Le due anime di Carvaggio, il Davide con la testa

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Le due anime di Carvaggio, il Davide con la testa
La due anime di Caravaggio, il Davide con la testa di Golia
di Antonio De Leo, anno 2015
Caravaggio ha ritratto se stesso in diverse tele, c'è chi ipotizza in più di venti, in realtà gli
autoritratti evidenti sono otto, il primo in ordine cronologico è senz'altro il Bacchino malato dipinto
appena uscito dall'Ospedale della Consolazione a Roma intorno ai 23-24 anni, in seguito si ritrae in
Giuditta che uccide Oloferne nel 1599 nei panni di Oloferne mentre Giuditta lo sta sgozzando, poi
nel 1600-1601 fuggitivo nel Martirio di San Matteo, e ancora nelle tre tele di Davide con in mano la
testa di Golia nei panni di Golia, la prima è del 1597-1598, le altre due vengono eseguite dopo la
fuga da Roma del 1606, una nel 1607 e l'altra nel 1610, infine attorno agli anni 1609-1610 si ritrae
nei due Salomè con la testa del Battista nei panni del Battista decapitato.
Bacchino malato 1593-1594, Roma, Galleria Borghese
Gli altri autoritratti sono incerti, in alcuni la somiglianza è notevole ma mai così evidente come
nelle opere appena citate. L'autoritratto è una forma particolare di rappresentazione che alcuni
pittori praticano con una certa frequenza, basti ricordare Van Gogh, Rembrandt ed altri, ma i ritratti
che Caravaggio fa di se stesso non sono mai statici, nel senso che mai il pittore si mette in posa per
ritrarsi ma lo ritroviamo sempre in situazioni particolari, malato nel Bacchino,
Martirio di San Matteo, 1600-1601, San Luigi dei francesi, Roma
Particolare del Martirio di San Matteo, 1600-1601, San Luigi dei francesi, Roma
in una fuga nel Martirio di San Matteo o con il capo reciso in Giuditta e Oloferne e poi nei tre
dipinti di Davide con la testa di Golia e nei due di Salomè con la testa del Battista.
L'autoritratto è chiaramente una rappresentazione narcisistica di se stessi, è guardarsi allo specchio,
in Caravaggio però non è solo questo, non è solamente la rappresentazione della propria immagine
nei vari periodi della vita e nelle fasi della maturazione artistica, è anche la narrazione della
condizione a cui si sente incatenato a causa degli eventi che segnano il cammino della sua esistenza.
La storia dell'artista racconta un uomo che per affermare la vita ha avuto bisogno ogni volta di
sfidare la morte e gli autoritratti sono testimonianza di questa narrazione. Ricordiamo brevemente la
sua biografia, fugge ancora ragazzo da Milano per un probabile omicidio, arriva a Roma a 19 anni
dove gli episodi di violenza e intolleranza non si contano, tira in faccia ad un taverniere un piatto di
carciofi per una disputa, tira sassi alle finestre di due prostitute, ferisce di spada un notaio di
provincia a causa di un diverbio sulla prostituta Lena sua modella ed amante, scrive due sonetti
assieme ad Orazio Gentileschi, Ottavio Leoni e Onorio Longhi, calunniando il pittore Giovanni
Baglione e per questo i tre subiscono un processo, va in giro di notte per Roma con i suoi amici
attaccando briga con bande rivali, diviene famoso per aggredire alle spalle le persone di cui vuole
vendicarsi, insomma negli anni a Roma frequenta con grande assiduità le galere pontificie di Tor di
Nona.
Davide con la testa di Golia 1597-1598, Madrid, Museo del Prado
Il culmine romano lo raggiunge il 28 maggio del 1606 in cui, dopo un diverbio per una partita di
pallacorda, uccide Ferruccio Tommasoni ed è costretto a fuggire da Roma perché inseguito da un
Bando capitale emesso nei suoi confronti dal Papa Paolo V°. Gravemente ferito trova rifugio presso
i Colonna nei feudi di Paliano, Palestrina e Zagarolo, in seguito si reca a Napoli dove i Colonna
ottengono una possibilità di salvezza procurandogli un cavalierato di Malta, condotto a Malta per
ricevere il cavalierato commette anche qui un delitto, probabilmente ferendo gravemente un
cavaliere o commettendo un altro atto infame che non viene descritto nel documento che decide la
sua espulsione dalla congregazione e l'incarcerazione perché troppo ignobile, sul documento si
legge: "tanquam membrum putridum et foetidum", insomma ne ha combinata una delle sue ed anche
estremamente grave.
Giuditta taglia la testa a Oloferne 1598-1599, Roma, Galleria nazionale d'arte antica
Riesce miracolosamente, forse con l'aiuto dei Colonna, a fuggire dal carcere di Malta e si reca in
Sicilia, da qui fugge perché inseguito dai cavalieri e torna a Napoli dove viene gravemente sfregiato
all'uscita da una taverna, sempre con l'aiuto dei Colonna riesce ad ottenere il perdono dal Papa e
tenta di recarsi a Roma passando da Civitavecchia, perde i dipinti che aveva portato con sé perché
rimangono sulla barca che l'ha trasportato e muore inseguendoli sulla spiaggia di Porto Ercole il 18
luglio 1610 all'età di 39 anni.
Come abbiamo visto tutto il percorso della sua vita è un itinerario di morte che conduce alla morte.
Altrettanto la sua opera è costellata di dipinti che descrivono la morte e la prossimità alla morte,
Giuditta e Oloferne, la Deposizione di Cristo, la Decollazione di San Giovanni, il Martirio di San
Matteo, la Morte della Vergine, il Sacrificio di Isacco, i due Salomè con la testa del Battista, il
Martirio di San Paolo, la Resurrezione di Lazzaro fino ai tre Davide con la testa di Golia.
Davide con la testa di Golia 1607, Vienna, Kunsthistorisches Museum
Come abbiamo già detto è proprio in questi dipinti di morte che Caravaggio ritrae più volte se
stesso, naturalmente i più significativi sono quelli posteriori alla fuga da Roma in cui l'artista
dipinge per due volte il proprio volto nella testa recisa di Golia tenuto per i capelli dal giovane
Davide e per due volte in Salomè che porta nel vassoio la sua testa nelle vesti del Battista
decapitato. In questi dipinti l'immagine di se stesso diviene immagine del sé separato dall'altro, qui
l'artista è come se si spezzasse in due, non più quindi un lui e gli altri ma un sé sdoppiato, un lui ed
un altro sé, una replica che racconta la volontà di separazione dal suo sé peggiore, quello di
"scarto", del "reale brutto dell'esistenza" direbbe Recalcati, dove le colpe si identificano nella colpa
dell'esistenza stessa in cui la stratificazione della storia personale si realizza, si rende cioè reale,
nella rappresentazione mortifera della propria immagine specchiata. Nei Davide è come se fosse
sempre un se stesso giovane, e quindi privo di storia, che sorregge la testa recisa dell'altro della
storia "fallita", dove l'uno, nel rimpianto, sacrifica l'altro inseguendo l'illusione di un riscatto che la
biografia ormai tracciata rende impossibile.
Davide con la testa di Golia 1609-1610, Roma, Galleria Borghese
E' come se Caravaggio fosse sempre stato sdoppiato in una doppia azione vitale, la prima alla
ricerca dell'affermazione nell'agire dell'arte e la seconda nella negazione di se stesso nell'agire della
vita, in cui l'uno non arriva mai a riscattare l'altro sino in fondo, non riuscendo così ad evitare lo
sdoppiamento tra realtà e rappresentazione sino a portare quest'ultima ad essere la narrazione di una
negazione fallita. E' in tutto il percorso dell'opera dell'artista che si legge la mappatura del passaggio
dalla psicosi latente fino alla sua liberazione con l'atto violento del 1606 come atto affermativo della
propria esistenza, atto che in fondo non è altro che l'esplicitazione del desiderio di morte e quindi
del rischio di morte, rimanendo peraltro gravemente ferito, che nel suo fallimento sfocia nella morte
dell'altro.
Salomè con la testa del Battista 1607-1610, Londra, National Gallery
La rappresentazione nei ritratti in cui compare decapitato è la messa in scena di quella che Freud
chiama "metafora delirante" che si applica nel tentativo di risoluzione del dramma già avvenuto, "la
metafora delirante opera nel ristabilire il senso del mondo dopo che, con la crisi psicotica, questo
senso ha subìto uno sconvolgimento radicale che affonda e disperde il senso comune e stabilito del
mondo che precedeva lo scatenamento", Recalcati, Melanconia e creazione in Vincent Van Gogh,
Ritrarre se stesso colpevole del proprio destino come vittima sacrificata pone l'altro sé, il pittore che
si specchia nel ritratto, come colui che uccidendo il sé colpevole si libera dal persecutore. E' questo
un tentativo di affrancamento, in cui il pittore vendicandosi riscatta la propria immagine simbolica
che si esplica nella volontà di immedesimazione con colui che ristabilisce l'ordine nel mondo, in un
ultimo tentativo di compensazione del "reale brutto dell'esistenza", nel quale egli si riconosce come
unico colpevole, per averlo messo in atto ed avergli dato consistenza con il compimento delle azioni
violente. E' una persecuzione paranoide operata dal sé violento contro il sé creatore delle opere
artistiche e questa serie di autoritratti sono un tentativo di riscatto del pittore nei confronti dell'uomo
e di liberazione da quello sublimandolo nell'arte. E' una volontà estrema di annientamento dell'uno
portatore di morte nella volontà di una riabilitazione che riconduca l'altro alla vita.
E' un viaggio mortifero dal quale non c'è liberazione, la morte del colpevole, già raccontata
metaforicamente nell'arte, spiana il percorso verso una strada senza salvezza, come se quei ritratti
fossero la mappatura della biografia del futuro. La strada che Caravaggio compie non è altro che la
consumazione del futuro verso una morte del colpevole non disgiunto dall'artista, cioè dell'uomo
inscindibile nella sua completezza, dove nei ritratti egli già si è rappresentato assassinato nella
propria immagine specchiata.
Salomè con la testa del Battista 1609, Madrid, Palazzo reale
Quando Caravaggio rappresenta se stesso compie naturalmente un atto narcisistico ma che contiene
sempre una narrazione di morte e si ritrae in scene in cui compare sempre passivo, come colui che
subisce o ha subìto le azioni degli altri, lo troviamo aggredito dalla malattia nel Bacchino, fuggitivo
nel Martirio di San Matteo dove si allontana dalla scena del delitto non prendendone parte né come
difensore del martire né come carnefice, nelle altre opere si ritrae sempre come vittima col capo
reciso a delitto già compiuto. E' come se l'allontanamento persecutorio che compie da se stesso
avesse possibilità di esprimersi nella forma dell'arte proprio perché nella vita si esprime nella forma
della violenza. Persino nella Decollazione di San Giovanni, nel quale si legge l'unica firma che ci ha
lasciato, Caravaggio traccia il proprio nome col sangue della vittima.
Decollazione di San Giovanni Battista 1608, La Valletta, Malta, Cattedrale di San Giovanni
Decollazione di San Giovanni Battista 1608, Particolare della firma dell'artista
Non dimentichiamo le altre rappresentazioni di morte, San Pietro nel martirio è indifferente al
proprio destino, guarda preoccupato se i tre che lo sollevano hanno la forza necessaria a non farlo
cadere, è quasi una rappresentazione ironica della morte, uno sberleffo, nella morte della Vergine
mette in scena la degenerazione oscena del corpo gonfio d'acqua di una prostituta affogata nel
Tevere, nella sua resurrezione Lazzaro appare per metà putrefatto in bilico tra la vita e la morte.
Ma è nel Davide che Caravaggio compie una doppia azione mostrandoci un se stesso colpevole ed
uno innocente, come se l'arte potesse redimere l'artista abbandonando l'uomo separato da sé in una
separazione che la vita non può concedere, nella rappresentazione Davide è l'artista che uccide
l'uomo Golia e che allontana da sé la sua testa mostrandola in primo piano come se volesse dire,
"ecco, ho ucciso colui che non mi fa compiere l'opera", come se l'arte potesse appunto redimere
dall'orribile peccato dell'esistenza, questa è la ragione per cui i dipinti rifiutati provocano in
Caravaggio tanto dolore, ricordiamo La morte della Vergine e il primo San Matteo e l'angelo, il
rifiuto dell'opera artistica è il respingimento del pittore, una emarginazione ancor più grave perché
in prima persona viene rifiutato l'artista e la sua opera quando solo l'uomo, visto da lui come il vero
"scarto" da rifiutare, è il colpevole dei fallimenti. E' quindi questo non solo il fallimento del
colpevole perdente ma anche quello ancor più grave di colui che redime, che vince sulla vita,
dell'uomo che si riscatta sublimandosi nell'arte.
Guardiamo di nuovo l'ultimo Davide, quello degli anni 1609-1610, dipinto poco prima di morire.
Davide con la testa di Golia 1609-1610, Roma, Galleria Borghese
Questa rappresentazione non è quella del pentimento per una vita sbagliata, come invece appare in
alcuni degli altri dipinti, qui Davide tiene la testa di Golia a distanza, sembra che ne provi
ripugnanza, non tiene quel capo reciso come oggetto della vittoria, trofeo, non è la rappresentazione
di un feroce nemico abbattuto come la figura biblica richiederebbe, lo tiene lontano da sé come altro
da sé, quasi con rimpianto, lo sguardo del ragazzo è uno sguardo di pena non di trionfo, lontano da
sé non nel semplice senso di alterità ma nel significato più marcato di non prossimità, di distanza
non solo fisica. E' questa quindi un'immagine desiderante di un allontanamento che l'artista compie
nell'unica forma che gli è concessa, quella dell'arte. Guardando questo dipinto riecheggia alla
memoria la frase che Karl Jaspers, psichiatra e filosofo tedesco, uno dei più grandi pensatori del
ventesimo secolo, pronunciò all'università di Heidelberg nel '45 a proposito delle colpe della
Germania, "La colpa di noi tedeschi è di essere ancora vivi".
Particolare dell'autoritratto dell'artista nel Davide con la testa di Golia 1609-1610,
Roma, Galleria Borghese
Questo dipinto è un dono che l'artista invia al Cardinale Scipione Borghese, potente nipote di Papa
Paolo V, assieme alla domanda di grazia. E' un atto di contrizione, di chi riconoscendosi colpevole
si prostra a chiedere la grazia. Sulla spada che il ragazzo tiene in mano si leggono le lettere "H-AS
OS", sigla che riassume il motto agostiniano "Humilitas Occidit Superbiam", l'umiltà uccise la
superbia.
Particolare della spada nel Davide con la testa di Golia 1609-1610, Roma, Galleria Borghese
La storia che l'artista si costruisce è una storia di autodistruzione, ogni volta che compie un'azione
violenta è come se non accettasse la propria salvezza. Quando va a Malta per ricevere finalmente il
cavalierato e con quello la possibilità di ritornare libero a Roma, anche qui, di fronte alla salvezza
tanto desiderata compie un'azione autodistruttiva, compie quel delitto indicibile che segna l'ultimo
tratto del percorso compiuto dall'artista verso la morte. La vita di Caravaggio è una vita tragica che
si risolve ogni volta di fronte al bivio tra la salvezza e il dramma, in un rotolare catastrofico verso
l'annientamento di una personalità che teme, e che rifiuta fuggendo, più se stesso che il mondo. Il
Caravaggio vittima nel Davide è quindi vittima perché l'altro Caravaggio, quello al di fuori del
dipinto, l'ha ucciso, è un delitto compiuto come autore dell'opera artistica, una volontà di
liberazione da colui che intralcia il compiersi dell'opera, un'opera ed una rivoluzione di cui
Caravaggio è cosciente e che sa però che può essere compiuta solamente nel connubio inseparabile
con l'uomo che lo abita, è questa una convivenza dolorosa ma necessaria al compimento della sua
rivoluzione artistica. E' un ribaltamento della norma, il daimon, colui che abita l'uomo, lo spirito
divino, per Caravaggio è l'uomo e non l'artista, è un rovesciamento violento di ruoli quello che
segna il destino comune dell'uno e dell'altro, è il demone da cui vorrebbe liberarsi ma dal quale la
liberazione è impossibile e quindi quel delitto lo attua nella rappresentazione artistica raffigurandosi
morto. Quando Caravaggio percorre il delitto lo fa verso l'altro da sé ma quando lo rappresenta,
mettendolo in scena, lo fa verso se stesso. E' una alterità non alienabile e per questo tragica come la
follia, dove il destino dell'uno si compie inevitabilmente nel destino dell'altro.
Caravaggio nei suoi dipinti rappresenta sulla "scena del mondo" quella comunità a cui sente di
appartenere, quella degli esclusi, degli esseri notturni, degli uomini e delle donne clandestini alla
vita. Carrettieri, aguzzini, prostitute, ladruncoli e reietti, la narrazione del mondo non è altro che
quella degli esclusi dal mondo, di coloro che risiedono ai margini. E' una sorta di inclusione degli
scarti dell'umanità, di elevazione alla scena dell'arte di coloro che stanno in basso sulla scena della
vita. E' come se questa parte di mondo guardasse Caravaggio ed il pittore la raccontasse non con
l'occhio di chi la guarda per rappresentarla, ma con quello di chi è guardato e che non può sottrarsi e
liberarsi da quello sguardo. E' il suo mondo, che trasborda il limite della vita e la invade, che
diviene quindi soggetto e raffigurazione dell'unico immaginario possibile, quello che gli è penetrato
nell'anima assieme alla vita vissuta, ed è qui quindi che le prostitute diventano Madonne e gli umili
della strada Santi, è con questo senso che tra quegli umili rappresentati egli include se stesso. Nel
rappresentare se stesso in quel mondo Caravaggio cerca di circoscriverlo nel suo senso religioso e
quindi di incarnarlo nel suo senso della vita, quella vita della sofferenza, del tutto sottratto alla
normalità, dell'arrivo ultimo all'ultima meta che la vita può concedere agli esclusi, quella di
rappresentare il senso sacro dell'esistenza. E' questa visione del sacro che accorcia le distanze , che
approssima l'artista al limite della società portandolo a sottoscrivere quell'agire della vita che si
muove sul confine ultimo, sull'orlo dell'abisso spesso sfiorato ma mai raggiunto fino allo
scatenamento dell'estremo atto che si esplica oltre la frontiera del tollerabile, il delitto. Ed è da
questo momento in poi che la doppia immagine narcisistica, quella costituita dal sé reale e dal sé
immaginato, si frantuma e frantumandosi libera definitivamente l'immagine psicotica del sé
colpevole separato dal sé cosciente e quindi vendicatore di quello strappo.
In questo sdoppiamento quella che Recalcati chiama "supplenza simbolica" resiste perché, dice
ancora Recalcati "si struttura su azioni simboliche", legate al sé che agisce, in questo caso del fare
arte, essa stessa operazione simbolica e quindi affermativa, che si realizza "su un'attitudine del
soggetto e sopratutto su qualche forma di realizzazione sociale" pubblicamente riconosciuta. E' per
questo che in Caravaggio l'artista prevale e si rafforza nel divenire carnefice dell'uomo, in quanto
nella "supplenza (simbolica) prevale la dimensione della separazione dall'altro" dove "la prima è
esposta al rischio dei cattivi incontri" mentre l'altra "attiva un lavoro significante che valorizza i
tratti più originali del soggetto mobilitandoli nella messa in forma di un'opera". E' questa la
dimensione che permette a Caravaggio, nonostante tutto, di continuare ad essere artista anche
durante la fuga e fino alla fine della sua tragica esistenza.
Anche il fare arte per Caravaggio è prossimo al limite consentito dalla forma post rinascimentale,
ma forse è meglio ricordare cosa intendiamo per "forma" prima di inoltrarci in questo discorso, è
bene citare Argan a proposito della concezione della forma nell'Umanesimo, che poi è lo stesso
concetto che permane per tutto il Rinascimento, "Quando l'Alberti dice che l'artista si occupa solo
di ciò che si vede e non di ciò che eventualmente si cela dietro la sembianza, afferma appunto che il
valore non è nella cosa, come fenomeno, ma in ciò che l'intelletto costruisce sul fenomeno.
Riflettiamo: la forma è rappresentazione di fenomeni e fenomeno essa stessa; come fenomeno dei
fenomeni, è fenomeno assoluto, chiave per intendere il mondo dei fenomeni.". Vuol dire che la
forma è fenomeno perché è descrizione della realtà ed in quanto descrizione permette all'intelletto
di ampliare il senso del racconto che quella forma esprime, in sostanza la forma è il mezzo dell'arte,
è ciò che l'artista compie attorno alla sua narrazione della realtà, che comprende in sé anche ciò che
il nostro intelletto su quella narrazione può costruire.
Michelangelo e tutti gli artisti rinascimentali rispettano in pieno questo concetto, il manierismo lo
ignora e Caravaggio lo estende fino al suo limite. E' forse questo il lato più affascinante dell'opera
dell'artista ed è questo che conquisterà tutta la pittura del nord Europa, quando in Italia appena dopo
vent'anni dalla morte Caravaggio viene completamente dimenticato, la sua lezione investe la pittura
del resto d'Europa, Rubens, Vermeer, Rembrandt, Velasquez e molti altri vengono influenzati da
lui. Per fare un esempio basta citare la Deposizione di Rubens e confrontarla con quella di
Caravaggio.
Pieter Paul Rubens, Deposizione nel Sepolcro (1611-1612),
National Gallery, Ottawa
Caravaggio, Deposizione dalla Croce (1602-1604),
Pinacoteca del Vaticano
Nell'arte moderna la forma acquista altre valenze ad di fuori dai concetti espressi, pensiamo a Van
Gogh, a Pollock o a Fontana, che vanno oltre quei limiti e li frantumano, ma siamo in altre epoche
ed in altre culture.
Morte della Vergine 1604, Parigi, Museo del Louvre
La pittura accettata all'epoca di Caravaggio rientra nei canoni imposti dalla chiesa, i volti delle
Madonne e dei Santi non devono essere riconoscibili con quelli di persone vive, è vietato
rappresentare le figure sacre in maniera eccessivamente terrena, se non toccano il suolo è meglio,
non bisogna mostrare con troppa crudezza la morte ecc., insomma una serie di regole che il pittore
costantemente infrange, abbiamo detto che fare arte per Caravaggio è sfiorare quel limite, forzarlo,
portarlo all'estremo accettabile fino a romperne i confini.
Particolare della Morte della Vergine, 1604, Parigi, Museo del Louvre
Per Caravaggio i canoni imposti sono troppo soffocanti ma oltrepassare quei canoni vuol dire non
rientrare nei confini dell'accettabile, quindi quei limiti l'artista li oltrepassa con l'agire della vita, che
diviene così un'estensione di quel margine che si espande ben oltre il perimetro che la forma deve
subire perché imposto dall'epoca in cui vive. Nell'impossibilità di liberare la forma oltre la forma
imposta, quella libertà viene conquistata oltrepassando la vita oltre i confini della vita stessa, ed
identificando con questa il proprio agire nell'arte, sino a toccare la morte, suo sconfinamento
estremo. Quel limite della forma oltre il quale non è possibile spingersi Caravaggio lo travalica in
vari lavori, pensiamo alla Morte della Vergine, un'opera scandalosa che infrange ogni divieto, il
volto di Maria è gonfio, sfigurato dalla sofferenza, scarmigliato, il ventre è gonfio d'acqua, la
Vergine è la prostituta Annuccia Bianchini, modella in vari dipinti dell'artista, morta affogata nel
Tevere. E' questa una rappresentazione della morte di Maria, che secondo la chiesa è assunta in
cielo e che quindi non ha subito la corruzione del corpo di una morte terrena, contraria ad ogni
iconografia accettabile, qui vene messa in scena una morte che più terrena di così non è possibile,
una morte pietosa tutt'altro che celeste che fa scoppiare in lacrime l'altra prostituta, Lena, anche lei
modella del pittore, seduta a fianco a Maria nel dipinto. Il superamento della forma avviene perché
quella morte è una piena identificazione dell'artista con le sofferenze della vita, la morte di
Annuccia per affogamento è vera come è vera la disperazione di Lena. Infrangere il limite è quindi
una necessità vitale e la sfida si spinge fino al punto in cui quel limite gli si contrae attorno,
stringendolo in una morsa dalla quale può liberarsi solo con la violenza del delitto, una morsa che si
trasforma da quel momento in poi in auto-colpevolezza, quindi in senso di colpa, o almeno presa
d'atto della colpa, che si fa concreta quando si trova obbligato alla fuga. La forma quindi in
Caravaggio non è semplicemente il contenitore di un contenuto ma è il risultato della lotta feroce tra
l'uomo e l'artista ed è proprio in questa lotta che Caravaggio trova la sua ragione di esistere. E'
questa una lotta dall'equilibrio sempre incerto e sempre sull'orlo di un precipizio, in cui la
riappacificazione appare impossibile, una lotta dall'esito indeterminato tra colui che genera l'opera e
colui che la uccide costantemente mettendo a rischio l'esistenza. Se il processo creativo è uno
"svuotamento", un togliere da sé dell'artista, per Caravaggio dipingere i Davide corrisponde ad una
lacerazione profonda di se stesso, un dilaniarsi strappandosi le viscere dal corpo. E' come se l'arte in
Caravaggio non riuscisse ad allontanarsi dal vissuto, in alcuni dipinti la violenza con cui l'artista si
impone è la stessa con cui l'uomo si impone nella vita, è come se dipingendo riaffermasse se stesso,
"guardate che questo è il mondo vero, il reale, non quello di maniera che dipingete voialtri", la
realtà vera è quindi il sedere del cavallo in primo piano nella vocazione di San Paolo in Santa Maria
del Popolo, i piedi lordi dei viandanti ed il bambino già cresciuto tenuto in braccio dalla donna
appoggiata allo stipite della porta nella Madonna dei Pellegrini in Sant'Agostino, anche qui la
modella è la prostituta Lena, il ventre gonfio della Vergine di cui abbiamo parlato,
Medusa, 1597, Firenze, Galleria degli Uffizi
l'urlo della Medusa che pietrifica è lo sguardo sul mondo violento pietrificato dal dolore e dalla
miseria, insomma Caravaggio è lungi da voler insegnare il "vero", semplicemente ripudia il falso
come inganno e falsificazione della realtà.
Resurrezione di Lazzaro, 1609, Messina, Museo Regionale
Nella Resurrezione di Lazzaro la luce si frantuma in tratti sfrangiati proprio perché Lazzaro è
raffigurato in bilico tra la vita e la morte a cui viene sottratto da Gesù, ma dalla quale non è ancora
pienamente liberato, qui la luce agisce come luce che sottrae dall'ombra ed in Caravaggio il ruolo
della luce è sempre liberatorio.
Vocazione di San Matteo, 1599-1600, Roma, San Luigi dei francesi
La luce agisce per redimere, come nella Vocazione di San Matteo, tira fuori dall'abisso della morte,
come in Lazzaro, trascina sulla scena, come nei Davide, è sempre una liberazione dal mondo oscuro
dello sfondo, è la rappresentazione della forma che si libera dal giogo oscuro dell'informe, un
passaggio dal dove nulla avviene al dove tutto avviene. In questa concezione Caravaggio ricorda
Michelangelo, pensiamo ai Prigioni, sagome che si liberano dalla materia per determinarsi nella
forma. Forse Caravaggio, Michelangelo Merisi, sente un senso simbolico nel proprio nome nei
confronti dell'altro Michelangelo che l'ha preceduto sulla scena dell'arte, non nel senso della
costruzione di un'alternativa all'altro ma in quello della continuità, così da affermare il senso
dell'arte lì dove la precarietà della situazione reale non gli consente di caricare di senso le cose del
mondo. E' come se così Caravaggio tentasse di dire "l'arte è una cosa e la vita un'altra",
distinguendo e separando le due cose, la prima nella continuità di un segno tracciato, ed in tal senso
identificata come via da percorrere, e l'altra, la vita, straniera in terra straniera, quindi priva di
possibili tracciati da seguire. Ma l'atteggiamento del Michelangelo seicentesco nei confronti di
quello cinquecentesco è quello dell'erede che sente si di appartenere alla stessa famiglia ma come
figlio diverso della stessa arte, e Caravaggio sa di poter usare quel patrimonio perché ne è appunto
l'erede e quindi gli appartiene, è quella un'eredità non da dilapidare ma neanche da conservare come
una reliquia, è un'eredità da rafforzare, da mettere a frutto e rinnovare, nel senso di "darle nuova
forma". Questo lo vediamo in diverse opere dell'artista, in due è particolarmente evidente, la prima
è la Vocazione di San Matteo, dove la citazione del Buonarroti è nella mano di Gesù che indica
Matteo, che è la stessa di Adamo nella sua creazione nella volta della Sistina,
Particolare della Vocazione di San Matteo
Particolare della Creazione di Adamo nella Cappella Sistina
la seconda citazione la troviamo nella Deposizione di Cristo, dove il braccio del Cristo è lo stesso
del braccio del Cristo sorretto dalla madre nella Pietà di San Pietro.
Deposizione, Caravaggio, 1602-04, Pinacoteca Vaticana, Città del Vaticano
Pietà, Michelangelo, 1497-1499 , San Pietro, Città del Vaticano
Particolare della Deposizione di Caravaggio
Particolare della Pietà di Michelangelo
E poi ancora, così come Michelangelo, in uno dei suoi pochi autoritratti, si ritrae nella testa del
Battista portata sul vassoio da Salomè nella volta della Sistina, così Caravaggio si ritrae nella stessa
situazione nei due dipinti sul medesimo tema biblico.
Michelangelo, 1508-1512, Salomè con la testa di Battista, Cappella Sistina, Città del Vaticano
E' quindi un'identificazione, come abbiamo detto, un uso degli stessi strumenti, è l'accettazione di
un'eredità che fortifica Caravaggio come artista, in quanto lo guida sulla strada della continuità
attraverso un percorso tracciato, ma anche qui sono solo i frammenti di quel percorso che affiorano
tra le pieghe di una narrazione nuova di cui solo Caravaggio è il vero interprete, e che si impone
come anticipazione di una modernità ancora molto lontana nel tempo, narrazione quindi non solo
nuova ma addirittura rivoluzionaria per l'intero mondo dell'arte.
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