte, intuiva che Roberto era come un corridore, che si allenava, si allenava, ma non si sarebbe mosso senza aver sentito lo sparo. Era l'unico uomo al quale poteva raccontare dello scaldabagno, di Seconda Chance e delle sue folli notti in compagnia del professor Sponsali. Cosi' lo fece. Gli mando' un'email di 6 pagine con la descrizione dettagliata di tutto quello che era successo, e anche di tutto cio' che aveva solo immaginato. Guardo' il monitor nell'aula vuota. Ad un tratto una folata di vento sorprendentemente forte fece schiantare la porta bianca sul battente. Alfredo trasalì' e fisso' la porta. Improvvisamente, lo shock gli fece ricomporre i tasselli di un puzzle che dormiva dimenticato sul fondo del suo cervello da piu' di 30 anni. Era un bimbo che d'estate andava ad abitare in una piccola casa di campagna, insieme con mamma, papa' e nonno. La casa era una bassa abitazione di 4 stanze con un piccolo cortile tutt'intorno. C'era una piccola verandina coperta proprio dietro la sua stanza da letto, dalla parte opposta a quella dell'uscio. Un minuscolo corridoio collegava la porta della sua stanza al bagno, sulla sinistra, alla stanza dei genitori, sulla destra e poco piu' avanti al salottino, dove la nonna riposava sul divanoletto. Le altre case della zona erano piu' o meno uguali alla sua. Solo le vernici sui muri esterni erano fantasiosamente alternate nelle cromie e nelle finiture. Cerano dei vicini. Alla sinistra per chi entrava in casa di Alfredo, c'era la casa dei Zanotti. I Zanotti erano una giovane coppia di ristoratori. Avevano un agriturismo messo su in un lotto di terreno che la signora Zanotti aveva appena ereditato dal Padre. Dato che erano agli inizi i soldi non dovevano essere proprio una montagna, fatto sta che quella non era, per loro, la casa estiva, ma semplicemente la casa. Lo potevi capire dalla meticolosita' con la quale ogni cosa aveva un ripostiglio. Per esempio esisteva, accanto alla cabinetta in cemento dell'autoclave, una piccola legnaia. Alcuni ciocchi erano superstiti dello scorso inverno, e questa era la prova inconfutabile che i Zanotti, mentre quasi tutte le altre famiglie, verso la fine di settembre chiudevano i rubinetti centrali dell'acqua e se ne andavano, loro iniziavano lavori di pulizia camino, copertura cuccia del cane e raccolta legna. I Zanotti avevano un figlio: Maurizio. La particolare complicita' che si era instaurata fra Alfredo e Maurizio era dovuta forse alla vicinanza fra le due case. Oppure al fatto che Maurizio passava gran parte del tempo libero in bici e che quindi insegnava tutto cio' che sapeva sull'argomento ad Alfredo. E poi, un giorno dell'anno prima, aveva tolto le rotelline alla piccola bici di Alfredo. E' un momento importante, quando ti levano le rotelline dalla bici. E' una specie di prima volta, di iniziazione. In genere lo fa un adulto, il papa' o il nonno. Invece fu Maurizio a farlo diventare un uomo: una bella mattina Alfredo lo vide avvicinarsi con una chiave e una pinza. Erano molto piu' grandi delle sue piccole mani sudicie e non aveva affatto l'aria minacciosa. Maurizio entro' nel cortile di Alfredo, lo fece scendere dalla bici e in silenzio si chino' dietro di essa. Comincio' ad armeggiare, mentre Alfredo, che intuiva cosa stava per fare (il nonno gli aveva preannunciato che era giunto il momento di levare le "rotelline" alla bici, che era ora che imparasse a reggersi in equilibrio) aveva uno dei suoi primi, piccoli patemi; ma non fece nulla: in fondo lo voleva. Dopo una decina di minuti ecco Maurizio in piedi, dietro la bicicletta, una mano sul sellino e l'altra penzoloni, ancora piu' sudicia di prima, che stringeva una pinza. Le rotelline erano a terra, come due scarpe da basso di un letto. E un bel sorrisone sulla faccia di Maurizio, preannunciava una grande svolta nella vita di Alfredo. Fu da quel giorno che anche lui, come tutti i bambini della zona, pote' iniziare a far parte dello Squadrone Dei Paracadutisti. Fino a quel momento Alfredo si doveva limitare a guardarli da lontano. Li seguiva con il piccolo trabiccolo con le rotelline fino a una cinquantina di metri e li vedeva fare i lanci, un po' invidioso, ma anche un po' rassegnato, Come tutti i giochi che abbiano un sapore decente era piuttosto pericoloso, roba da duri: c'era una piccola ma ripida collina, a circa un chilometro dalle case a schiera. Ci si arrivava imboccando un sentiero sterrato, e guadando un piccolo stagno che d'estate era quasi prosciugato, ma non per questo meno emozionante, col terreno cosi' viscido, che se non eri un Clay Regazzoni su due ruote, rischiavi di ritrovarti col culo strizzato tra i raggi della ruota posteriore. Proprio adiacente allo stagno c'era un muretto a secco piuttosto alto, con una fitta siepe che ne prolungava notevolmente l'imponenza. Dietro il muretto, che bisognava saltare con la bici in spalla, c'era la collina. Cinque o sei metri di terra, ricoperta di cespugli, con una parete ripidissima che invece di allinearsi dolcemente al terreno, terminava con una larga buca, profonda un metro buono. Essere uomini significava arrampicarsi sulla collina (se eri Bruce Lee te la facevi in pedalata, senza toccare terra), prendere qualche solenne respiro e lanciarsi giu', in picchiata, per la Parete Maledetta, e piu' in giu', nella Buca Del Terrore, al fondo della quale rimbalzavi e volavi fuori, spiccando un grandioso salto in sella al tuo cavallo impazzito. E da quel momento di un anno prima, Alfredo poteva oltrepassare il muretto e salire sulla collina, dapprima un metro e poi giu', poi un metro e mezzo e poi giu', e cosi' via. Poi anche lui fece il temerario salto. A dire il vero, una volta in picchiata verso la buca, gli sembro' piu' difficile di quanto sospettasse guardandolo fare agli altri. Le piccole ruote non stavano mai diritte, scansandosi violentemente a ogni sasso e a ogni asperita' del terreno. Rimanere in piedi era un vero piccolo miracolo. Ma Alfredo non cadde. In pochi secondi arrivo' alla base della collinetta, entro nella buca e gli sembro' di doversi conficcare nel terreno, ma ecco che il fondo della buca diventa una salita, che si divora senza fatica e poi la sensazione del vuoto. Era per aria e stava di nuovo atterrando sul terreno. Poi l'imprevisto: Le sue mani stringevano un manubrio che non era piu' attaccato alla bici. Prima che potesse fissare quella sensazione, senti' il contraccolpo della ruota posteriore che toccava il terreno. Un attimo prima che anche la ruota anteriore lo facesse, inarco' la schiena all'indietro, stringendo con forza l'inutile manubrio a mezz'aria. Venne sbalzato in avanti e volo' oltre la bici. Fu abbastanza agile da mollare il manubrio rotto e parare la caduta con le mani aperte. Si sbuccio' notevolmente i palmi, ma cerco' di resistere al bruciore. Intorno a lui una combriccola di ragazzini si stava rotolando per terra dalle risate. Era diventato il comico dell'anno, ma dato che aveva fatto un gran bel salto, la cosa non gli dispiaceva poi tanto. Da quel giorno, partecipo' praticamente a tutti i "tornei" che venivano indetti senza preavviso in un qualsiasi pomeriggio d'estate. Maurizio era l'eroe imbattuto da un paio d'anni. Si era verso agosto e qualcuno aveva indetto un grande torneo per il giorno dopo. Maurizio e Alfredo si ritrovarono alla collina per allenarsi e provare nuove strategie, con le quali ammaliare gli altri concorrenti. Ognuno correva per se, ma loro due erano, si consideravano, una specie di squadra di stuntman, che, apparentemente l'uno contro l'altro, lavoravano insieme per l'avvincente spettacolo. Nella testa di Alfredo seduto davanti al monitor li ricordo affioro' all'incontrario, come una candela spenta che si accende da sola. Ad Alfredo era venuta un'idea. Perche' oltre all'emozionante salto di Maurizio, che sarebbe stato, come sempre il migliore, non aggiungere anche un po' di humor? Tornati a casa, Alfredo ceno' con i parenti, si mise a letto e aspetto'. Aspettava che gli adulti si riunissero nella veranda dalla parte opposta alla porta di casa, a bere, a sghignazzare, insomma a fare dei sano chiasso notturno. Quando il chiasso fu abbastanza rassicurante, Alfredo scivolo' fuori dal letto, si inoltro' nel salottino e guadagno' la porta. Fuori la notte era magica. Una leggera brezza attenuava il caldo soffocante. Gli odori non erano quelli dimenticati della citta', della scuola, degli autobus affollati. Alfredo passeggio' lentamente verso il cortile della casa dove Maurizio abitava e dove, a quell'ora, quasi certamente dormiva. Camminava con la massima tranquillita' della quale era capace. Cercava di convincersi di trovarsi li per caso. La bicicletta di Maurizio era in piedi. Era una di quelle rare biciclette da ragazzo, con i copertoni da cross, con le marce e il cavalletto. La guardo' per qualche minuto; pensava e rifletteva. Non aveva un piano vero e proprio. Si sorprese a sfiorare con le dita il cannotto di sterzo. Come per incanto, comincio' a svitare la vite a farfalla che blocca il manubrio nella giusta posizione, nel cannotto. Fatto questo ritiro' le mani. Rimase immobile, a fissare il suo lavoro e a immaginarsi la scena dell'indomani: Maurizio che sale la collina, si ferma in cima alla Parete Maledetta. Fa tre lunghi respiri, mentre il vociare degli altri si spegne rapidamente. Poi si lancia: e' velocissimo. Lo vediamo scomparire nella buca, col solo rumore del rocchetto dentato della sua bici. Ricompare un attimo dopo sull'orlo della buca, spicca un salto impossibile. Ma prima che gli altri possano acclamarlo, il manubrio gli si stacca dal cannotto e lui rimane a mezz'aria, col manubrio in mano e la bici che se ne va per conto suo. Sai le risate! E come diavolo lo spieghi a un bambino che la dinamica sul pianeta terra e' diversa che a Paperopoli? Certo, per un attimo Alfredo ebbe il sospetto che l'indomani Maurizio si sarebbe rotto un braccio. Ma il pensiero fu spazzato via immediatamente dalla certezza che il piccolo mago della bicicletta, colui che lo aveva iniziato a una nuova vita di temerario paracadutista-ciclista, si sarebbe accorto in un nanosecondo che la vite era lenta. L'avrebbe stretta di nuovo, domandandosi per un momento chi l'avesse svitata e subito dopo avrebbe corso la piu' entusiasmante gara della stagione, senza nemmeno una risata. Allora comincio' a sfilare il manubrio dalla canna. Alla fine se lo ritrovo' in mano, staccato dalla bici e collegato ad essa solo dal filo del freno e da quello delle marce. Lo riposiziono' nel cannotto, ma non lo fece arrivare in fondo. Fece in modo che il bordo del manubrio, all'interno della canna, fosse solo sfiorato dalla vite a farfalla. Strinse la vite quel tanto che basta perche' sembrasse tutto a posto, ma sapeva che tutto l'insieme era davvero precario. Poi se ne torno' a letto, fantasticando sul suo capolavoro. Fu svegliato da una mano che lo agitava dolcemente. La voce della mamma lo chiamava piano, ma con una punta d'ansia. Si isso' a sedere nella stanza gia' illuminata dalla lampada sul comodino, stropicciandosi gli occhi con le mani chiuse a pugno. "Vestiti in fretta, dobbiamo andare' "Ma che succede?" "Te lo dico dopo, ora alzati, dai su'" Mentre si infilava barcollante i vestiti, senti un vociare provenire dal salotto. Vide tre persone che portavano fuori un letto con le ruote. Alla testata del letto era fissato un tubo metallico, con una boccetta di vetro rovesciata e un tubo che da quella arrivava fino a un braccio... il braccio del nonno! Per alcuni secondi rimase a bocca aperta, le mani strette sulla magliettina appena infilata nel collo e ancora avvoltolata al disopra della sua pancia scoperta. Mentre vedeva che lo portavano fuori, si accorse della luce lampeggiante che dall'esterno colpiva aritmicamente la libreria in salotto. E poi vide le due valigie appena fuori dalla stanza di mamma e papa'. Papa' usci' dalla stanza e prese le due valigie. Mamma usci' subito dopo, arrivo' verso Alfredo, lo tocco' sulla testa e si diresse verso il cassettone dell'armadio. Ne estrasse un maglioncino e glie lo infilo' velocemente. Poi lo prese per mano e tutti e tre uscirono dalla casa, nel silenzio della notte, rotto dalle ruote dell'ambulanza e dell'auto sullo sterrato. Non vide mai la gara: il nonno si era sentito male durante la notte, e bisognava ricoverarlo d'urgenza in un ospedale, in citta'. Tutta la famiglia era partita alle 3 del mattino, seguendo l'ambulanza verso l'autostrada. Il nonno se la cavo'. Ma nessuno se la sentiva di tornare alla casa in campagna. Dopo un paio di giorni, la mamma di Alfredo cerco' di spiegargli con piu' tatto possibile il modo in cui il cannotto di sterzo della bici di Maurizio gli si era conficcata nella carotide, dopo che era saltato dalla collinetta. Gli spiego' che lo avevano portato d'urgenza al pronto soccorso piu' vicino, ma che aveva perso troppo sangue. Nel pomeriggio ci sarebbe stato il funerale. Lo fece piu' che altro per fargli passare la voglia di fare ancora quel gioco stupido, la prossima estate. Per quanto tempo hai sognato, desiderato, pregato di poter scivolare ancora fuori dal tuo lettino, attraversare ancora il cortile del tuo amico e rimettere a posto quel manubrio maledetto? E poi, per quanto tempo, quando sotto natale venivano a casa gli ex-genitori di Maurizio, ti sei trattenuto dall'impulso di spifferare tutto, succeda quel che deve succedere, davanti al gruppo di adulti seduti con le tazzine di the in mano? E infine quando hai smesso di sperare di poter fermare l'ingranaggio del tempo, di farlo faticosamente indietreggiare fino a quella notte di agosto, e cancellare la tua piccola fuga dal tuo lettino? Quando hai desistito, anni piu' tardi, da solo, chinato in lacrime davanti al piccolo palo di legno, conficcato nel punto esatto in cui la bicicletta di Maurizio gli era entrata nella gola per colpa tua, con sopra legato un mazzo di fiori freschi, quando hai capito che era inutile urlare alla notte che ti venisse data una SecondaChance? Si era fatta sera. Alfredo scese nel parcheggio. Poi guido', per ore. A mezzanotte i suoi occhi erano due fichi secchi. Si fermo' davanti a Zoe's. Non sapeva se entrare o no. Entro' e si fece versare un Ballantine's 12 anni. Penso' a Vincenzo. Penso' che il fantasma era venuto trovarlo solo quando aveva appena inviato l'email. Decise che era meglio cosi'. Un'ora dopo vomitava sul guard-rail della strada a scorrimento veloce a 10 chilometri da casa. Era la prima volta che vomitava con rabbia. Vomitava e urlava imprecazioni. Sbatte' lo sportello e volo' verso casa: era esausto. Apri la porta e si accorse di aver lasciato il televisore acceso. Sentiva il vociare dalla cucina, dove si preparava del latte caldo, ma non se ne curo' troppo. Almeno fino a quando si accorse che il vociare era un rantolo piu' o meno ininterrotto da circa 10 minuti. Possibile che trasmettessero una rassegna sul cinema di Andy Warhol? Entro' in salotto. Il televisore era bello spento. I rantoli provenivano dal bagno. Indovina esattamente da dove? Si era quasi dimenticato che quella mattina aveva lasciato in sospeso un conto con la quarta dimensione. Era troppo stanco per affrontare la cosa con la massima lucidita'. Decise quindi di accettarlo cosi' com'era. Entro' nella stanza da bagno. Per terra c'era ancora il manico di scopa. I rantoli erano chiarissimi, inframezzati da un respiro affannato. Rimase a guardare il bianco dello scaldabagno per una mezz'ora. Poi il rantolo comincio' ad annaspare di dolore. Era molto piu' chiaro, ora. Era la voce di un ragazzino, che piangeva di dolore. Fra i singhiozzi gli sembrava di riconoscere le parole "aiuto" e 'caduto". Poi senti' chiaramente la frase. La senti' perche' il bambino interruppe per un istante il suo sofferente agonizzare per esibire, ma solo per un attimo, una voce chiara e intonata, con l'evidente intento di farsi capire bene. 'T-e-r-z-a c-h-a-n-c-e", scandi' con calma e precisione. E subito dopo il piagnisteo riprese. Comincio' a succedere di peggio: dall'attaccatura fra il fondo e la parte centrale del boiler, stava cominciando a filtrare della roba nera. Nella penombra non riusciva a vedere bene la natura di quel liquame. Accese la luce. Nulla dell'atmosfera cambio': la quarta dimensione era perfettamente reale e integrata nella vita reale. Era evidente che il liquame era sangue. Senza dire una parola, Alfredo si avvicino' al boiler. Sfioro' il sangue e ne saggio' la consistenza coi polpastrelli dell'indice e del pollice. Si volto' verso il lavabo e istintivamente comincio' a far scorre l'acqua calda. Da trasparente divenne rugginosa e poi, ovviamente rossa, completamente rossa e fumante. A volte, se preghi abbastanza forte, se desideri abbastanza intensamente una seconda possibilita', quando meno te lo aspetti, ti viene concessa. Ma e' davvero molto remota l'eventualita' che, sprecata la seconda, te ne venga concessa una terza. Alfredo penso' semplicemente che perseverare e' diabolico. Chiamare la polizia o mettersi a letto? Alfredo sapeva che le probabilita' che tutto questo svanisse con una buona dormita erano piuttosto poche. Inoltre di dormire con un essere che agonizzava nello scaldabagno non se ne parlava. E lo scaldabagno non riusciva a piu' a contenere il corpo che gli cresceva dentro: si stava dilatando e sarebbe esploso da un momento all'altro. Stando almeno a certi film horror americani. Se ne ando' dal bagno, lasciando l'acqua aperta. In salotto prelevo' il portatile dalla scrivania accanto alla finestra. Lo accese e si collego' a Internet per controllare la posta elettronica. Non si aspettava una risposta cosi' repentina da parte di Vincenzo. Ma la risposta c'era, ed era molto, molto breve: 'sono io la tua seconda chance. Domattina troverai un biglietto prenotato per te a mie spese (anzi, a tue spese, per la verita') all'aeroporto. Prendilo e non fare domande. Porta abiti estivi. Ciao." Alfredo accese il televisore. Si avvio' lentamente in cucina, dove bevve il suo latte caldo. Visto che c'era, accese la radio. Poi il forno a microonde. Poi tutte le luci di casa. E mise su un disco di D'angelo, con Erykah Badu. Infine si diresse in camera da letto. Tiro' giu' una valigia dalla sommita' dell'armadio e inizio' a buttarci dentro alcune magliette estive alla rinfusa. Completo' il bagaglio. Con la valigia in mano arrivo' alla porta. La guardo' per qualche secondo. Si volto' a guardare la casa tutta in moto. Come se lo stesse salutando. Apri' la porta e se ne ando'. Verso le 13 e 30 qualcuno alla scuola si stava ancora chiedendo come mai Alfredo non fosse andato a lavorare e perche' non rispondeva nemmeno al cellulare. Verso la stessa ora all'aeroporto, un uomo con una grossa valigia chiese se era stato prenotato a suo nome un volo per Porto Rico. Domanda alla quale gli venne risposto di si, con un gran bel sorriso. All'uomo venne indicato il cancello di partenza. Mentre l'aereo scompariva dietro un tetto di spesse nuvole, in un appartamento del centro, uno scaldabagno esplodeva, andando in frantumi, assieme a minuscole particelle organiche, sullo specchio, sul bordo del water, sui vetri della finestra, sul pavimento.