barbecue - Creative People

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barbecue - Creative People
BARBECUE
Il piantone dello sterzo vibrava penosamente, con un rumore sordo e per nulla rassicurante. Le ruote
sobbalzavano sulla costellazione di piccoli fossi, che sparivano sotto il cofano a velocità
supersonica. L'unica parte integra della stradina di terra era la gobba centrale, dalla quale grossi fili
di fieno ed erbacce frustavano la scocca, facendola vibrare di continuo. Fausto poteva sentirne ogni
colpo col piede sinistro, abbandonato sul pavimento della vecchia Renault 5 verde smeraldo, mentre
il destro, a parte brevi e sagge pause in prossimità di qualche curva, si accaniva su acceleratore e
freno, senza sosta. I suoi occhi vagavano dalla spia dell'olio al tachimetro, dal parabrezza allo
specchietto retrovisore, completamente illeggibile per il vetro incrinato e la polvere. Chiunque
avesse osservato per non più di cinque minuti la sua fronte sudata, gli occhi che saettavano in tutte
le direzioni, le rughe da tensione accumulata, avrebbe indovinato immediatamente che era un uomo
in fuga. La cosa che più lo preoccupava, ora, era la spia dell'olio che lampeggiava sulle curve a
sinistra, anche lievi, e quell'odore di acqua bollita e sporca proveniente da quel massacro in atto nel
cofano del motore... Sete! Non beveva da ore. Il caldo di quel pomeriggio di fine luglio era
insopportabile. L'abitacolo di quella vecchia carretta di lamiera era surriscaldato, la camicia gli
faceva da decalcomania e i jeans erano fradici in prossimità del coccige. Aveva anche una non
benvenuta sensazione di terra nelle scarpe. Ma soprattutto una sete come non ricordava di averne
mai avute. O forse si, qualcosa si ricordava, riguardo a una sete di quelle proporzioni imbarazzanti.
Una fettuccia di strada diritta e abbastanza lunga per dimenticare il piede destro sul gas, gli
permisero di ricordarsela, quella sete.
Venticinque anni prima. Era un ragazzo di diciassette anni, che in sella al suo Morini rosso, aveva
deciso di fotografare il rally del Salento, nientemeno. Era lo stesso periodo, fine luglio, e anche
allora il calore di quel viaggio interminabile gli era penetrato nei neuroni, oltre che sotto la pelle.
Era partito da Roma una mattina alle sei e un quarto. Aveva uno zaino sulle spalle, una tenda
canadese accartocciata sul posto del passeggero e due sacche assicurate ai lati della sella con della
corda elastica. Il Morini era nuovo di zecca e Fausto ci aveva messo un mezza giornata ad abituarsi
al cambio “all'italiana”: il pedale a destra invece che a sinistra, e le marce “la prima in su, tutte le
altre in giù”. L'opposto esatto di tutte le altre moto, non sue, su cui aveva fatto esperienza. Ma
quella scelta era dettata in primo luogo dalla convenienza. Aveva lavorato da maggio a giugno per
procurarsi metà del denaro necessario ad accaparrarsi quella moto, bella ed economica. L'altra metà,
non c'erano santi, l'avrebbe sicuramente trovata vendendo il suo servizio fotografico. Era partito con
entusiasmo e speranza, unico rammarico il “segno del cambio” sulla scarpa sbagliata, la destra.
Erano rammarichi di una certa rilevanza, a diciassette anni.
Fausto allargò impercettibilmente le labbra, in un fantasma di sorriso a quel ricordo, mentre si
accomodava con la schiena sul sedile fradicio di sudore, ma pur sempre un sostegno per la sua
schiena martoriata da dolori di ogni marca e modello. Ricordò col piacere di uno scampato pericolo
i seicentocinquanta chilometri percorsi in tre giorni. Quando non ne poteva proprio più delle
stradine statali e dei tornanti, si intrufolava sull'autostrada, sperando che un casellante pignolo non
lo segnalasse alla polizia stradale: centoventicinque in autostrada essere vietato! Ma a quei tempi
non c'era nemmeno il pericolo delle telecamere di videosorveglianza e, come aveva sperato, non lo
avevano sgamato. Solo che al suo ritorno avrebbe avuto ben altro da raccontare agli amici. L'ultima
sera, saranno state le sette e mezzo, sulla statale 613 per Lecce, ecco comparire sul ciglio della
strada, l'elemento fuorviante, il contrattempo in grado di corrompere integrità e rigidi piani di
marcia dell'integerrimo fotoreporter internazionale: un'autostoppista. Un'autostoppista femmina.
Vestita di nero, magra come una canna di bambù, pelle olivastra e capelli neri lunghissimi. Nessuna
traccia di escrescenze rotonde all'altezza del petto. E ovviamente un pollice in grado di fermare un
intero convoglio di TIR in postazione da combattimento. Già, che risate eh? Che esagerazione, per
un Fausto quarantaduenne, che in quell'ultima settimana le aveva viste tutte, sudato fradicio e
assetato, in una Renault 5 puzzolente e surriscaldata che correva verso un nulla di terra e arsura. Ma
bastava e passava per quel ragazzino così lontano da casa. Così si era fermato davanti a quel
fuscello, nell'età esatta in cui un fuscello scuro e profumato non può che portare pace e armonia. Si
chiamava Eleonora e aveva un accento ligure. Aveva più o meno l'età di Fausto, ed era più lontana
da casa di quanto lo fosse lui. Nonostante le parole fighissime e i vari toni di voce da “El Condor”
che aveva provato nel casco durante i venti secondi di frenata, dalla sua gola uscirono, nervose e
stridule, tre sillabe:
“Dove vai?”
“A Riva di Ugento... al campeggio.” rispose lei.
Fausto spense il motore e si tolse il casco.
“E' vicino?”
Lei ridacchiò e dondolò la testa dolcemente:
“Insomma... tu dove vai?“
Fausto aveva avuto una trovata involontaria: fece come per ricordarsi il nome del suo campeggio.
Ma non aveva programmato obiettivi precisi, a parte il rally, e il piano consisteva nel chiedere
informazioni a qualcuno. Perciò suscitò inaspettata ilarità quando, con un tono molto credibile
aveva detto:
“Beh, io per la verità vado a... Riva di Ugento, ma se vuoi ti do un passaggio, tanto...”
aveva riso per prima Eleonora, e dopo essersi accorto di aver fatto una battuta almeno piacevole,
aveva sorriso anche lui. Si erano messi in marcia dopo che Fausto aveva appeso il suo casco alla
sella,.così avrebbero potuto conversare durante il viaggio. In realtà voleva fare lo spericolato, pare
che alle ragazze vestite di nero piacesse... Lei gli aveva detto che alcuni amici la aspettavano al
campeggio. Lui gli aveva raccontato pressoché tutto. Volendola dire tutta, volendo proprio essere
pignoli, parlò troppo. D'accordo, puoi tranquillamente dire che vuoi seguire il rally del Salento, che
vuoi fare un servizio fotografico per guadagnarti l'altra metà della moto, è un argomento che può
risultare interessante.. Va bene dire anche che non sapevi dove andare e che un campeggio vale
l'altro. Ma Cristo santo, dovevi proprio dire modello e costo dell'attrezzatura fotografica? Spifferare
la quantità di denaro nascosta parte nelle due sacche e parte sotto il serbatoio della moto?
Così eccoli arrivati al campeggio, ed ecco venire incontro alla moto un paio di ragazzoni con
pantaloni mimetici e magliette scure. Erano due dei suoi amici. Gentili, troppo. E un paio di volte, il
fotoreporter esperto del mondo, aveva visto di sfuggita Elena dire qualcosa all'orecchio del biondo e
ridere. La seconda volta che la vide bisbigliare qualcosa, la osservò, lei se ne accorse e se lo prese
sottobraccio, riportandolo alla moto.
“Dai, posteggia, che ti faccio conoscere gli altri.”
Si sarebbe insospettita perfino Cenerentola. Ma ormai era li. Era salito in sella e aveva acceso il
motore. Trovata inutile, il gabbiotto della reception era a una ventina di metri, che Fausto percorse
goffamente “palettando” con i piedi, con fatica e una puntina di vergogna. Aveva parlato troppo, ne
era cosciente, era lontano da casa, con moto e attrezzi fotografici costosi, e nel giro di un'ora l'intero
campeggio poteva sapere dove teneva i soldi. Ma aveva diciassette anni e una canna di bambù senza
tette e profumata ficcata nel cervello. Anziché aprire il gas per tornare sulla statale, si diresse
obbediente verso il cancello del camping. Al Fausto in fuga, sudato e assetato, il giovane reporter
fece l'impressione di una vacca che cammina lenta verso l'entrata del mattatoio.
La serata fu piacevole, però. Non pagò per la carne alla brace, ne per il vino giovane e frizzante.
Non spese un soldo per le battute simpatiche del biondo, ne per il fumo che le rendeva irresistibili.
Erano del tutto gratis anche le risate cristalline di Eleonora, a tutte sue battute. Per un paio di volte
lei si era sporta dalla sua sedia di plastica, e nel casino di chitarre, canzoni, risate, gli aveva preso il
viso fra le mani e lo aveva baciato. La terza lo aveva afferrato per la nuca, e gli aveva
generosamente ceduto il suo sapore, un megamix di saliva, fumo e vino. Era talmente fatto che non
ricordava ombra di commiato dall'allegra compagnia, ma si era ritrovato con la testa galleggiante
nella gelatina, disteso nudo nella sua tenda, sdraiato sul sacco a pelo chiuso. Fuori era tutto
silenzioso da un po. Poi la tenda si era aperta lentamente. E dal chiarore vaporoso dell'estate
notturna, la figura esile di Eleonora si era intrufolata, nuotando fra i vestiti sparsi sul pavimento di
plastica della piccola tenda. Era entrata a quattro zampe, e in quella posizione, gli si era
accovacciata addosso. Era nuda e fresca. Le gocce d'acqua sul suo collo dicevano che aveva appena
fatto un bagno dalla spiaggia adiacente.
“Che ti sei perso!” Rideva sottovoce lei.
“Non mi dire...” Ironizzava lui, vista la situazione.
Poi Eleonora abbassò la testa, sollevando di poco il bacino. La cascata di capelli di pece lucida,
coprivano la visuale, ma la sentiva armeggiare, la sotto. Senza preavviso risollevò la testa e lo
guardò negli occhi, seria e attenta, facendoselo scivolare dentro. E quindici minuti dopo, il sudore di
lei, della sua pancia, delle sue cosce, sul corpo di Fausto, i piccoli capezzoli salati nella sua bocca,
non erano cose che ti lasciavano facilmente aguzzare le orecchie, riguardo a quei rumoretti metallici
e quel bisbigliare sommesso a una decina di metri dalla tenda. Fatto sta che Fausto si svegliò a
mezzogiorno, nudo e solo. Si mise i pantaloni come meglio riuscì a fare nello spazio angusto della
canadese. Uscì nel campeggio pressoché deserto, sotto la canicola salentina. Decise di controllare la
pressione delle gomme. Rovistò fra i vestiti sparpagliati per cercare la sacca che conteneva gli
attrezzi. La trovò sotto la giacca a vento e sopra le scarpe. Al momento non ci badò poi troppo. Ma
qualche neurone doveva aver dato l'allarme, poco fiducioso sul fatto che nel marasma di emozioni
della sera prima, ci si fossero tolte le scarpe e le si fossero nascoste sotto una sacca, la quale però
era stata sistemata il pomeriggio prima sul fondo della tenda. E che ora, cazzo, si trovava adagiata
vicino all'uscita. Le conclusioni vennero elaborate in un paio di secondi, ma un corpo giovane è
troppo pigro e fiducioso. Per questo motivo Fausto aveva cercato stupidamente i suoi soldi sul
fondo di due sacche completamente vuote. Uscì dalla tenda trafelato. Vide gli attrezzi sparsi per
terra, appena fuori la canadese. Si infilò le scarpe saltellando su un piede solo. Corse verso la moto.
Il serbatoio era scardinato dal telaio. Il perno elastico che serviva a tenerlo insieme alla culla
metallica era strappato. E la bustina di chellopane incastrata sotto era ovviamente sparita. Fausto si
era guardato intorno. Lacrime e rabbia. Si era tastato i pantaloni: le chiavi erano ancora al loro
posto. Aveva aperto la sella e ci aveva trovato i documenti e le cinquantamila lire d'emergenza. Era
tornato alla tenda. Non c'era più traccia dell'attrezzatura fotografica. L'unica cosa rimasta era il
rullino Kodak 800 Asa, 36 pose, scattato quasi tutto sul viso di Elena la sera prima, al lume dei
falò. Era nella stessa tasca dei pantaloni in cui aveva ritrovato le chiavi.
Aveva fantasticato sull'acquisto di pistole, fucili, coltelli, facce a cui mostrare la foto di Elena, e dita
che indicavano percorsi sempre più precisi. Tutto questo farneticare gli aveva dato l'energia per
smontare come meglio poteva la canadese, accartocciarla sulla sella, sistemare con una corda
elastica il serbatoio e avviarsi all'uscita. Aveva una sete tremenda. Al campeggio non c'era traccia di
qualcosa che somigliasse a uno spaccio dove comprare una bottiglia d'acqua. La sua tanichetta da
cinque litri era vuota. Sul tragitto del ritorno a casa, prima di rientrare sulla statale, c'era uno
spiazzo, con una piccola fontanella di cemento. Era una sorta di pannello di cemento incastrato
nella roccia, con la sommità arrotondata, dal quale fuoriusciva un tubo di rame. L'acqua che ne
fuoriusciva andava a riempire una sorta di mangiatoia. Si fermò, accecato dal mal di testa e dalla
sete che gli graffiava la gola. Doveva aspettare il suo turno. C'erano delle persone arrivate prima di
lui. Per la verità dovevano essere li da un po: sul fondo dello spiazzo era parcheggiato un camper.
Avevano montato una tenda sull'uscio del veicolo e una donna prendeva il sole su una sdraio nei
pressi del camper. Due uomini stavano ai lati della fontanella, con delle damigiane di vetro. Vicino
al retro del camper, qualcuno arrostiva della carne su un barbecue. Gli sorridevano. Lui non si era
tolto il casco: aveva paura. Si era solo alzato la visiera dell'AGV integrale, e accennato un sorriso,
per non farli innervosire. C'era qualcosa sulla sinistra, un oggetto... forse un albero? No, non era
proprio un albero, era qualcos'altro, aveva una caratteristica insolita. Ma nella Renault il caldo era
insopportabile, liquefaceva i dettagli più piccoli della memoria. Solo che quella cosa gli era rimasta
impressa. Era come... una grossa cosa grigia. Niente da fare, non se lo ricordava. Il resto del ricordo
ci si sovrapponeva. L'odore della carne arrostita gli provocava un senso di panico. Associava
chiunque arrostisse carne a un pericoloso ladro. Così quando uno dei due uomini aveva tolto una
salsiccia dal barbecue con una forchetta, e con l'altra mano aveva avvicinato un piatto di plastica
sotto di essa, indicando Fausto aveva domandato “Vuoi?”, Lui aveva fissato per qualche secondo
l'uomo, poi era saltato sulla pedivella, aveva ingranato la seconda per sbaglio (il dannato cambio
all'italiana), e consumando metà della frizione si era smaterializzato dalla piazzola, senz'acqua.
Mentre si piegava per assecondare l'aerodinamicità della fuga, osservava nello specchietto di destra
l'uomo con la salsiccia in mano (eh già) che si rivolgeva all'altro alzando le spalle, forse pensando
“sarà stato un vegetariano militante”. Fece solo due fermate, una per rifornire e una per pisciare.
Seicentocinquanta chilometri senza bere. Alle due e un quarto di notte, a Roma, la sete gli si era
tatuata nel cervello.
Ed ora, eccolo di nuovo alle prese con una fuga e con la sete. Il ricordo di quell'estate sfortunata gli
si era riversata nel cuore come una cascata, e aveva guidato per un paio di chilometri senza
accorgersene. Si, la sete era proprio la stessa. E, cazzarola, aveva nelle narici l'odore della carne
arrostita su quel maledetto barbecue. Possibile? Eppure lo sentiva, sentiva l'odore delle salsicce
arrostite lentamente sulla brace, nell'abitacolo torrido della Renault 5. Riuscì a distogliere il suo
cervello da quell'enigma perché riconobbe una vecchia quercia che si piegava in modo esagerato
sulla strada, descrivendo un arco su di essa. Si ricordò di quel tratto di sterrato e che a non più di un
chilometro da li, un grosso slargo a destra della strada ospitava una piccola fontana naturale. Era
come un'apparizione dell'Arcangelo Gabriele, dopo ore di strada senza bere. C'era una roccia, sul
fondo, con una crepa. Dalla crepa fuoriusciva un piccolo torrente d'acqua che scorreva in una sorta
di letto concavo, appena accennato sul granito, e che terminava alla fine della massa rocciosa, sulla
piazzola. Qualcuno aveva scavato un breve solco che dava sul torrente sottostante, e lo aveva
rifinito con del cemento grossolano. Quel solco raccoglieva l'acqua e la buttava nel torrente, se
nessuno poggiava una tanica proprio sotto la piccola cascatina.
Fausto rallentò e vide, dietro un cespuglio di rovi, l'imboccatura della piazzola. Entrando nell'area
scorse due persone ai piedi della fontana che parlavano fra di loro. Erano un uomo e una donna.
L'uomo teneva ferma una enorme tanica di plastica bianca, modificandone l'assetto per assecondare
il getto irregolare dell'acqua, senza peraltro perdere l'attenzione su quanto gli diceva la donna. Sia
l'uomo che la donna, avevano dei tatuaggi su ogni parte del corpo resa visibile dagli abiti leggeri. A
uno sguardo più attento si accorse che erano parole scritte metà in latino, metà in inglese.
Addentrandosi ancora di più nello spiazzo scorse un gigantesco fuoristrada nero parcheggiato sul
fondo, proprio accanto al rudimentale steccato che proteggeva dal torrente appena sotto. Accanto al
fuoristrada c'era un uomo completamente calvo, piuttosto grasso, che teneva in braccio un bambino.
L'uomo stava frugando con attenzione tra i capelli biondi e fini del bambino. Ne estraeva invisibili
particelle che disperdeva con un rapido strofinio delle dita. Era vestito con una giacca grigio chiaro,
una cravatta rossa. Aveva una borraccia a tracolla. Il bambino aveva una sorta di divisa blu,
leggera. Come la divisa di un collegio. Fissava Fausto. Lo aveva seguito con gli occhi appena era
entrato nella sua visuale e continuava a fissarlo ora che era immobile, seduto nell'auto a motore
spento. Alla loro destra, un uomo magrissimo, sulla trentina, vestito come un esploratore di fine
'800, setacciava il terreno con un aggeggio formato da un manico alla cui estremità inferiore era
attaccato un disco, che sembrava metallico. Sembrava un metal-detector. Il bambino avvicinò la
bocca all'orecchio del ciccione, senza staccare gli occhi da Fausto. Disse qualcosa sorridendo. Il
ciccione rise, poi prese la borraccia e diede da bere al bambino, senza che questo usasse le mani,
che teneva avvinghiate al collo dell'uomo. Fausto Provò un moto di inquietudine. Ma uscì dall'auto,
con discrezione. La sete gli ardeva le viscere oltre che la gola. Cercò di temporeggiare, ammazzare
il tempo finché la gigantesca tanica dell'uomo alla fontana non fosse stata piena. Fece qualche passo
in direzione opposta, verso il muro di cespugli che delimitava la piazzola. Cosi' facendo scorse
dietro il fuoristrada una donna anziana.... che arrostiva carne su un barbecue! Ecco cos'aveva nel
naso. Altro che ricordo, doveva essere ora di pranzo e quella gente (l'allegra compagnia) aveva
deciso di bivaccare nella “sua” piazzola.
Il fatto che fosse ora di pranzo e non avesse fame, il fatto che non si ricordasse quasi nulla di ciò
che gli era successo poche ore prima e il fatto più importante, cioè che aveva un'idea frammentaria
e confusa del perché stesse fuggendo, lo fece decidersi a fare qualcosa di meno passivo che
bighellonare li intorno in attesa che un'autobotte di plastica si riempisse. Con cautela, ovviamente,
con cautela. Lentamente, cercando di non perdere di vista nessuno dei personaggi di quella scena,
soprattutto il poppante in divisa, si accostò allo sportello dalla parte della guida. Piegandosi estrasse
con una mano le chiavi. Fece finta di controllarle, mentre aggirava la Renault. Si portò dietro il
portellone, girò la chiave nella serratura e lo aprì. Sapeva di trovarci una vecchia tanica di plastica.
Il divano era ribaltato fino ai sedili anteriori. La tanica era li in fondo. Avrebbe fatto prima a
prelevarla da davanti. Ma era un ottimo argomento di “non conversazione”, nel malaugurato caso ce
ne fosse stata una. Cominciò a rovistare nel baule, facendo finta di cercare qualcosa. In realtà
spostava oggetti a casaccio, cercando di fare qualche sommesso rumore, mentre non perdeva di
vista la tanica alla fontanella, ormai quasi piena, attraverso il parabrezza. Rimase per un momento
all'impasse, osservando se stesso nel contesto della scena: due tizi che avevano tatuate chissà quali
maledizioni sataniche su tutto il corpo, un ciccione con una cravatta assurda teneva in braccio da
mezz'ora un bambino in divisa, che, di li a poco, probabilmente avrebbe ruotato la testa di 360
gradi. Accanto a loro, una pertica con testa e zampe, vestita di marroncino che cercava l'oro con un
metal-detector su uno spiazzo in una strada di campagna. E dietro un gigantesco fuoristrada nero,
una vecchia con una treccia di capelli bianchi che le scendeva fin sotto il culo, arrostiva salsicce.
Poi lui, Fausto, chinato nel baule di una vecchia auto, con le chiappe esposte pericolosamente a
chissà quale probabile diversivo di fine pranzo....
Stava per afferrare la maniglia della tanica, quando una voce troppo vicina lo fece trasalire:
“Capo, ne vuoi?”
Rimase col corpo quasi completamente immerso nel baule dell'auto, mentre ruotava la testa verso il
finestrino posteriore destro. Attraverso la polvere sul vetro scorse l'uomo tatuato, che gli porgeva
una forchetta con infilata una salsiccia. Poco prima. mentre ripercorreva il suo disastroso ricordo di
diciassettenne, sorrideva al pensiero che se gli fosse capitato oggi, avrebbe saputo come
comportarsi, avrebbe saputo intuire, tener testa... Tutto svanito, tattica, esperienza, ragione. Voleva
solo scappare. Da un lato la scena era propizia: la tanicona era stata riempita e trasportata a bordo
del mostro su ruote. Fontana libera - prendere tanica – camminare otto metri – posizionare tanica –
accettare salsiccia – riporre tanica piena – salutare – dileguarsi. Questo si poteva anche fare, ma le
scritte in latino... il metal detector. Il pupo che bisbigliava e poi beveva... Lasciò la tanica dov'era.
Uscì dal baule cercando di essere veloce ma non troppo. Balbettò un “No, grazie”, portandosi la
mano destra alla pancia, come per sintetizzare devastanti malanni gastroenterici, che gli avrebbero
impedito di mangiare anche una formica fritta, grazie no, ma come accettato, grazie, non si offenda
mica, sa?
Rientrò nell'abitacolo, avviò il vecchio motore. Fece la manovra più attenta e cauta che avesse mai
fatto: dare una bottarella al fuoristrada? Fuori questione. E mai, dico mai schiacciare un piede a un
tipo tatuato con la salsiccia in mano. Non ne parliamo nemmeno per scherzo. Appena fu in
direzione della strada, schiacciò delicatamente il pedale del gas, per evitare di sollevare polvere.
Mentre lasciava la piazzola, la vide riflessa nello specchietto retrovisore. La grossa roccia piatta e
rotonda, come un disco conficcato in piedi nel terreno. Qualcuno ci aveva disegnato una linea rossa,
orizzontale. Lo si faceva a volte per regolare l'altezza dei fari dell'auto, di notte. Era la cosa
grigiastra che aveva visto venticinque anni prima nella piazzola della sua avventura nel Salento.
Non aveva più voglia di correre, anche perché non ricordava il motivo della sua fuga. Aveva un
gran mal di testa e il ricordo di un rumore strano, sordo, che gli tornava alla mente di tanto in tanto.
Gli era rimasto addosso, o nel naso, l'odore della salsiccia arrostita. E poi si era ricordato della
casupola in pietre mezza diroccata, che gli era distante solo un paio di sterzate a sinistra. Un paio di
occhiolini rossi da parte della spia dell'olio, ed eccola li, su una bassa collina, dietro un basso
muretto a secco. Era la casupola dove una domenica su due organizzava cenette macrobiotiche a
base di salsiccia e broccoli, chili, non meglio definite salse rosse, insieme con un paio coppie di
amici. Qualche volta aveva invitato anche il capo... come si chiamava... Giampiero... Gianmario...
Gianmario Onorato. Ma siamo sicuri? Ma si, lo vedi che la memoria torna? Nel frattempo stava per
sorpassare il cancello, e se non ti vuoi ritrovare a far marcia indietro in una mulattiera sconnessa, in
prossimità di una curva pericolosetta anziché no, una bella pestata al freno è sempre un ottimo
piano. La vecchia Renault si inchiodò nella piazzola del cancello, col faro sinistro quasi attaccato a
una cerniera metallica. Fausto immaginò un'espressione di terrore da parte del cofano dell'auto. In
quel momento esatto due cose scure schizzarono da sotto il sedile del conducente. Una gli colpì il
tallone destro, l'altra si incastrò sotto il pedale del gas. Fausto sussultò, lasciando uscire un “ah”
subito smorzato per mantenere un certo contegno. La cosa che gli si era attaccata al tallone era una
bustina scura, spessa, chiusa con un elastico incrociato su tutti e quattro i lati. Si chinò per
raccoglierla, schiacciandosi il muso sul volante caldo. Dal peso e dalla consistenza sembrava
contenere della carta , probabilmente lettere ripiegate. L'altra era proprio nera, e dovette uscire
dall'abitacolo per riuscire a recuperarla da sotto il pedale. Era un piccolo walkman Sony. Aveva la
fibbia in plastica, quella che serviva per agganciarselo ai pantaloni, quasi completamente staccata.
Dal minuscolo plexiglass del vano cassetta si poteva vedere una Maxell C90 rimasta li dentro da
chissà quanto. Che diavolo riposava sotto quel sedile, oltre a quei due pezzi d'antiquariato? Fausto
allungò la mano destra sotto il sedile e sentì qualcosa che sapeva di filo. E in effetti, facendolo
scorrere sul tappetino, osservò che era il sistema di auricolari dell'apparecchio. Per il momento
poteva bastare. Musica, che bella pensata. Del resto c'era qualcosa che non andava, in quelle ultime
ore di fuga. L'autoradio era sparita, quindi l'unica musica che aveva potuto sentire era il ronzio da
mal di testa nelle orecchie e quel rumoretto sordo, che ogni mezz'ora gli faceva visita e lo invitava a
riconoscerlo, come il gioco a premi di una radio locale. Il rumore misterioso. E svelando quel
mistero Fausto aveva l'impressione che avrebbe vinto qualcosa di più che un viaggio per due
persone a Florianopolis, vista sul mare, mezza pensione.
Cercò la chiave del cancello nel mazzo. La casa gli era toccata in eredità a lui e a suo fratello
Roberto, che però, attualmente, si trovava in Indonesia, da circa dieci anni, a dirigere una fabbrica
di porte in legno. Ogni tanto si sentivano via Skype, il pomeriggio per Fausto e a mezzanotte per
Roberto. E di tanto in tanto Roby chiedeva a Fausto se non era il caso di vendere tutto, dato lo stato
di abbandono di terreno e casa. Fausto allora tergiversava, prendeva tempo. Non gli aveva mai detto
che aveva ripulito la bicocca con le sue mani, che aveva collegato un cavo elettrico al palo vicino al
cancello, ripristinando il vecchio contatore, che aveva messo su un rudimentale impianto idraulico
con un grosso contenitore da vino da mille litri, che pagava bollette e tasse comunali da almeno tre
anni. E che quella bicocca era il suo rifugio del dopolavoro, soprattutto in estate. Soprattutto da
quando... da quando cosa? Cominciava a ricordare di essere andato a passare il suo tempo libero li
sempre più spesso. Maria Teresa c'era venuta un paio di volte, ma avendo sentito l'aroma e
l'atmosfera da “vorrei rimanere da solo per un po”, che aleggiava in quella cuccia personale e
intima, aveva deciso di non invadere quel suo piccolo spazio, il quale oltre a influire decisamente
poco sulle finanze familiari, era una buona valvola di sfogo per un matrimonio con più di dodici
anni nel contachilometri.
Maria Teresa, da quanto non la chiamava? E lei perché non lo aveva chiamato? Mentre saliva la
strada che aggirava la piccola collina, pensò che avrebbe dato un'occhiata al cellulare, anche se in
quel posto era avaro di tacche. E il più delle volte questo era un bene, specie da quando... ecco un
ricordo che non si riusciva proprio ad acchiappare, ma aveva a che fare con lo scrivere. Si, di questo
cominciava ad essere sicuro. E proprio nel momento in cui aprì la porta, il rumore misterioso si
rifece vivo, questa volta accompagnato da una pulsazione alle tempie. E c'è da dire che Fausto non
tardò ad avvertire una sensazione di sbagliato appena posò gli occhi sull'interno della casa, avvolto
nell'ombra per la scarsità di finestre. Intendiamoci, tutto era al suo posto, o almeno così sembrava.
Ma l'odore di stantio e di chiuso si accompagnava benissimo con la straordinaria quantità di
ragnatele, sistemate un po ovunque, soprattutto fra pensili e lavabo dell'angolo cucina. E si sposava
male col fatto che la casa era tutt'altro che disabitata, almeno una domenica su due. Tutto quel
casino in meno di due settimane? Immaginò per un attimo una squadra di ragni professionisti, con
elmetti gialli e tute da lavoro, che fabbricavano instancabili giorno e notte. La casa con i muri di
pietra grezza anche all'interno era formata da una sola stanza. Sulla destra per chi entrava, c'era
l'area dedicata alla cucina, sulla sinistra una stanza ricavata con pannelli di cartongesso formava il
piccolo bagno. Sul fondo una serie di poltrone e un divano capiente, sistemati intorno a un tavolino
basso, formavano il soggiorno. Fausto gettò walkman e pacchetto di carta su una poltrona e si
diresse in bagno. Per atavica abitudine, si chiuse inutilmente a chiave dentro.
Cercò la sua faccia nello specchio davanti al lavandino, ma lo stato del vetro ricordava molto da
vicino il suo specchietto retrovisore. Ecco un'altra cosa fuori posto, dal momento che ricordava di
essercisi lavato la faccia un paio di giorni prima. Ricordò anche il dettaglio di se stesso che con un
panno morbido ripuliva dagli schizzi d'acqua e sapone quello specchio. Ci potete giurare che era in
ottime condizioni. Fece scorrere l'acqua e la guardò, come sempre, passare dal color terra al chiaro,
al trasparente. Se ne riempì le mani a conca e se le portò alla bocca. Non gli sembrava vero. Bevve
quanto più poteva, e la sete, per il momento, si alleviò. Ma non passò del tutto. Sentì l'acqua
scendere dal palato alla gola, era così netta la sensazione, che riuscì a indovinarne il percorso
all'interno del suo corpo. Poi prese l'asciugamano per gli occhi, ne bagnò un lembo arrotolato e lo
passò sullo specchio. Niente da fare: non era polvere, era fanghiglia incrostata. E i minuscoli punti
in cui riusciva a grattarla via, il vetro era così graffiato e incrinato da rendere inutile qualsiasi
tentativo dei vedere se riconosceva il suo viso. Niente da fare. Si spogliò completamente ed entrò
nella doccia. Per prima cosa voleva togliersi quell'odore di carne bruciacchiata che si sentiva ancora
addosso. L'acqua era gelida, ma benvenuta, anche nella casa fresca per via delle pareti di pietra
spesse quasi un metro. L'acqua gli fece scivolare via sudore e polvere, ma non quella strana
stanchezza, quella debolezza che avrebbe dovuto attribuire a notti insonni e all'appetito di chi arriva
a metà giornata senza nemmeno una colazione decente. E se non fosse che, non dico di fame, ma
anche solo di un sano appetito, non ne avvertiva affatto, quella debolezza non lo avrebbe
preoccupato più di tanto.
Solo sete. Una sete insanabile, perfino quando si mise a bocca aperta sotto la doccia, ingurgitando
tutta l'acqua che poteva. Uscito dalla doccia, sentiva ancora un non proprio gradevole sentore di
barbecue. Allora guardò con sospetto e severità i vestiti. Li lavò e li appese appena fuori casa, sulla
spaziosa veranda assolata. Sarebbero asciugati in poco più di un'ora, con quella canicola
inimmaginabile. Poi si sedette sul divano, nudo e quasi asciutto. Si era premunito di una grossa
caraffa d'acqua e aveva poggiato sul tavolino i due oggetti sbucati da sotto il sedile. Agguantò per
primo il pacchetto. Tolto l'elastico non fu difficile svolgere la carta. Conteneva bigliettini in
cartoncino colorato. Innumerevoli cartoncini con scritte in inglese e fotografie o disegni di donne
completamente nude o indossanti biancheria sexy, in pose provocanti. Che diavolo erano? Va bene,
quello che erano era chiaro: biglietti “da visita” di hostess britanniche, di tutte le taglie e per tutte le
tasche. Il rumore misterioso tirò una bordata mica da ridere, questa volta accompagnato da una fitta
al cervello che lo fece quasi sobbalzare. Sentì anche riaffiorare quell'aroma di carne alla brace, che
in quel momento cominciava a dargli la nausea. Ma almeno ricordò. Quell'insieme di cartoline
oscene era un regalo. Un suo collega (Massimo... Mario?) glie le aveva portate da un viaggio a
Londra che doveva durare due giorni e invece lo aveva tenuto li per più di un mese. A Fausto era
piaciuto molto quel souvenir insolito e sfacciato. Aveva deciso che le avrebbe sistemate su un
cartoncino e ne avrebbe fatto una sorta di quadro, da appendere magari proprio li, nella sua bicocca
segreta. Ma non lo aveva mai fatto, e col tempo aveva smarrito quel prezioso pacchetto. Si
domandò cosa ci facesse sotto il sedile della sua Renault 5.
Poi prese il walkman e gli auricolari. Infilò lo spinotto nell'apparecchio e gli auricolari nelle
orecchie. Schiacciò il tasto play e ne venne fuori musica. “Agua De Beber”, cantata da Astrud
Gilberto, per la verità un po troppo lento. Per via delle batterie scariche. Si distese sul divano,
poggiando la testa su un bracciolo basso e prese a osservare il wolkman che scendeva e saliva lento,
sul suo stomaco. Cominciò ad arrivare il sonno. Era piacevole, quella tregua. La musica era
incredibilmente dolce e lui terribilmente stanco. Cominciò a chiudere gli occhi a tratti, e a sognare
cose confuse. Prese a camminare per un prato. Si ritrovò in un campo fra due filari di alberi, sferzati
da un vento molto energico, che ne piegava le chiome a destra e li faceva ondeggiare all'unisono,
come se danzassero. Nel cielo poche nuvole bianche in rapido movimento. Lontano vedeva
qualcosa di rosso. Camminò in quella direzione per un po e si accorse che era una sorta di foulard
rosso, che svolazzava nella corrente d'aria, cambiava direzione, sembrava volersi adagiare sull'erba,
ma all'ultimo momento cambiava idea e si elevava quasi fin sulle cime degli alberi per poi ricadere
dolcemente. Voleva afferrarlo, e allora cominciò a correre. Ma per quanto corresse quella cosa
setosa e leggera si allontanava di continuo. Poi il foulard spiccò una volo e scomparve nel cielo.
Fausto si accorse che aveva superato i filari di alberi, e che adesso si trovava in un campo aperto,
con l'erba rada e dal terreno reso irregolare da avvallamenti ovunque. In lontananza vide una mucca.
Camminò in quella direzione. La mucca gli dava le spalle e brucava, ignara del suo arrivo. Era
bianca, con chiazze nere sempre più vistose dal torace alla testa. Si era fermato a una ventina di
metri. Ne osservava la coda dondolante. Decise di avvicinarsi, a lenti passi, cercando di fare meno
rumore possibile. Ma quando gli fu a non più di cinque metri, la mucca girò il collo di scatto e prese
ad osservarlo. L'immagine era resa vagamente sinistra dal fatto che l'animale era rimasto
assolutamente immobile, come congelato. Non respirava, la coda era adagiata in basso senza il
minimo movimento e non un pelo si spostava di un millimetro, nonostante il vento. Perfino i due
alberelli in lontananza avevano cessato di ondeggiare e ora sembravano come visti da una cartolina,
così come l'erba tutto intorno. Un attimo dopo anche il vento scomparve. Silenzio assoluto,
immobilità assoluta.
La sveglia glie la diedero in due: il rumore misterioso e una voce. Il rumore ora sembrava
leggermente più chiaro. Somigliava, ma molto alla lontana, allo stapparsi di una bottiglia di
spumante. Quel suono, seppur lieve, gli diede una fitta quasi insopportabile nella testa. La voce che
sentiva, invece, era la sua. Si accorse che le sue stesse parole, incise nel nastro, avevano interrotto
“Welcome to the machine” dei Pink Floyd. Si mise a sedere, spegnendo il registratore. Si ricordò
improvvisamente il momento esatto in cui aveva registrato lui stesso quella cassetta, moltissimi anni
prima. Era a una festa. Era un adolescente. Era una di quelle occasioni in cui si organizzavano feste
nelle case degli amici, dopo aver sbattuto fuori parenti e genitori con stratagemmi faticosi e molto
creativi. La festa era a casa di una ragazza che gli piaceva. Aveva portato delle cassette di musica
che aveva registrato per l'occasione. Una doveva regalarla a lei. Fausto credette di ricordare che si
chiamasse Giovanna. A Giovanna piaceva una band che si chiamava ELO, acronimo per Electric
Light Orchestra. Lui li detestava, non sopportava le vocette e i cori ruffiani, che sovrastavano le
musichine sessantesche e, secondo lui, alquanto banali. Ma, lo sapete anche voi, se te lo chiede la
bocca giusta, uno impara a farsi anche il nodo alla cravatta... Fausto frequentava una radio locale, e
una volta alla settimana aveva la mansione di registrare musica varia nelle bobine che venivano
trasmesse automaticamente di notte. In cambio poteva “farsi le cassette”, sebbene avesse avuto più
volte il desiderio di “farsi” Loredana, la speaker delle dieci di sera, sei anni più vecchia di lui, che
fumava di nascosto alla finestra dello studio, fra un disco e l'altro (una ogni 4 minuti!) e vestiva
spesso con gustosissimi gonnellini variopinti, che non stonavano poi tanto con gli anfibi portati
anche ad agosto. Fatto sta che passò un paio di notti a registrare questa stramaledetta cassetta con il
meglio degli ELO (la scritta sulla cassetta era “the beast of ELO”, nessuno seppe mai se fosse stato
un semplice refuso o una volontà dell'inconscio). Fu una sofferenza dover ascoltare “Mr. Blue Sky”,
o peggio “Don't Bring Me Down”. L'orlo del baratro fu raggiunto con “Confusion” (che ogni
mattina gli era gentilmente offerta dal juke box del bar davanti alla scuola, all'ora di ricreazione),
anche se Fausto dovette ammettere che “Evil Woman” non era poi così vomitevole. Ad ogni modo,
si era presentato alla festa con in tasca il sudato trofeo. D'accordo, Giovanna ce le aveva quasi tutte,
su vinile, ma non mescolate ad arte in un'unica cassetta da novanta minuti. Novanta minuti possono
passare in un attimo o durare in eterno, è questione di punti di vista. Non ci vollero che una trentina
di minuti per scoprire che la sua fatica era stata del tutto inutile. I balli erano già iniziati, e dal modo
in cui Giovanna scuoteva dolcemente la testa fissando e sorridendo a Sergio, mentre ballava
attaccata a lui, semplicemente non era aria. Siccome era estate a una certa ora si spostarono tutti in
una spaziosa veranda, con un gigantesco radione poggiato per terra, dal quale uscivano canzoni
come “Whatever you want” (Status Quo) e, per fortuna, anche “Another One Bytes The Dust”, col
“nuovo” cantante dei Queen. Fausto non ricordava come, ma ad un certo punto si era ritrovato da
solo in camera di Giovanna, chino sul cassettone dei dischi, accanto allo stereo spento. Sfogliando
le copertine, verso la fine, trovò un insospettabile “Wish You Were Here” dei Pink. Superando la
sorpresa, lo estrasse dalla copertina e lo mise sul giradischi. Dopo la lunga introduzione, la
decisione arrivò: estrasse la cassetta dalla tasca sinistra dei pantaloni, la sistemò nel registratore
dell'impianto stereo e premette il tasto REC insieme con il tasto PLAY. Sollevò la puntina dal disco
e appena intravvide il nastro bianco di protezione lasciare spazio a quello magnetico, dopo circa
cinque secondi, rimise la puntina sul disco. Serata mezza salvata, in fondo.
Ora quel cimelio era stato violato dalla sua stessa voce. Cercando di ignorare l'odore di carne
arrosto che non gli abbandonava il naso neppure per un istante, Fausto riportò indietro il nastro.
Riascoltò le sue parole dall'inizio.
“Allora, la storia narra di un direttore di testata che scopre che il suo correttore di bozze sta
scrivendo un libro. Il libro parla... di una rapina. Una rapina informatica, la rapina perfetta....”
La memoria gli esplose nel cervello come una bomba. Fausto era un correttore di bozze in fuga,
sudato e perennemente assetato. Bevve una sorsata direttamente dalla caraffa, svuotandola per metà.
Il suo capo si chiamava Giandomenico. Era direttore di una rivista che pubblicava saggi scientifici
di vario genere. Oltre a una serie di pubblicazioni periodiche, si occupava anche di traduzioni di
importanti opere scientifiche di livello internazionale e della pubblicazione di una newsletter su
internet, che comprendeva, oltre a un blog e alla testata ufficiale dell'azienda, la pubblicazione
elettronica, gratuita o a pagamento, di opere già edite da tempo e per le quali non si riteneva ci fosse
più un mercato cartaceo. Fausto lavorava da sei anni nell'azienda, ufficialmente in qualità di
correttore di bozze, ma praticamente faceva parte del comitato di lettura, ed era diventato un buon
amico del direttore.
Il tappo di bottiglia scoppiò di nuovo. La fitta venne dal collo, questa volta. Fausto continuò ad
ascoltare il nastro. Erano appunti per un libro. A grandi linee spiegavano che una giovane impiegata
nella casa editrice, in qualità di curatrice del software interno e per il web, aveva escogitato un
piano per arricchirsi. Nel libro si sarebbe dovuta chiamare Elisabetta, e veniva descritta come una
persona non proprio dedita alla vita sociale, preferendo dedicare anche il suo tempo libero alla
programmazione. Era una sorta di genio, con un paio di macchie nel passato. Roberto spense il
registratore: non ne aveva più bisogno. Ricordava perfettamente i suoi stessi appunti, ora. Elisabetta
aveva avuto un paio di denunce, finite nel vuoto, nelle quali veniva accusata di aver creato e
divulgato un paio di virus informatici per la raccolta di informazioni riservate e per tentativi di
phishing. Ovvero per aver simulato pagine ufficiali di banche online, inviandole per e-mail agli
indirizzi illecitamente raccolti con i virus, per indurre le persone a inserire password di accesso ai
loro conti correnti online, facendogli credere che fossero effettivamente le pagine ufficiali delle
relative banche. Nessuno era riuscito a dimostrare nulla, perciò Elisabetta ne era uscita indenne. Ma
nel frattempo, aveva segretamente mantenuto tutte quelle informazioni e le aveva utilizzate per la
creazione di un altro virus, ben più potente, da inserire nei server delle banche per carpire spiccioli
da ogni conto corrente e depositarli nel suo. Il virus, ogni notte, avrebbe prelevato pochi centesimi
di euro da ciascun conto corrente e li avrebbe accreditati su un paio di conti intestati ad Elisabetta.
Lo stesso virus avrebbe cancellato le tracce delle transazioni. Nel giro di alcuni mesi, Elisabetta
sarebbe diventata ricca.
A parte una certa banalità della storia, era abbastanza chiaro il riferimento a “Profondo Blu”, di
Jeffery Deaver. La storia, comunque, continuava con il direttore di Elisabetta che scopriva il piano e
se ne impossessava, mettendo a tacere Elisabetta minacciandola di divulgare quanto aveva scoperto
delle sue illecite attività. Il finale non c'era.
Ancora sete. Fausto svuotò la caraffa e la riempì di nuovo. E bevve ancora. Fu preso da una sorta di
panico, quando si accorse di sentire l'aroma del barbecue, come un animale che gli si fosse
attanagliato alla faccia e non riuscisse in alcun modo a scrollarselo di dosso. Camminò trascinando
i piedi sul pavimento. Fuori si era alzato un vento forte. E il tempo era cambiato. Nuvoloni tutt'altro
che rassicuranti e qualche lontano tuonare sommesso gli fecero ricordare dei vestiti stesi fuori. Usci
di casa con un asciugamano intorno alla vita. E scoprì con disappunto che il filo era vuoto, le
mollette sparse sul terreno. Evidentemente il vento si era preso camicia, pantaloni e calzini.
Rientrato in casa bevve un altro sorso e si avvicinò al vecchio armadio che completava
l'arredamento di quella casa. Scostò le ragnatele sulle ante e ne aprì una, dalla parte dove in genere
teneva un cambio pulito da indossare dopo eventuali lavori di ristrutturazione. Trovò dei vestiti un
tantino troppo stretti. Non che fosse ingrassato, ma erano indumenti da neonato. Tutti ben piegati e
profumati, come appena lavati. Li prese, piuttosto sbigottito e li annusò. Sapevano di lavanda e di
pulito. Mentre li maneggiava dagli abiti cadde una vecchia fotografia. Rimise i piccoli indumenti al
loro posto e raccolse la foto. Era lui, a undici anni. Sorrideva, ma aveva una maschera di sangue sul
viso. Aveva le ginocchia orrendamente sbucciate e i capelli al vento. La foto lo ritraeva con alle
spalle una vecchia casa di campagna diroccata dipinta di rosa. Non gli ci volle molto per ricordarsi
della rovinosa caduta in bici, avvenuta pochi minuti prima dello scatto. Ricordò che saltava da una
rampa di terra dopo una rincorsa e che quella volta, il manubrio della bici si era spezzato in volo.
Fausto si sorprese a maneggiare il ricordo con la foto penzoloni da una mano, un braccio poggiato
sull'anta chiusa dell'armadio e lo sguardo nell'oscurità di quella aperta.
Fu risvegliato da quella specie di trance da un odore familiare. Un odore di materiale sintetico,
come simil-pelle. Era un odore che conosceva, di roba nuova, appena comprata. Proveniva dallo
scaffale più in alto dell'armadio. Guardò meglio. Qualcosa di lancinante gli passò per le cellule
cerebrali, qualcosa che aveva un significato così chiaro eppure così impossibile da accettare. Non
poteva vedersi, ma se lo avesse fatto avrebbe visto una fronte accartocciata dalle rughe, una bocca
semi aperta e occhi come fessure. Allungò lentamente una mano. Afferrò la borsa di pelle sintetica.
Se la portò vicino al petto. Il respiro era affannato e nelle sue movenze, nel suo sguardo e nel suo
spirito, la paura si stava allargando come una enorme e minacciosa macchia d'olio nel mare. Non
guardava la borsa, guardava in alto. Cercava la spiegazione. L'unica possibile, che però non
arrivava. Forse perché lui stesso non la voleva. Poi si decise ad abbassare lo sguardo. Aprì
lentamente la borsa, dall'odore di nuovo e dalla forma familiare. Ne estrasse ad uno ad uno, tutti i
componenti della sua attrezzatura fotografica nuova di zecca, poggiandoli sullo scaffale
dell'armadio. E in fondo alla borsa, le chiavi del Morini. Quelle le lasciò ricadere nella borsa, e la
borsa cadde sul pavimento. Il rumore misterioso, trasformatosi in un rumore leggermente più
metallico di uno stappare di spumante, ma sempre molto somigliante, gli strappo un “Ah”, di dolore
vero. La fronte gli regalò una fitta, forse più una pulsazione dolorosa. E un leggero senso di
bruciore che si dileguò in qualche secondo. Voleva accasciarsi su una poltrona, ma la sete 1o
convinse a camminare fino al rubinetto del lavabo e bere direttamente dal fiotto d'acqua, per diversi
secondi. Il pensiero sottile che il rumore e la fitta, così sincronizzati fossero indice di un oscuro
malanno, latente per anni, ma che ora presentava il conto, gli fecero venire in mente che da ore
beveva come un cammello, ma non aveva alcuno stimolo ad orinare. Niente fame, ne voglia di una
liberatoria pisciata nel prato. Solo sete. E caldo, nuovamente caldo e sudore. Ancora l'odore di
salsiccia bruciacchiata. Si avvicinò al frigo. Aprì la porta per cercare del fresco. L'odore era
insopportabile. Tutto quello che conteneva era pressoché marcio. Il frigorifero era acceso e fresco,
ma quella roba sembrava essere li dalla caduta del muro di Berlino. Un rumore dalla zona
“soggiorno” lo sorprese. Era il cellulare, che con una serie di beep gli comunicava la presenza di
numerosi messaggi non letti. Chiudendo la porta rifletté sul fatto che non era mai riuscito a usare il
cellulare in quella casa. Si avvicinò alla poltrona dove lo aveva buttato ore prima e lo afferrò.
Cominciò a scorrere i messaggi ad uno ad uno. Erano di Maria Teresa. Il più vecchio risaliva a tre
giorni prima. E già diceva qualcosa come “ma dove sei finito?” Da tre giorni non rientrava a casa.
Da tre giorni fuggiva, non mangiava ne beveva. E non dormiva. Come poteva essere ancora in
piedi?
Si ricordò del libro. Veniva a passare intere serate nella casetta per scrivere! Giandomenico si era
dimostrato piuttosto freddino, alla richiesta di pubblicazione da parte di Fausto. Poi la freddezza si
era trasformata in interesse, poi in entusiasmo. Tutto questo senza modificare una riga del
manoscritto che Fausto gli aveva dato da leggere a più riprese. Che fosse uno di quei libri che
bisogna rileggere per apprezzarne le intrinseche qualità? Non direi proprio, si rispose Fausto. Era
spazzatura. Ma non sotto tutti i punti di vista. Fausto cominciò a ricordare che improvvisamente
Giandomenico gli fece una proposta editoriale, un bel contrattone, con tanto di anticipo e royalties.
Il suo capo, inoltre, gli aveva chiesto qualsiasi altra copia, appunto o annotazione originale, per
custodirli in un posto sicuro. Improvvisamente aveva cominciato a comportarsi come se fosse di
fronte al best seller che avrebbe capovolto le sorti di una casa editrice in difficoltà. Difficoltà
decisamente aggravate da un certo interesse per il gioco d'azzardo di Romina, moglie di
Giandomenico. Non ci aveva mai fatto troppo caso, ma ora riusciva a collocare tutta una serie di
piccole stranezze alle telefonate di Giandomenico con Romina. Iniziavano violente e definitive. E
terminavano con “attacca tu, no attacca prima tu”. Una volta rimasero senza connessione a internet
per un mese. C'era un guasto alla rete, aveva detto Giandomenico. Il guasto alla rete si sanò da solo
quando Giandomenico trovò i soldi per pagare le bollette arretrate. Poi cominciò a chiedere l'ora a
tutti, finché Fausto non notò l'assenza del suo prezioso orologio al polso. Nel giro di tre mesi anche
un idiota avrebbe capito che Giandomenico era alla disperazione. Poi una mattina si presentò in
ufficio con un entusiasmo dipinto sulla faccia che faceva invidia allo spot di propaganda in favore
della plastica, con quel demente che urlava di gioia tutto circondato di bacinelle, trapani, telefoni. E
gli fece la proposta. Che fosse impazzito? Anche Fausto aveva abbandonato l'idea, tanto banale gli
sembrava il suo stesso manoscritto, dopo averlo riletto. E Giandomenico batteva soprattutto sulla
segretezza, “Mi raccomando, portami qualsiasi cosa, anche un post-it, non lasciare nulla in giro”. E
Fausto lo fece di buon grado, se questo significava ricevere gli arretrati sullo stipendio e, peggio,
non doversi cercare un altro lavoro, alla sua età.
La bottiglia si stappò ancora una volta. E questa volta il bruciore rimase li per un po'. Questo fece
battere forte il cuore di Fausto. E gli fece bere un'altra bella sorsata. Gli fece fare anche un
capitombolo in avanti con i ricordi. Ricordò il tizio magro con la faccia butterata, che entrò in
azienda una mattina, presentato come collaboratore esterno. Un cero Marcello. Doveva occuparsi
della rete, del software interno e del web... Non ti suggerisce nulla, Alfredo? A quei tempi no, eri
troppo occupato a fantasticare sui guadagni del tuo primo libro. Poi Giandomenico iniziò a chiedere
informazioni. Dettagli, cose così. Gli chiedeva se fosse possibile ampliare la parte relativa alla
descrizione tecnica del virus informatico. Gli affiancò Marcello, per un periodo, allo scopo di
sviluppare una spiegazione tecnica credibile per il piano dell'accreditamento segreto sul conto
corrente intestato al personaggio di Elisabetta. Furono due settimane piuttosto intense, sembrava
solo quello il fulcro del libro. Fausto di tanto in tanto domandava a Giandomenico (e a se stesso) chi
diavolo avrebbe voluto leggere pagine e pagine di tediose descrizioni tecniche? Ma andò avanti: il
momento era vicino.
Poi lo fecero. Giandomenico e Marcello. Se ne accorse una sera che fece metà della strada verso
casa senza portafogli, ne documenti, ne patente di guida. Aveva dimenticato tutto lo zaino sulla
scrivania, per la fretta di tornarsene a casa, dopo una giornata devastante. Era rientrato in ufficio e li
aveva sentiti attraverso il sottile pannello di compensato che separava il suo ufficio da quello di
Giandomenico. Aveva iniziato a sentire delle parole come “non se ne accorgerà nemmeno”, con
inframezzato il suo nome. Allora aveva preso il walkman col quale registrava gli appunti e lo aveva
attaccato alla parete. Fausto si avvicinò al divano, prese il walkman, fece scorrere il nastro due o tre
volte, finché non ritrovò il punto esatto. E riascoltò quella conversazione.
“Allora stiamo sicuri, no?” Era la voce calma di Marcello.
Giandomenico aveva una punta di nervosismo, e quindi la sua voce risultava leggermente stridula:
“Ma si, te l'ho detto, mi ha consegnato ogni traccia, anche il più piccolo appunto. Farò in modo che
la polizia lo trovi nel cassetto della sua scrivania”.
Marcello obiettò che sarebbe stato un problema se Fausto fosse riuscito a dimostrare qualcosa.
Allora Giandomenico ribadì per la decima volta:
“Allora, come ti ripeto, il virus partirà dal PC di Alfredo. Io domani gli dirò che purtroppo non se ne
fa nulla, che sono mancati i fondi, che il manoscritto per il momento resterà in stand-by. Insomma,
lo faccio incazzare. E faccio in modo che lo sentano tutti. Chiunque penserà a una vendetta, a una
rivincita. Il conto corrente è quello che gli avevo aperto per le spese di lavoro, appena mi dici che la
cifra... insomma, che la cifra è raggiunta, ritiro tutto in contanti. E ti passo la tua parte.”
A quel punto dal wolman si sentì una porta che i apriva, e le voci molto più chiare di prima. Ora era
quella di Fausto
“Questa bastardata è roba tua oppure proviene da questa testa di cazzo?”
“Cazzo, Fausto, eri andato via... ascolta, sta a sentire... “
“Ho sentito abbastanza. E registrato abbastanza, per fortuna. Questo va dritto alla prima questura
che incontro per strada”
“Aspetta! Chi pensi che ti possa accusare? Faranno un po' di baccano all'inizio, ma i soldi saranno
spariti, e poi chiunque sarebbe potuto entrare nel tuo ufficio... Ecco!, Ecco! Lo sanno tutti qui che
lasci sempre la porta aperta quando te ne vai! Mi sono pure incazzato un paio di volte per questo, e
lo hanno sentito tutti. Potrebbe essere stato chiunque!
“E se devo fidarmi di te, perché non me lo hai detto direttamente?”
“Cristo, Fausto, non sapevo come l'avresti presa. Senti, sono un mucchio di soldi. Ti do la metà
della mia parte”
“Già, appena esco di galera, no?”
“No, no... ecco, guarda, ti faccio un assegno subito... la cifra finale dovrebbe essere...”
“Questa era una cosa che non doveva succedere Gian”
disse calmo Marcello. La sua faccia era di pietra. Giandomenico era molto oltre la disperazione:
“Per favore, Marcello, è una cosa che risolvo io con lui, non c'è alcun bisogno che tu ti
intrometta...”
“Vedi Gian, se io non mi intrometto, e te l'ho detto fin dall'inizio che mi sarei intromesso se
qualcosa fosse andato storto, questa cosa salta per aria. E quello che ho visto stasera è chiaramente
qualcosa che è andato storto.”
Mentre lo diceva, Marcello prendeva il suo zaino, ne estraeva il computer portatile, la batteria di
ricambio, frugava sul fondo e ne estraeva un panno che avvolgeva qualcosa.”
“Ma che... che cazzo sta facendo?”
Diceva Fausto, con sorriso isterico.
“Vattene, vattene via adesso, ne parliamo domani, adesso vattene!”
Gli aveva urlato Giandomenico. Quel vattene, urlato guardandolo dritto negli occhi, significava
qualcosa di più importante, che non si poteva spiegare, ma alla quale bisognava credere ciecamente.
Sarebbe stato molto meglio andarsene, invece Fausto rimase a guardare Marcello che svolgeva con
lentezza il panno e Giandomenico che cercava di fermarlo, dall'altra parte della scrivania, tentando
di afferrargli le mani, i polsi.
“Per favore, Marcello, per favore, è una cazzata, non c'è alcun bisogno”, diceva Giandomenico.
Collegando le parole alle azioni, Fausto vide cosa c'era nel panno un istante prima che lo si vedesse
realmente. La pistola era nera, e avvolto nello stesso panno c'era il silenziatore. Quanto ci vuole per
avvitarlo? Otto secondi o forse dieci. Fausto schizzò dall'ufficio e salì in auto. Partì a razzo,
ricordandosi di fermarsi davanti al cancello, per scendere più in fretta che poteva, azionare
l'apertura dalla colonnina, rientrare in auto e schizzare come una cometa lontano da li. Mentre il
cancello scorreva, si tranquillizzò dalla totale assenza di passi in corsa che lo raggiungessero.
Probabilmente quel pazzo aveva cambiato idea, o forse Giandomenico lo aveva convinto. O forse...
la pistola non era per lui. Un brivido gli corse la schiena. Il cancello era aperto abbastanza perché
potesse passarci. Proprio in quel momento Marcello si materializzò alla sua sinistra, dietro il
finestrino aperto.
“sta a sentire” Cominciò cauto Fausto.
“Sono tutt'orecchi” rispose Marcello. E sparò. Il colpo era attutito, somigliava al tappo di una
bottiglia di champagne. La fitta gli attraversò la testa, trasformandosi in una sensazione di bruciore.
Sentì un forte odore di carne arrostita, talmente intenso che sembrava non dover svanire mai più.
Poi era l'estate prima, quando comprò il gommone, che si bucò dopo cinquanta metri e lui e Maria
Teresa nuotarono fino a riva, poi l'inverno prima, quando comprarono un televisore a cristalli
liquidi, poi anni prima quando Maria Teresa imparò a guidare una moto di grossa cilindrata, poi si
incontrarono per la prima volta in un bar appena fuori la palestra, poi si iscrisse a quella palestra,
poi ebbe le convulsioni quel sabato, poi era freddo, lui stava in piedi in una notte nebbiosa, con un
fucile in mano, e mesi prima arrivò alla caserma piuttosto disorientato, poi ebbe il diploma, poi
diede un passaggio a una ragazza che faceva l'autostop, poi ritirò la moto, poi diede uno schiaffo
alla sua maestra di terza elementare, poi gli faceva male la gola, per aver gridato tutto il giorno,
poi... Poi fu svegliato da un lungo letargo, a testa in giù, bagnato fradicio, freddo e spaventato. Il
cuore gli batteva furiosamente. Poi lentamente rientrò nella vagina di sua madre. Ne vedeva
l'apertura che si allontanava e lui veniva spinto sempre più in fondo, nel tunnel dalle pareti umide e
calde. L'imboccatura di quel tunnel stava per chiudersi quando si fermò per qualche secondo, e
ricominciò ad avvicinarsi. Si avvicinava sempre di più finché non divenne abbastanza grande per
passarci di nuovo attraverso, con la sua Nissan Micra, dal cui parabrezza poteva vedere la galleria
dileguarsi dietro le sue spalle e percorrere di nuovo la strada statale, sotto la canicola di fine luglio.
E imboccare quell'improvvisa stradina laterale a destra, quindi lanciarsi nella polvere, stanco,
assetato e bagnato come un pulcino. Per ritrovarsi davanti un armadio, a farsi delle domande la cui
risposta sarebbe dovuta essere ovvia. Si voltò, guardo la stanza. Sul tavolo c'erano le chiavi della
Nissan. Camminando fino alla porta a vetri poteva vederla parcheggiata in fondo all'ultimo tratto di
curva che portava davanti alla porta di casa. Guardò ancora una volta la stanza e, come sospettava,
il walkman, le chiavi, l'attrezzatura fotografica e la foto, tutto scomparso. Perché diavolo avrà avuto
l'illusione di guidare una Renault 5 poi... Non aveva più nemmeno l'asciugamano intorno alla vita. E
non aveva più sete ne mal di testa. Sentì bussare sulla porta a vetri. Era il ciccione col bambino in
braccio. Lo guardò per un po'. Aveva l'aria serena, quel panzone. Pazientemente bussò ancora.
Fausto si avvicinò alla porta. Quando fu abbastanza vicino per afferrare la maniglia, riuscì a
specchiarsi nel vetro. Era bianco come un osso, magro. Aveva un grosso foro rosso al centro della
fronte. Dal quale probabilmente fuoriusciva un odore di carne bruciacchiata. Aprì la porta, e il
ciccione si avviò verso la discesa. Fausto stette a guardarlo fuori dall'uscio. L'uomo si fermò e si
voltò ad aspettarlo. Quando Fausto si mosse, l'uomo ricominciò a scendere la stradina. Seguendolo,
Fausto passò a fianco alla Nissan, sbirciando per un attimo all'interno. Il sedile del conducente era
ricoperto di sangue, con particelle di materia organica grigiastra. Scesero così. Il ciccione davanti e
Fausto completamente nudo, lungo la stradina che portava al cancello. Non sentiva alcun fastidio
alle piante dei piedi. E non provava alcuna vergogna per la sua nudità. Appena fuori dal cancello li
aspettava il fuoristrada. Entrarono. Alla guida c'era l'uomo tatuato, accanto sedeva la donna. Gli
sorrisero con estrema dolcezza, voltandosi verso di lui. Sull'enorme divano posteriore si sistemò
l'uomo con in braccio il bambino, sorridendogli. Fausto ebbe una sensazione piacevolissima quando
la sua pelle entrò in contatto con la stoffa del divano. Con estrema delicatezza la vettura partì.
Fausto sentì una sensazione sotto il piede destro. Guardò in basso e vide che sul pavimento c'era un
vecchio giornale. Lo raccolse. Era datato 1984. Sfogliò qualche pagina e arrivò all'inserto sportivo.
Anche l'ultima domanda aveva trovato la sua risposta. Infatti lesse che il rally del salento del 1984,
era stato vinto dalla coppia Tommasi/Ciccarese, su Renault 5.