Mohamed è nato e cresciuto a Casablanca, nel quartiere di perif

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Mohamed è nato e cresciuto a Casablanca, nel quartiere di perif
AALLA Lahcen, SPENSIERI Simone Sequenze disarticolate. Intorno a una perizia psichiatrica
a un giovane immigrato “Animazione Sociale”, 2004, n. 3, p. 65-70
Storia di A., sedici anni, nato nei sobborghi di Casablanca, arrivato in Italia con il sogno scintillante
delle città occidentali. Nel “ bel paese ” però, l'impatto con la marginalità sociale. Lontano dal
legame con i genitori, catapultato in un contesto che non dà senso alla sua esistenza, A. inizia a
smarrirsi. E un giorno, per legittima difesa, rompe una bottiglia in testa a un ragazzo. La perizia
psichiatrica chiesta dal tribunale si trasforma in un viaggio nel suo percorso identitario, nel
tentativo di riannodare qualche filo.
Sequenze disarticolate.
Una perizia psichiatrica a un giovane immigrato
Lahcen Aalla, Simone Spensieri
Nominati dal Tribunale dei Minori per una perizia psichiatrica ad un ragazzo marocchino, ci siamo
trovati a dover affrontare una situazione complessa che certamente non era emersa nella
presentazione fornitaci. Il lavoro di mediazione culturale condotto durante l’indagine peritale si è
infatti sviluppato come un’azione di complessificazione che ci ha permesso di ridefinire il gesto
compiuto da A. in una dimensione e con una prospettiva più significativa.
Laddove il mediatore culturale era stato nominato “solo” nel ruolo di consulente dello psichiatra, in
una prospettiva che lo individuava essenzialmente come traduttore linguistico, è emerso invece
quanto il suo lavoro abbia sequenzialmente dischiuso mondi e mondi e mondi, stratificati e
ingarbugliati, alla ricerca di una trama che ricollegasse esperienze e vissuti in essi contenuti.
Un’indagine che ha subito messo da parte le premesse istituzionali del mandato, che individuavano
lo psichiatra come referente di una valutazione delle capacità psichiche significative ai fini legali,
ossia le capacità di intendere e volere, oltre alla presenza di malattia psichiatrica; un’azione che ha
preferito dedicarsi alla narrazione densa di una storia che ci ha allontanato subito dalle aule
giudiziarie e dagli squallidi ambulatori del carcere minorile, in un ipotetico viaggio a ritroso in
Marocco; a Casablanca, ad Hay Attasharok, a casa di A…per poi srotolarsi nuovamente attraverso
le sue vicissitudini che sembravano essersi incagliate nel fondo di una bottiglia di birra, rotta per
legittima difesa , sulla testa di un altro ragazzo.
Presentazione del “caso”
A. ha 16 anni, viene da Casablanca; in Italia ha vissuto con la sorella, in Veneto, in provincia,
lavorando col cognato, e poi col cugino a Torino, facendo il venditore ambulante; è venuto in
Italia “per lavorare e mandare i soldi a casa”, ma ha preso una brutta strada, “probabilmente ha
anche spacciato”.
E’ stato arrestato 6 mesi fa con l’accusa di “aggressione”; questo è il fatto:
A. stava bevendo una birra seduto sul marciapiede quando un ragazzo più grande si sarebbe
avvicinato per chiedergli della droga. Proprio in quel momento sarebbe sopraggiunta una
macchina con altre quattro persone. Alla risposta negativa di A., il ragazzo a piedi l’avrebbe
immobilizzato sollevandolo da terra avvicinandolo alla macchina dove, uno dei passeggeri stava
estraendo una pistola. L’immediata reazione di A. è stata di cercare di liberarsi dalla presa
rompendo sulla testa del suo aggressore la bottiglia di birra che ancora aveva in mano; ”era
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molto più grande di me e aveva più forza...io ero spaventato da quella pistola, avevo paura che
mi sparassero”. Sarebbe poi scappato rifugiandosi in un portone aperto; una volta dentro l’atrio
del palazzo dice di aver sentito uno sparo.
Segue la descrizione del periodo di detenzione raccontata dagli operatori di riferimento:
dopo una prima fase di “buona condotta”, durante la quale partecipava “diligentemente” a tutte
le attività proposte, ha cominciato a dare segni di malessere e “irrequietezza”, diventando
sempre più taciturno e litigioso, tanto da “indurre” il trasferito in Comunità Terapeutica.
Abbandonatola dopo pochi giorni di permanenza, è stato poi ricoverato in SPDC ancora per un
breve periodo; dopo essere scappato dall’ospedale è definitivamente rientrato in carcere. Le
osservazioni degli operatori riguardavano soprattutto l’improvviso cambiamento di
comportamento, il fatto che fosse scappato dalle strutture psichiatriche individuate, e infine
l’assenza di valutazione critica della propria situazione che lo portava di continuo ad invalidare
ogni intervento “pensato per lui”.
Considerazioni iniziali
Durante i primi colloqui, A. sembra ripetere un copione già recitato davanti alle forze dell’ordine,
agli educatori e ad altri operatori che secondo lui avevano,tutti, il ruolo comune di “referenti” del
giudice; si descrive come un ragazzo rispettoso dei genitori e della sorella: «ho cominciato a bere
solo quando sono arrivato a Torino da mio cugino. Lui beveva molto, wiskey e birra, e non mi ha
detto niente ».
Nonostante la nostra accurata presentazione e l’esplicitazione del motivo per cui ci trovassimo la a
fare domande, A. non sembrava aver modificato l’atteggiamento di prevedibile diffidenza
rafforzato, anzi, dalle passate vicissitudini che già lo avevano posto a contatto di medici e psichiatri,
che avevano finito col considerarlo “pazzo”, ricoverandolo in comunità e in ospedale.
Neppure il luogo dei nostri incontri, il carcere naturalmente, favoriva un atteggiamento più aperto,
ma anzi ci collocava inequivocabilmente in una posizione di forza ben decifrabile che ci
allontanava dalla possibilità di una relazione proficua per portare avanti quell’indagine di
approfondimento che ci eravamo prefissati.
A sapeva che il suo arresto fosse legato all’aggressione a quel ragazzo, seppur per legittima difesa,
ma proprio non riusciva a spiegarsi né “la lunga” durata della detenzione, che considerava
sproporzionata proprio nei tempi, né i successivi passaggi nei “reparti dei pazzi”. Dice di non
essere stato messo nella condizione di poter raccontare con tranquillità la propria versione dei fatti.
Il contesto di provenienza
La stratificazione dei luoghi rintracciabili nei suoi racconti, ci permette di ricollocare A. in una
nuova atmosfera, ci aiuta a visualizzare un’immagine di Marocco meno stereotipata, non più
riconducibile ad un unico posto, ci porta a dover considerare altri parametri di senso, lontani dalle
coordinate di valutazioni psichiatriche, e dagli altrettanto vuoti cliché figurativi e narrativi che
accompagnano “Marocco e marocchini”.
A. è nato e cresciuto a Casablanca, in un quartiere periferico, a sud - ovest, chiamato Hay
Attasciarok; un quartiere nato negli anni ‘80 in seguito alla politica di lotta contro l’abitato non
idoneo intrapresa dai comuni dell’area urbana di Casablanca e dal governo del Marocco. L’idea
consisteva nell’offrire la terra per la costruzione delle abitazioni agli abitanti delle baraccopoli e del
centro storico di Casablanca, incentivandoli a condividere le nuove proprietà ( da cui Attasciarok,
ossia la comproprietà o la condivisione, mettersi in società).
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I genitori di A. provengono da El Mellah, una località che si trova nel territorio dei Beni Meskin,
nella provincia di Settat, a pochi chilometri da Casablanca in direzione di Khouribga. Questo
territorio è abitato da contadini semi nomadi dedichi alla pastorizia, al commercio ambulante, alla
coltivazione di cereali, all’artigianato e all’animazione di feste.
Il punto di partenza della vicenda migratoria di A. è, dunque, rintracciabile più lontano, nella
biografia della sua famiglia, nella storia dei genitori, nell’abbandono della loro terra, con tutto il
suo corredo di riferimenti, persone, norme, tradizioni.
La vita che si svolge nei quartieri periferici di Casablanca non può certo avvicinarsi a quanto
succede nei villaggi lontani dalle grandi città, dove esistono realtà sociali complesse che attraverso
legami intrecciati di parentela e vicinanza, offrono ai loro membri supporto, condivisione e
protezione, in una prospettiva di crescita che si modella all’interno di particolari parametri di senso;
nelle grandi città mancano la profondità e la complessità di quei legami, e il confinamento nei
quartieri periferici aggrava ancor di più la lontananza da un mondo che pare essere lo specchio di
quello occidentale.
Hay Attasciarok non è un villaggio; non esistono legami parentali o di convivenza storica tra i suoi
membri, chi vi abita ha provenienze diverse, storie lontane, ci sono i poveri della vecchia
urbanizzazione (gli ex abitanti del centro storico di Casablanca) e chi è arrivato piò tardi, dalle
campagne, con le successive ondate migratorie, come la famiglia di A.
Le case del quartiere sono piccole e le famiglie si restringono; si devono condividere le zone
comuni come la terrazza e i servizi igienici con i co-proprietari o co-inquilini, creando così una
situazione delicata per chi è abituato a condividerli solo tra parenti. Sfumano gli spazi, quello
“sociale” (Dar Addif, la casa dell’ospite) e quello “intimo” (Dar Laiale o Al harem, la casa della
famiglia) non hanno più confini.
Si cercano mediazioni, allora, tra le nuove situazioni abitative e la costruzione dei rapporti
parenterali e sociali, si attuano vere e proprie strategie come quella della neutralizzazione
dell’estraneo, per potere convivere con lui, facendolo rientrare in una dimensione familiare che nei
villaggi si modellava giorno dopo giorno in vasti spazi generazionali: per esempio i vicini di casa
possono arrivare a partecipare all’allattamento dei figli, trasformandosi in zii o secondi genitori.
Strategie che richiedono tempo prima di potersi realizzare, così che non mancano episodi di
malessere sociale e difficoltà di convivenza, causati proprio dalla debolezza dei rapporti e
dall’inesistenza di norme, di sistemi e di strutture che possano facilitare la convivenza in un tessuto
urbano non più funzionale all’architettura socio - familiare che si elaborava nel villaggio.
I legami che si costruiscono strategicamente non sono pregnanti come quelli che si stratificano nei
villaggi, dove le relazioni si sviluppano all’interno di un’intricata rete sociale che delimita in modo
significativo i confini di ogni persona, proiettandola in una dimensione comunitaria oltre che
individuale. Dove finiva la famiglia in quel contesto? Dove finisce la casa adesso?
In questo reticolo di rapporti condizionati da precetti, norme, regole e prescrizioni stanno i legami
che sanciscono appartenenze e affiliazioni che prevedono particolari rappresentazioni di persona e
di famiglia.
In questo difficile passaggio dal mondo rurale alla città, poi, si inseriscono altre forze, altri poteri
che concorrono a disorientare e disarticolare le esperienze ed i vissuti: poteri che stanno nei rapporti
politici ed economici, nei protettorati, nelle nuove forme di colonialismo.
Casablanca, infatti, era stata concepita dal protettorato francese in modo che vi fossero quartieri
centrali, “europei” e moderni, destinati a persone di diverse etnie del ceto medio superiore, e
quartieri periferici per gli operai attivi o “di riserva” (ossia disoccupati pronti all’assunzione in caso
di necessità).
Questi quartieri dunque, oltre ad essere completamente differenti sia nella struttura architettonica e
topografica che nell’organizzazione degli spazi commerciali e d’incontro, non hanno modo di
comunicare tra loro per le attività sociali: chi abita in quartieri periferici come Hay Attasciarok deve
abbandonare i quartieri moderni subito dopo il lavoro; i mezzi di trasporto pubblico verso il
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quartiere si fermano alle h. 20, ma già alle h. 19 cominciano i controlli d’identità. Chi non ha la
carta d’identità o risulta residente in un altro quartiere, rischia di passare la notte al commissariato
per vagabondaggio.
A., come tutti i ragazzi del suo quartiere, ha avuto l’occasione di visitare le zone moderne del
centro e quindi di avvicinare ciò che rappresenta l’occidente, ma proprio attraverso quella scoperta
ha preso coscienza della posizione sociale della sua famiglia e dell’impossibilità ad accedere a
quell’universo di “ricchezza, libertà e modernità”. Per questo comincia a mostrare disinteresse
verso la scuola sognando l’Europa, l’Italia, dove poco prima si erano trasferita la sorella e il marito.
I regali , gli oggetti che portano con loro durante le vacanze in Marocco (macchina e altri prodotti
made in Italy) e soprattutto i racconti del bel paese che gli immigrati sono obbligati a ripetere per
riscattarsi, almeno virtualmente, dalla crudeltà dell’esperienza migratoria, danno corpo a quei sogni
rafforzandoli. La famiglia d’altra parte, consapevole della propria precarietà economica così come
dell’assenza di una prospettiva di riscatto sociale per i figli, ha cercato di assecondarne i sogni e,
dopo aver ottenuto il consenso della figlia e del marito, che non possono più smentirsi né spiegare
le ragione della non opportunità dell’immigrazione, decidono di mandare A. in Italia.
Vediamo dunque come quella scelta non rappresenti solo l’esaudimento del desiderio personale di
A., ma contenga pure il tentativo di riscatto di una famiglia intera, i non detti della sorella, le
scintillanti rappresentazioni delle città occidentali con tutti i loro beni, i loro oggetti, i loro simboli.
Finalmente a Casablanca!
Il progetto migratorio di A. comincia ad essere più chiaro, il suo desiderio si carica di un mandato,
di silenzi, di tensioni, trasformandosi fino a dissolversi in un altro viaggio, con altri ruoli, altre
“cose”. Il legame coi genitori si fa improvvisamente meno tangibile e la loro presenza va ridefinita
nei nuovi contesti dove si rappresentano sotto forma di maledizioni, benedizioni, r’da1,sakht. La
sorella e il marito scoprono le carte, vivono in una provincia vuota, senza luci, senza ricchezza,
fatta di casa e lavoro; insomma, dov’è finito il centro di Casablanca? Stavano in “un piccolo paese
dove non esiste nemmeno un supermercato come quando andavo in campagna dai nonni, a El
Fellah, anche là non mi piaceva”.
Non ci sono vicini di casa che possano aiutare a controllare e ad inserire A., così che diventa
difficile stargli vicino e assicurarne l’adesione al progetto migratorio: lavorare per mandare soldi a
casa (A. deve mandare i ¾ del suo reddito ai genitori in Marocco), conservare i legami coi genitori,
continuando a rispettarne le regole e i valori, e non ritornare a casa sino al raggiungimento di un
grande successo.
A. non riesce a realizzare quel progetto, né a condurre quel tipo di vita, fatto di solo lavoro e doveri
domestici, ma non si ribella subito; il rischio di essere esposto alla maledizione dei genitori, sakht, è
ben presente nella sua mente2. Solo più tardi comincia a mostrare segni d’insofferenza e
inquetudine tali da indurre la sorella a mandarlo dal cugino a Torino.
Torino è una città grande, e finalmente arriva quella Casablanca,“il bel paese” dove tutto,
improvvisamente, diventa disponibile e accessibile. “Mio cugino lavora tutto il giorno … beve
spesso, quasi ogni giorno… già da mia sorella mi sarebbe piaciuto bere alcolici … non so se lei si
sarebbe opposta al mio desiderio ma li non c’era nemmeno un supermercato … a mia sorella
obbedisco … mio cugino non può controllarmi, non mi conosce bene … non siamo cresciuti
insieme” racconta A.
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R’da è la benedizione dei genitori, Sakht è la maledizione dei genitori.
“per quanto riguarda i ragazzi provenienti dalla campagna il progetto iniziale di immigrazione è definito, nella
maggior parte dei casi, dalla famiglia o dal clan familiare, che si fa carico delle spese di viaggio: il giovane prescelto
è affidato a un gruppo di parenti che esercitano su di lui l’autorità parentale ed assicurano l’inserimento del giovane
in un sistema economico marginale con le sue regole…Lachen
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Il suo progetto migratorio. comincia a rivelare le sue grossolane fragilità; i legami familiari si fanno
sempre più lassi, sempre meno significativi, proprio quando il centro di Casablanca è a portata di
mano, un nuovo strappo lo allontana ancora da quella ricchezza, uno strappo invisibile: lahrig è la
parola con la quale nel gergo marocchino viene designata l’immigrazione clandestina. Il suo
significato letterale è bruciare, allusione al rito degli immigrati clandestini di bruciare i loro
documenti una volta attraversato il mare, ma bruciare può anche significare bruciare i legami col
passato e con i propri riferimenti, così come bruciare le tappe, realizzare rapidamente un successo
sociale.
Possiamo immaginare che A. prosegua un percorso invisibile di cambiamento sociale e culturale già
intrapreso dai propri genitori, cominciato con l’abbandono della terra e del clan familiare, un
contesto protettivo che dà senso e valore all’esistenza dell’individuo. Con lo spostamento verso la
città, la trasformazione in una famiglia nucleare e l’ingresso nel mondo del lavoro subordinato, la
famiglia di A. ha già varcato la soglia del cammino verso la rottura con l’universo dei valori
tradizionali, ha trasgredito.
A. non fa altro che continuare quel cammino: ha bruciato i legami ma non le tappe, si sente troppo
solo a Torino, troppo precario e indifeso, smarrito nella grande città.
Vi sono dei fattori di contenimento e di protezione che esercitano un’azione che non si limita
solamente ad operare col ragazzo, ma che si estende sino al coinvolgimento dell’intera famiglia, in
Marocco così come in Italia.
Fattori che si devono rintracciare nella particolare biografia di A., elementi che dobbiamo tentare di
riattivare, probabilmente negoziandoli e articolandoli con le nuove esperienze; fattori che non
possiamo dare per scontati, né possiamo chiamare tradizionali né moderni, che non possiamo
definire all’interno delle nostre categorie di riferimento, né individuare con i nostri strumenti
scientifici, o i colloqui psichiatrici strutturati o i test. A. non deve essere ridefinito, ma raccontato. Il
riduzionismo psicopatologico della sua esperienza ci allontanerebbe da A. soggetto, lo confinerebbe
entro parametri vuoti di senso, trasformandolo di nuovo in un individuo agito.
Dobbiamo rinunciare al monopolio di senso custodito nel sapere della nostra disciplina, tentando di
generare connessioni e rappresentazioni produttive e attive nella ridefinizione continua del percorso
identitario. Un lavoro che si propone di agire nello spazio vuoto collocato tra il mondo della
strumentalità e quello dell’identità, uno spazio che si fa luogo di comunicazione e di
trasformazione, dove reinventare l’uso degli strumenti, così come le definizioni identitarie non solo
di pazienti, detenuti, immigrati ma pure di psichiatri, psicologi, giudici, avvocati, mediatori…
laddove l’azione dell’individuo sull’architettura istituzionale divenga segno vitale del soggetto,
conferendogli dignità ed autorità partecipativa.
A. aveva tentato il guadagno facile provando a vendere hashish ma senza successo: “ho comprato
del hashish per rivenderlo ma sono stato fermato e portato al C.P.A. poi in comunità prima ancora
di poter spacciare” (A.). Quest’atteggiamento non va interpretato come il segno che lo inserisce in
una carriera deviante. La sua reale attività lavorativa era quella da venditore ambulante; viveva
nella casa del cugino contribuendo volontariamente alle spese di casa; si sentiva adulto, “dopo un
mese circa dal mio arrivo a Torino sono andato al supermercato per comprare l’alcol per me e
mio cugino, io ho bevuto due birre, lui ha finito tutto” (A.). L’alcol proibito diventa, quindi,
improvvisamente accessibile e il suo uso convalidato in qualche modo dall’atteggiamento del
cugino. Comincia allora a bere in modo saltuario: “una volta a settimana, sabato o domenica,
anche da solo, a casa o per strada, due o tre bottiglie di birra”(A).
Bevendo alcolici A. è consapevole di trasgredire le norme del Marocco ma non quelle italiane.
L’arresto cui è incorso per la detenzione di hashish era un segnale dell’illegalità dell’attività legata
al contatto con certe sostanze, ma non era altrettanto chiaro il significato ad esso correlato
dell’inserimento in comunità: “non capisco perché ci sono finito...mi sono allontanato dalla prima
comunità perché avevo voglia di uscire e di passeggiare per le strade” (A.).
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Dov’è finita la capacità di intendere e volere?
Qui a Torino anche l’alcool può trasformarsi, come tutto del resto, e da “sostanza vietata” diventare
“oggetto di consumo”3, segno dell’ingresso in un mondo in cui usufruire dei suoi simboli, ossia dei
suoi beni di mercato, falsifica l’illusione di appartenere a quella ricca e agognata comunità.
E’ in questa visione che il Soggetto 4 può perdersi nell’interstizio che si crea in seguito allo
scollamento di una comunità da un mercato globale ormai accessibile a tutti, che pure vorrebbe
uniformare gusti e appartenenze, luoghi e racconti; una frattura che pare più adatta a sancire le nonappartenenze che le affiliazioni, che può portare a smarrirsi piuttosto che a individuarsi. Ed è la che
noi dobbiamo lavorare, in quell’interstizio, rinnegando prima e strumentalizzando poi il nostro
mandato istituzionale, per offrire ad A. una storia nuova, più attenta e più vera che lo allontani dalla
duplice esclusione rispetto l’ambiente di partenza, che si allontana, e rispetto a quello di arrivo, che
rallenta o esclude la sua integrazione. Dove si collocano nella sua esperienza i reati compiuti? Cosa
nella sua vicenda è illegale? Cosa è harm
Abbiamo iniziato a raccontare questa storia con A., perché lui stesso potesse tentare di percepirne la
presenza significativa e non solo l’ingombro5, valorizzandola nella prospettiva generatrice di nuovi
rapporti di senso, siano essi intimi, sociali o politici. Ci sarà un processo, A. dovrà comunque essere
liberato per aver trascorso in carcere una detenzione già troppo lunga, si discuterà un processo socio
riabilitativo.
Le nostre indicazioni hanno indizi rintracciabili nella sua narrazione: il legame con la sorella, più
significativo di quello col cugino; la ridefinizione di un progetto migratorio che andrebbe mediato
con i suoi referenti (torna ancora la figura della sorella); la valutazione delle dimensioni
dicotomiche legale e illegale, harmr e halal, normativo e deviante. Dovremmo accompagnare A. in
questo sforzo di riarticolazione di vissuti e strumenti, affinché torni ad essere attore produttivo in
una società complessa, svincolata dalla forza dei mercati e dalle chiusure comunitarie.
La proposta al momento del processo è stata chiara ed i riferimenti sono stati esplicitati per quanto
possibile (l’indagine peritale doveva svolgersi nell’arco di un predefinito e molto limitato numero
di incontri).
Conclusione
A., dopo essere stato scarcerato, è stato affidato al cugino che vive a Torino.
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“ Il Soggetto è minacciato da questa società di massa in cui l’individuo evita qualsiasi riferimento a se stesso ed è un
essere desiderante in rottura con ogni principio di realtà”
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“Il Soggetto è la ricerca condotta dall’individuo stesso delle condizioni che possano consentirgli di essere il
protagonista della propria storia”
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“Non sappiamo più chi siamo, il nostro proprio mondo vissuto è disgregato come la sfera istituzionale o la
rappresentazione del mondo”
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