Le Città del Libro, una rete per unire forze ed esperienze

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Le Città del Libro, una rete per unire forze ed esperienze
Le Città del Libro,
una rete per unire forze ed esperienze
Roma, 9 gennaio 2014
Rolando Picchioni
Le Città del Libro tornano a riunirsi a nove mesi dall’incontro del 5 aprile
scorso a Torino. In quell’occasione intervennero oltre settanta località
italiane che organizzano festival e saloni dedicati al libro e alla letteratura,
con l’obiettivo – per la maggior parte di esse - di dialogare e darsi in
prospettiva una forma di coordinamento più strutturato e costante. Il
progetto è incardinato nel Centro per il Libro e la Lettura presieduto da
Gian Arturo Ferrari, che ringrazio per il grande lavoro di ideazione e di
vera e propria «cucina» organizzativa.
Mi piacerebbe che ciascuna realtà avesse potuto approfondire al proprio
interno i temi lanciati allora. Il workshop di oggi rappresenterebbe in
questo modo l’occasione per mettere in comune ragionamenti e
prospettive, che possiamo raggruppare per comodità entro quattro macroragioni: una di natura cognitiva, una di natura economica, una
organizzativa e una normativa.
Ragione cognitiva
Il contributo di natura cognitiva che spinge le Città del Libro a riunirsi
significa conoscerci fra noi, parlarci, condividere, confrontare e scambiare
esperienze; imparare ad adattare e mettere a frutto quei modelli virtuosi e
quelle buone pratiche che riescono a determinare il rapporto più felice
possibile con il proprio sistema territoriale e il proprio pubblico.
Per rendere concreto e continuo quest’obiettivo è stato varato il portale Le
Città del Libro, di cui ci parlerà la direttrice del Cepell Flavia Cristiano.
Un’infrastruttura di servizio, una sorta di «piazza d’Italia» digitale, un
display che verrà aggiornato e arricchito da ciascuna realtà, per offrire al
panorama dell’offerta di festival e saloni letterari del nostro Paese un
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canale che garantisca al tempo stesso comunicazione di rete e massa
critica.
Altro elemento di valore cognitivo è la possibilità di misurarci con lo
scenario europeo. Ne parlerà oggi pomeriggio Gian Arturo Ferrari.
Studiare come funziona un festival letterario in Spagna o in Scozia, in
Francia o in Germania – magari partendo da scambi e gemellaggi
bilaterali fra singole realtà - serve ad affrancarci da qualunque orgoglio
campanilistico. Ma soprattutto a condividere aspetti organizzativi e
legislativi, esperienze di rapporto con l’industria editoriale, il mercato e la
fisiologia del pubblico; a imparare a recepirli, importarli e adattarli al
nostro Paese e sviluppare sotto il loro stimolo modelli innovativi da
radicare in patti inediti fra i players e il proprio territorio di riferimento.
Questo anche alla luce della possibilità di aprire a molti quel rubinetto per
troppi di noi oscuro e inaccessibile, misterioso e intermittente qual è quello
dell’accesso ai bandi e finanziamenti dell’Unione Europea per i progetti
di sviluppo culturale.
Ma c’è un orizzonte più ampio, che va oltre le stesse opportunità offerte
dai bandi e strumenti dell’Ue. È la possibilità di varare finalmente una
politica organica e continua nelle città che hanno fatto del libro la loro
cifra identitaria, e che potrebbe scaturire come proposta distintiva del
semestre di presidenza italiana dell’Unione. Un traguardo importante
potrebbe ad esempio essere la nascita di un’associazione europea dei
festival e saloni del libro, un po’ sul modello dell’Efa, l’Associazione
Europea dei Festival di musica e danza che raccoglie oltre 100 realtà di
tutti i Paesi del continente e favorisce lo scambio e la condivisione di
competenze e di opportunità.
Ragione economica
La seconda ragione che ci riunisce è di natura economica. Abbiamo il
dovere di riflettere sul ruolo propulsivo che imprese culturali come le
nostre possono rivestire in un quadro come quello del sistema cultura in
Italia, che definire difficile è un bell’eufemismo.
La crisi economica ha fatto sentire il suo morso nella contrazione dei
consumi culturali. I dati Istat parlano del crollo di 4 milioni in un anno dei
visitatori nei musei e siti storico-artistici; del calo di nuovi titoli editoriali
pubblicati nel 2012, passati da 63mila a 59mila, fino all’erosione della
quota di italiani che leggono almeno un libro l’anno, passata dal 46% del
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2011 al 43% del 2012. E una famiglia su dieci dichiara di non possedere in
casa nemmeno un libro.
In stretto rapporto causa-effetto con questo quadro è il perdurare della coda
congiunturale nel reperimento delle risorse per chi produce cultura.
Le risorse di origine pubblica per la produzione e promozione di eventi
culturali sembrano aver arrestato la caduta degli anni passati, ma non
accennano a decisive inversioni di rotta. Si ha, anzi, la sensazione diffusa
che il riallineamento al basso sia stato accettato come un fatto compiuto
doloroso ma irreversibile. La finanza pubblica ha peraltro saputo, in alcuni
casi, reagire con coraggio e creatività: nel caso di Torino, ad esempio, la
Città ha stabilito di conferire alle fondazioni museali e culturali – a
integrazione del tradizionale contributo in spesa corrente - patrimoni
immobiliari pubblici per 18,25 milioni di euro da immettere sul mercato
e convertire in liquidità.
Occorre ricordare che, su questa strada, gli Enti pubblici hanno seguito la
fase di riscrittura profonda già avviata da anni nei rapporti fra soggetti
organizzatori, istituzioni e partner quali imprese private e fondazioni di
origine bancaria: anche qui una metodologia sicuramente benefica, ma
che nella prassi a volte rasenta la navigazione a vista, altre indulge in una
vera e propria ossessione valutativa ex post sulla redditività
dell’investimento effettuato.
Il presidente Anci Piero Fassino ha ben illustrato qual è, e quale potrebbe
essere, il ruolo delle città negli scenari attuali e nella prospettiva di più
profonde riforme istituzionali. Dal crowdfunding con la libera
contribuzione individuale fino alle proposte d’intervento sulla fiscalità e il
tax credit, è un campo del tutto aperto e di non facile attuabilità: ma è una
possibilità su cui si gioca la capacità di trasformare l’impresa culturale in
motore di sviluppo e benessere per un Paese che per uscire dal tunnel deve
cambiare pelle.
Proprio per questo abbiamo il dovere di interrogarci se il coordinamento e
la condivisione di esperienze e modelli organizzativi possano aiutarci ad
essere più forti e reattivi, e a offrire risposte efficaci a questa situazione
strutturale.
Di positivo c’è il fatto che, negli ultimi anni, gli studi di economia della
cultura si sono fatti sempre più numerosi e ascoltati, dimostrando - dati
alla mano - che «con la cultura si mangia» e si creano posti di lavoro. A
ogni tappa del nostro percorso, Guido Guerzoni aggiunge e raffina via via
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i tasselli metodologici per mettere a fuoco in modo sempre più dettagliato
questo panorama: ma anche, se serve, per aiutarci a tenere i piedi per terra
sfatando rosei miti consolatori e smentendo profezie alquanto fallaci.
A fronte di questi scenari, diventa ancora più importante studiare il
cambiamento genetico che, per effetto della crisi, le politiche culturali
stanno conoscendo in questi anni.
Nella finanza pubblica, ma anche nella filosofia di programmazione e
d’intervento di sponsor e partner privati, la cultura è stata a lungo una delle
«politiche di settore» per antonomasia, con budget a sostegno rigidamente
predeterminati e normati. Tutti gli studi, oggi, sottolineano coralmente
come la cultura non sia più concepibile quale comparto o settore a sé
stante, ma debba diventare l’oggetto di energiche e innovative politiche
intersettoriali che coinvolgano in modo sistemico gli attori istituzionali,
sociali, economici e infrastrutturali più diversi.
La cultura stessa sta comprendendo che non deve più essere un panda.
Che non deve più restare orgogliosamente rinchiusa nella propria torre
d’avorio, aristocratica sì ma autoreferenziale e assistita, bensì dialogare e
fare sistema assieme a tutte le realtà produttive: impresa e servizi,
infrastrutture e trasporti, media tradizionali e innovativi, heritage e
paesaggio, cultura materiale e immateriale, ricettività ed
enogastronomia, formazione e start-up.
Sembrano cose scontate: ma chi le sta facendo? Chi sta gettando le basi di
un nuovo sistema che contemperi in modo organico e non isolato o
episodico il piano delle norme, degli incentivi, della fiscalità, della
coesione e delle economie di scala su base territoriale?
Che il dicastero del ministro Massimo Bray finalmente accorpi e metta in
rete le competenze di beni, attività culturali e turismo potrebbe essere
l’inizio di questa nuova consapevolezza e sensibilità. Ci auguriamo che
possa lavorare avendo a disposizione tempo, mezzi e serenità, e riesca a
vincere le limacciosità di troppe diffidenze, visioni settoriali e rendite di
posizione.
A supporto di queste riflessioni interviene Giuseppe De Rita. Nella sua
lunga esperienza, forse nessun altro come lui ha saputo leggere a luce
polarizzata l’Italia e i suoi cambiamenti, dare un nome ai nostri
comportamenti, aspirazioni e stili di vita.
Spunti molto interessanti su questo fronte vengono dalle sue analisi
preparatorie all’Expo di Milano 2015. L’appuntamento si presenta infatti
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come la grande occasione per ripensare e rilanciare il soft power del
territorio italiano. La grande differenza con l’expo di Shanghai del 2010 sottolinea con acume De Rita - è che laddove quella ha rappresentato
l’esaltazione del modello asiatico del neourbanesimo, delle opportunità
della megalopoli come sfida per il futuro, l’Expo di Milano rappresenta
invece la proposta del modello alternativo dove città e campagna si
integrano e dialogano: la «ricchezza morbida» dell’Italia delle cento città,
che non ha mai smarrito il rapporto fra torri e contado, fra spazio urbano e
paesaggio rurale e umano. Per usare le parole di De Rita: «Un soft power
che ha saputo tenere assieme città e campagna, il metal-mezzadro
nell’Italia del capitalismo di territorio fino a giocarsi un ruolo nella
turistizzazione del mondo».
Mettere in valore la biodiversità culturale del nostro Paese attraverso la
creazione di reti e di economie di scala è la sfida su cui il Salone
Internazionale del Libro si sta concentrando in questi mesi e dalla quale sta
prendendo forma per l’edizione 2014 il progetto a favore degli editori
indipendenti.
A differenza di altri Paesi d’Europa e del mondo dove i giochi sono
concentrati nelle mani di pochi grandi gruppi industriali mainstream, nel
nostro Paese l’editoria indipendente è ancora una grande ricchezza, un
tesoro diffuso di bibliodiversità che mantiene accesa la lucerna della
creatività, della qualità editoriale e di stampa, della ricerca di nuovi talenti
lontani da logiche eterodirette dal marketing. Gli editori indipendenti sono
il baluardo a presidio di territori mentali a rischio desertificazione, quali
generi letterari poco frequentati o lingue minoritarie, poesia o memoria
locale di quell’Italia delle cento città che proprio le parole di De Rita ci
ricordavano poco fa.
Il Salone del Libro ha sempre avuto cura del patrimonio degli editori
indipendenti, che a Torino non sono confinati in programmi di serie cadetta
o padiglioni di risulta, ma ricevono pari dignità e visibilità accanto ai
grandi gruppi editoriali. Eppure è inevitabile che le strutture fragili,
familiari, artigianali di queste industrie culturali siano quelle che hanno
patito di più la recessione, costringendo molti a rinunciare o ad affrontare
costi difficilmente sostenibili pur di esserci nella grande vetrina del
Salone di Torino.
Per questo dall’edizione 2014 – accanto a benefit economici e
organizzativi - dedichiamo all’editoria indipendente un progetto totalmente
nuovo che abbiamo affidato, sotto la supervisione di Ernesto Ferrero, allo
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scrittore Giuseppe Culicchia. L’abbiamo chiamato l’Officina. Editoria di
progetto. Il Padiglione 1 ospiterà un allestimento ispirato alla creatività e
alla passione artigianale, nel senso più nobile, di chi ancora oggi fa editoria
indipendente. L’Officina è un po’ un Salone nel Salone: il «terzo parto»,
dopo il Bookstock Village dedicato ai giovani da zero a vent’anni che – ci
ricorda l’Istat – sono gli unici che in Italia ancora tengono alta la media di
chi legge - e il Salone Off che porta nei quartieri di Torino e in provincia
350 incontri ed eventi in cinque giorni.
Il programma di eventi e presentazioni dell’Officina vuol essere il punto
d’incontro fra il libero mercato, la fantasia propositiva dei singoli editori
con le loro storie di inventiva e talento, e l’obiettivo di raccontare in modo
organico e avvincente le voci di quanti meritano visibilità a tutto tondo
indipendentemente dalla loro dimensione.
Ragione organizzativa
La terza ragione che ci vede qui è di natura organizzativa. In
conseguenza di quanto sopra, appare sempre più pressante la necessità di
capire se e come è possibile avviare un coordinamento organizzativo fra le
Città del Libro affinché - nella gestione dei programmi, delle presentazioni,
delle proposte e degli ospiti – si evitino ripetizioni, ridondanze, inutili
doppioni e si finisca magari per pagare più volte la stessa cosa.
È naturalmente una prospettiva molto delicata. Nessuno intende soffocare
la libera autodeterminazione di ciascun festival e del territorio che lo
esprime. Nessuna «cabina di regia» deve correre il rischio di degenerare in
un nuovo Minculpop che fissi un programma unico nazionale e mandi in
giro vecchi e nuovi Carri di Tespi con un disegno centralizzato. Proprio
per questi motivi vale la pena ascoltare le riflessioni e le proposte
sviluppate in merito da Giulia Cogoli, assieme al presidente della
Fondazione Cassa di Risparmio della Spezia Matteo Melley.
Ragione normativa
La quarta ragione del coordinamento delle Città del Libro rappresenta la
sintesi di tutto quanto esposto finora, ed è quella di natura normativa.
Al convegno di Torino era stata avanzata l’idea di arrivare a riconoscere ai
Saloni e Festival la tutela e lo status di beni culturali. Dagli interventi a
caldo fu subito riscontrata la difficoltà di incardinare questa esigenza nel
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quadro normativo vigente o più facilmente percorribile. Questa difficoltà è
una constatazione tecnica che non solo non ne cancella la necessità, ma
semmai evidenzia a contrariis ancor più l’opportunità di approfondire il
dibattito e individuare soluzioni che rafforzino e innalzino il livello di
percezione del ruolo di festival e Saloni del libro nel rating di legislatori e
analisti.
La presenza del ministro Massimo Bray ci offre sicuramente la possibilità
di approfondire questo confronto e arricchirlo di una valutazione
schiettamente politica. Sarebbe interessante, ad esempio, capire se e in che
modo anche eventi culturali come i saloni e i festival potessero essere
inclusi e incorporati in quel nuovo modello di circuiti turistico-culturali
organici cui il Ministero sta lavorando e che rappresentano l’attuazione
pratica di quelle politiche intersettoriali di cui s’è detto sopra.
Come dissi chiudendo il mio intervento di aprile, Saloni e Festival sono
«espressione non fungibile del territorio da cui sono nati, e come tali hanno
tutte le caratteristiche per essere promossi e messi in circuito quali beni
culturali immateriali, alla stregua dei monumenti, della cultura
enogastronomica e del paesaggio».
Promuovere un Paese o un territorio non più solo attraverso i suoi beni ma
anche attraverso le attività culturali e gli eventi che ne esprimono in
modo originale e attraente il genius loci è il nuovo traguardo e la nuova
sfida che ci aspetta.
Pensate a cos’era trent’anni fa la street-art dei writers newyorchesi. Una
sub-cultura metropolitana, un fenomeno che interessava l’ordine pubblico
e tuttalpiù la sociologia ma certo non investiva questioni di tutela,
riconoscimento estetico e mercato. Guardiamo invece cos’è oggi, con le
opere di Keith Haring e Basquiat nelle grandi collezioni internazionali e
gli interventi estemporanei di Banksy che, grazie alla rete, diventano
all’istante fatto mediatico mondiale. Questo è stato possibile perché c’è
stato qualcuno che non s’è rassegnato alla prassi della tradizione, che nello
«scarabocchiamento universale» ha saputo intercettare il nuovo allo stato
nascente, e non ha avuto timore di smantellare categorie consolidate e di
ridisegnare perimetri per dargli la cittadinanza che merita.
Mi sembra un buon precedente per stimolarci a superare e andare oltre la
rigida e ossidata ripartizione fra beni e attività culturali, fra hardware e
software della cultura, e individuare nuove modalità che colmino il gap
con tempi nel frattempo profondamente cambiati. Come vedete, è
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un’agenda piena d’impegni e di obiettivi. Ma sono convinto che tutti noi
vorremo esserci, e mettere a disposizione la nostra voglia di lavorare e la
nostra passione.
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