Il ritorno dell`auctoritas - Educazione. Giornale di pedagogia critica

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Il ritorno dell`auctoritas - Educazione. Giornale di pedagogia critica
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Il ritorno dell’auctoritas
Il 3 dicembre l’Ocse (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) ha diffuso i risultati della periodica rilevazione sui livelli di competenza
degli allievi di quindici anni, giunta alla sua quinta
edizione. Si tratta delle rilevazioni note come Pisa
(Programme for International Student Assessment),
che rappresentano ormai il termine di riferimento per
la comparazione degli apprendimenti che gli allievi
conseguono nei diversi sistemi scolastici. In sé, la
comparazione dei risultati ottenuti nei diversi sistemi
scolastici risponde all’esigenza di superare, nell’interpretazione dei fenomeni educativi, le dimensioni strettamente nazionali. Conoscere le scelte effettuate altrove e comparare i livelli di apprendimento conseguiti
sono alla base di processi decisionali più consapevoli
di quelli che sarebbero consentiti da considerazioni tutte interne alle singole realtà.
In altri fasi storiche dello sviluppo dei sistemi
d’istruzione, l’esigenza comparativa era meno avvertita, o si limitava al confronto degli ordinamenti. L’educazione formale si rivolgeva, infatti, a strati limitati di
popolazione, e i criteri d’inclusione costituivano un riflesso di concezioni sociali che nei singoli paesi erano
radicati nell’evoluzione storica delle società nazionali.
EDUCAZIONE. Giornale di pedagogia critica, II, 2 (2013), pp. 1-7.
ISSN 2280-7837 © 2013 Editoriale Anicia, Roma, Italia.
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Bisogna anche rilevare che, fin verso la metà del ventesimo secolo, le differenze tra le proposte educative
dei paesi di cultura europea (quindi anche di quelli che
si collegavano a essa in altri continenti) erano più contenute. Se si esclude il livello primario, che dappertutto
perseguiva intenti di prima alfabetizzazione, alla fruizione di istruzione secondaria corrispondeva un profilo
culturale nel quale non era difficile riconoscere elementi di un canone: basti pensare al ruolo esercitato
dallo studio del latino, alla rilevanza riconosciuta allo
studio delle lettere e delle arti, agli impianti teorici cui
si collegava lo studio della natura.
Il quadro ha incominciato a complicarsi una cinquantina d’anni fa. La crescita delle popolazioni scolarizzate appariva, e probabilmente era, l’aspetto più importante dell’evoluzione dei sistemi educativi. A tale
crescita si collegavano altri importanti cambiamenti,
che avrebbero inciso profondamente sulle condizioni
di esistenza e sugli assetti della vita sociale: aumentava
la speranza di vita, l’acquisizione di nuove conoscenze
assumeva un ritmo sempre più intenso, le attività produttive e l’organizzazione del lavoro si orientavano in
direzioni che sarebbe stato difficile immaginare anche
pochi anni prima. Molti interpreti della realtà educativa
si chiedevano se il processo di sviluppo non sarebbe
stato ritardato dalla penuria delle conoscenze distribuite
nella popolazione. Contemporaneamente, si affermavano orientamenti critici circa il carattere di discriminazione sociale riconoscibile nella distribuzione delle
conoscenze acquisite tramite l’educazione formale. Tali orientamenti erano giustificati da argomentazioni a
carattere sincronico: bambini e ragazzi appartenenti alle classi sociali più modeste fruivano di minori opportunità di istruzione.
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Il ritorno dell’auctoritas
Molti degli sviluppi successivi dei sistemi scolastici sono da porre in riferimento all’assunzione, per
molti versi affrettata, di decisioni politiche immediatamente ricavate da analisi sociologiche. Ciò ha riguardato anche la revisione della proposta culturale nei
diversi paesi: quella preesistente era identificata con
una nozione elitaria dell’istruzione, alla quale bisognava opporne una ugualmente fruibile da tutta la popolazione. In quel contesto, spesso squassato da furie iconoclaste, un gruppo di studiosi dell’educazione di
orientamento democratico (tra i quali B. S. Bloom,
Tjeerd Plomp, Neville Postlethwaite, David Robitaille,
Torsten Husén, cui si aggiunse, per l’Italia, Aldo Visalberghi) si propose di porre in comune le esperienze
dei sistemi educativi dei rispettivi paesi e di esaminarne i problemi sulla base di comparazioni relative sia alle condizioni organizzative e agli impianti didattici, sia
ai risultati di apprendimento rilevati su campioni di allievi. Nel 1967 fu fondata l’International Association
for the Evaluation of Educational Achievement (Iea),
che subito si impegnò nella prima indagine comparativa, effettuata nel 1970-71.
Si trattava della ricerca Six Subjects (sei erano infatti gli ambiti presi in considerazione), che costituisce
il termine a quo per gran parte della ricerca sui sistemi
scolastici che si è sviluppata nei decenni successivi.
L’eco suscitata dai risultati di quella prima indagine fu
grande, ma da tali risultati non si trassero implicazioni
adeguate. Spesso tutto si ridusse a una banale comparazione delle posizioni in graduatoria, senza cercare di
approfondire, proprio a partire dai dati internazionali, i
problemi dei singoli sistemi scolastici. È quanto avvenne in Italia. Per incominciare, si manifestò una debolezza inattesa proprio in un settore nel quale era diffusa l’opinione che la cultura educativa italiana fosse
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tra le più apprezzabili. Era diffusa, infatti, la convinzione che la solidità dell’impianto umanistico nella
proposta d’istruzione dovesse corrispondere a risultati
positivi nell’insieme degli apprendimenti linguistici. In
altre parole, si confondeva l’impostazione umanistica
degli studi con l’acquisizione di una capacità di comprensione della lettura che non era neanche presa in
considerazione nell’attività delle scuole. I nostri allievi
acquisivano una certa capacità di comprendere testi sui
quali si sviluppavano specifiche forme di attività (per
esempio, quelli letterari), ma incontravano serie difficoltà nella comprensione di testi di registro diverso.
I dati della Six Subjects contenevano già molte
delle indicazioni che sarebbero state poste in maggiore
evidenza dalle rilevazioni successive, a cominciare dalle difficoltà negli apprendimenti scientifici e in quelli
matematici. Sono diventate abituali le espressioni di
sgomento e di preoccupazione dei responsabili del sistema scolastico e dell’opinione pubblica, che sono
apparsi sensibili specialmente alle infelici posizioni
che il nostro paese ha occupato nelle graduatorie internazionali. Ed è anche diventato abituale che le espressioni di disagio si ripetessero per qualche giorno e non
dessero luogo a iniziative dalle quali ci si potesse attendere un cambiamento nella linea di governo della
scuola. Il fatto è che prendere atto della posizione in
graduatoria non richiede che si sviluppi una riflessione
specifica (è un po’ come leggere l’ordine d’arrivo di
una gara sportiva), mentre è assai meno immediato
prendere atto delle implicazioni derivanti da altri segnali, che pure sono ben più interessanti, perché rivelatori non solo delle insufficienze del sistema scolastico,
ma anche di quelle che investono nel complesso la cultura e la vita sociale del Paese. Sono proprio i segnali
che avrebbero potuto costituire, se adeguatamente in4
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terpretati, il punto di partenza per un radicale cambiamento nella politica scolastica.
Il più interessante di questi segnali è rappresentato
dalla dispersione interna dei risultati. Il riferimento non
è tanto alle differenze regionali, che pure sono molto
forti, ma che sarebbe difficile collegare a fattori di contesto, come i livelli socioeconomici delle famiglie degli allievi. Ben peggiori, perché rivelatrici della disgregazione del sistema d’istruzione, sono le differenze che
si riscontrano tra le singole scuole. In termini statistici,
è opportuno distinguere nella varianza complessiva dei
risultati, quella entro le scuole da quella fra le scuole.
Entro certi limiti, la varianza entro le scuole è da considerare la conseguenza delle differenze che intercorrono tra le caratteristiche degli allievi: certo, una buona
didattica è quella che tende a ridurre le differenze di livello tra gli apprendimenti degli allievi, ma ciò ha senso soprattutto quando le variabili prese in considerazione riguardano aspetti di base dell’apprendimento,
come il leggere, lo scrivere e il far di conto che sintetizzavano la funzione della scuola nella sua fase espansiva. Dovrebbe, invece, destare preoccupazione la varianza fra le scuole, perché sta a indicare che la qualità
della proposta di apprendimento di cui si fruisce cambia in relazione alla scuola frequentata, e ciò non solo
se si tratta di scuole che operano in regioni diverse, ma
anche in aree limitrofe. In Italia, malgrado l’evidenza
dei dati, nulla è stato fatto per contenere la varianza fra
le scuole: tradotto in termini politici, ciò equivale ad
affermare la sostanziale mancanza di equità del sistema
educativo.
In altri paesi i risultati delle indagini comparative
sono stati presi molto seriamente e hanno indotto a revisioni, anche radicali, delle politiche scolastiche: basti
considerare il caso della Germania. Riesce invece dif5
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ficile capire le ragioni dell’entusiasmo per le comparazioni che si dimostra in Italia, quando i risultati sono al
più argomento per polemiche contingenti. Tanto meno
si capisce un tale entusiasmo dopo che il diretto impegno nelle ricerche comparative da parte dell’Ocse ne
ha sostanzialmente cambiato il carattere. I livelli d’istruzione (che sono indicati come competenze, e la
questione non è, come vedremo, solo nominale) non
sono più presi in considerazione per analisi rivolte
prioritariamente a chiarire le relazioni che intercorrono
tra le condizioni in cui operano le scuole e i risultati
dell’apprendimento, ma per fornire indicazioni circa la
congruità delle competenze possedute dagli allievi rispetto ai traguardi perseguiti dai sistemi economici.
In altre parole, è in atto da una ventina d’anni un
processo di progressiva sostituzione dei fondamenti
culturali e interpretativi dell’educazione, riconducibili
nei paesi di cultura europea a un canone che affonda le
sue radici nel mondo classico ed ha progressivamente
acquisito elementi nei due millenni dell’era cristiana,
con criteri regolativi subalterni alle esigenze dei sistemi produttivi. In pratica, ciò equivale a respingere in
secondo piano quanto è specifico delle singole culture
nazionali e di aree contigue sovranazionali (le conoscenze) per accogliere come prioritarie le esigenze che
si manifestano nel mercato globale (le competenze). Il
mercato è la nuova espressione dell’auctoritas, e quanti ne interpretano le esigenze sono investiti da una specifica sacralità.
Che ci si trovi di fronte ad una vera e propria mutazione dalle interpretazioni educative è confermato da
quanto di legge nella premessa alla presentazione dei
risultati dell’ultima rilevazione Pisa, firmata dal Segretario Generale dell’Organizzazione, Angel Gurría:
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Il ritorno dell’auctoritas
More and more countries are looking beyond their own
borders for evidence of the most successful and efficient
policies and practices. Indeed, in a global economy, success
is no longer measured against national standards alone, but
against the best-performing and most rapidly improving education systems. Over the past decade, the OECD Programme for International Student Assessment, PISA, has
become the world’s premier yardstick for evaluating the
quality, equity and efficiency of school systems. But the evidence base that PISA has produced goes well beyond statistical benchmarking. By identifying the characteristics of
high-performing education systems PISA allows governments and educators to identify effective policies that they
can then adapt to their local context.
Se questo testo fosse decontestualizzato, e se fossero sostituite le parole che collocano il discorso nell’ambito dell’educazione, la premessa potrebbe applicarsi a un rapporto relativo a qualsiasi altro settore di
attività con rilevanza economica. Quel che non lo rende un testo accettabile da un punto di visto educativo è
l’esplicito riferimento a una logica interpretativa fondata sulla rapidità dei processi: l’educazione, e la cultura, ragionano in altro modo.
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7
Ma non si accostava a tutti gli uomini in una
stessa maniera, ma quegli che di sé avessero
opinione d'essere valentuomini, e disprezzassero la disciplina, insegnava loro che le migliori
nature hanno solamente bisogno d’istruzione,
dimostrando che i cavalli più generosi, essendo
animosi e violenti, se siano domati da piccoli,
riuscire di benissimo uso ed ottimi; se poi non
siano domati, riuscire sfrenati e pessimi; e que'
cani che sono d'ottima natura e laboriosi e
pronti ad assaltare le fiere, se siano bene educati, riuscire ottimi per la caccia e utilissimi;
ma se non siano istruiti, diventare inutili e furiosi e disubbidientissimi.
In somigliante modo gli uomini della migliore
indole e di validissimo animo ed efficacissimo
in quelle cose che a fare intraprendono, dopo
essere istruiti ed avere appreso quel che far si
conviene, divenire eccellenti e sommamente
utili, essendoché fanno moltissimi beni e grandissimi; ma se siano senza educazione e senza
dottrina, divenir pessimi e perniciosi…
[Senofonte, Dei Detti memorabili di Socrate,
Libro IV, capo 1, trad. di Michel-Angelo Giacomelli pistoiese, Casa editrice M. Guigoni, 1876,
con note e variazioni di A. Verri].
Black Robes alla frontiera.
Radici e modelli del catholic schooling americano
Luana Salvarani
Università di Parma
Dipartimento A.L.E.F.
Borgo Carissimi, 10 - 43121 Parma
[email protected]
Their language resembles Hebrew somewhat,
and it is even asserted by some that the Indians
of these regions came originally from Palestine…
John Pabst S.J., from Maine, 1850 (Woodstock Letters, 17).
«Fides ex auditu: faith enters by the ear». Così,
citando Paolo, ripetono costantemente i missionari gesuiti nel Far West. E così riassume, cinquant’anni, dopo
Bernard Feeney: «Faith comes from hearing, not from
reading». È ciò che si trova scritto in The Catholic Sunday School (1907), insieme manuale e strumento apologetico di quell’istituzione educativa di base che, da
parte metodista, toccava l’apice del successo, mentre il
versante cattolico fronteggiava una pericolosa dissolvenza della propria identità e funzione sociale. Il ricorso all’antico tema della voce del maestro che guida,
forma e converte, è più di un luogo comune retorico in
questo contesto: è il cuore metodologico, lo strumento
attraverso cui il modello educativo dei cattolici d’America legittimava e distingueva la propria azione presso
quelle classi sociali svantaggiate e quelle periferie ur-
EDUCAZIONE. Giornale di pedagogia critica, II, 2 (2013), pp. 9-29.
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Luana Salvarani
bane che avevano sostituito, nell’immaginario, i selvaggi della Frontiera.
La preminenza gesuitica nel cattolicesimo americano è un’evidenza storica. Dal 1784, cioè ancor prima che
venisse redatta la Costituzione statunitense (1787)1, è un
gesuita, John Carroll (l’ordine, soppresso, non aveva mai
cessato di operare in America con la tacita approvazione
papale) a essere nominato Superiore per tutte le missioni americane. Con il 1789 e la presidenza Washington,
John Carroll assunse la guida della Diocesi di Baltimora, prima e più importante in America – il cui catechismo, il Baltimore Catechism, rimase quello ufficiale
dei cattolici americani fino al Concilio Vaticano II.
Non sorprende che il quartier generale della Chiesa americana e la prima grande istituzione educativa
cattolica del Paese, la Georgetown University (Collegium Metropolitanum Ad Ripas Potomaci in Marylandia), fossero entrambi a guida gesuitica e situati nel
Maryland, l’unico stato tradizionalmente cattolico, invariabilmente citato nei libri di storia cattolici dell’Ottocento americano come “autentica” origine dell’epopea nazionale2. Non sorprende neppure che la prima
istituzione fondata da John Carroll fosse appunto un’università. La missione educativa dei Gesuiti, in Europa,
si era infatti concentrata da tre secoli sulla formazione
delle classi dirigenti, e non c’era ragione di dissipare
questo patrimonio di esperienza.
L’accusa rivolta al sistema formativo cattolico
americano di essersi sempre occupato delle élites, tra1
Completata nel 1787, essa fu adottata dalla Convenzione costituzionale a Filadelfia. Entrò in vigore nel 1789.
2
J. Moreau, Rise of the (Catholic) American Nation: United
Stated History and Parochial Schools, 1878-1925, in «American Studies», 38: 3 (1997), pp. 67-90.
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Black Robes alla frontiera
scurando le fasce più svantaggiate, è ricorrente e non
priva di fondamento; come non lo è la linea di difesa
che chiama in causa la forte presenza, nelle common
schools statali “laiche”, della morale protestante cosiddetta lowest common denominator, cioè come insieme
di valori civili alla base dell’identità americana. Meno
efficace è la linea di difesa che evidenzia il ruolo di alcuni gruppi di suore e di frati nell’assistenza e nella alfabetizzazione dei poveri e degli afroamericani e nelle
periferie urbane, dal momento che tale meritorio sforzo
educativo venne (non tanto paradossalmente) riassorbito dalle common schools quando la sentenza Plessy vs.
Ferguson (1896), della Corte Suprema, affermò la segregazione razziale nelle scuole e, di conseguenza, la
necessità di istituire classi e scuole per neri, indiani o
ispanici di diversa etnia; classi che estesero il “protestantesimo civico” anche a quei popoli fino ad allora
riserva di caccia del catholic schooling di base.
L’istruzione di base, che nelle aree rurali e di frontiera era (fino agli anni Ottanta dell’Ottocento) quasi
esclusivo monopolio delle Sunday Schools e analoghe
istituzioni confessionali, è stata finora studiata e descritta in casi singoli o, più in generale, individuandone
i caratteri comuni tra le varie confessioni religiose in
termini di organizzazione, penetrazione del territorio,
sussistenza economica e rapporti con la legislazione
nazionale. Ma se nel complesso è vero, come afferma
Ramsey, inquadrando le metodologie delle missioni
nel West e il loro repertorio narrativo, che
the evangelical system developed by both factions depended
heavily on what we might call Sunday School methods3
3
J. Ramsey, Bible in Western Indian Myths, in «The Journal of
American Folklore», XC, 358 (1977), p. 444.
11
Luana Salvarani
va tenuto presente che i Sunday School methods cattolici e protestanti erano radicalmente, profondamente
diversi, negli obiettivi e nell’immaginario, al di là di
alcune analogie “di sistema” legate a pure ragioni territoriali. Le Schools cattoliche, e in generale le esperienze educative di base di parte cattolica, vivono del richiamo (esplicito o non dichiarato, e, nei prontuari più
semplici, forse inconscio) alle missioni gesuitiche nel
West, come esperienza più vitale ed efficace del cattolicesimo americano del tempo. Il mito dei Black Robes,
o Black Gowns, le vesti nere, risvegliava memorie epiche e cercava di tenere viva una tradizione educativa basata sull’oralità, la ritualità, la suggestione visiva e fonica
e la teatralizzazione – col recupero diretto, in versione
esclusivamente orale e più elementare, delle tecniche
dei primi collegi gesuiti – e che affondava le radici nelle pratiche evangelizzatrici della Rocky Mountains
Mission guidata da Father De Smet, S.J., negli anni
Quaranta e Cinquanta dell’Ottocento.
La Rocky Mountain Mission, in realtà l’insieme di
diversi avamposti e missioni fissati da De Smet nei
suoi viaggi negli attuali Oregon, Idaho, Montana e
Wyoming, ci è nota per una ricca messe di corrispondenza, narrazioni e memoriali di De Smet stesso e dei
suoi compagni di viaggio, raccolte e pubblicate “in
tempo reale” dal loro autore, penna prolifica e immaginosa e infaticabile fundraiser, per essere vendute e
finanziare così viaggi e missioni. Le memorie di De
Smet furono da subito ottimi successi editoriali, e contribuirono a formare l’immaginario di innumerevoli
missionari, maestri di frontiera e Sunday School teachers cattolici. Inutile precisare che i racconti tendono ad
epicizzare gli incontri con gli indiani e ad accentuare la
naturale ritualità di quegli incontri e di quelle esperien12
Black Robes alla frontiera
ze, continuando logicamente, in versione “sciamanica”
invece che “colta”, quella centralità dell’oratoria che
già i primi Gesuiti avevano messo a punto nelle loro
esperienze educative per l’élite europea. De Smet, tra
una navigazione del Missouri e un attacco Sioux, è attento a tutto: all’abbigliamento (vero e proprio abito di
scena), alle parole con cui interpreti e mediatori lo presentano ai capi tribù, a presentarsi in prima istanza –
senza alcuna paturnia di carattere interculturale – con
lunghe e incantatorie orazioni teologiche:
Dressed in my cassock with a crucifix on my breast – a costume I always wear in the Indian country – it appeared to me
that I was the subject of his particular enquiry. He asked the
Canadian what kind of man I was. The Frenchman said I was a
Chief, a Black-gown, the man who spoke to the Great Spirit4.
«Speak, Black-Gown, I have done – every one is anxious to
hear you». I spoke to them for two hours on salvation and
end of man’s creation, and not one person stirred from his
place the whole time of the instruction. As it was almost sunset, I recited the prayers that I had translated into their language a few days before5.
Dopo il primo impatto e l’accettazione da parte
degli Indiani di De Smet come messaggero e interprete
privilegiato della volontà del Grande Spirito, non era
difficile partire con un programma educativo – esclusivamente orale, grafico e musicale – che affiancava alla
conoscenza dei racconti biblici, variamente intersecati
4
P. De Smet, Lettera del 4 febbraio 1841, in Letters and sketches:
with a narrative of a year’s residence among the Indian Tribes of the
Rocky Mountains, M. Eithian, Philadelphia, 1843; ristampa e annotata
a cura di Reuben Gold Thwaites, in Early Western Travels 1748-1846,
vol. XXIX, Arthur H. Clark Company, Cleveland, Ohio, 1906, p. 151.
5
De Smet, from Madison Forks, Lettera del 15 agosto 1842, in
Letters and sketches…,cit., p. 363.
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Luana Salvarani
con le tradizioni mitiche pellirossa6, una storia e geografia d’Europa e d’America inevitabilmente romanocentrica, alcuni elementi della white man’s medicine
(ma spesso i missionari si piegavano alla superiore conoscenza indiana in termini di erbe officinali e riti di
guarigione) e, naturalmente, il canto liturgico. Presto
De Smet e Father Blanchet vennero affiancati da personale gesuita versato in queste discipline:
Mr. Mengarini, recently from Rome, specially selected by the
Father General himself for this mission, on account of his age,
his virtues, his great facility for languages and his knowledge of
medicine and music7.
Il meccanismo di inculturazione comprendeva tecniche raffinate come la composizione di canti sacri,
fondendo stili e patterns delle due tradizioni musicali,
e anche adattamenti più feriali come la traduzione in
lingua Blackfoot del canto Tu Scendi dalle Stelle, inflitto da Father Rappagliosi agli indiani della St. Peter’s Mission nel Montana, per celebrare il Natale
18758. Non è difficile vedere, nel forte gradiente rituale
ed emotivo di questi metodi, l’eredità dell’estetica gesuitica cinque-secentesca e della sua vocazione per il
teatro. La corrispondenza di De Smet è particolarmente
6
Il repertorio di spunti e temi più completo è ancora quello di
Stith Thompson, Sunday School Stories among Savages, in «Texas
Review», 3 (1917), 109-116.
7
De Smet, From the banks of the Platte river, 2 giugno 1841; in
Letters and Sketches, p. 193.
8
Gerald McKevitt, SJ, Northwest indian evangelization by European Jesuits, 1841-1909, in «The Catholic Historical Review», 91
(2005), p. 700 («Mengarini wrote a funeral dirge by joining Christian
concepts about death to a traditional Flathead lamentation for the departed [...] As early as 1845, Mengarini trained a small band of twelve
Indian boys whose instruments included a clarinet, flute, two accordions, a tambourine, piccolo, cymbals, and a base-drum»).
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Black Robes alla frontiera
eloquente sul suo interesse per le pratiche missionarie
ed educative dei primi Gesuiti, sulle sue costanti richieste per ricevere testi-guida dall’Europa e, più avanti,
dei suoi scontri con i superiori per la sua insistenza nel
voler riproporre tra le Montagne Rocciose il modello
delle reducciones del Paraguay9. Il fallimento di De Smet,
in tal senso, non è tanto da ricondursi all’ostilità dell’Ordine, quanto al fatto che la passione del missionario non andava all’aspetto economico dell’esperienza,
bensì a quello culturale, rituale ed estetico.
Il livre de poche del nostro missionario alla Frontiera non è un rendiconto storico delle reducciones (e
neppure la stessa Bibbia – mai menzionata come oggetto fisico, nemmeno una volta, nel vasto corpus epistolare e autobiografico di Black Robe) bensì una narrative, una descrizione affabulatoria e mitica come Il
Christianesimo Felice nelle Missione dei Padri della
Compagnia di Jesu nel Paraguai di Ludovico Antonio
Muratori:
Nothing appeared to us [De Smet e Father Nicolas Point]
more beautiful than the Narrative of Muratori. We had made
it our Vade Mecum10.
Il Vade Mecum dell’erudito modenese non aveva,
evidentemente, per i due avventurosi gesuiti uno scopo
di guida pratica e di istruzione tecnica, di cui certo non
sentivano di avere bisogno. Era piuttosto nutrimento e
linfa, in chiave immaginosa e oleografica, di quel sogno dei popoli indiani come nuova Cristianità incon9
Per un resoconto biografico completo, cfr. Robert C. Carriker,
Father Peter John de Smet: Jesuit in the West, University of Oklahoma Press, 1998.
10
De Smet, From Camp of the Big-Face, Lettera del 1 settembre
1841, in Letters and sketches, p. 252.
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Luana Salvarani
taminata, come uomini più vicini all’innocenza originaria (e magari capaci di rinnovare il mito della philosophia perennis con un’immaginaria emigrazione dalla
Palestina), immersi nell’Eden di una natura generosa e
possente. L’esperienza e l’istinto dell’Ordine per la ritualità organizzata (i gesuiti italiani seppero riproporre
agli Indiani anche alcuni riti religiosi siciliani, a loro
volta derivati da festività pagane o arabe), sapeva sfruttare sapientemente in senso scenico questo ambiente
naturale, con pergole e cupole di rami, ghirlande e corone di fronde e fiori, situando gli altari su collinette o
sullo sfondo di cascate, o anche utilizzando con intelligenza la direzione del sole o i colori del tramonto:
molti dei risultati, oltre che in descrizione, ci pervengono attraverso i bei disegni tracciati da Father Nicolas
Point, compagno di avventure di De Smet, sebbene,
anche in questo caso, sia evidente in certi disegni
l’amplificazione immaginosa11.
Ben noto è il talento di De Smet nel fondere oggettistica devozionale indiana e cattolica, suggerendo
l’analogia tra il wampum e il rosario, e introducendo
l’uso di intrecciare wampum di perline con scritte dedicate alla Vergine Maria12. Disposizione visiva, ritmo
e vocalità servivano a ritualizzare e teatralizzare anche
le inesorabili ripetizioni che costituivano la gran parte
dell’istruzione catechistica.
11
Scarsamente verosimile, ma affascinante, la messa rappresentata in uno di questi disegni (“Worship in the Desert”) davanti a una
folla di indiani ordinatamente assemblati a doppio semicerchio, circondati con abeti disposti esattamente “a colonnato del Bernini”.
12
Alcuni esempi di questi manufatti sono fotografati nel catalogo della mostra sul tema, curato da Jacqueline Peterson e Laura Lynn
Peers: Sacred Encounters: Father De Smet and the Indians of the
Rocky Mountain West, University of Oklahoma Press, 1993.
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Black Robes alla frontiera
After a long instruction on the most important truths of religion, I collected around me all the little children, with the
young boys and girls; I chose two from among the latter, to
whom I taught the Hail Mary, assigning to each one his own
particular part; then seven for the Our Father; ten others for
the Commandments, and twelve for the Apostles’ Creed.
This method, which was my first trial of it, succeeded admirably. I repeated to each one his part until he knew it perfectly; I then made him repeat it five or six times. These little Indians, forming a triangle, resampled a choir of Angels, and
recited their prayers, to the great astonishment and satisfaction of the savages. They continued in this manner morning
and night, until one of the chiefs learned all the prayers,
which he then repeated in public13.
Vent’anni dopo, Father Gregorio Mengarini ricorda così una gara da lui organizzata di domande e risposte sul catechismo, in cui venivano valorizzate le doti
di un popolo che, non utilizzando la scrittura, possedeva grande orecchio e facilità nel ripetere un discorso
udito: attenzione, memoria e prontezza di spirito venivano allenati assieme alla competitività non finalizzata
alla sopravvivenza, e alla capacità di rispettare il proprio turno e adeguarsi alle regole di un gioco verbale
condiviso.
I taught the children catechism by a method commonly followed in Rome. Catholic doctrine is summarized in several
hundred questions and answers. Both questions and answers
are committed to memory, and a public contest is announced.
On the appointed day, all the competitors, none of whom
must be over thirteen years of age, arrange themselves in two
lines in the church. The first proposes a question to be answered by his opponent, and so all along the line, each in
turn answering or proposing a question. Whoever misses,
loses his chance for the prizes.
13
De Smet, From Madison Forks, Lettera del 15 agosto 1842,
Letters and sketches, p. 364.
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Luana Salvarani
A mistake may be made in five ways: first, by failing to answer (this, however, seldom happened); secondly, by giving
a question already proposed; thirdly, if such a question were
proposed, by failing to say, “It has been already given”;
fourthly, by saying “It has been given”, if it had not been
given; fifthly, by saying “There are no more questions”, if
there were more; or by failing to say “There are no more”,
when all had been given. Only one that has seen such contest
can realize its interest.
I have seen the Indian boys as pale as their little bonze faces
could become, and perspiring profusely, even in the depth of
winter; while all around were gathered the parents and relatives of the children waiting anxiously to see who would be
the victor. This was the case especially in the grand contest,
when the winner was made a kind of little chief among his
playmates. Superiority in the Sunday-afternoon contests was
rewarded by a present of arrows14.
Il modello gesuitico, in questo lungo processo di
ricollocazione delle istituzioni innescatosi a metà Ottocento, continuava a godere di un prestigio indiscusso
per la propria efficacia pastorale ed educativa su quelle
popolazioni che rimanevano più estranee alla mentalità
mainstream americana. I metodisti, seppur concentrati
su altri settori alla lunga più efficaci, come l’istruzione
professionale, non rimasero indifferenti a questo insegnamento. Negli anni Settanta dell’Ottocento, troviamo John Heyl Vincent, uno dei più talentuosi ed energici promotori delle Sunday Schools metodiste, intento
a imitare – in un seminario per insegnanti a Lake
Chutauqua, New York – le fastose drammatizzazioni
en plein air praticate dai Gesuiti della frontiera fin dalle prime colonie:
14
Father Gregorio Mengarini, «Rocky Mountains (a memoir)»,
Woodstock Letters vol. 18, p. 34.
18
Black Robes alla frontiera
On the shores of the lake, which to him represented the Mediterranean, he caused to be built a topographical map of Palestine, laid out to precise scale, complete with a water-filled
and tadpole-infested declivity called the Dead Sea. For good
measure, a man named A. O. Van Lennep was engaged to
walk among the hills of Palestine, as ‘an Eastern shepherd in
full Oriental costume’15.
Vero è che la messinscena del Vincent, persa l’austerità programmatica dei primi pionieri, è permeata di
quella disinvoltura, quell’umorismo anglosassone che
renderà possibile, cent’anni dopo, l’epocale Jesus
Christ Superstar16; mentre non v’è traccia del penchant, ancora barocco, per il magniloquente e il patetico che caratterizzava le drammatizzazioni gesuitiche;
ma l’osmosi tra i due modelli è innegabile.
La contaminazione tra i metodi delle Schools cattoliche e protestanti era peraltro possibile soprattutto
nel senso qui esemplificato – l’assimilazione di modelli cattolici da parte dell’istituzione politicamente più
forte. Scriveva Vincent, mentre infuriava la polemica
cattolica contro le public schools imbevute di lowestcommon-denominator methodism: «All truth is divine.
We may regard the teachers of natural science and
mathematics in our public schools and academies as so
many ambassadors of God to the soul of the child». Il
mainstream metodista andava costruendo quello che
15
C. Ferguson, Organizing to beat the Devil: Methodists and the
Making of America, New York Doubleday, 1971, p. 319; cit. in Vincent P. Lannie, The teaching of values in public, Sunday and Catholic
Schools: an historical perspective, in «Religious education», 70:2,
1975, p. 115-137.
16
«Prove to me that you're no fool | Walk across my swimming
pool! » canterà Erode, nei couplets memorabili di Tim Rice.
19
Luana Salvarani
verrà detto il melting pot culturale e religioso americano con la sua potente forza assimilatrice.
Le istituzioni cattoliche non potevano far altro che
comportarsi da fortino assediato, ripetendo quella che
era stata la tecnica gesuitica delle missioni del West:
isolare dall’influsso della cultura “nazionale”, perniciosa mescolanza di tradizioni e culture, in grado di intaccare la purezza edenica essenziale dei selvaggi: soprattutto attraverso il suo più potente infusore, la lingua inglese.
Flight from all contaminating influence; not only from the
corruption of the age, but from what the gospel calls the
world. […] We shall confine them to the knowledge of their
own language, erect schools among them, and teach them
reading, writing, arithmetic and singing17.
Questo programma essenziale per la St. Mary’s
Mission nelle Montagne Rocciose, tracciato da De
Smet in una lettera al Provinciale del 1842, è tanto più
interessante dal momento che è una delle pochissime,
forse l’unica, occorrenza dei verbi read e write in tutta
la sua corrispondenza. De Smet include lettura e scrittura quasi in automatico, in conformità a quella Grammatica da cui si iniziava da secoli l’alfabetizzazione in
Europa, ma di fatto non troviamo alcuna traccia di ciò
nei documenti riguardanti la sua pratica educativa. Del
resto, la ben precisa scelta di confinare le conoscenze
linguistiche degli Indiani a quella della propria lingua
nativa rendeva piuttosto inutile l’alfabetizzazione, dal
momento che ogni rapporto degli Indiani tra le varie
tribù e con il mondo americano bianco era basato sulla
parola data oralmente e sull’invio di messaggeri.
17
20
Letters and sketches…, cit., p. 296.
Black Robes alla frontiera
Possiamo supporre che venissero alfabetizzati, da
parte cattolica, esclusivamente gli indiani che frequentavano le scuole stanziali di missione, come quella di
Wallamette, dove le metodiche gesuitiche riuscirono –
seppur per pochi decenni – a vincere la concorrenza
schiacciante della locale missione metodista e di quella
presbiteriana di Walla Walla. Ma per la maggioranza
del lavoro di frontiera non c’è traccia di literacy, e le
scuole di dottrina cattoliche continuano a passarsi, decennio dopo decennio, il Symbolical Cathechism e la
semplice Catholic Ladder, puramente visiva, con cui
De Smet proponeva i propri contenuti ai Flatheads.
Rinunciare all’inglese, proteggere e mantenere le
lingue d’origine delle diverse popolazioni nella loro
educazione religiosa e di base, e quando la comunicazione non fosse possibile – come con le tribù indiane
della frontiera – ricorrere alle metodiche dei primi Gesuiti: grandi tirate oratorie, preghiere di gruppo, ripetere, cantare, drammatizzare. Erano ancora, nel 1908 e in
un contesto urbano, le proposte del Rev. James A
Burns, futuro presidente dell’Università di Notre Dame, secondo il quale il cuore dell’educazione cattolica
non sta nei contenuti, ma nella sua “religious atmosphere”:
[...] the admission of only such pupils as belong to the religious faith which the school endeavors to foster and propagate; the placing of religious pictures and objects of piety in
conspicuous places on the school walls; the use of religious
songs, as well as common oral prayers and devotions [...]18.
Di questa suggestione psicologica fanno parte,
chiaramente, anche le tecniche di proiezione interiore e
di immedesimazione ereditate dagli Esercizi Spirituali
18
Vincent P. Lannie, The teaching of values, op. cit., p. 131.
21
Luana Salvarani
gesuiti, e trasformate in tre secoli di pratica quotidiana
nell’Ordine in una sorta di Metodo Stanislavskij universale, adatto in scena come sul pulpito, nell’affrontare una difficoltà come nell’indurre una conversione.
È il colore emotivo – irrimediabilmente, qui, scuro e
penitenziale – dell’istruzione, prevalentemente mnemonica, proposta dal Feeney in The Catholic Sunday
School:
[...] he asks the child to fancy itself in the scene described or
depicted, not as a looker on but as an agent or participator,
and to think of the scene itself as a reality [...]19
che poi si completa, memorizzati i contenuti e creato
l’humus psicologico per l’orrore del peccato e il desiderio della salvezza, con un training pratico destinato a
rafforzare il senso di appartenenza del giovane cattolico alla propria comunità, e a fornirgli gli strumenti per
perpetuare, anche inconsciamente, quella religious atmosphere a cui faceva appello il reverendo Burns:
The following are some examples of the religious and moral
training that may be practised in the Sunday School: Decorum on entering and leaving church; how to take Holy Water; reverence in the presence of the Most Holy Eucharist;
how to pray; how to hear Mass; how to receive the Sacraments [...]20.
Solo in coda all’elenco troviamo la terna comune
con le Schools protestanti: courtesy and kindness, obedience, self-control. È facile immaginare quale utilità
19
Rev. Bernard Feeney, The Catholic Sunday School: some
suggestions on its aim, work, and management, with introduction by
most Rev. John Ireland, Archbishop of Saint Paul, Herder, Saint Louis, 1907, p. 71.
20
Ibid., p. 4.
22
Black Robes alla frontiera
trovasse il ragazzino impegnato lungo la settimana nel
duro lavoro del ranch, al porto o in fabbrica, in un
training come “how to take Holy Water”, e quale entusiasmo potesse esercitare questo tipo di formazione
nelle loro famiglie; quando le Schools presbiteriane e
metodiste ormai da cinquant’anni fornivano moral
training finalizzato alla vita economica e formazione
professionale della miglior qualità21. Quel tipo di competizione, forse, non era mai stato nelle intenzioni degli educatori cattolici. Lo scopo delle schools cattoliche rimaneva quello di sempre: identitario, non pratico; e sempre attraverso la potenza suggestiva del rito.
Love of prayer is the surest test of an efficient Sunday
School, sottolinea poco dopo Feeney, specificando che
altri risultati (ben più spendibili nel mondo della concorrenza economica) come organization, discipline,
order, sono necessari ma non cruciali. Non è difficile
intuire come precisazioni di questo tipo siano introdotte soprattutto a scopo distintivo rispetto agli scopi “utilitari” dell’educazione protestante americana.
Portato al di fuori del contesto esotico ed auratico
del West, senza le acconciature e gli abbigliamenti fastosi e colorati degli Indiani, questo metodo era destinato, inevitabilmente, a perdere un poco del proprio fascino. Nel classico prontuario The Catholic Sunday
School di Bernard Feeney si avverte la difficoltà nel
mantenere quel rito e quella suggestione, persa anche
21
Presso Westport (ora incorporata in Kansas City) dove nel
1841 De Smet sbarcò dal vapore con cui aveva risalito il Missouri, era
aperta dal 1829, la scuola metodista del rev. Johnson, trasformata nel
1839 in industrial school per i ragazzi indiani, attiva fino al 1862. La
stessa Westport era stata fondata come avamposto mercantile, pochi
anni prima l’arrivo di De Smet, John Calvin McCoy, “the father of
Kansas City”, figlio del rev. Isaac, pastore battista.
23
Luana Salvarani
la pluralità di lingue e d’intonazioni dell’esperienza
eterolinguistica della Frontiera, riportata l’esperienza
della lezione in un inglese d’uso piuttosto anonimo e
nella mestizia ambientale delle parish schools urbane e
di villaggio.
Non è tutta colpa del Feeney, se il suo manuale
non riesce a trasmettere un’oncia del contagioso entusiasmo pedagogico che emana dalla sua controparte
metodista, The Sunday School Teacher del reverendo
Hamill. La difficoltà è nell’essenza stessa dei metodi
dello schooling cattolico americano, in un momento di
transizione storica per cui era fatalmente impreparato.
Rimangono le strutture, le modalità di recitazione e di
intonazione sperimentate alla frontiera; ci sono tracce
evidenti non solo delle metodologie di insegnamento
gesuita della Grammatica, ma anche, in versione semplificata, dei congegni e schemi mentali dell’epoca della Scolastica. Lo sforzo per occidentalizzare e standardizzare uno schooling nato nel West conduce, inevitabilmente, a un’ossessione mnemonica. Leggere e preleggere, spiegare e ripetere, recitare, chiedere e rispondere, non già per disputare – si tratta di formazione
elementare – ma per imprimere nella memoria verità di
fede che non si desidera passino attraverso lo strumento potenzialmente critico della lettura (il Catechismo di
Baltimora, ammonisce Feeney, non è uno strumento
per lo studio individuale, ed è meglio non possederne
una copia scritta):
The object of the division of the teaching work into Review,
Recitation, and Explanation, is this. By a threefold repetition
of the lesson, it is expected that a lasting impression of the
truth taught will be made on the soul of the child. Hence, the
lesson explained on Sunday is memorized within the week,
recited the following Sunday, and, a week afterwards, reviewed by the teacher.
24
Black Robes alla frontiera
Review. [...] It is to be made by questioning the whole class
(not individuals), and the questions are to be put in such a
form as to call for brief answers22.
Nei consigli per la Review (e in altre sezioni del
prontuario dove ci si occupa della formazione per i ragazzi più grandi) spicca un’indicazione che chiarisce tutta la distanza dall’impostazione didattica delle Schools
metodiste. Questioning the whole class, not individuals: è un principio che il Feeney ripete con insistenza lungo tutto il trattato, mentre Hamill insisteva affinché le domande dovessero essere sempre individuali,
calibrate secondo le capacità di ciascuno e distribuite a
rotazione su tutta la classe, ma insistendo particolarmente sugli allievi più timidi, remissivi o di scarso ingegno, perché non venissero sopraffatti dai più brillanti
o propositivi, in grado di accaparrarsi tutte le energie
formative del maestro.
È facile concludere che la proposta metodista sviluppava maggiormente il senso dell’iniziativa e della
responsabilità individuale, e che ci risulta più “moderna”, molto più vicina alle odierne esigenze di una didattica che si vuole sempre più individualizzata. Ma è
più interessante chiedersi perché Feeney tenesse tanto
alla risposta “in coro” di tutta la classe. Per distruggere
l’istinto critico e la tentazione di essere “fuori dal coro” del gregge lui affidato? Forse, più semplicemente,
per accentuare la suggestione fonica, il mantra acustico, la seduzione rituale della recitazione del dogma.
C’è dietro l’idea, già sostenuta trecento anni prima dal
gesuita Antonio Possevino con pericolosi slittamenti
nella magia e nella cabala ebraica, che la Parola ha efficacia taumaturgica in quanto suono, che è incantesi22
The Catholic Sunday School, cit., pp. 2 e 171.
25
Luana Salvarani
mo e parola magica, e che capirla è meno necessario
dell’intonarla: esattamente come la intonavano i giovani indiani, quando recitavano o cantavano una preghiera in latino o in inglese.
Recitation. [...] The lesson must be memorized perfectly by
every child in the class. Whether it be understood fully, or
only in part, or not al all, it must be memorized.
Word-meanings have not only to be brought home to the
child’s understanding; they have also to be stamped on its
memory. This is done by repetition. Let the teacher be instructed never to tire of repetition23.
Su queste basi, il problema dell’alfabetizzazione,
temuto strumento di corruzione capitalistica e assieme
sfida fondamentale per ogni istituzione cattolica che
volesse preparare i propri aderenti alla vita civile (e
all’inclusione in una società che spesso li teneva ai
margini), era in qualche modo eluso e, paradossalmente, abbandonato all’iniziativa della concorrenza e poi,
sempre più, delle common schools federali. È interessante vedere come, alla fine del secolo e nel primo Novecento, i cattolici propongano sempre più il modello
misto: alfabetizzazione e istruzione professionale nelle
scuole pubbliche, formazione religiosa nella Sunday
School cattolica, sebbene questo modello esponga inevitabilmente il giovane agli influssi della morale protestante di base. Certo l’atto del Congresso con cui, nel
1896, venivano annullati tutti i trasferimenti di denaro
alle scuole confessionali (che peraltro li recuperavano
dai fondi per la colonizzazione delle aree “depresse”)
accelerò la migrazione, da un lato, dei giovani verso le
common schools e, dall’altro, la radicalizzazione delle
23
26
Ibid., pp. 172 e 64.
Black Robes alla frontiera
istituzioni cattoliche nei propri modelli, demandando
ad altri la responsabilità dell’istruzione di base; fatta
eccezione, naturalmente, per il percorso formativo degli appartenenti all’élite cattolica, che potevano contare
su High Schools cattoliche, Colleges e Università gesuitiche ormai in tutte le grandi città degli States.
Il volume del Feeney è introdotto da una solenne,
appassionata prefazione del vescovo John Ireland, protagonista della colonizzazione tra Minnesota e Iowa
(era agente di diverse compagnie ferroviarie per l’organizzazione dei pionieri e la fondazione di villaggi operai) e strenuo difensore dell’educazione cattolica per
tutti gli abitanti della frontiera, indiani e pionieri bianchi e immigrati. La storia dei tentativi e dei drammatici
fallimenti di Ireland24 è indicativa delle difficoltà di
conciliazione tra lo stile cattolico e le esigenze economiche di un’America in espansione, che Ireland cercava di comporre, sul modello anglosassone. Ma è soprattutto la testimonianza di un’irriducibilità culturale
che avrebbe segnato il destino del catholic schooling in
America, altrettanto e forse più dei provvedimenti governativi con cui vennero regolati, in una controversia
lunga due secoli, i rapporti tra scuola pubblica, istruzione
professionale e iniziative educative familiari o di comunità nelle diverse realtà territoriali degli Stati Uniti.
Certo è che l’esaurirsi progressivo, col sistema
delle riserve, del lavoro di frontiera dei Gesuiti nel
West e del loro rapporto con gli indiani, tolse alla formazione cattolica elementare una sorgente d’ispirazione che aiutava gli operatori a mettere a punto un
24
Cfr. James P. Shannon, Catholic Boarding Schools on the
Western Frontier, “Minnesota History”, XXXV (September 1956),
133-39.
27
Luana Salvarani
proprio stile educativo. Uno storico gesuita tra i più attenti all’esperienza del Northwest, McKevitt, riassume
così questo passaggio:
With the founding of Gonzaga College in 1887 and the starting of Seattle College four years later, the Rocky Mountain
missionaries committed themselves irrevocably to the white
man25.
Anche al di fuori delle missioni della più remota
frontiera, il compromesso con l’uomo bianco – con le
sue strutture e con il cosmopolitismo urbano, con un
sistema produttivo e con tempi di vita inestricabilmente connessi alla morale protestante del patriottismo e
del lavoro – avrebbe plasmato e gradualmente assimilato l’identità delle scuole di base cattoliche nei metodi
e modelli consolidati del mainstream. E la storia dell’educazione cattolica andò verso il suo destino, quella
di ricongiungersi alla vocazione gesuita dello schooling d’élite, destinato a forgiare cultura, abilità e prospettive politiche delle classi dirigenti americane.
Riferimenti bibliografici
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residence among the Indian Tribes of the Rocky Mountains, M.
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Gold Thwaites, in Early Western Travels 1748-1846, vol.
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De Smet P.-J., Oregon Missions and Travels Over the Rocky
Mountains in 1845-1846, Edward Dunigan, New York, 1847.
Feeney B., The Catholic Sunday School: some suggestions on its
aim, work, and management, with introduction by most Rev.
25
28
G. Mc Kevitt, op. cit., p. 710.
Black Robes alla frontiera
John Ireland, Archbishop of Saint Paul, Herder, Saint Louis,
1907.
Laveille E., Le P. De Smet (1801-1873), Dessain, Liège, 1913.
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Shannon, James P., Catholic Boarding Schools on the Western
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Thompson S., Sunday School Stories among Savages, in «Texas
Review», III (1917), 109-116.
Woodstock Letters, collezione digitale a cura della Saint Louis University
(Missouri), http://cdm.slu.edu/cdm/landingpage/collection/woodstock.
29
Disputa di Socrate con Aristippo sopra i piaceri
e la temperanza.
Mi pareva che tali cose dicendo eccitasse i suoi
famigliari a praticare l'astinenza nel desiderio
di mangiare e di bere, e nell'appetito de' piaceri venerei e del sonno, e ad esercitare la tolleranza del freddo, del caldo e della fatica. Ed
avendo notizia d'un certo che riguardo a queste cose si conteneva con poca temperanza,
dimmi, Aristippo, gli diceva: Se di due giovanetti che tu prendessi a educare, ti bisognasse
uno istruirne per essere buono a comandare,
l'altro per non essere desideroso mai del comando in che maniera educheresti tu ambedue? Vuoi tu che consideriamo questo punto
principiando dal vitto, come da' primi elementi?
[Senofonte, Dei Detti memorabili di Socrate,
Libro II, capo I, trad. di Michel-Angelo Giacomelli pistoiese, Casa editrice M. Guigoni, 1876,
con note e variazioni di A. Verri].
Educazione e divisione del lavoro
in Émile Durkheim
Emilio Lastrucci
Università della Basilicata
Dipartimento di Scienze Umane
Via Nazario Sauro, 85 - 85100 Potenza
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1. Alla luce dei grandi rivolgimenti e dei salti evolutivi che hanno contrassegnato le vicende storiche dell’intero XX secolo, la teoria della divisione sociale del
lavoro, e più in particolare della relazione che intercorre fra quest’ultima e l’educazione sviluppata da Émile
Durkheim, a centoventi anni esatti dalla sua elaborazione rivela ancora una notevole attualità e mantiene
un’indiscutibile valenza esplicativa e interpretativa.
Allorché, infatti, la si analizzi in maniera approfondita
e scevra da pregiudizi e pre-comprensioni di qualunque
natura, attraverso una disamina che prescinda dalle
curvature ideologiche di cui è stata oggetto nel corso
delle diverse stagioni della storia politica del Novecento,
e che potenzialmente potrebbe ancora assumere, l’impostazione di Durkheim può risultare oggetto di una
comprensione rinnovata e corroborata da alcune chiavi
di lettura che consentono di riconsiderare alcune tesi su
cui essa si fonda in forma parzialmente originale, mediante il confronto con alcuni principi che costituiscono portati concettuali-ideali degli sviluppi più maturi
EDUCAZIONE. Giornale di pedagogia critica, II, 2 (2013), pp. 31-54.
ISSN 2280-7837 © 2013 Editoriale Anicia, Roma, Italia.
Emilio Lastrucci
dell’organizzazione democratica della società. Tale lettura rivela la sua efficacia specialmente se la si inquadra nella prospettiva di quella visione dinamico-evolutiva della democrazia che interpreta la funzione del
governo della cosa pubblica (tanto nella dimensione
del government quanto in quella della governance) in
termini di controllo e di indirizzo del movimento evolutivo tramite l’elaborazione di strategie atte a promuovere spinte che orientino tale movimento in direzione progressiva, ossia di accrescimento del benessere
generale e di ridistribuzione più equa di questo1.
Il tema della funzione esercitata dai sistemi educativi ai fini della divisione del lavoro (che avrebbe
comportato lo sviluppo di un’indagine nel merito della
formazione delle diverse competenze e figure professionali richieste dal mercato del lavoro) non viene in
realtà specificamente trattato da Durkheim in forma sistematica ed estesa in nessun luogo della sua opera,
pur costituendo un asse problematico attorno al quale
la sua riflessione ha orbitato a più riprese e che presumibilmente egli avrebbe successivamente affrontato
più direttamente se fosse vissuto più a lungo. Per met1
Tale lettura, che può concorrere ad arricchire l’analisi critica
dell’ampia e complessa opera di Durkheim, non contrasta con il riconoscimento di alcuni indiscutibili limiti che la sua teoria rivela e che
sono stati posti in risalto da alcuni dei suoi più acuti interpreti: a prescindere dalle note critiche di J. Piaget, che interpretò la pedagogia di
Durkheim in termini di una visione marcatamente autoritaria dell’educazione, in particolare morale (1972 [1932], p. 279 e sgg.), nonché
dalle controdeduzioni a queste di T. Parsons (1968 [1937], p. 417 e
sgg.), rivela un carattere indubbiamente incisivo la polemica sviluppata da S. Lukes, il quale rimprovera a Durkheim di interpretare l’educazione quale azione esercitata dalla società intesa complessivamente,
e quindi in termini astratti e generici, piuttosto che come attività istituzionale funzionale agli interessi di gruppi dominanti o egemoni
all’interno di essa (1975, p. 131 e sgg.).
32
Educazione e divisione del lavoro in Émile Durkheim
tere a fuoco la sua specifica proposta teorica, pertanto,
occorre necessariamente ricostruirla attraverso una disamina che ripercorra quasi esaustivamente l’evoluzione del suo pensiero. Si tratta di un compito quanto
mai complesso e impegnativo, oltre che esposto al rischio di possibili forzature interpretative, nella misura
in cui una siffatta analisi deve inevitabilmente misurarsi con alcune ineludibili difficoltà. La prima di queste è
costituita dal fatto che la riflessione condotta dal pensatore loreno è codificata in larga parte non solo e non
tanto nelle sue opere di carattere più organico, bensì,
come noto, anche in alcuni corpora di scritti lasciati in
eredità ai suoi esegeti, perlopiù sotto forma di articoli e
contributi di minore respiro, nonché, soprattutto, di appunti di corsi universitari e abbozzi di lavori che Durkheim si era ripromesso di sviluppare e sistematizzare,
ma che sono rimasti incompiuti e perciò collazionati,
organizzati e pubblicati postumi, in particolare mediante il lavoro di sistematizzazione compiuto dai suoi due
più stretti collaboratori, il nipote Marcel Mauss e l’allievo Paul Fauconnet. In ultima analisi, si può affermare
che la riflessione di Durkheim è costantemente animata
da un’esigenza di sistematicità, o almeno tendenzialmente vi aspira; essa è, per diversi rispetti, orientata
più da un esprit de système che dall’esprit de finesse, e
nondimeno egli non è potuto giungere alla edificazione
di un sistema di pensiero compiuto, organico e del tutto coerente.
Ciò è dovuto in primo luogo alla sua scomparsa
piuttosto prematura, ma altresì al fatto che Durkheim
ha, nel corso del tempo, spostato più volte l’asse del
suo interesse su questioni di natura alquanto eterogenea –
perlomeno in relazione al retroterra speculativo e alla
temperie culturale dai quali esso germinava – quantunque
fra loro più o meno strettamente intrecciate o da lui
33
Emilio Lastrucci
stesso ricollegate, ora abbandonando quasi del tutto
sentieri in precedenza percorsi, ora riprendendo temi
già sviluppati, ma orientandoli in direzioni nuove, sulla
base di ulteriori originali intuizioni, e riconsiderando,
in forma più o meno dichiarata, tanto le assunzioni di
fondo quanto talune conclusioni cui era in precedenza
pervenuto. Un’ulteriore difficoltà è legata al fatto che,
in gran parte in conseguenza delle circostanze appena
richiamate, il pensiero di Durkheim è stato piegato ad
una varietà decisamente ampia di interpretazioni: talora attraverso letture tese a chiarire aspetti controversi o
ancora reconditi del suo pensiero, talora per attingervi
nuove suggestioni; più sovente, infine, con intenti marcatamente polemici.
2. L’analisi condotta da Durkheim in La division
du travail social2 – che, principale dissertazione per il
conseguimento del dottorato, discussa e pubblicata nel
1893, rappresenta la prima opera organica redatta dal
pensatore loreno – prende le mosse dal problema relativo alle conseguenze prodotte dalla crescente frammentazione specialistica delle mansioni in tutti i settori
e comparti dell’attività produttiva, compreso quello
agricolo, nella fase di maggiore slancio propulsivo della seconda rivoluzione industriale, nonché, e soprattutto, da una specializzazione delle professioni, una ripartizione di ruoli e funzioni negli apparati politico-amministrativi e giudiziari, una ramificazione settoriale
della ricerca e una connessa articolazione dei saperi e
delle discipline sempre più accentuate in ragione dello
sviluppo industriale.
2
É. Durkheim, La division du travail social: étude sur l’organisation des sociétés supérieures, Paris, Alcan, 1893.
34
Educazione e divisione del lavoro in Émile Durkheim
Durkheim affronta in questo lavoro un tema che,
com’è noto, era balzato all’attenzione dei più autorevoli economisti e pensatori politici dei secoli XVIII e
XIX, da A. Smith a J. S. Mill, a K. Marx, nonché dei
massimi esponenti del movimento di idee positivista,
A. Comte e H. Spencer, i quali ultimi rappresentano gli
interlocutori e talora anche i bersagli polemici più diretti di Durkheim. Quest’ultimo, tuttavia – soprattutto
al fine di pervenire alla conclusione che gli sta maggiormente a cuore –, inquadra la questione in una cornice molto più generale, avvalendosi degli sviluppi
teorici della filosofia biologica a lui più prossimi, in
particolare della concezione organicista:
Les spéculations récentes de la philosophie biologique ont achevé de nous faire voir dans la division du travail un fait d’une généralité que les économistes, qui en parlèrent pour la première
fois, n’avaient pas pu soupçonner. On sait, en effet, depuis les
travaux de Wolff, de von Bauer, de Milne-Edwards, que la loi
de la division du travail s’applique aux organismes comme
aux sociétés; on a même pu dire qu’un organisme occupe une
place d’autant plus élevée dans l’échelle animale que les
fonctions y sont plus spécialisées3.
Tale premessa permette a Durkheim di giungere
immediatamente a stabilire quel corollario di natura filosofica, oltre che fondante per la sociologia scientifica,
che costituisce il cardine concettuale e teoretico-ideale
attorno a cui ruota interamente la sua specifica impostazione.
Un pareil fait ne peut évidemment pas se produire sans affecter profondément notre constitution morale4.
3
É. Durkheim, La division …, cit., vers. Num. par J.M. Tremblay, p. 49.
4
Ibidem.
35
Emilio Lastrucci
Come ha chiaramente posto in evidenza Giddens5,
per comprendere efficacemente la tesi di Durkheim sul
fondamento morale della divisione del lavoro, occorre
considerarla nella contrapposizione con quella che costituisce il suo principale bersaglio critico, vale a dire
l’interpretazione in chiave utilitarista di Spencer, nonché alla luce della necessità di superare e sviluppare la
visione comtiana della relazione fra divisione del lavoro, solidarietà e coesione sociale, che rappresentano i
tre perni concettuali di tutta la riflessione sviluppata da
Durkheim nel suo primo lavoro sistematico.
La tesi di Spencer si fonda essenzialmente sull’idea che la solidarietà trovi fondamento nel perseguimento degli interessi di ciascun individuo attraverso il
libero scambio. Secondo Durkheim, invece, lo scambio che ha luogo in qualunque forma di contrattazione
deve necessariamente inquadrarsi in una cornice morale e dunque la solidarietà, che inerisce a tale cornice,
non può costituire un effetto dello scambio medesimo6.
Per Spencer, infatti, la “solidarietà industriale”
presenta due caratteri fondanti: quello della spontaneità, che rende superfluo un apparato coercitivo atto a
produrla e a mantenerla, e quello della libera iniziativa, che permette a ciascuno l’auto-sostentamento, l’intrapresa economica, lo scambio, l’associazione etc., a
prescindere da un’azione direttiva della società.
Ora, per Spencer, la forma generale delle transazioni fra gli individui è il contratto. Tale forma diviene
predominante nel passaggio dal militarismo all’industrialismo e assume carattere pressoché universale nella società industriale più matura.
5
6
36
Durkheim, ed. it., p. 19.
É. Durkheim, La division …, cit., p. 72.
Educazione e divisione del lavoro in Émile Durkheim
Contract proper arises only when the work and the payment
are voluntarily exchanged; and while, on the one hand, this
can happened only when the parties to an agreement are independent, on the other hand when they are independent it
must happen7.
Per Spencer, l’intera vita sociale, infatti, è regolata
da processi spontanei e inconsapevoli, sotto la pressione immediata di bisogni, e non già in accordo con un
piano meditato e concertato fra i membri della società.
Tale visione, sottolinea Durkheim, si lega all’insostenibilità della concezione classica del contratto sociale.
Aussi bien la conception du contrat social est-elle aujourd’hui bien difficile à défendre, car elle est sans rapport
avec les faits. L’observateur ne la rencontre, pour ainsi dire,
pas sur son chemin. Non seulement il n’y a pas de sociétés
qui aient une telle origine, mais il n’en est pas dont la structure présente la moindre trace d’une organisation contractuelle. Ce n’est donc ni un fait acquis à l’histoire, ni une tendance qui se dégage du développement historique8.
Durkheim riprende qui la distinzione operata da
A. Fouillée fra contratto e compressione9 e interpreta
di conseguenza il contratto come qualunque forma di
accordo o transazione che non dipenda da condizioni
di “compressione” sociale.
A ce compte, il n’y a pas de société, ni dans le présent ni
dans le passé, qui ne soit ou qui n’ait été contractuelle; car il
n’en est pas qui puisse subsister par le seul effet de la compression10.
7
H. Spencer, Principles of Sociology, Williams & Norgate,
1874-5, vol. III, p. 512.
8
Ibid., p. 184.
A. Fouillée, Science sociale, Paris, 1880, p. 8.
10
É. Durkheim, La division…, cit., p. 184.
9
37
Emilio Lastrucci
Durkheim confuta perciò l’idea di Spencer che il
tessuto delle relazioni sociali nelle quali si esprime la
solidarietà sia di natura economica. La teoria della divisione del lavoro sviluppata da Durkheim si impernia
invece sulla funzione morale rivestita da quest’ultima11.
Per quanto riguarda la concezione di Comte, Durkheim prende le distanze dal suo maestro riguardo
all’idea, che egli ritiene legata inevitabilmente ad una
visione conservatrice (e perciò largamente condivisa
dai pensatori politici di questa tendenza), secondo cui
la solidarietà sociale è garantita sostanzialmente da un
consensus universel, e perciò da un grado molto elevato di condivisione delle norme morali, venendo a mancare il quale la coesione sociale tende pericolosamente
ad indebolirsi, producendo quella grave condizione di
instabilità sociale definibile come anomia.
La destination sociale du gouvernement me paraît surtout
consister à contenir suffisamment et à prévenir autant que
possible cette fatale disposition à la dispersion fondamentale
des idées, des sentiments et des intérêts, résultat inévitable
du principe même du développement humain, et qui, si elle
pouvait suivre sans obstacle son cours naturel, finirait inévitablement par arrêter la progression sociale sous tous les rapports importants. Cette conception constitue à mes yeux la
première base positive et rationnelle de la théorie élémentaire
et abstraite du gouvernement proprement dit, envisagé dans
sa plus noble et plus entière extension scientifique, c’est-àdire comme caractérisé en général par l’universelle réaction
nécessaire, d’abord spontanée et ensuite régularisée, de l’ensemble sur les parties. Il est clair, en effet, que le seul moyen
réel d’empêcher une telle dispersion consiste à ériger cette
indispensable réaction en une nouvelle fonction spéciale, susceptible d’intervenir convenablement dans l’accomplissement
11
38
Ibid., p. 185.
Educazione e divisione del lavoro in Émile Durkheim
habituel de toutes les diverses fonctions de l’économie sociale, pour y rappeler sans cesse la pensée de l’ensemble et le
sentiment de la solidarité commune12.
Sia la visione di Spencer sia quella di Comte risultano, secondo Durkheim, valide unicamente se riferite
ad una forma di organizzazione della società di livello
più rudimentale, nella quale la divisione del lavoro
prevede un grado molto modesto di differenziazione
dei ruoli. In questo tipo di società, basato sull’articolazione in nuclei familiari, gruppi clanici e comunità
tribali, la coesione sociale è fondata su una forma più
primitiva di solidarietà, che Durkheim denota come
meccanica. Nelle società industrializzate, dove si sviluppa una sempre più elevata differenziazione dei ruoli, la coesione sociale, basata sulla cooperazione e il libero scambio, è assicurata invece da una forma di solidarietà che Durkheim definisce organica13.
Il metodo che Durkheim utilizza, al fine di esaminare le due diverse forme di moralità che garantiscono
i due tipi distinti di solidarietà, è quello di analizzare
l’evoluzione dell’ordinamento giuridico dalle sue forme più primordiali fino alla forma più avanzata che si
è venuta sviluppando, attraverso vari stadi, nell’epoca
moderna. Tale scelta metodologica riposa sul presupposto che indagare i fatti morali in quanto tali comporti
talune difficoltà che possono essere eluse analizzando
invece il sistema delle leggi, le quali rappresentano essenzialmente, in ogni epoca e contesto determinati, la
formalizzazione delle più rilevanti norme etiche condivise. Poiché i codici sono organizzati in genere in modo da prevedere per ogni norma una sanzione connessa
12
A. Comte, Cours de philosophie positive, Paris, Bachelier,
1839, IV, pp. 430-431.
13
É. Durkheim, La division…,cit., L. I, cap. III.
39
Emilio Lastrucci
e proporzionata alla gravità della sua violazione (ciò
che discende dal carattere vincolante del principio morale sotteso alla norma giuridica), il migliore approccio
ad una classificazione dei sistemi giuridici è, secondo
Durkheim, quello che si basa sulla considerazione delle sanzioni previste in relazione alla trasgressione delle
norme. Seguendo questa impostazione, egli perviene a
definire una classificazione entro la quale si possono
distinguere due tipi fondamentali di sanzioni, a cui corrispondono due forme essenzialmente distinte di diritto: quelle repressive e quelle restitutive. Le prime sono
caratteristiche del diritto penale e consistono essenzialmente nell’infliggere una pena al trasgressore, come la limitazione della libertà per un periodo più o
meno lungo o addirittura la morte. Le seconde sono invece legate prevalentemente al diritto civile e commerciale, e mirano a ristabilire lo stato di cose precedente
la violazione. Si risolvono dunque con una qualche
forma di riparazione, anziché con la pena, la quale assolve, secondo Durkheim, almeno originariamente, la
funzione di pacificazione della coscienza morale collettiva che è stata offesa da colui che ha compiuto il
reato. Durkheim non concorda infatti con l’interpretazione secondo cui l’irrogazione della pena svolga
funzione di deterrente; essa origina piuttosto dalla
condizione emotiva generata nella collettività dalla
violazione di principi e valori radicati14.
L’esistenza del diritto penale mostra dunque per
Durkheim quella di una conscience collective, che perciò
tenderà a risultare tanto più solida quanto più in una
società il diritto repressivo prevalga su quello restituivo. Ciò avviene essenzialmente nelle società a solidarietà meccanica, nelle quali i principi morali fonda14
40
Ibid., L. I, cap. I, III.
Educazione e divisione del lavoro in Émile Durkheim
mentali sottesi al diritto penale hanno origine eminentemente religiosa, mentre nelle società a solidarietà
organica essi si svincolano da tale originario legame e
acquisiscono carattere laico15.
Per conferire maggiore forza esplicativa a tale
schema interpretativo, Durkheim utilizza diffusamente
la metafora di natura biologico-evoluzionista. Seguendo tale approccio, egli stabilisce che le società più primitive, e quindi più semplici, corrispondono a quelle
forme viventi nelle quali le cellule sono scarsamente
specializzate e quindi differenziate, organizzandosi in
aggregati. In questo tipo di società non sussistono legami di reciproca dipendenza fra i suoi membri: i legami fra le parti sono di natura meccanica piuttosto che
organica, come avviene invece in un organismo vivente
evoluto. Lo stadio immediatamente successivo è quello
che corrisponde ad una società organizzata in segmenti,
rappresentati dai gruppi di parentela allargati (clan).
In queste due forme meno evolute di organizzazione sociale, la conscience collective domina la coscienza individuale e vige una forma primitiva di comunismo, in quanto non sussistono ancora le condizioni per suddividere la proprietà e garantire agli individui
il possesso stabile di beni. In tale tipo di organizzazione, la coesione sociale assume la forma della solidarietà meccanica. La solidarietà organica si afferma su
quella meccanica solamente nello stadio più evoluto,
allorché il sistema produttivo si organizza in una forma
che rende necessaria un’alta differenziazione specialistica, soprattutto attraverso l’industrializzazione: in
questo tipo di società tutti gli individui sono legati da
relazioni di interdipendenza, ma nel medesimo tempo
15
Ibid., L. I, cap. V, V.
41
Emilio Lastrucci
la coscienza individuale si affranca gradualmente da
quella collettiva16.
Durkheim si interroga a questo punto sul meccanismo che spiega la tendenza all’aumento della complessità dell’organismo sociale attraverso la progressiva
differenziazione delle occupazioni, in accordo con il
principio che era già stato chiaramente enunciato da
Comte:
C’est … la répartition continue des différents travaux humains qui constitue principalement la solidarité sociale et qui
devient la cause élémentaire de l’étendue et de la complication croissante de l’organisme social17.
La spiegazione ricercata da Durkheim esclude un
principio di natura teleologica, quale quello chiamato
in causa dagli utilitaristi, secondo i quali la crescente
differenziazione incrementa la condizione di felicità
degli individui e, nello stesso tempo, massimizza la
produttività. L’idea che l’espansione della differenziazione comporti un incremento della felicità è, secondo
Durkheim, pienamente smentita sul piano empirico, in
particolare dalla constatazione dell’aumento del tasso
di suicidi nelle società a più elevato sviluppo industriale18. La spiegazione che egli avanza è legata invece ad
un processo di natura morale, ossia al progressivo aumento di quella che egli definisce densità dinamica19.
La division du travail progresse … d’autant plus qu’il y a plus
d’individus qui sont suffisamment en contact pour pouvoir agir
et réagir les uns sur les autres. Si nous convenons d’appeler densité
dynamique ou morale ce rapprochement et le commerce actif qui en
résulte, nous pourrons dire que les progrès de la division du travail
16
É. Durkheim, La division … L. I, cap. VI.
A. Comte, Cours …, IV, p. 425.
18
É. Durkheim, La division …, L. II, cap. I, II.
19
Ibid., L. II, cap. II.
17
42
Educazione e divisione del lavoro in Émile Durkheim
sont en raison directe de la densité morale ou dynamique de la société20.
Ora, in La division du travail social Durkheim
non tratta in forma esplicita la questione del rapporto
fra educazione e divisione del lavoro. Nelle parti conclusive, nondimeno, egli sviluppa alcune riflessioni circa i
problemi dell’uguaglianza e della giustizia sociale nella
società industriale avanzata, alla luce dei meccanismi
che regolano la divisione del lavoro e quindi, fondamentalmente, del principio della solidarietà organica. È
anche in questo caso merito di Giddens aver posto in
risalto come questa parte del pensiero di Durkheim sia
stata quasi del tutto trascurata dai suoi commentatori,
mentre si rivela come uno dei contributi più interessanti ed originali offerti dalla sua opera21.
Una delle conclusioni del ragionamento di Durkheim è infatti costituita dall’affermazione che la solidarietà organica, per funzionare efficacemente, presuppone la rimozione delle forme di ingiustizia sociale
dovute al censo, ossia alla trasmissione ereditaria della
proprietà e dei privilegi aristocratici, e comunque acquisiti per nascita, che costituiscono quelle che egli indica come disuguaglianze esteriori. Essa presuppone invece, come necessarie, le disuguaglianze interne, ossia
il fatto che i talenti e le capacità siano distribuite in misura sufficientemente disuguale da consentire un’articolazione adeguatamente specializzata delle professioni.
Discutendo sulle forme di divisione del lavoro di carattere costrittivo, Durkheim evidenzia come questo tipo
di organizzazione della società non permetta una vera
solidarietà:
20
Ibid., L. II, p. 32.
A. Giddens, Durkheim, trad. it., Bologna, Il Mulino, 1998,
pp. 27-28.
21
43
Emilio Lastrucci
Pour que la division du travail produise la solidarité, il ne suffit
donc pas que chacun ait sa tâche, il faut encore que cette tâche
lui convienne. (…) En effet, si l’institution des classes ou des
castes donne parfois naissance à des tiraillements douloureux, au
lieu de produire la solidarité, c’est que la distribution des fonctions sociales sur laquelle elle repose ne répond pas, ou plutôt ne
répond plus à la distribution des talents naturels22.
La solidarietà organica richiede dunque che si stabilisca un’armonia fra la differenziazione dei ruoli professionali e la distribuzione naturale delle attitudini,
concetto nel quale Durkheim sembra chiaramente includere e quindi assimilare, ritenendoli evidentemente
per loro natura congiunti, tanto l’elemento relativo alle
capacità potenziali dell’individuo quanto quello connesso con la sua aspirazione ad un ruolo professionale
che gli permetta di esercitarle. La solidarietà deve cioè
stabilirsi
en vertu de spontanéités purement internes, sans que rien vienne
gêner les initiatives des individus. A cette condition, en effet,
l’harmonie entre les natures individuelles et les fonctions sociales ne peut manquer de se produire, du moins dans la
moyenne des cas. Car, si rien n’entrave ou ne favorise indûment les concurrents qui se disputent les tâches, il est inévitable que ceux-là seuls qui sont les plus aptes à chaque genre
d’activité y parviennent. La seule cause qui détermine alors
la manière dont le travail se divise est la diversité des capacités. Par la force des choses, le partage se fait donc dans le
sens des aptitudes, puisqu’il n’y a pas de raison pour qu’il se
fasse autrement. Ainsi se réalise de soi-même l’harmonie
entre la constitution de chaque individu et sa condition23.
La società giunta al pieno sviluppo della solidarietà organica implica perciò il sussistere di una sostan-
22
23
44
É. Durkheim, La division …, L. II-III, p. 120.
Ibid., pp. 120-1.
Educazione e divisione del lavoro in Émile Durkheim
ziale giustizia sociale che permetta l’uguaglianza delle
opportunità.
La tâche des sociétés les plus avancées est donc, peut-on dire,
une oeuvre de justice. (…) De même que l’idéal des sociétés
inférieures était de créer ou de maintenir une vie commune
aussi intense que possible, où l’individu vînt s’absorber, le
nôtre est de mettre toujours plus d’équité dans nos rapports
sociaux, afin d’assurer le libre déploiement de toutes les forces
socialement utiles. (…) Il n’est pas de besoins mieux fondés
que ces tendances, car elles sont une conséquence nécessaire
des changements qui se sont faits dans la structure des sociétés. Parce que le type segmentaire s’efface et que le type organisé se développe, parce que la solidarité organique se
substitue peu à peu à celle qui résulte des ressemblances, il
est indispensable que les conditions extérieures se nivellent.
L’harmonie des fonctions et, par suite l’existence, sont à ce
prix24.
3. Neppure Giddens (che è sicuramente uno dei
sociologi contemporanei che hanno indagato più approfonditamente ed estesamente l’opera di Durkheim
quale fondatore della sociologia scientifica), tuttavia,
coglie il nesso – da Durkheim appena adombrato – fra
queste riflessioni conclusive del suo primo lavoro organico e quelle sviluppate in altre due componenti
fondamentali della sua opera, vale a dire, quella pedagogica e quella politica.
Per quel che riguarda la prima, già nelle pagine introduttive de La division Durkheim evidenzia come il
fondamento morale della divisione del lavoro sia provato proprio dal mutamento degli ideali educativi fra
l’epoca precedente e quella successiva allo sviluppo
industriale, vale a dire dal passaggio fra la visione
umanistica dell’uomo onnilaterale e le esigenze emergenti della specializzazione.
24
Ibid., p. 128
45
Emilio Lastrucci
Sans doute, il semble bien que l’opinion penche de plus en
plus à faire de la division du travail une règle impérative de
conduite, à l’imposer comme un devoir. Ceux qui s’y dérobent ne sont pas, il est vrai, punis d’une peine précise, fixée
par la loi, mais ils sont blâmés. Nous avons passé le temps où
l’homme parfait nous paraissait être celui qui, sachant
s’intéresser à tout sans s’attacher exclusivement à rien, capable de tout goûter et de tout comprendre, trouvait moyen
de réunir et de condenser en lui ce qu’il y avait de plus exquis dans la civilisation. Aujourd’hui, cette culture générale,
tant vantée jadis, ne nous fait plus l’effet que d’une discipline molle et relâchée25.
E già in questo stesso luogo, subito dopo Durkheim
pone in risalto, nel contempo, come l’educazione volta
a formare le competenze specialistiche non debba rischiare di produrre una frammentazione eccessiva delle competenze – ciò che impedirebbe uno sviluppo armonico e completo delle personalità individuale – e
vada perciò bilanciata da una formazione che miri a tale sviluppo e risulti pressoché identica per tutti. Richiamandosi in particolare alle critiche allo specialismo sviluppate da J.B. Say e rivolte palesemente ad
Adam Smith, infatti, Durkheim sottolinea quanto triste
possa apparire la condizione di chi debba limitare il
proprio contributo al benessere sociale e l’espressione
del proprio essere alla produzione della diciottesima
parte di uno spillo, condizione che Say non considera
limitata al solo lavoro manuale ripetitivo, tipico della
25
Ibidem, Introduction, pp. 49-50. Nella seconda edizione, del
1902, Durkheim aggiunse a questo passaggio una nota nella quale
chiariva come esso fosse stato erroneamente interpretato come un rifiuto della cultura generale, mentre intendeva riferirsi esclusivamente
all’ideale, ben identificato sul piano storico, dell’umanesimo, e la
convinzione che la cultura generale vada invece promossa e sviluppata
in misura equilibrata con quella specialistica risulta pienamente evidenziato da quanto sviluppato nelle pagine successive.
46
Educazione e divisione del lavoro in Émile Durkheim
catena di montaggio, ma inerente altresì allo svolgimento di professioni liberali destinate a funzioni altamente specifiche26.
La riflessione interrotta nelle conclusioni de La
division, così come il riferimento alla funzione del sistema educativo, esplicitato ma non pienamente sviluppato nel suo primo lavoro, trovano una continuità e
una trattazione più specifica nella voce Éducation redatta per il Noveau dictionnaire de pédagogie et
d’instruction primaire curato da F. Buisson27, dove
Durkheim definisce la funzione sociale dell’educazione. Il punto di partenza della riflessione condotta da
Durkheim in questo scritto consiste nel riconoscimento
della duplice funzione che i sistemi educativi devono
assolvere in una determinata società: garantire un’istruzione differenziata in ragione dei diversi gruppi sociali distinti nei quali si articola la società medesima e,
al contempo, la trasmissione di un sistema di valori e
principi unitario e indifferenziato che deve essere condiviso indistintamente da tutti i membri della società, a
prescindere dal ruolo sociale ricoperto da ciascuno.
L’educazione, cioè, è per Durkheim ad un tempo unica
e molteplice.
Il est multiple. En effet, en un sens, on peut dire qu’il y a autant de sortes différentes d’éducation qu’il y a de milieux différents dans cette société. (...) Chaque profession, en effet, constitue un milieu sui generis qui réclame des aptitudes particulières et des connaissances spéciales, où règnent certaines idées,
certains usages, de certaines manières de voir les choses; et
comme l’enfant doit être préparé en vue de la fonction qu’il
sera appelé à remplir, l’éducation, à partir d’un certain âge,
26
J.B. Say, Traité d’économie politique, Paris, 1803, I, cap.
VIII; É. Durkheim, La division …, cit., p. 51.
27
Paris, Hachette, 1911, poi inserita nella raccolta curata da
Fauconnet.
47
Emilio Lastrucci
ne peut plus rester la même pour tous les sujets auxquels elle
s’applique. C’est pourquoi nous la voyons, dans tous les pays
civilisés, qui tend de plus en plus à se diversifier et à se spécialiser; et cette spécialisation devient tous les jours plus précoce. L’hétérogénéité qui se produit ainsi ne repose pas,
comme celle dont nous constations tout à l’heure l’existence, sur
d’injustes inégalités; mais elle n’est pas moindre28.
Ma per quanto diversificati possano risultare gli
indirizzi specializzati del sistema educativo, finalizzati
a sviluppare talenti ed attitudini specifici per preparare
ciascuno ad un ruolo professionale determinato, è comunque necessario, per Durkheim, che il medesimo sistema garantisca una base solida e consistente di formazione culturale e civile (che egli, in sintonia con
Spencer, articola nei tre aspetti portanti dell’educazione fisica, intellettuale e morale) comune a tutti i cittadini.
Mais, quelle que soit l’importance de ces éducations spéciales,
elles ne sont pas toute l’éducation. On peut même dire qu’elles
ne se suffisent pas à elles-mêmes; partout où on les observe,
elles ne divergent les unes des autres qu’à partir d’un certain
point en deçà duquel elles se confondent. Elles reposent toutes
sur une base commune. Il n’y a pas de peuple où il n’existe
un certain nombre d’idées, de sentiments et de pratiques que
l’éducation doit inculquer à tous les enfants indistinctement, à
quelque catégorie sociale qu’ils appartiennent29.
Poiché ogni società, in ogni tempo esprime, secondo
Durkheim, la necessità di conformare i suoi membri ad
un proprio specifico ideale d’uomo, e l’educazione rappresenta l’istituzione mediante la quale le generazioni
adulte esercitano un’azione su quelle non ancora pronte per la vita sociale, per realizzare tale scopo, nella
28
É. Durkheim, Éducation et sociologie, vers. num. par J.M.
Tremblay, p. 8.
29
Ibid., pp. 8-9.
48
Educazione e divisione del lavoro in Émile Durkheim
società a solidarietà organica tanto il fondamento unitario quanto le articolazioni specializzate del sistema
educativo assumeranno una fisionomia funzionale alle
esigenze di questo modello di società.
Si la société est arrivée à ce degré de développement où les anciennes divisions en castes et en classes ne peuvent plus se
maintenir, elle prescrira une éducation plus une à sa base. Si, au
même moment, le travail est plus divisé, elle provoquera chez
les enfants, sur un premier fonds d’idées et de sentiments communs, une plus riche diversité d’aptitudes professionnelles30.
In questo passo, Durkheim istituisce perciò un collegamento evidente, quantunque non esplicito, con
quanto sostenuto quasi un ventennio prima in La division du travail social. Qui, tuttavia, il termine aptitude
sembra assumere una connotazione diversa da quella
che aveva in quell’opera, dove veniva ad indicare, come si è visto, una disposizione o inclinazione costitutiva, e pertanto la forma di una condizione soggettiva
naturale. In piena coerenza con quel principio di determinismo sociale che assume valore cardinale nella
sua concezione, Durkheim riguarda qui anche le attitudini come un prodotto del formarsi dell’essere sociale
piuttosto che quali datità intrinseche all’essere individuale (che le confinerebbe, quali oggetto di studio, alla
psicologia piuttosto che alla scienza della società).
Questo spostamento semantico-concettuale, che sollecita senza dubbio l’interesse ad analisi e riflessioni più
approfondite, non modifica comunque nella sostanza lo
svolgimento ulteriore del ragionamento sul tema specifico del quale ci stiamo occupando nel presente contributo.
30
Ibid., p. 9.
49
Emilio Lastrucci
4. Per comprendere appieno quale meccanismo
debba idealmente regolare secondo Durkheim la divisione del lavoro nella società a solidarietà organica matura,
occorre infine inquadrare sia la sua dottrina della divisione del lavoro sia la sua concezione dell’educazione quale strumento del processo di socializzazione all’interno
della sua teoria politica. In tale luce appare chiaro come l’articolazione in gruppi sociali della società ideale
delineata da Durkheim, che egli vede come una particolare e più avanzata forma di democrazia, non possa
essere quella di una stratificazione in classi, bensì debba risultare il prodotto di una suddivisione in categorie
di carattere, per dir così, orizzontale. Tali categorie sono definite in relazione ai diversi gruppi professionali,
che trovano la loro forma organizzata nelle corporazioni. Queste rappresentano, secondo Durkheim, lo
strumento atto ad assicurare la regolamentazione morale del sistema industriale, in concomitanza con la funzione esercitata dallo Stato, che attua il medesimo fine
mediante il controllo sul piano dell’economia, nonché,
peraltro, la gestione del sistema educativo e, per questa
via, la tutela dei fondamenti etici della vita sociale e
civile. Questo tema viene inizialmente sviluppato da
Durkheim nel corso su «Saint-Simon e il socialismo»
tenuto nel 1985-86 (e pubblicato postumo nel 1928) e
poi ripreso nella Preface alla seconda edizione, del
1902, de La division (Quelques remarques sur les
groupements professionnels), in quanto si trattava di
«une idée, qui était restée dans la pénombre lors de la
première édition, et qu’il nous paraît utile de dégager
et de déterminer davantage, car elle éclairera certaines
parties du présent travail et même de ceux que nous
avons publiés depuis31».
31
50
É. Durkheim, La division …, 2a ed., 1902, p. 14.
Educazione e divisione del lavoro in Émile Durkheim
Durkheim è pienamente consapevole del fatto che
la rivalutazione del ruolo che le corporazioni hanno
esercitato storicamente, dalle polis al Medio Evo fino a
prima della Rivoluzione Francese, può essere riguardato come un tentativo di involuzione conservatrice, essendo queste considerate tipicamente legate alla architettura sociale dell’ancien régime, ma tale idea si rivela
fallace, per Durkheim, qualora si analizzi la funzione
morale, piuttosto che quella economico-politica, che le
corporazioni hanno assolto e potrebbero assolvere in
prospettiva.
Ce que nous voyons avant tout dans le groupe professionnel,
c’est un pouvoir moral capable de contenir les égoïsmes individuels, d’entretenir dans le coeur des travailleurs un plus
vif sentiment de leur solidarité commune, d’empêcher la loi
du plus fort de s’appliquer aussi brutalement aux relations
industrielles et commerciales32.
Tale funzione morale può essere per il nostro Autore meglio compresa se si esaminano le profonde analogie che la corporazione e la famiglia rivelano quali
istituzioni sociali.
La famille ne doit … pas ses vertus à l’unité de descendance:
c’est tout simplement un groupe d’individus qui se trouvent
avoir été rapprochés les uns des autres, au sein de la société
politique, par une communauté plus particulièrement étroite
d’idées, de sentiments et d’intérêts. La consanguinité a pu
faciliter cette concentration; car elle a naturellement pour effet d’incliner les consciences les unes vers les autres. Mais
bien d’autres facteurs sont intervenus: le voisinage matériel,
la solidarité des intérêts, le besoin de s’unir pour lutter contre
un danger commun, ou simplement pour s’unir, ont été des
causes autrement puissantes de rapprochement. Or, elles ne sont
pas spéciales à la famille, mais elles se retrouvent, quoique sous
32
Ibid., p. 22.
51
Emilio Lastrucci
d’autres formes, dans la corporation. Si donc le premier de
ces groupes a joué un rôle si considérable dans l’histoire morale de l’humanité, pourquoi le second en serait-il incapable?33.
In prospettiva, le corporazioni dovranno però assumere per Durkheim una fisionomia decisamente rinnovata rispetto a quella che presentavano nelle precedenti
epoche storiche. Esse dovranno, da una parte, aprirsi
all’orizzonte internazionale, sotto forma di associazioni
di livello continentale o addirittura mondiale, poiché in
tale direzione si va sviluppando la società industriale.
Dall’altra, però, ogni corporazione, quale organizzazione unitaria, dovrà prevedere un’articolazione in organismi più settoriali, legati alle esigenze delle più
specifiche realtà regionali e locali. Le corporazioni dovrebbero inoltre esercitare una vera e propria potestà
legislativa e comunque decisionale nella regolamentazione e nel controllo dell’attività economica nei diversi
settori e comparti ed in relazione alle diverse categorie
professionali. Infatti, se tale prerogativa fosse affidata
ai poteri centrali, sarebbe inevitabile che il controllo
delle attività economiche e della vita individuale assumesse un carattere repressivo, mentre allo Stato spetta
solo il compito di legiferare in merito alle norme generali che regolano il funzionamento del sistema economico-produttivo. Tale equilibrio fra le funzioni esercitate dalle due istituzioni portanti della società, lo Stato
e le corporazioni, costituisce per Durkheim la garanzia
fondamentale per il rispetto dei diritti e delle libertà individuali e collettive in una società democratica34.
Il modello di sistema educativo delineato da Durkheim, quantunque la sua teoria vada opportunamente
contestualizzata attraverso un preciso inquadramento
33
34
52
Ibid., p. 27.
Ibidem, III. Cfr. inoltre Le socialisme…, cit., passim.
Educazione e divisione del lavoro in Émile Durkheim
nelle coordinate storico-culturali nelle quali trova sviluppo, in particolare in rapporto al processo di laicizzazione dello stato e del sistema dell’istruzione francesi
nel periodo in questione (analisi che abbiamo qui, dato
il respiro delimitato del presente contributo, appena
abbozzato e che ci ripromettiamo di sviluppare più
estesamente in un lavoro più ampio), prefigura senza
dubbio, nei suoi principi portanti, la struttura che i sistemi educativi andranno consolidando nel contesto
europeo comunitario esattamente un secolo più tardi.
Tale modello prevede infatti un equilibrio ottimale
fra una solida formazione culturale e intellettuale di
base, uguale per tutti, ed una formazione specialistica
sufficientemente perfezionata, attraverso l’opportuna
differenziazione di canali formativi di pari dignità ed
elevato prestigio, in modo da garantire a ogni cittadino
la piena realizzazione di sé attraverso una attività professionale ben identificata e continuamente adeguata
ed aggiornata in rapporto ai mutamenti del mercato del
lavoro. Quest’ultima finalità, secondo il nostro Autore,
non può essere assicurata in misura efficace unicamente dall’amministrazione pubblica. Richiede invece il
concorso decisivo di libere entità associative che assumano il compito di promuovere la formazione di
quegli elementi etico-deontologici che completano lo
sviluppo della personalità di ogni cittadino/lavoratore.
Oltre che, naturalmente, definire i profili di competenze continuamente mutevoli, e predisporre e gestire o
co-gestire percorsi di formazione che garantiscano la
massima qualificazione di ogni cittadino-lavoratore.
53
Emilio Lastrucci
Riferimenti bibliografici
Comte, A., Cours de philosophie positive, Paris, Bachelier, 1839.
Durkheim, É., La division du travail social: étude sur l’organisation
des sociétés supérieures, Paris, Alcan, 1893, 2a ed. 1902.
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54
Teatro educativo dei primi gesuiti:
dalla retorica alla drammatizzazione
Maria Francesca D’Amante
Università degli Studi Roma Tre
Department of Education
Via Manin, 53 - 00185 Roma
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1. Tra retorica e drammatizzazione
Il teatro gesuitico si offre all’analisi storico-letteraria degli studiosi con una grande ricchezza di contenuti culturali e di scelte metodologiche sulle tecniche
di recitazione. Teatro come scuola di valori e di virtù; ma,
anche, come disciplina dell’anima e del corpo. Uno fra i
tanti strumenti pedagogici di cui dispone la Compagnia
per plasmare l’allievo modello (vir catholicus dicendi
peritus), fatto a immagine e somiglianza di Dio, e spazio
educativo privilegiato in cui forgiare il buon gesuita.
Il teatro gesuitico appare come un tramite visibile
della disciplina corporis di tradizione cristiana che, in
età moderna, esalta il controllo di anima e corpo. In
questo senso, la pratica teatrale dei collegi riproduce
una semiologia risalente all’ispirazione dell’Imitatio
Christi e, più in generale, alla cultura della devotio
moderna. E devozione, contemplazione, imitazione dei
misteri di Cristo ne costituiscono i cardini, raccolti da
Ignazio nei famosi Esercizi Spirituali.
Questo articolo intende tracciare l’evoluzione dalla retorica alla teatralizzazione della parola avvenuta
EDUCAZIONE. Giornale di pedagogia critica, II, 2 (2013), pp. 55-74.
ISSN 2280-7837 © 2013 Editoriale Anicia, Roma, Italia.
Maria Francesca D’Amante
all’interno della pedagogia gesuitica, un movimento
naturale che ha portato l’oratoria a farsi parola-azione.
Come noto, il gesuita perfetto doveva essere in grado di coltivare ed esaltare le sue potenzialità comunicative. E per far ciò, era considerata indispensabile l’arte dell’eloquenza, un elemento peculiare del percorso formativo nelle scuole della Compagnia.
Allo scopo, venivano stilate minuziose tecniche di
disputatio ed era stabilito un modello di retorica metodica ed analitica ancorata all’antropologia e all’etica. Essa
rappresentava una propedeutica allo sviluppo e all’uso di
un discorso persuasivo capace di rispecchiare le intenzioni accentratrici dell’ordine e la volontà di formare
uomini liberi, futuri protagonisti della vita politica. È
così che, tra le necessità strategiche della formazione
scolastica gesuitica presenti nella Ratio Studiorum,
spicca l’importanza attribuita alla retorica quale strumento per raggiungere l’obiettivo principale della perfecta eloquentia1. La retorica, dice la Ratio, «nec utilitati solum servit, sed etiam ornatui indulget»2: giacché, oltre
ad essere strumento di intelligenza e di abilità nelle dispute, essa presuppone ed esige un tipo di linguaggio ricercato ed elegante, fatto per una comunicazione aristocratica e persuasiva3. La parola che i maestri gesuiti volevano coltivare doveva perciò inserirsi in modo coerente
nell’intero programma di militanza che essi andavano
sviluppando, e per tale ragione pensarono ad una pedagogia della parola in grado di disciplinare il mezzo lin 1
Cfr. Ratio atque institutio studiorum Societatis Iesu, trad. e cura di A. Bianchi, Milano, Rizzoli, 2002, p. 112.
2
Ibidem.
3
Cfr. A. Battistini, «I manuali di retorica dei gesuiti», in G.P.
Brizzi (a cura di), La “Ratio studiorum”. Modelli culturali e pratiche
educative dei gesuiti in Italia tra Cinque e Seicento, Roma, Bulzoni,
1981, p. 78.
56
Teatro educativo dei primi gesuiti: dalla retorica alla drammatizzazione
guistico e veicolare un preciso stile educativo. Con chiari
valori etico-religiosi e con contenuti culturali di un particolare umanesimo4.
Ad perfectam eloquentiam. Gli obiettivi didattici
che i professori dovevano perseguire con il loro insegnamento erano la capacità dialettica, l’abilità oratoria,
un pieno e sicuro possesso del medium linguistico5. Il
perfetto allievo gesuita, sottoposto ad una rigorosa e
capillare educazione retorica, doveva poter disporre
delle più efficaci risorse argomentative del linguaggio
e di un latino vivo e correttamente parlato. Nei seminaria nobilium l’allievo, oltre ad affrontare il duro tirocinio di grammatica, umanità e retorica, doveva prepararsi alla vita mondana6. Perciò vennero inserite attività
parascolastiche e furono previste figure professionali
aggiuntive (oltre ai professori in organico).
Se la Ratio, nella sua asciutta formulazione, si limita
a prescrivere la cornice precettistica in cui esperire ogni
singola forma-azione, saranno le singole rationes, invece,
a porre l’accento sull’importanza delle esercitazioni scolastiche tese a rafforzare gli insegnamenti impartiti all’interno dei corsi umanistici. Tra queste, un posto centrale veniva assegnato alla declamazione (la recita di collegio), che consisteva in un discorso retorico, eseguito in
pubblico, di un brano o di un dialogo interpretato e trasformato in rappresentazione scenica. Nata come strumento di verifica della preparazione retorica degli studenti, essa venne poi inserita progressivamente, e a pieno ti 4
Cfr. P. Goujon, I tratti dell’umanesimo gesuitico, in «La Civiltà Cattolica», 2013, Quaderno 3909, pp. 238-249.
5
Cfr. A. Bianchi (a cura di), Ratio atque institutio studiorum
Societatis Iesu, cit., pp. 42-43.
6
Per i seminaria nobilium, cfr. infra, n. 14.
57
Maria Francesca D’Amante
tolo, nelle attività di Collegio come esercizio letterario
carico di finalità oratorie. E, attraverso essa, si intendeva
mettere in scena l’ideale dell’oratore antico, il famoso
vir bonus dicendi peritus.
L’insegnamento gesuitico era principalmente rivolto all’oralità, e fu proprio questa dimensione a dar
vita ad una drammatizzazione pedagogica del temposcuola quotidiano. Perciò nella Ratio, ad esempio, l’obiettivo di una perfetta eloquenza fu perseguito anche
organizzando le classi inferiori in due gruppi rivali
(decurie) simulanti Romani e Cartaginesi.
Nei corsi di umanità e retorica, gli studenti in ingresso padroneggiavano la lingua latina; la parlavano
correttamente come una lingua viva, e la presenza delle
esercitazioni orali indica la predilezione per la parola
viva. Il che fa di questa scuola una scena di dialogo attivo e continuo in cui vengono allenati la memoria, la
voce, il carattere, lo spirito, il gesto.
La parola sta al centro dell’umanesimo gesuitico,
e con essa viene perseguita una institutio oratoria basata
su un ripetuto esercizio di dispute ed aemulatio classica. L’obiettivo era quello di insegnare ai futuri membri
delle élites le regole severe di una elocutio che esaltava
l’ornatus, l’inventio e la dispositio. L’offerta d’insegnamento si arricchiva dei più efficaci sussidi didattici
e generava una dura palestra di esercitazioni, che curavano lo stylus e l’eruditio degli allievi. Questi dovevano
imparare a disputare su qualsivoglia argomento partendo
dallo studio e dall’apprendimento mnemonico dei classici
latini e greci. Perciò nella Ratio si parla di diversi metodi
utilizzati per questo fine: praecepta teorici fondati sull’imitatio; assimilazione mimesica del comportamento
58
Teatro educativo dei primi gesuiti: dalla retorica alla drammatizzazione
verbale dell’autore; variatio del discorso in risposta alle
condizioni specifiche della situazione dibattuta7.
Tra le esercitazioni orali, era proprio la declamazione a consentire le migliori potenzialità drammatiche. E,
quando i contenuti della recitazione iniziavano a dar spazio alla poesia e alla commedia antica, i confini della declamazione divenivano fluttuanti, fino a generare un
movimento verso la teatralizzazione e seguendo la nota
sequenza: disputatio-aemulatio-declamatio-ostentatio8.
Il limite è segnato dal modo di recitare e dall’organizzazione del quadro di gioco. Le declamazioni venivano preparate per il Natale, per l’Epifania, per le feste
dei Santi patroni e per l’Eucaristia9; e la declamazione
confluì nell’arte scenica con molta naturalezza: un’evoluzione spontanea che portò gradualmente a parlare di
declamationes scenicae. Così, anche se conservava in
sé la sua singolarità, le differenze tra declamazione e
teatro non emergevano tanto per una questione di natura,
ma di grado. Infatti, come sostenevano i teorici dell’eloquenza, i padri N. Caussin, F. Lange e J. de Jouvancy,
gesto e voce hanno in entrambi i casi una funzione simile
e rispondono alle stesse esigenze di comunicazione10.
Secondo questa concezione, il teatro non è che una
transizione dalla disputa all’opera drammatica, e dove la
dialettica è applicata alla letteratura. Così, declinando la
retorica in drammaturgia, la pedagogia della parola dei
gesuiti si serviva della forza del verbo per trasmettere i
suoi valori. Dunque, un esercizio con funzioni educative
e l’arte rappresentativa come strumento moralmente per 7
Cfr. G.P. Brizzi, La “Ratio studiorum”…, cit., pp. 80-82.
Cfr. J.M. Valentin, Le théâtre des Jésuites dans les pays de
langue allemande 1554-1680: salut des âmes et ordre des cités, Bern,
P. Lang, 1978, p. 224.
9
Cfr. Ibid., p. 226.
10
Cfr. Ibid., p. 227.
8
59
Maria Francesca D’Amante
suasivo. Qui la retorica e il teatro riflettono la disposizione naturale dell’uomo al linguaggio e al dialogo, ed entrambe condividono il principio aristotelico dell’uomo
nato per la parola e per la parola in società11.
La coerenza degli esercizi orali di collegio è tale che
non vi è dualità di sistema né d’ispirazione, ma fusione di
linguaggi, e le differenze riguardano le circostanze e i corollari tecnici. Così, declamazione e pièces nascono dalle
stesse possibilità. Entrambe partecipano a riti di culto del
verbo. Il teatro entrava nella scuola cristiana grazie a
una paideia che, attraverso gli stessi obiettivi pedagogici,
univa la religione, la retorica, la drammatizzazione.
Secondo le Costituzioni, l’umanità dispone di tre
sostegni essenziali: la teologia, la filosofia, la conoscenza letteraria. Questa poggia sulla grammatica, ma
confluisce nella retorica; le arti e le scienze sono inconcepibili senza di essa, e nel sistema pedagogico gesuita la scelta delle esercitazioni è coronata dall’anno
di retorica, madre di tutte le arti (nutrix omnium artium). La struttura culturale di questo sistema retorico
era costituita dal modello di Quintiliano, la cui opera
rappresentava una sintesi completa ed equilibrata della
classicità. L’Institutio oratoria, le Partitiones oratoriae ciceroniane e la Rethorica ad Herennium costituivano i testi principali per la classe di retorica12.
La retorica era uno strumento d’intelligenza e di
abilità che richiedeva un linguaggio distinto ed elegante, fatto per una comunicazione aristocratica, persuasiva, eloquente. L’eloquenza veniva concepita come una
11
Cfr. M. Fumaroli, «Les jésuites et la pédagogie de la parole», in
M. Chiabò, F. Doglio (a cura di), I Gesuiti e i primordi del teatro barocco
in Europa, XVIII convegno internazionale - Centro Studi sul Teatro
Medioevale e Rinascimentale, Roma, Torre d’Orfeo Editrice, 1995, p. 42.
12
Cfr. Ibid., p. 83.
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Teatro educativo dei primi gesuiti: dalla retorica alla drammatizzazione
disciplina dinamica che unisce gli uomini e li conduce
insieme verso Dio, seguendo la traccia del verbo divino. La pratica retorica della Compagnia ha come oggetto primario il persuadere colui a cui ci si rivolge e il
cui sviluppo si costruisce sulle prove (probationes).
Con un movimento analogo, la pièce teatrale segue un
percorso preciso: inizia con l’expositio, prosegue con la
narratio, culmina nella confirmatio. In questo modo, grazie ad una struttura sillogistica, essa risulta simile ad una
dimostrazione che fa apparire la giustezza o la falsità di
un’opinione o di un comportamento legittimo13.
Questo processo era funzionale al raggiungimento
dell’obiettivo principale dei gesuiti: convertire l’altro e
portarlo al loro punto di vista, ma attraverso un uso efficace del linguaggio. Dunque, per mezzo dell’energia di
un discorso che esige una conoscenza approfondita delle
passioni umane. Infatti l’oratore, ricorrendo a strumenti
emozionali, raggiunge l’ethos e produce il pathos. Egli
agisce davvero se fa riposare il suo lavoro sulle reazioni
attese e codificate dal pubblico. È efficace se sa condurre,
canalizzare, orientare l’altro attraverso l’arte delle passioni, la vera chiave di potere sugli spiriti, l’arma di una dolce ma reale e positiva tirannia.
Le parole mostrano, illustrano, rinviano agli exempla. Il verbo, per esistere, deve incarnarsi. La capacità del
retore è di conferire alle parole il potere di mettere sotto
gli occhi del pubblico gli oggetti che stimolano l’attività
intellettuale e di provocarne l’adesione. Il discorso diventa allora visibile. È un quadro per le orecchie. Le parole
sono immagini e il loro assemblaggio una pittura parlante. Figurare, sostiene Jakob Masen, è donare una forma
alla riproduzione grafica e al linguaggio.
13
Cfr. J.M. Valentin, Le théâtre des Jésuites…, cit.
61
Maria Francesca D’Amante
Sulla base di questo stretto legame tra le varie forme
di comunicazione umana è agevole pensare al rapporto
tra retorica e teatro. In esso i gesuiti videro un potente
mezzo per favorire nei collegi l’acquisizione delle qualità
mondane che avrebbero rappresentato i tratti esteriori del
loro prodotto educativo: abituarsi alla presenza di un uditorio; ricercare una forma adatta per esporre il pensiero di
un autore; essere capaci di modulare la voce in modo opportuno; curare la gestualità14. Il teatro congiunge allora
imago e verbum: attraverso una strategia comunicativa
che, nel medesimo spazio-tempo, promuove ragione e
immaginazione; agisce sulla memoria; la plasma e la incanala. Esso attiva nell’attore una meditazione interiore.
Si incarna in una parola viva e attiva. Agisce sull’altro
portando esempio.
2. Teatro ed eloquentia corporis
Nei collegi dei gesuiti il teatro aveva, come finalità prioritaria, la formazione oratoria e il cambiamento
interiore dei suoi attori, membri della medesima comunità cristiana e promotori di una parola in cui Cristo
si è incarnato. Ed è il Verbo che persuade, combatte e
agisce15. Il teatro doveva formare lo spirito degli studenti e modellarne l’atteggiamento. L’esercizio della
rappresentazione serviva a migliorare la capacità oratoria e a coinvolgere le funzioni fisiche e psicologiche in
un processo di continuo disciplinamento. In tal senso,
esso funzionava come plasmatore di personalità: affi 14
Cfr. G.P. Brizzi, La formazione della classe dirigente nel
Sei-Settecento. I ‘seminaria nobilium’ nell’Italia centro-settentrionale,
Bologna, Il Mulino, 1976, p. 248.
15
Cfr. M. Fumaroli, op. cit., p. 48.
62
Teatro educativo dei primi gesuiti: dalla retorica alla drammatizzazione
nava la sensibilità degli allievi, indirizzava il pensiero
verso rotte ben delineate, favoriva l’interiorizzazione
di valori e contenuti.
Nell’ottobre del 1554, presso il Collegio Romano,
gli atti solenni e pubblici per l’inaugurazione dell’anno
accademico furono conclusi con un evento letterario: la
declamazione, da parte dei migliori studenti di lettere,
del poema De scientiarum honestate ac utilitate dialogus, dell’umanista Andrea des Freux. Può esser considerato, questo, il primo atto pubblico del Collegio, una
prima che non rimase isolata16. L’anno successivo, infatti, dopo le solite dispute per l’inaugurazione dell’anno accademico, l’evento fu ripetuto. E ancora una
volta con un dialogo del des Freux. S. Ignazio fece allora inviare il dialogo ad altri collegi della Compagnia
e ordinò che si replicasse anche altrove quanto avveniva al Collegio Romano. Egli riteneva infatti che questi
dialoghi rappresentassero un mezzo utile per illustrare
il metodo pedagogico dei Gesuiti. E così, sempre nel
1555, per la festa degli Innocenti, venne rappresentato
il dialogo in esametri De modo renascendi in Christo17
(sempre del des Freux).
Furono questi i primordi del teatro gesuitico nel
Collegio Romano. E così le declamazioni, insieme alle
rappresentazioni di dialoghi, vennero inserite nel curricolo formativo dell’anno di umanità e di retorica. Non
era tanto l’erudizione che contava, quanto piuttosto la
16
Cfr. R. García Villoslada, Storia del Collegio Romano, Roma,
Pontificia Università Gregoriana, 1954, pp. 21-31.
17
Cfr. M. Fois, «La retorica nella pedagogia ignaziana» in M.
Chiabò, F. Doglio (a cura di), I Gesuiti e i primordi del teatro barocco
in Europa, cit., pp. 58-59. Sul teatro nei collegi dei gesuiti a Roma,
cfr. C. Casalini, L. Salvarani, Roma 1566. I collegi gesuiti alle origini del
teatro barocco, in «Educazione. Giornale di pedagogia critica», II (2013),
n. 1, pp. 29-51.
63
Maria Francesca D’Amante
preparazione alla vita privata e sociale, ragion per cui le
forme di espressione, come l’arte di comunicare in società, dovevano essere insegnate prima e più di ogni altra
cosa. Nel quadro di questa visione pedagogica, appare
chiara la scelta di usare come strumento didattico ed educativo il teatro, onde perseguire la maturazione umana,
intellettuale e religiosa degli studenti. Così voleva, del resto, la pedagogia ignaziana: “far fructo nele anime”18.
La scena di forma-azione si fa momento fondamentale nella pedagogia della Compagnia a partire dal 1564,
quando Diego de Ledesma, nel suo scritto De Ratione et
Ordine Collegii Romani19, detta le prime norme per la
rappresentazione scenica nel Collegio Romano. Questo
evento inaugura una pratica che si affermerà poi in tutti i
collegi gesuiti, e il teatro sarà adottato come strumento
trasversale (e insieme centrale) del percorso educativo e
morale dello studente.
Per capire a fondo con quali dinamiche la realtà della drammatizzazione aderisse sensibilmente all’universo
pedagogico generato dall’Ordine, sarà utile allargare brevemente la riflessione al contesto storico-artistico dell’epoca di riferimento, e accennare perciò alla dimensione
socio-culturale di quei tempi, nutriti da molteplici tentativi di ri-nascita dei valori, delle certezze, del mondo.
Nel lacerante contesto post-tridentino, venne profilandosi un orientamento culturale che muoveva le forze intellettuali e politiche al rinvenimento di una rinvigorita cultura cristiana. Priorità assoluta, per la Chiesa,
era quella di riconquistare e consolidare il millenario
18
Cfr. M. Fois, L’insegnamento delle lettere al Collegio Romano,
AHP, 29 (1991), pp. 58-60.
19
D. de Ledesma, De Ratione et Ordine Studiorum Collegii
Romani in M.P.S.I., a cura di L. Lukacs, II, Roma, Institutum
Historicum Societatis Iesu, 1974.
64
Teatro educativo dei primi gesuiti: dalla retorica alla drammatizzazione
ruolo di egemonia del cattolicesimo romano. E così, il
potenziamento delle istituzioni ecclesiastiche fu posto
al centro degli interessi del Concilio di Trento, nel tentativo di porre un argine alla lacerazione seguita alla
Professio fidei. La Compagnia di Gesù sposò gli obiettivi tridentini e tradusse la sua adesione come opera di
evangelizzazione tramite l’educazione e la formazione
di veri e propri milites Christi. Col tempo, però, l’atteggiamento di pura resistenza alla Riforma si affievolì, e
si modificò il percorso di formazione proposto nei collegi. L’obiettivo divenne allora quello di preparare l’allievo a saper vivere nel mondo. Perciò si offrì un insegnamento alto nelle discipline che lo avrebbero reso
socialmente idoneo alla vita mondana.
«Nel teatro di collegio tardocinquecentesco, in
particolare, – scrive L. Salvarani – si riflette la fase più
innovativa e sperimentale della pedagogia gesuita, che
si trovava a concorrere con la cultura delle corti europee e a proporre alternative in gran parte affidate alla
libera iniziativa, all’estro e alla sottigliezza dei singoli
docenti e rettori, molto prima che lo sforzo normalizzante di Claudio Acquaviva traghettasse il tutto verso
lo spirito di sistema della Ratio studiorum. Di questa
fase sperimentale, il momento della scrittura, dell’elaborazione e della messinscena teatrale è quello che più
riesce ad elaborare un linguaggio proprio, ricco di conseguenze sulla messa a punto della grande scena barocca […] ma soprattutto capace di imporsi come lessico intellettuale della classe dirigente europea del
tempo»20.
20
L. Salvarani, Venegas e gli altri. Il teatro nella prassi pedagogica
gesuita del Cinquecento, in «Educazione. Giornale di pedagogia critica»,
I (2012), n. 1, Roma, Anicia, p. 53.
65
Maria Francesca D’Amante
Tra le attività parascolastiche, il teatro era ritenuto
un vettore privilegiato e di quasi diretta espressione e
relazione col mondo. Esso è immagine, verbo, parola
proferita. E di ciò i gesuiti si resero presto conto. Il logocentrismo della pedagogia gesuitica si sposava perfettamente con questo medium artistico. Il teatro divenne un tramite visibile della disciplina corporis cristiana: la pratica teatrale attivava nell’attore dilettante
l’interiorizzazione psicologica del personaggio e una
meditazione interiore; si incarnava in una parola viva e
attiva che agiva sull’altro e portava il suo esempio. I
maestri gesuiti avevano individuato nel teatro una “scuola di virtù”21, uno spazio reale e non virtuale in cui realizzare una messa in scena edificante e virtuosa. Vedevano in esso una funzione etica che aveva come obiettivo
principale quello di far avvicinare il ragazzo, tramite
l’emulazione, a precisi stati d’animo e a condizioni umane di santi o di uomini umili e fedeli. La retorica, puro
strumento d’incanto verbale, correva libera alla ricerca
dell’imitazione, di un’immaginazione sfrenata e tradotta rigorosamente in lingua latina ad usum exercitationis, giacché il teatro era anzitutto momento didattico
che si serviva di un pubblico vero e proprio solo in
funzione dei suoi obiettivi formativi.
L’attività teatrale di carattere formativo nei collegi
gesuiti, per quanto rappresentasse un momento di incontro tra scuola e società, consisteva in esercitazioni
di tipo didattico ed apologetico. Erano svolte dagli alunni
21
Prendo in prestito la locuzione da G. Zanlonghi, cfr. Id., Il
teatro nella pedagogia gesuitica: una “scuola di virtù”, in I Gesuiti e
la Ratio Studiorum, a cura di M. Hinz, R. Righi, D. Zardin, Roma,
Bulzoni, 2004, pp. 159-190. La studiosa segue una pista di ricerca
diversa da quella che si è deciso di percorrere in queste pagine, giacché si
concentra sulla dimensione contenutistica del teatro di collegio e
analizza le opere e i testi usati per le drammatizzazioni in collegio.
66
Teatro educativo dei primi gesuiti: dalla retorica alla drammatizzazione
e tendevano a coinvolgere lo spettatore in una relazione edificante. Esso costituiva un momento importante
di crescita per il ragazzo. La pratica teatrale corrispondeva alla messa in scena e alla celebrazione pubblica
dello stesso sistema scolastico. La rappresentazione
teatrale assumeva tutta l’importanza del saggio, con la
funzione di valutare il lavoro finale degli studenti: non
sulla base dell’approvazione e del diletto del pubblico,
ma sulla dimostrazione dell’apprendimento delle abilità
sceniche dell’allievo.
La natura pedagogica del teatro di collegio pone
dunque al centro il processo di apprendimento, così che il
processo interiore dell’allievo-attore precede l’impatto
sullo spettatore e dà vita alla esigenza tipicamente gesuitica di codificare una specifica actio scenica. Di qui
il fiorire di una abbondante trattatistica gesuitica intorno alla perfetta formazione dell’attore22. Ed emerge
chiaramente, in tali trattati, la finalità del teatro educativo: plasmare la figura del perfetto oratore cristiano
efficace nel divulgare la cultura cristiana post-tridentina. Allo scopo, offrirà un contributo rilevante un ricco programma di matrice umanistica, inteso a preparare il futuro portavoce di Dio. Che sarà comunicatore
provetto e ben attrezzato nell’affrontare la vita sociale.
È l’umanesimo di formazione23, basato sull’azione
prioritaria della parola: verborum cognitio prior, rerum
cognitio potior.
Al centro del programma umanistico è sempre la
retorica, l’arte della persuasione e del convincimento,
la capacità di far sposare all’ascoltatore quel tipo di lo 22
Cfr. B. Filippi, Il teatro dei Gesuiti a Roma nel XVII secolo, in
«Teatro e storia», IX (1994), p. 94.
23
Efficace, in proposito, l’esposizione di F. de Dainville in Id.,
La naissance de l’humanisme moderne, Paris, Beauchesne, 1940.
67
Maria Francesca D’Amante
gica proposta, come dice Charmot,24 l’arte di far credere
a una logica. Queste sottili abilità presupponevano un
meticoloso studio dell’universo umano, delle emozioni
e delle dinamiche psicologiche. Qui si scorge la puntuale aderenza della retorica al teatro, e viceversa. Il
buon oratore s’incarna nel bravo attore, purché egli sia
capace di emulare una condizione umana esemplare attraverso l’uso magistrale delle tecniche psico-fisiche
proprie della recitazione. E così, la classe di retorica
veniva trasformata in un luogo scenico in cui mettere
in gioco le pratiche dell’arte della comunicazione e del
convincimento. Il proiettarsi verso un interlocutore e
l’immedesimarsi in un altro sé richiedevano un lavoro su
se stessi molto tecnico: basato sull’autocontrollo dell’anima e del corpo, sull’educazione della gestualità, su una
forma quasi ascetica di elevazione spirituale, in osservanza del modello offerto dagli Esercizi di Ignazio.
Un teatro che prepari all’azione della Grazia,
«scartando ciò che l’ostacola e stimolando le proprie
forze spirituali»25 e che abbia tutte le caratteristiche
degli esercizi spirituali, presuppone uno stato dell’anima analogo a quello di chi compie un’esperienza di
devozione. In proposito, Charmot definisce l’arte del
teatro come l’art du sentir26, visto che una buona emulazione può essere esperita soltanto se l’attore è in grado di accostarsi al mondo interiore del soggetto rappresentato. Ne assorbe allora sensorialmente gli stati d’a 24
Cfr. P. Charmot, La pédagogie des jésuites, Paris, Aux Edition Spes, 1943, p. 276.
25
Questo è uno degli obbiettivi perseguiti da Sant’Ignazio attraverso i suoi esercizi: preparare e disporre l’anima a togliere da sé tutte
le affezioni disordinate e, in seguito, trovare la volontà divina nell’organizzazione della propria vita: I. di Loyola, Esercizi spirituali, Roma,
Città Nuova, 2013, p. 64.
26
Cfr. P. Charmot, op. cit., p. 267.
68
Teatro educativo dei primi gesuiti: dalla retorica alla drammatizzazione
nimo e li elabora razionalmente e spiritualmente in un
risultato visibile. Così arriva all’altro e comunica un
significato ben preciso.
L’obiettivo era chiaro: ottenere il consensus gentium per mezzo dell’uso retorico di una ricca fenomenologia teatrale. Grazie all’illusione scenica, la vita si
formalizzava in spettacolo, fino ad arrivare ad un limite impercettibile tra arte e realtà, passato e presente,
pubblico e privato.
La prima rappresentazione venne allestita nel collegio di Coimbra,27 in occasione della cerimonia di
consegna dei premi agli alunni migliori. Tale manifestazione coincideva con il termine dell’anno scolastico,
e da allora, per disposizione del padre Perpinyà, un simile evento si sarebbe ripetuto ogni anno. Così lo spettacolo messo in scena dagli studenti avrebbe dato dimostrazione pubblica dei risultati da loro raggiunti28.
Da esercitazione scolastica a carattere didattico, e
dunque da possibilità per gli allievi di mettere in mostra i precetti di retorica studiati a strumento di formazione sociale per l’intera comunità, il teatro gesuitico
travalicò i limiti di uno spettacolo teso solo a diffondere idee. Il teatro dei Gesuiti fu molto attento ai bisogni
pedagogici degli allievi, come pure alle sollecitazioni
morali, politiche, religiose e spirituali degli adulti.
Dunque, un teatro per educare e per istruire. Ma anche
un teatro per sedurre. L’obiettivo primario era infatti
quello d’incanalare l’umanità verso Dio, verso il Bene.
E, grazie ad esso, i gesuiti poterono intessere in modo ancora più vivo e fruttuoso i rapporti con la società laica.
27
Per la storia del collegio di Coimbra, cfr. C. Casalini, Aristotele a Coimbra. Il Cursus Conimbricensis e l’educazione nel Collegium Artium, Roma, Anicia, 2012.
28
P. Perpiniano, Opere, Roma, vol. IV, p. 161.
69
Maria Francesca D’Amante
Intorno al 1560, molte delle esperienze teatrali e
drammaturgiche dei collegi della Compagnia tendono
a confluire all’interno del Collegio Romano, in una
sorta di officina teatrale e drammaturgica che dava
spazio alla nascita e alla formalizzazione di un dramma
sacro. Nuovo nella concezione retorica, ma anche nelle
tecniche coreografiche e di messa in scena. Fu il Collegio Romano ad istituzionalizzare la pratica educativa
legata al teatro. Nel 1564 venne allestito uno spettacolo solenne con la recita di un dramma sacro che aveva
come argomento il culto divino. L’approvazione di
questa nuova attività da parte delle autorità ecclesiastiche, che controllavano l’organizzazione interna ai collegi e l’offerta formativa, conobbe un graduale percorso d’inserimento e una lunga fase d’incubazione. Legata, questa, ad un iniziale scetticismo nei confronti del
teatro, potenzialmente pericoloso e dunque da proteggere da eventuali contaminazioni di carattere profano.
Nel Collegio Romano si raccomandò inizialmente di
allestire opere sceniche solo raramente e mai nelle
chiese; di adottare solo la lingua latina; di sottoporre i
testi al parere del Padre provinciale e di mantenere separato l’allestimento teatrale dalle pratiche liturgiche,
non usando oggetti sacri29.
La primitiva diffidenza nei confronti del teatro
quale strumento educativo venne dunque ben presto
superata, e la continua proliferazione dei collegi sarà
accompagnata anche dalla nascita di spazi interni dedicati alle rappresentazioni drammatiche. Si dava inizio
così ad una solida tradizione, e la Ratio Studiorum (1599)
riconoscerà la continuità della pratica pedagogica e dei
giochi drammatici. La regione disciplinare del teatro si
29
70
Cfr. P. Charmot, op. cit., pp. 258-260.
Teatro educativo dei primi gesuiti: dalla retorica alla drammatizzazione
farà allora spazio all’interno dell’intera realtà pedagogica della Controriforma: le rappresentazioni saranno
allestite in luoghi deputati esclusivamente ad esse e si
seguirà un preciso calendario (ricorrenze sacre e festività come il Carnevale e l’Epifania).
Roma venne a rappresentare la culla del teatro gesuitico. Qui venivano stilati metodi, teorie e forme teatrali esportati poi dall’Ordine in Francia, Germania e
Spagna, dove il teatro gesuitico era già molto diffuso30.
Il primo periodo fu quello delle rappresentazioni di
semplici fabulae eruditae, un momento in cui la principale intenzione era quella di creare un legame tra sacralità e tragedia classica. L’orientamento del dibattito
post-tridentino sull’eloquenza fu segnato invece dall’attività dell’umanista francese Muret, che proponeva
la retorica e la disciplina del modus oratorius classico
come uno dei più sicuri principi della riconciliazione
tra erudizione sacra e profana, tra umanesimo e ortodossia romana. Ma sarà il Collegio Romano ad ereditare il pensiero di Muret e a svilupparlo fu un suo allievo, Francesco Benci, che, dal 1586 al 1589, vi insegnò
retorica31. Dal 1592 al 1602 veniva incaricato come insegnante di retorica un allievo del Benci, Bernardino
Stefonio, definito anche l’ideatore della tragedia cristiana, che nella sua produzione drammaturgica realizzò una perfetta sintesi tra tradizione classica profana e
fonti cristiane: il Crispus e la Flavia, opere ambientate
nella Roma tardo-medievale, rimarranno emblemi del
repertorio drammatico dei gesuiti.
30
Cfr. G. Gnerghi, Il teatro gesuitico ne’ suoi primordi a Roma,
Roma, Officina Poligrafica, 1907, p. 8.
31
Cfr. C. Casalini, L. Salvarani, Roma 1566. I collegi gesuiti alle
origini del teatro barocco, cit., p. 32 e sgg.
71
Maria Francesca D’Amante
Nel progetto di formazione alla retorica si perseguiva l’unitarietà della persona, e dunque una visione
olistica in cui intelletto e passione, ragione ed emozione interagissero secondo la visione dell’uomo ispirata
all’antropologia filosofica aristotelica. La retorica è
strettamente legata all’imago quale medium conoscitivo fra il pensiero e la realtà, grazie alla sua funzione
speculare rispetto alla realtà in cui trovano espressione
la mente e la parola. Il verbum mentis umano può incarnarsi nuovamente in un id quo sensibile. Dunque, il
legame tra immagine e retorica si trova nell’atto creatore che questa compie quando crea una parola eloquente agendo sulla componente sensibile dell’id quo,
una parola visiva che fa leva sui processi analogici ed
immaginativi32. La conoscenza umana cerca di adeguarsi
alla realtà e di aderire il più possibile alla res attraverso il
verbum. È qui che la retorica dimostra il suo essere uno
strumento moralmente ambiguo, in quanto può connettere la ragione sia alla verità che alla menzogna.
Il teatro gesuitico nasce per esaltare i valori e la
forza di un’istituzione pedagogica che voleva formare
l’oratore cristiano e cerca di applicare, nella formazione dell’attore, la stessa disciplina che accompagna e
corregge l’esercitante che segue con rigore e fiducia un
percorso per avvicinarsi a Dio e al bene con autocontrollo, disciplina e devozione. Gli albori del teatro al
Collegio Romano dimostrano chiaramente il legame
tra gli Esercizi Spirituali e la prima concezione scenico-spettacolare del teatro di collegio. Ignazio ha voluto
fare dell’immagine (o “vista” interiore) un’ortodossia,
e con gli Esercizi Spirituali ha inventato un linguaggio
32
Cfr. G. Zanlonghi, Teatri di formazione. Actio, parola e
immagine nella scena gesuitica, Milano, Vita e pensiero, 2002, pp.
204-205.
72
Teatro educativo dei primi gesuiti: dalla retorica alla drammatizzazione
capace di permeare totalmente l’immaginario dell’esercitante, al fine di piegarlo e di indirizzarlo al bene, in
un’articolata e moderna imitazione di Cristo. Perciò la retorica di Ignazio è una riserva di immagini, un’immagine
che non è una visione, bensì una veduta, come dice Barthes33. Gli Esercizi sono in nuce, perciò, ciò che verrà poi
espresso con il teatro. Contengono elementi che si traducono in espressione teatrale, e fra di essi il primo è la
compositio loci, dove l’immaginazione dell’esercitante
viene invitata a rappresentarsi i luoghi nella Terra Santa34,
quasi fosse una struttura scenografica.
Si può facilmente notare, allora, come già nel lessico ignaziano il movimento del logos sia connesso all’occhio, ad una parola visiva che a sua volta stimola la
stessa visione. Tutto ciò che l’esercitante deve fare è
legato alla sua potenza fantastica, alla capacità di ricrearsi luoghi e persone, dando loro un’immagine. Perciò le
parole di Ignazio organizzano lo spazio con precisione,
con attenzione ai singoli elementi, ai dettagli.
Proprio come avverrà, per lungo e indimenticato
tempo, nei teatri di tutti i collegi gesuiti35.
Riferimenti bibliografici
Barthes, R., Sade, Fourier, Loyola, Torino, Einaudi, 1977.
Bianchi, A., (a cura di), Ratio atque institutio studiorum Societatis
Iesu, Milano, Rizzoli, 2002.
33
Cfr. R. Barthes, Sade, Fourier, Loyola, Torino, Einaudi, 1977,
pp. 40-44.
34
Cfr. H. Pfeiffer, «La radice spirituale dell’attività teatrale della
Compagnia di Gesù negli Esercizi Spirituali di Sant’Ignazio», in M.
Chiabò, F. Doglio (a cura di), op. cit., pp. 31-32.
35
D. Quarta, «Drammaturgia gesuita nel Collegio Romano:
dalla tragedia di soggetto biblico al dramma martirologico (15601644)», in M. Chiabò, F. Doglio (a cura di), op. cit., p. 122.
73
Maria Francesca D’Amante
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Chiabò, M., - F., Doglio (a cura di), Convegno di studi: I Gesuiti e
i primordi del teatro barocco in Europa, Roma, 26-29 ottobre
1994, Anagni, 30 ottobre 1994, Viterbo, Centro studi sul teatro
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de Dainville, F., La naissance de l’humanisme moderne, Paris,
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Perpiniano, P., Opere, Roma, vol. IV.
Pfeiffer, H., «La radice spirituale dell’attività teatrale della Compagnia di Gesù negli Esercizi Spirituali di Sant’Ignazio», in
Chiabò, M., - F., Doglio, op. cit.
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tragedia di soggetto biblico al dramma martirologico (15601644)», in Chiabò, M., - F., Doglio, op. cit.
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virtù”, in Hinz, M., - R., Righi, - D., Zardin, (a cura di), I Gesuiti
e la Ratio Studiorum, Roma, Bulzoni, 2004.
74
Morte, violenza e sovranità.
Spunti paidetici da Carl Schmitt
Rocco Marcello Postiglione
Università Roma Tre
Department of Education
Via Manin, 53 - 00185 Roma
[email protected]
La problematica della legittimazione educativa1 è
solo un aspetto di quella più generale di un tempo, e
delle sfide che lo segnano. Nuovi scenari, nuove sfide:
nuovi modi di porre quei problemi e le relative soluzioni. Legittimazione a educare significa dislocazione
del potere di educare. Quel potere, per almeno due secoli, si è svolto entro un quadro dominato, non senza
contrasti, dagli stati-nazione, che sembrano rappresentare,
oggi, uno schema, se non superato, in profonda crisi.
Da questa crisi la nostra domanda: lo stato educa?
Inquadrata sommariamente la situazione odierna,
e il destino del fenomeno statuale, ci limiteremo ad un
primo, aporetico inventario di concetti ad esso sistematicamente legati: una costellazione su cui il discutere
pedagogico non poggia volentieri lo sguardo e che,
proprio per questo, richiede una specifica formalizzazione paidetica.
Il concetto di Stato si colloca nel giuridico e nel
politico. Non può competerci una sua compiuta carat1
Ci riferiamo qui, come generale punto di partenza, a F. Mattei,
Sapere pedagogico e legittimazione educativa, Roma, Anicia, 1998.
EDUCAZIONE. Giornale di pedagogia critica, II, 2 (2013), pp. 75-96.
ISSN 2280-7837 © 2013 Editoriale Anicia, Roma, Italia.
Rocco Marcello Postiglione
terizzazione nella situazione odierna, che sfugge al sociologo, al giurista, al filosofo della politica e, a fortiori, al pedagogista. Ci limiteremo quindi ad acquisirne
alcune marche formali, distintive oltre che decisive alla
luce di una categoria paidetica, l’educazione morale2:
quel versante rivolto al morale, all’etico e al politico,
che osserva i costumi, le virtù, i principi e i valori posti
alla base del nostro agire, e perciò meritevoli di riproposta educativa. Sotto questa categoria, senza ignorarne i nessi inestricabili con le altre, si colloca il problema della legittimazione, e quello dello Stato.
Più volte, nel dibattito colto europeo, si è sentito
porre in questione il concetto di Stato. Sono antiche le
ipotesi sulla sua fine, auspicata o aborrita. Ma il vaticinio s’è fatto più frequente dopo la caduta del Muro di
Berlino. La crisi esplode con la globalizzazione e il parallelo emergere dei particolarismi che, per reazione,
vengono da essa determinati.
Già dopo la Seconda guerra mondiale, la dissoluzione dello jus publicum europaeum, cornice giuridica entro
la quale la pratica statuale sorge e si afferma, si è risolta
in una logica spaziale neo-imperiale, che contempla da
un lato la guerra totale, dall’altro la guerra partigiana,
asimmetrica. Il nemico diviene nemico assoluto, oppure
criminale. Dopo l’effimera “fine della storia” Stars and
2
Secondo la dizione di Durkheim. L’impostazione categoriale è
desunta da J. Gatty, Finalità dell’educazione. Educazione e libertà,
trad. e cura di F. Mattei, Roma, Anicia, 20002. Sviluppi, aggiunte e
modifiche sono proposti nei nostri: La formazione professionale. Appunti teorici su dispositivi didattici pratiche sociali e politiche formative, Roma, Anicia, 2011, pp. 15-30 e Differenze di paideia. Culture
lingue migrazioni, Roma, Anicia, 2012, pp. 19-32. Qui il lettore trova
un’analisi più completa della situazione.
76
Morte, violenza e sovranità.
Spunti paidetici da Carl Schmitt
Stripes, la seconda ondata di globalizzazione3 si fonda
su un regime universale di libero scambio, in cui
l’ordine segue i frastagliati contorni di nuove aggregazioni imperiali che concentrano la forza autentica e
soverchiante4. Lo stato subisce una notevole alterazione,
perduto il monopolio del giuridico che si era arrogata, ma
risulta sempre più necessario, nella sua esclusiva capacità
di redistribuzione e di esercizio legittimo della violenza.
Sempre più Stati sorgono5 e si affermano sulla scena internazionale, sempre più forze sovraordinate rispetto agli
stati-nazione sopravvissuti o neonati assumono forme, oltre che funzioni, tipicamente statuali.
Mentre l’Europa, culla della statualità classica,
perde centralità, deve affrontare la più imponente trasformazione demografica dal medioevo a oggi. Nel suo
insieme, certamente, ma ancor più nei singoli stati che
la compongono: i discendenti di coloro che li abitavano
nel 1950 saranno un secolo dopo minoranza (in alcuni
luoghi neppure relativa). È l’effetto di una biopolitica
desiderata, contestata e irrinunciabile: sostituzione di
una popolazione insufficiente, se limitata alle generazioni autoctone, con gli immigrati, senza il cui apporto
alla natalità il declino demografico sarebbe catastrofico. Una società di vecchi si trasforma in una società di
immigrati.
3
Che può, convenzionalmente, essere collocata nel 2001, anno
d’ingresso della Cina nell’Organizzazione Mondiale del Commercio.
4
Cfr. P. Khanna, I tre imperi. Nuovi equilibri globali nel XXI
secolo, Roma, Fazi, 2009.
5
Scrive Schmitt, nel 1971: «Mentre stato e sovranità vengono
ideologicamente accantonati come anacronismi, nella prassi politica
mondiale appaiono a dozzine nuovi Stati sovrani, che si combattono a
vicenda, benché siano membri dell’organizzazione della pace mondiale».
C. Schmitt, Le categorie del ‘politico’, Bologna, il Mulino, 1972, p.
21. Non ha potuto vedere l’esplosione di sovranità statali successiva al
crollo dell’Impero sovietico. E i conseguenti massacri.
77
Rocco Marcello Postiglione
Questa demografia erode l’importanza del principio nazionale. Del resto, le aggregazioni neo-imperiali
si addensano attorno a unità politiche che travalicano il
nesso tra Stato e nazione, conservandone poco più che
vestigia formali – come già le super-potenze dell’ordine bipolare.
Non cade, dunque, lo Stato. Perde rilevanza geopolitica il principio nazionale – che esplode ma viene marginalizzato – e si rompe il nesso stato-nazione o, meglio, il
blocco storico, nei suoi contenuti concreti e nelle sue
molteplici casistiche, che in quel nesso si riconosceva.
L’inesorabile scioglimento di quel blocco altera
radicalmente i termini concettuali del problema della
legittimazione educativa e i quadri istituzionali dell’istruzione di massa. Ciò soprattutto riguardo all’educazione morale, finora garantita – ma anche neutralizzata! – da quel medesimo blocco. L’educazione (morale) è potuta tipicamente consistere nella nazionalizzazione delle masse, attuata a partire da un nucleo
forte e pervasivo di uniformità etno-linguistiche (ed eventualmente religiose), con quegli innesti democratici ed
egalitari che hanno reso l’insieme consolante, se non gradevole. Le logiche evolutive dell’istruzione pubblica sarebbero incomprensibili fuori da questo scenario.
Ma l’obsolescenza di quelle istituzioni e di quei
principi si ascrive anche all’insorgere di una società
civile globalizzata: mercati, flussi di simboli e scambi
sociali di tipo nuovo, forme antiche e nuove di dizione
del numinoso, movimentismi contestativi o partecipativi. Un ciclo indefinitamente ricorrente di produzione
intrattenimento e consumo che scandisce il vivere quotidiano e trasforma l’aggregarsi e atteggiarsi del potere,
il fluire del denaro, l’organizzarsi del lavoro, il manifestarsi dell’immaginario, l’emergere dei bisogni, l’affermarsi dei diritti e il protendersi dei desideri.
78
Morte, violenza e sovranità.
Spunti paidetici da Carl Schmitt
Sembra dunque d’assistere a un rovesciamento
della dialettica hegeliana: famiglia e stato, opponendosi, culminano nella società civile – globalizzata6.
Che ne è dell’educazione morale quando cade il
nesso stato-nazione come l’abbiamo conosciuto? Quali
forze si scatenano? Quali nuove sintesi costruire?
Non è questo il luogo per articolare la risposta a
questi quesiti. La nostra questione è antecedente: oggi
lo stato educa? E, più in generale, qualunque forma assuma: può educare?
È dunque in questione il concetto di Stato, nelle sue
caratterizzazioni distintive. La prima, essenziale: la sovranità. «Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione»7. È la formulazione, celeberrima, di Carl Schmitt.
Giurista, politologo, filosofo e teologo del diritto. Teorico giuridico della prima fase del regime nazista. Quel
pensiero profondo, lucido e controverso si fa indispensabile per la chiarezza con la quale ha posto questioni
cruciali e irrisolte della storia novecentesca e per la risolutiva concettualizzazione di una problematica fondamentale. «L’eccezione è ciò che non è riconducibile;
essa si sottrae all’ipotesi generale, ma nello stesso
tempo rende palese in assoluta purezza un elemento
formale specificamente giuridico: la decisione»8. Qualcosa che esula dal solco consueto nel quale poniamo il
giuridico: la legalità, per cui «chi esercita il potere e il
dominio agisce “sulla base di una legge” oppure “in
nome di una legge”»9. La legge, ovviamente, è definita
6
Esito intravvisto già nel 1908 da Franz Oppenheimer.
C. Schmitt, Le categorie del ‘politico’, Bologna, il Mulino,
1972, p. 35.
8
Ibid., p. 39.
9
Ibid., p. 212.
7
79
Rocco Marcello Postiglione
da un’assemblea legislativa eletta, distinta dal potere
esecutivo. La legge non basta. Lo Stato, qualunque
Stato, sussiste se vi è sovranità; dunque, in virtù di una
«decisione».
Nella sua forma assoluta il caso d’eccezione si verifica solo
allorché si deve creare la situazione nella quale possano avere
efficacia norme giuridiche. Ogni norma generale richiede una
strutturazione normale dei rapporti di vita, sui quali essa di fatto
deve trovare applicazione e che essa sottomette alla propria
regolamentazione normativa. La norma ha bisogno di una situazione media omogenea. Questa normalità di fatto non è semplicemente un «presupposto esterno» che il giurista può ignorare;
essa riguarda invece direttamente la sua efficacia immanente10.
«Creare la situazione nella quale possano avere efficacia norme giuridiche». La decisione «crea» la normalità. Concetto, per definizione, di immediata pertinenza paidetica. Quella normalità è costume, è mos e
habitus, è Sitte. Siamo dunque, evidentemente, al centro della nostra problematica. La normalità è il senso
dell’istituzione e dell’ordinamento, concetti giuridici
altrettanto fondamentali di quelli di legge e norma11.
Tutto questo è l’ordito concreto su cui si dipana il tessuto dell’educazione morale: il «senso», dell’istituzione,
della decisione, dell’ordinamento, della norma nel loro
diretto rilievo etico, ergo educativo.
Non esiste nessuna norma che sia applicabile a un caos. Prima deve essere stabilito l’ordine: solo allora ha un senso l’ordinamento giuridico. Bisogna creare una situazione normale,
e sovrano è colui che decide in modo definitivo se questo
stato di normalità regna davvero. Ogni diritto è «diritto ap10
Ibid., p. 39.
Concetti la cui rilevanza e articolazione non possiamo che
sfiorare grazie a P. Grossi, Prima lezione di diritto, Roma-Bari, Laterza, 2003.
11
80
Morte, violenza e sovranità.
Spunti paidetici da Carl Schmitt
plicabile ad una situazione». Il sovrano crea e garantisce la
situazione come un tutto nella sua totalità. Egli ha il monopolio della decisione ultima. In ciò sta l’essenza della sovranità statale, che quindi propriamente non dev’essere definita
giuridicamente come monopolio della sanzione o del potere,
ma come monopolio della decisione. […] Il caso d’eccezione
rende palese nel modo più chiaro l’essenza dell’autorità statale. Qui la decisione si distingue dalla norma giuridica, e
(per formulare un paradosso) l’autorità dimostra di non aver
bisogno di diritto per creare diritto12.
Sulla congerie infinita, reticolarmente diffusa e
pervasiva dei poteri, vien da dire, si erge la normalità
come rilievo, aggregazione, linea strategica, ipostatizzazione di forze di spinta e blocchi di resistenza, catalizzazione di multiple prensioni e appigli scivolosi o
sicuri, effetto essi stessi della relazionalità intrinseca
del gioco azione-reazione: su questa dÚnamij originaria, e aristotelica e nietzscheana, si colloca la consuetudine, l’istituzione, l’ordinamento. Qui, soprattutto, si
erge der Machtswille della decisione fondamentale – e
definitiva –, in grado di determinare la normalità e di
segnare l’eccezione. Ma qui, con specifica piegatura rispetto a Nietzsche, der Machtswille si fonda sull’autorità, che scaturisce dalla protezione13. Su tale fondamento poggia il «monopolio della decisione ultima» e,
di conseguenza, l’effettivo svolgersi normale delle cose, l’attuale verificarsi della situazione consueta e regolare. Non potere o sanzione – che rimandano a orizzonti più ampi dello statale, e persino del giuridico14 –
12
Ibid., pp. 39-40.
Cfr. C. Schmitt, Dialogo sul potere, Milano, Adelphi, 2012.
14
Qui ancora P. Grossi, op. cit., soccorre nel ribadire con Santi
Romano e Hauriou e, tra gli altri, lo stesso Schmitt, il carattere mai
esclusivamente statale, a dispetto d’ogni apparenza e pretesa, del diritto e dell’ordinamento giuridico.
13
81
Rocco Marcello Postiglione
ma decisione: ultima, precipuamente statale. Questo è
la sovranità, questo è lo Stato.
Il concetto di Stato presuppone quello di ‘politico’. Per il
linguaggio odierno, Stato è lo Status politico di un popolo
organizzato su un territorio chiuso. […]
In base al suo significato etimologico e alla sua vicenda storica, lo Stato è una situazione, definita in modo particolare,
di un popolo, è anzi la situazione che fa da criterio nel caso
decisivo, e costituisce perciò lo status esclusivo, di fronte ai
molti possibili status individuali e collettivi15.
Lo Stato, dunque, è un oggetto giuridico e sociale
preciso, cui compete la sovranità, la decisione ultima,
la distinzione tra normalità ed eccezione: è l’oggetto
politico:
La specifica distinzione politica alla quale è possibile ricondurre le azioni e i motivi politici, è la distinzione di amico
(Freund) e nemico (Feind). Essa offre una definizione concettuale, cioè un criterio, non una definizione esaustiva o una
spiegazione del contenuto16.
La pagina è celebre: definizione fulminante, copernicana, del politico. Una categoria metafisica, che fonda
il discorso scientifico, all’intersezione tra teoria del diritto, sociologia e scienza della politica. Categoria fondamentale come tutte quelle che caratterizzano l’umano, e
che dispone dicotomicamente gli oggetti con un discrimine netto, così come bello-brutto, buono-cattivo, verofalso. E qui Schmitt può richiamarsi all’auctoritas – non
veritas! – del Leviathan, che facit legem.
Ma come in tutte le scienze che, kantianamente17,
definiamo metafisiche, si istituisce un dominio scienti15
C. Schmitt, op. cit., p. 101.
Ibid., p. 108.
17
E foucaultianamente.
16
82
Morte, violenza e sovranità.
Spunti paidetici da Carl Schmitt
fico pagando un necessario scotto filosofico o, per meglio dire, teologico. E qui cadiamo negli abissi esistenziali della condizione umana. Si deve postulare «il
dogma teologico fondamentale della peccaminosità del
mondo e degli uomini». Non solo fallibilità, che ammettiamo senza patemi, soprattutto in un orizzonte libertario e liberista. Qui il sottinteso logicamente necessario è proprio la peccaminosità. La caduta, la colpa, in
senso assolutamente concreto e immediato – non in
quello fantasmatico in cui si è ravvisato il ripetersi inconscio di relazioni infantili. Dogma che «conduce –
nella misura in cui la teologia non si sia ancora dissolta
nella morale meramente normativa o nella pedagogia e
il dogma in mera disciplina –, esattamente come la distinzione di amico e nemico, ad una divisione degli uomini, ad un “distacco” e rende impossibile l’ottimismo
indifferenziato proprio di un concetto universale di
uomo»18. Lo Stato, e il politico, che contraddicono un
«concetto universale di uomo» nel quale si ripercuote
il mito della sua infinita educabilità, l’idea di una redenzione spontaneamente scaturita dal rapporto – privo
di «distacco», appunto – con un Dio salvatore o una
natura salvifica. Dove non può non vedersi la profonda
e decisiva opposizione, quasi esplicita, rispetto all’universo rousseauiano, o l’inquietante disprezzo incluso
nell’espressione sulla teologia «dissolta nella pedagogia il dogma in mera disciplina».
Educazione impossibile? Non è questo il punto. Si
sta qui ribadendo una irriducibile distinzione categoriale, e si mostra com’essa smascheri presupposizioni
troppo unilaterali e acritiche. Ché del resto al pedagogista non ingenuo nemmeno sfugge, dell’Emilio, l’effetto
epistemologico dell’accentuazione ottimistica. Certo,
18
Ibid., p. 149.
83
Rocco Marcello Postiglione
la costruzione dello jus publicum europaeum è un’assunzione dell’ostilità come chiave di volta della civitas
hominum, «praedestinata […] aeternum supplicium
subire cum diabolo»19, del peccato, appunto, come
diab£llein, gettare in discordia, e calunniare. Il punto
teologico da cui si disegna lo spazio comune, entro il
quale l’ostilità è già di per sé normata e, perciò, matrice anch’essa di civilizzazione, è questa accezione di
peccato. E c’è da chiedersi se l’educazione morale, inclusa nel concetto d’autorità cui porta questo sistema
di pensiero20, non sia esercitata tipicamente (necessariamente?) in una tonalità di terrore e paura – e quindi
sottomissione21.
Ma dobbiamo procedere ancora nell’analisi. Amico e nemico sono faglie mobili, la cui caratterizzazione, provvisoria ma decisiva, è lo Stato. Se la decisione
istituisce la normalità, e la faglia che la determina, «il
‘politico’ può trarre la sua forza dai più diversi settori
della vita umana, da contrapposizioni religiose, economiche, morali o di altro tipo», vi sarà incluso il nemico religioso, di classe, di etnia. Il criterio del politico
sta nel fatto puramente formale che si ingeneri la di19
A. Augustinus Hipponensis, De civitate Dei contra paganos
libri XXII, XV, 1.
20
Dello jus publicum europaeum, prima di tutto. E di Schmitt.
21
È facile qui mostrare come l’atto teorico di avvalersi della cupidigia per generare ordine norme e regola, in modo da distribuire secondo logica a tutti coloro che agiscano razionalmente secondo interesse, sia, per antonomasia, fondazione morale: un modo di attenuare
concretamente il peccato riconducendo (non spontaneamente! Ma naturalmente) i vizi al più innocuo tra essi. Onde il perfezionamento
progressivo che deriva dall’immediato riconoscimento dell’errore che
solo un’intelligenza diffusa (scil. il mercato) può determinare. Da cui:
«gli interessi! Educare con, per, dagli interessi!» recitano gli involontari
(inconsci? ignari? ignoranti?) ripetitori dell’economico. E allora: che
mestiere faceva Adam Smith? Da quale confessione veniva?
84
Morte, violenza e sovranità.
Spunti paidetici da Carl Schmitt
stinzione amico-nemico. Il politico, infatti, «non indica
un settore concreto particolare ma solo il grado di intensità di un’associazione o di una dissociazione di
uomini»22. La faglia che può determinare l’ostilità nasce dall’intensità del congiungimento, sul quale si fonda: fino a determinare la definizione esistenziale del
nemico. I concetti di peccato, di discordia, di diabol»
comportano l’ostilità, che è lotta, ed è violenza.
Da criterio di giudizio funge sempre solo la possibilità di questo
caso decisivo, della lotta reale, e la decisione se questo caso
sussista oppure no. […] Solo nella lotta reale si manifesta la
conseguenza estrema del raggruppamento politico di amico e
nemico. È da questa possibilità estrema che la vita dell’uomo
acquista la sua tensione specificamente politica23.
Siamo al punto. La violenza, la sua limitazione e
la sua istituzionalizzazione nello Stato: questo è il politico. Ma siamo qui a un’altra perpendicolare linea distintiva, quella che separa polizia e politica (o guerra),
penale e pubblico. Distinzione, come abbiamo visto,
che tende a sfumare nel momento in cui scompare dalla
scena lo jus publicum europaeum. E siamo perciò riportati a una tematica che, già sappiamo, trascende
quella dello Stato, del politico e della sovranità. Relazioni tra l’etico – e il paidetico dell’educazione morale
– e il politico, che giungono a toccare le questioni della
costrizione, della pena, dell’eccezione come crimine o illecito. La legge, il principio, la norma, la violenza, la virtù: siamo su margini e su estremi dell’educativo e
dell’etico, su cui la dizione paidetica, e persino quella filosofica – dalle loro plaghe “democratiche” e politicamente corrette –, si poggiano con diffidenza, disgusto o
22
23
C. Schmitt, op. cit., p. 121.
Ibid., p. 118.
85
Rocco Marcello Postiglione
repulsione. Costrette o entusiaste, non riescono che a cantare la salmodia del “valore”24 – o della “valutazione”25 –
ridotta al sentimento sentimentale dell’emozione iterativamente esibita e della sua dizione meramente fonetica26.
Ogni risposta alla nostra domanda iniziale poggia
su una formalizzazione della dialettica tra vita e morte
che, con la violenza, s’instaura nella società, nelle istituzioni, nel diritto: la possibilità di togliere la vita, di
assegnare la morte, nel senso di obbligo al pericolo, e
all’omicidio, o di condanna. La violenza, nella sua inquietante e traumatica pervasività, nel suo baluginare
dietro ogni atto relazionale umano, in quanto carnale e
sociale: il potere, di cui l’educazione, il diritto e lo stato sono precipue e specifiche manifestazioni.
Qui sta tutta la questione della legittimità, e il fondamento ultimo della sovranità. La normalità, la situazione, l’autorità, che determinano decisivamente (ed è
il primato della decisione, il “decisionismo” schmittiano) l’unità, l’identità dello stato: «L’unità politica, tutte le volte che esiste, è l’unità decisiva e “sovrana” nel
senso che la decisione sul caso decisivo, anche se questo è il caso d’eccezione, per necessità logica deve
spettare sempre ad essa»27.
24
Che perdita nel passaggio da ¥xion a “valore”! Ne va della
dignitas di una civiltà.
25
Che e quanto reputiamo indispensabile e necessaria la valutazione non contraddice né minimamente sposta, anzi motiva, il concetto
che ne abbiamo: banausico meccanismo, tanto più necessario quanto
più tecnicamente raffinato. Necessario come la morte. Sulla necessità
della valutazione, sul suo nesso con la categoria dell’istruzione e con
la doctrina, e con la morte, ci permettiamo di rinviare ai luoghi citati
in nota 3.
26
Una volta si sarebbe detto: interiezione: inter-iacio, getto in
mezzo.
27
C. Schmitt, op. cit., p. 122.
86
Morte, violenza e sovranità.
Spunti paidetici da Carl Schmitt
Il caso d’eccezione è sempre legato alla minaccia
esistenziale: violenza, ostilità, sopraffazione, persino
sfruttamento. Come la morte, parti e limiti della nostra
esistenza, inclusi – proprio come limiti, come il limite
– nel nostro essere. Nelle varie declinazioni categoriali,
limiti del morale, del giuridico, del paidetico. Quali
che siano i principi, virtù e valori ai quali intenda ispirarsi, quale che sia la forma, l’immagine, la visione antropologica di cui è presuntiva o desiderata attuazione,
l’educazione non li rimuove, non li cancella, al massimo li attenua, o li trascende: l’educazione, rispetto ad
essi, non può essere la salvezza; né riesce a definirsi
escludendoli dal novero delle possibilità del suo stesso
attuarsi. Il male c’è, e si muore. L’educazione torni a
essere esercizio del possibile, accanto alla politica.
Qui non guasta, nella sua feconda ma non superabile equivocità, il richiamo di Schmitt:
Solo una filosofia della vita concreta non può ritrarsi davanti
all’eccezione e al caso estremo, anzi deve interessarsi ad esso
al più alto grado. Per essa l’eccezione può essere più importante della regola, e non in base ad una ironia romantica per
il paradosso, ma con tutta la serietà di un punto di vista che
va più a fondo delle palesi generalizzazioni e di ciò che comunemente si ripete. L’eccezione è più interessante del caso
normale. Quest’ultimo non prova nulla, l’eccezione prova tutto;
non solo essa conferma la regola: la regola stessa vive solo
dell’eccezione. Nell’eccezione la forza della vita reale rompe la
crosta di una meccanica irrigidita nella ripetizione28.
Parole nette, forti, perciò stesso inquietanti. Forse
squadernano un orizzonte direttamente pertinente al
paidetico (categorizzato come educazione morale, ma
non solo). Che cosa sono il formare, l’educare, persino
28
Ibid., p. 41.
87
Rocco Marcello Postiglione
l’istruire29 se non passaggi dall’eccezione, necessaria e
sempre nuova, alla normalità? E l’istituzione di normalità – e massime, e strutture – nuove?
L’articolazione della dialettica, entro la socialità,
di vita e morte, e la dizione di essa tra fatto, dovuto e
voluto: non vale nascondersi nei necessari tecnicismi
del processo e dell’atto paidetico. Per la sua trattazione
scientifica30 è necessaria «una filosofia concreta della
vita», che affronti, di quella dialettica, il versante negativo, «cattivo»31.
Si riformula qui la nostra domanda: lo Stato educa? Può lo Stato, che dà la morte, che – solo – esercita
la violenza, educare? Ma di converso: può lo Stato che,
nel suo potere di dare la morte, si determina come decisivo depositario del principio del diritto e del giusto,
non educare?
In questo dilemma precipita la questione del rapporto tra educazione morale e Stato.
29
Rimandiamo qui, nuovamente, alla proposta di categorizzazione citata in nota 3. Formazione – Bildung, paide…a – l’orizzonte
complessivo, l’immaginazione totalizzante del paidetico. Educare sta,
ancora, per educazione morale.
30
«Come si può comprendere teoricamente tutto ciò [nuove
forme di guerra totale, guerra partigiana, guerra economica ecc.] se si
elimina dalla conoscenza scientifica la realtà per cui esiste ostilità fra
gli uomini»? C. Schmitt, op. cit., p. 96.
31
«Tradotto nel linguaggio primitivo di quell’ingenua antropologia politica che lavora con la distinzione fra “cattivo” e “buono”,
questo “restare aperto” […], con la sua aderenza alla realtà e ai fatti,
disposta ad ogni rischio, e colla sua relazione positiva col pericolo e
con tutto ciò che è pericoloso, dovrebbe avvicinarsi più al “cattivo”
che al “buono”». Ibid., p. 144-145. Dove il «pericolo» rimanda alla responsabilità, e quindi alla legittimazione, ma soprattutto a quella dialettica tra vita e morte che la socialità, ogni socialità, mette in scena.
Come obliare od occultare, come spesso avviene nella chiacchiera pedagogica, il versante «cattivo», non accettabile, ipocritamente rimosso
o sguaiatamente – ma falsamente – esibito di quella dialettica?
88
Morte, violenza e sovranità.
Spunti paidetici da Carl Schmitt
Alcune glosse rispetto alla questione centrale. La
riprova della forza e della validità delle concettualizzazioni di Schmitt ruota attorno al concetto di guerra,
come si è andato evolvendo e modificando nella situazione neo-imperiale nella quale siamo piombati. La
guerra è una profonda civilizzazione della violenza:
una istituzionalizzazione dovuta alla distribuzione originaria, all’organizzazione fondamentale dello spazio i
cui margini, le cui crisi non possono che risolversi attraverso quel mezzo cruento ma controllato. Il nemico
non è un criminale, e la stessa conquista vive di regole,
per quanto squilibrate a favore del perdente.
La coscrizione obbligatoria dell’esercito rivoluzionario francese mette profondamente in crisi quel modello,
generando un crescendo di violenza che culminerà nella
distruzione, con la Prima guerra mondiale e con i successivi armistizi, dello jus publicum europaeum.
Quel che ne prende il posto è un ordine fondato
sull’ostilità assoluta, sulla criminalizzazione del nemico. Note le analisi di Schmitt. Dopo la confusione di
guerra e pace e delle superficiali «neutralizzazioni»32
del diritto internazionale wilsoniano, «la cosiddetta guerra totale supera la distinzione fra combattenti e non
combattenti e, accanto alla guerra militare, ne conosce
anche una non militare (guerra economica, di propaganda e così via) sempre come sbocco dell’ostilità»33.
L’incedere della tecnicizzazione del mondo, lo strutturarsi dello stesso diritto secondo uno schema tecnicoeconomico determina un potenziarsi e complicarsi della bellicosità: «il superamento del dato puramente militare comporta non soltanto un ampliamento quantitativo,
ma anche un rafforzamento qualitativo; esso non signi32
33
Della distinzione amico-nemico.
C. Schmitt, op. cit., p. 201.
89
Rocco Marcello Postiglione
fica perciò un’attenuazione, bensì un’intensificazione
dell’ostilità. Con la semplice possibilità di un simile
aumento di intensità, anche i concetti di amico e nemico tornano da sé nuovamente politici»34, a dispetto di
ogni velleità di neutralizzazione. Del resto, i principi
wilsoniani della Società delle Nazioni erano già stati
logicamente svolti: «in un globo terrestre definitivamente pacificato […] vi potrebbero forse essere contrapposizioni e contrasti molto interessanti […], ma sicuramente non vi sarebbe nessuna contrapposizione
sulla base della quale si possa richiedere a degli uomini
il sacrificio della propria vita e si possano autorizzare
uomini a versare il sangue e ad uccidere altri uomini»35.
Chiaro qui il paradosso. Lo sviluppo storico mostrerà i
segni di una progressiva unificazione economica e tecnica del mondo, che Schmitt non vide dispiegarsi ma
di cui poté intuire, alla luce della prima globalizzazione, i contorni: «È però facile chiedersi a quali uomini
toccherebbe il terribile potere che è legato ad una centralizzazione economica e tecnica estesa a tutto il mondo»36.
La pacificazione e l’estrema neutralizzazione è esclusa.
Il partigiano e il nemico assoluto continuano a restare
le figure dell’ostilità nel XXI secolo.
Violenza, dunque, violenza assoluta come esito
dell’esaurirsi d’un ordine di civiltà: questa la spengleriana aporia di Schmitt. Può apparire troppo compromessa con il suo ruolo di teorico giuridico della prima
fase del regime hitleriano, e con la necessità apologetica che l’ha poi sempre accompagnato, per persuadere.
Ma liquidarla per questo sarebbe perdita gravissima.
34
Ibidem.
Ibid., p. 118.
36
Ibid., p. 143.
35
90
Morte, violenza e sovranità.
Spunti paidetici da Carl Schmitt
La memoria delle atrocità non ci permette di cancellare un altro quesito: esiste anche una sola possibilità, nell’orizzonte storico, di esistenza senza l’ostilità?
Quella possibilità esiste: la non-violenza. Dobbiamo
quindi sottoporre, anche solo schematicamente, la tematica della violenza e dell’ostilità alla riprova di un
pensiero radicalmente alieno, e opposto, a quello del
grande giuspubblicista tedesco: quello dell’uomo che
più di ogni altro, con la sua vita, il suo pensiero, le sue
opere e la sua iniziativa politica ha inteso rimuovere
l’ostilità dal novero delle possibilità umane: Gandhi. Di
formazione anglosassone, esperto di diritto, di profonda e
aperta religiosità, si è posto direttamente il problema
della guerra totale, e lo ha portato a formulazioni particolarmente nette proprio in relazione alla tragedia nazista. È nota la posizione del Mahatma circa la reazione da opporre a quella ferina violenza.
Voi volete eliminare il nazismo. Ma non riuscirete mai a eliminarlo adottando i suoi stessi metodi. I vostri soldati stanno compiendo la stessa opera di distruzione che compiono i tedeschi.
[…] Voi dovrete divenire più crudeli dei nazisti. Nessuna causa, per quanto giusta, può giustificare il massacro indiscriminato cui oggi stiamo assistendo37.
Dresda, Hiroshima, Nagasaki.
La critica gandhiana investe, direttamente, le radici stesse del giuridico, fino alla critica radicale della
democrazia:
La democrazia, finché è sostenuta dalla violenza, non può fare l’interesse dei deboli o proteggerli. La mia concezione della democrazia è che sotto di essa il più debole deve avere le
37
M. K. Gandhi, Teoria e pratica della non violenza, Torino, Einaudi, 1973.p. 248.
91
Rocco Marcello Postiglione
stesse possibilità del più forte. Questo può avvenire soltanto
attraverso la non-violenza.
Grandi proprietà possono essere mantenute soltanto con la
violenza, velata o aperta. La democrazia occidentale, nelle
sue attuali caratteristiche, è una forma diluita di nazismo o di
fascismo. Al più è un paravento per mascherare le tendenze
naziste e fasciste dell’imperialismo38.
Sembra di ascoltare le tante parole di cortei o “teorici” pacifisti nostrani. Un frasario ricorrente, stabile, la
cui ripetizione attraversa le generazioni. Abbiamo visto
come il giurista lo liquidi, con pochi tocchi di penna,
nelle sue formulazioni tecniche e filosofiche.
Qui, in realtà, non è così facile. La concretezza della
dizione è estrema. Siamo davvero in un altro mondo39.
L’impianto teorico della ahimsa ha un immediato correlato morale e giuridico, dove la distanza fra l’uno e
l’altro, consapevolmente, viene erosa e ridotta. L’azione
giuridica e politica è direttamente morale. E forza, potere,
di un’intensità inaudita ma non-violenta e innocente.
La persuasione ne è il portato. Siamo nel paidetico.
Anzi, siamo a una riduzione dell’etico, del giuridico e
del politico nei quadri di un paidetico.
La non-violenza nella sua dimensione dinamica significa sofferenza cosciente. Essa non significa docile sottomissione alla volontà del malvagio, ma significa l’impiego di tutte le
forze dell’anima contro la volontà del tiranno40.
L’obiettivo è la trasformazione del suo cuore. La
forza di questo pensiero sta in una diversa teologia del
peccato, per molti versi estranea alla tradizione cristiana nonostante la sua evidente fonte evangelica.
38
39
Ibid., p. 140.
Di cui, ça va sans dire, non ignoriamo i degni esponenti ita-
liani.
40
92
Ibid., p. 20.
Morte, violenza e sovranità.
Spunti paidetici da Carl Schmitt
Ho praticato la non violenza in ogni campo della vita, da
quello privato, a quello istituzionale, a quello economico, a
quello politico. Non conosco un solo caso in cui essa abbia
fallito. I suoi apparenti fallimenti sono da attribuire unicamente alle mie imperfezioni. Non pretendo di essere perfetto.
Ma pretendo di essere un appassionato ricercatore della Verità, la quale non è altro che un sinonimo di Dio41.
Vi è qui un totale, diffuso e meticoloso esercizio
di perfezionamento spirituale e morale che si riversa,
non paia superfluo ribadirlo, in un’assoluta tensione
educativa, la cui posta in gioco è una salvezza già terrena, socratica in certe movenze42: agire secondo virtù,
nella ricerca della verità, come bene irrinunciabile, terreno, assoluto, indipendente da ogni escatologia.
Diviene centrale una categoria religiosa, qui non
cristiana43 per quanto, ancora, sincreticamente mutuata
dal vangelo: quella di santità, che prende esplicitamente il posto della categoria del politico di Schmitt, assorbendola e trasformandola in un assoluto educativo,
dove non c’è sovranità, non c’è Stato.
Eppure, il dilemma rimane: che cosa fa chi non è
santo? «Credo che nel caso in cui l’unica scelta possibile fosse quella tra la codardia e la violenza, io consiglierei la violenza»44.
Non è superfluo, per chiudere, ricordare le parole
di un altro grande giurista, piemontese, anch’egli del
tutto alieno all’orizzonte decisionista di Schmitt. Il tema qui è la norma, ogni norma. Il cambiamento delle
41
Ibid., p. 250.
E, naturalmente, a dispetto di un orizzonte semantico e filosofico del tutto alieno rispetto all’Atene del V secolo a. C.
43
O, direbbe qualcuno, ancor più profondamente cristiana.
44
M. K. Gandhi, op. cit., p. 18.
42
93
Rocco Marcello Postiglione
leggi. Le rivoluzioni. Il tema resta lo Stato, ma tocca
ogni altra forma di sanzione sociale: «In morale le rivoluzioni sono più violente». Ed è proprio per la sua
collocazione in questo orizzonte più vasto – statuale,
prestatuale o non statuale – che la riflessione diviene
per noi pregnante.
L’atto creativo di morale nasce da un’ispirazione gratuita,
improvvisa e sorprendente come l’impulso a creare in arte:
fenomeni simili alla rivelazione. Il prodotto, inoltre, è un generatore di sentimenti. Ora si capisce perché ogni novità autentica in morale abbia effetti sconvolgenti e il suo rivelatore
sia di solito tolto di mezzo: un modo radicale di difendere il
gruppo da un comportamento socialmente nocivo e per di più
contagioso, perché costituisce un esempio.
[…] Ora la partita è aperta, e le sorti della storia futura dipendono da un conflitto di potenza, degli strumenti di dissuasione persecutoria e dell’idea o del sentimento perseguitati,
se i custodi della società li fanno dileguare o distruggono i
loro portatori, come avviene con gli albigesi e tre secoli dopo
con gli anabbattisti45.
Sconvolgimenti ben noti, su cui si esercita l’entusiasmo morale, anche di massa. Ancora più attraente, e
destabilizzante, se consiste in un ritorno alle origini:
Ripercorrere a ritroso la via che dalle folate intuitive ha portato
al sistema, dalla rivelazione emotiva al calcolo, dalla discesa
dello Spirito alla pressione sociale organizzata significa, né
più né meno, mandare in frantumi la società, la quale di solito coglie a prima vista i segni premonitori del pericolo. Questo spiega la feroce repressione di una setta mansueta come
quella degli anabattisti e la solidarietà spontanea, in questa
operazione, di cattolici e protestanti, per il resto impegnati a
scannarsi. Gente mite ma fautrice di un eroismo evangelico che,
in tempi di forte sensibilità emotiva, costituisce un’insidia mortale per chiese e Stati. Predicano la soppressione delle gerar45
F. Cordero, Gli osservanti. Fenomenologia delle norme, Torino,
Aragno, 2008, p. 131.
94
Morte, violenza e sovranità.
Spunti paidetici da Carl Schmitt
chie e l’astensione dalla violenza, incluso quel minimo di violenza esercitata legalmente, senza il quale non riusciamo a
vivere in comune, a meno di essere santi, e così colpiscono al
cuore la società, che si difende massacrandoli46.
«Quel minimo di violenza necessaria», nota Cordero, «senza il quale non riusciamo a vivere in comune, a meno di essere santi». Ora, vien da chiosare, se
«l’obbedienza non è più una virtù», se non possiamo
credere di «potercene far scudo né davanti agli uomini
né davanti a Dio», «bisogna che ci sentiamo ognuno
l’unico responsabile di tutto». Anche della violenza,
anche della sovranità – e dei suoi arcana imperii47.
Sovranità, ostilità, guerra, violenza. Peccato, imperfezione, fallibilità, santità. Socialità, potere, forza,
morte. È quanto riusciamo a porre in questo primo inventario di concetti, attorno a quello di Stato. Hic Rhodus, hic salta.
Alla domanda: lo stato educa? non abbiamo ancora risposta. Altri scavi necessitano. Altre costruzioni:
bisognerà immaginare l’architettura secondo la quale,
come pietre da sgrezzare, possano collocarsi questi
concetti.
Siamo già in grado, però, di ripararci dai miasmi
di troppo opportunistico irenismo.
«La pietra scartata dai costruttori…»48.
46
Ibid., pp. 131-132.
Problema che, nel pensiero di Schmitt, rimanda ai concetti di
autorità, rappresentazione (Repräsentation, ma quanto richiama qui
das Bild!): la cui trattazione, movendo dall'interpretazione della formula hobbesiana «auctoritas facit legem, non veritas», merita riflessione e approfondimento.
48
Salmo 117, 22; Marco, 12, 10 et passim.
47
95
Rocco Marcello Postiglione
Riferimenti bibliografici
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libri XXII, Roma, www.augustinus.it.
Cordero, F., Gli osservanti. Fenomenologia delle norme, Torino,
Aragno, 2008.
Foucault, M., La volontà di sapere, Milano, Feltrinelli, 1978.
Gandhi, M. K., Teoria e pratica della non violenza, Torino, Einaudi, 1973.
Gatty, J., Finalità dell’educazione. Educazione e libertà, trad. e
cura di F. Mattei, Roma, Anicia, 1994.
Grossi, P., Prima lezione di diritto, Roma-Bari, Laterza, 2003.
Khanna, P., I tre imperi. Nuovi equilibri globali nel XXI secolo,
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Mattei, F., Sapere pedagogico e legittimazione educativa, Roma,
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Milani, L., L’obbedienza non è più una virtù. Documenti del processo di don Milani, Firenze, LEF, 1967.
Postiglione, R.M., La formazione professionale. Appunti teorici su
dispositivi didattici pratiche sociali e politiche formative, Roma,
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Id., Differenze di paideia. Culture lingue migrazioni, Roma, Anicia, 2012.
Schmitt, C., Le categorie del ‘politico’, Bologna, il Mulino, 1972.
Id., Il nomos della terra nel diritto internazionale dello «jus publicum europaeum», Milano, Adelphi, 1991.
Id., Teoria del partigiano, Milano, Adelphi, 2005.
Id., Dialogo sul potere, Milano, Adelphi, 2012.
96
Liberalismo, neo-giusnaturalismo, eticità.
Il problema dell’individuo in Carlo Antoni
Francesco Mattei
Università degli Studi Roma Tre
Department of Education
Via Manin, 53 - 00185 Roma
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Parva mei mihi sint cordi monimenta sodalis,
at populus tumido gaudeat Antimacho.
Catullo, Carme XCV
1. Sul soggetto: Croce, Gentile, Antoni
Il dibattito sulla postmodernità ha investito in modo prepotente, nelle sue provocazioni di fondo, la figura del soggetto e la sua antica e consolidata configurazione. Al soggetto, all’io, all’individuo, alla persona –
lemmi differenti ma usati spesso con significato vagamente sinonimico – sono state via via attribuite caratteristiche fisse, determinate, determinanti, un tempo metafisiche. E tali connotazioni hanno fatto del soggetto,
nel canone cartesiano e post-cartesiano, il centro del discorso e della realtà sociale, religiosa, metafisica (almeno nella determinazione heideggeriana dell’Essere come Dasein, come esser-ci del Sein che si “limita”, si
oggettiva e si svela). Così il soggetto, sia esso subjectum
o puro , si è sempre ritrovato ad esistere,
a pensare e ad essere pensato, come sospeso ed appeso
all’ e al j. E via via, laicizzato il suo rapporto con l’Essere e con (un) Dio, ha vissuto su di sé maEDUCAZIONE. Giornale di pedagogia critica, II, 2 (2013), pp. 97-119.
ISSN 2280-7837 © 2013 Editoriale Anicia, Roma, Italia.
Francesco Mattei
scheramenti e smascheramenti, volta a volta legati a
concezioni filosofiche, giuridiche, religiose, politiche,
sociali.
Si è insomma di fronte ad antropologie mutanti. E
mutando, esse hanno mutato anche il volto dell’io. Talvolta innalzandolo alle altezze inebrianti e terribili dell’Io puro (fichtiano), talaltra riducendolo ad un fascio
psichico che trova nella mente o nel super-io il luogo
della provvisoria sua koinè e di una fragile (in)consistenza1. Non è mancato chi ha parlato, ed è certo posizione originale, di «persona come metafora»2, guardando alla persona come ad «un modo di dire», ad un
trpos, ad «un concetto che non rimanda né a una sostanza, né a un principium firmissimum (sia questo un
absolutum reale, o un’assoluta “idea”)»3. Ma non è mancato nemmeno chi ha vincolato la persona ad una profonda radice teologico-metafisica: sulla scia di Aristotele
o di Tommaso, di Boezio o di Riccardo di S. Vittore,
che quella radice hanno pensato nei lunghi secoli della
1
Cfr. Vattimo e l’abusato ma non stantio «pensiero debole», in cui
si desostanzializza l’essere e con levitas lo si dice. Ma su ciò, mi sono già
soffermato. Segnalo soltanto, per un suo valore ricostruttivo, G. Vattimo
con G. Paterlini (Non essere Dio. Un’autobiografia a quattro mani,
Reggio Emilia, Aliberti, 2006), dove questo décalage dell’essere e del
pensare è testimoniato con efficacia.
2
Cfr. M. Manno, La persona come metafora. Itinerari di una
metafisica personalistica, Brescia, La Scuola, 1998.
3
Id., «Presupposti teorici del “Personalismo critico”», in G. Flores d’Arcais (a cura di), Pedagogie personalistiche e/o pedagogia della
persona, Brescia, La Scuola, 1994, pp. 255-256. E continua: «L’io è
persona quando, e soltanto quando, riesca a rideterminare come sua mondanità concreta una capacità di “eccedenza” (o “trascendenza”, o “nonintera-deducibilità”, o “di-più”)» (ibidem). Per altre declinazioni sulla
persona, cfr. F. Cambi (a cura di), Soggetto come persona, Roma, Carocci, 2007, e soprattutto, dello stesso Cambi, «Oltre i personalismi»
(ibid., pp. 37-47).
98
Liberalismo, neo-giusnaturalismo, eticità..
Il problema dell’individuo in Carlo Antoni
tradizione occidentale4. Venne poi il personalismo di
conio francese, nelle versioni di Mounier e di Maritain.
E quella tradizione conobbe, forse fuori stagione,
un’altra fioritura (ora in stato di silente ridimensionamento od oblio, perché il pensiero teologico-metafisico aveva
assunto altre lontane declinazioni).
Dunque, reso alla tradizione ciò che è della tradizione, evidenziate le polisemie semantiche ed ermeneutiche della persona, dove va a collocarsi Antoni? In
quale scia ritrova il tema dell’individuo e della sua libertà costitutiva?
La risposta è semplice. Essa è presente fin dall’inizio nella sua sequela (non inerte) di Croce e nella
sua antitesi con Gentile. Ma i due maestri del neoidealismo hanno un comune antenato, lo Hegel che radica
lo spirito soggettivo nel j universale, nella ragione che dispiega la sua libertà nella storia, là dove essa
si costituisce come spirito assoluto. Antoni, invece, come
scrive Sasso, pensa in termini di « buona». Lavora ad una antropologia non «alienata» (o almeno, non radicalmente deietta). Perciò batte le strade di un neogiusnaturalismo non vanamente nostalgico.
Dice dunque Antoni, ripercorrendo le tappe genetiche della storiografia crociana: «Più che mai allora,
sotto la suggestione del Marx, il Croce avvertiva il fascino della filosofia romantica della politica, in dispregio a
qualsiasi ideologia umanitaria e ad ogni forma di giu-
4
Rinvio, per necessaria brevitas, a F. Mattei, «La radice e il
frutto. Sulla filosofia dell’educazione di M. Manno», in Id. (a cura di),
Itinerari filosofici in pedagogia. Dialogando con M. Manno, Roma,
Anicia, 2009, p. 145 e sgg.
99
Francesco Mattei
snaturalismo democratico»5. Ma non tralascia (come
avrebbe potuto?) di sottolineare l’influenza di Gentile
sul filosofo napoletano6, proprio in virtù di quella identificazione di essere e divenire, ragione e storia, eterno
e contingente che costituisce l’anima profonda dell’attualismo gentiliano. Ed è, questa, anima hegeliana, derivante
dall’«atteggiamento teologico» di Hegel, un atteggiamento che induce tanto Hegel che Gentile a ridurre «la
realtà a storia». Un tentativo audace e generoso. Un risultato non ben riuscito, a parere di Antoni, giacché alla
radice sta, minacciosa ed instabile, la deduzione dell’io,
la sua assoluta autodeterminazione.
Così Antoni si tiene alla larga dalle grandi “deduzioni”. Che minerebbero l’io nel suo fondamento, dato
che, instabile tra l’ideale eterno e il continuo venire
all’esistenza, il soggetto non troverebbe mai la radice
della sua concretezza. La coscienza si muoverebbe nello
spazio della astratta indeterminazione. Perciò scrive:
Per quanto intendesse l’atto come divenire storico, in quanto
lo scorgeva proporsi incessantemente compiti e problemi storicamente concreti, il Gentile non ammetteva che questo “proporsi” fosse contemplazione, bensì senz’altro lo definiva come
creazione ed azione. Lo svolgimento era, cioè, inteso da lui come piena ed assoluta “autoctisi”, autodeterminazione dell’io,
nella quale ogni momento era un’affermazione dell’io in una
5
C. Antoni, Studi sulla teoria e la storia della storiografia, in
AA. VV., Cinquant’anni di vita intellettuale italiana, 1896-1946, a cura di C. Antoni e R. Mattioli, Napoli, E.S.I., 1950, p. 65 (c.m.).
6
Così Antoni: «Si deve al Gentile l’enunciazione d’un principio, che è divenuto di capitale importanza in Croce: quello dell’identità di storia e filosofia». E ancora: «Ma la grande efficacia esercitata
dal Gentile nella formazione del pensiero crociano è consistita nell’asserzione instancabile di quell’unità dialettica dello spirito, che la teoria della distinzione delle forme dello spirito, quale si andava sviluppando
nel pensiero del Croce, sembrava compromettere» (Ibid., p. 68).
100
Liberalismo, neo-giusnaturalismo, eticità..
Il problema dell’individuo in Carlo Antoni
nuova forma e però un reale annullamento dell’io nella forma in cui era prima determinato7.
La conclusione è d’obbligo: lo spirito è storia,
perché svolgimento dialettico; ma non è storia, perché
atto eterno. E da questa antinomia, sempre incombente,
Gentile non poteva uscire che in nome dell’assoluto,
sempre in nome della dizione aurorale: la «sola vera storia è l’eterna»8.
2. Sul fondamento: Hegel-Gentile-Croce
Fin qui Gentile. Ma Croce, nonostante le infinite
polemiche e le estenuanti “distinzioni”, non si allontana
troppo, sul punto, dal più giovane amico di Castelvetrano: un identico radicamento hegeliano li accomuna.
Perciò Antoni scrive:
E come già la filosofia di Hegel, anche quella di Croce rischia di apparire una teologia dello Spirito del mondo, dove gli individui sono assorbiti dal tutto9.
Dunque, tanto in Croce quanto in Gentile, a ragione
della comune radice fichtiana ed hegeliana, l’individuo
rischia il naufragio, la scomposizione interna della sua
unità. E conseguentemente, il disprezzo di «ogni ideologia umanitaria e di ogni forma di giusnaturalismo democratico». Questa la curvatura politica, il destino di
una soggettività mal piantata. Ma tutto ciò inerisce alla
ristrutturazione concettuale, prima che storico-sociale,
del principio o del cominciamento del soggetto nella co7
Ibid., p. 67.
Ibidem.
9
Id., Commento a Croce, Venezia, Neri Pozza, 1955, p. 100 (c.m.).
8
101
Francesco Mattei
stituzione della sua identità: il destino politico, ma anche
quello sociale, non possono che seguire la natura del cominciamento del soggetto.
Si dice “cominciamento”, e il pensiero va alla logica
hegeliana, ma è al “fondamento” che si fa riferimento. E
se l’uno è l’assolutamente indeterminato – unbestimmtes
Sein –, il puro essere vuoto – leeres Sein –, l’altro è ciò
che si dà come principium inconcussum veritatis). E
qui ha origine il “dispregio” per l’individuo intravisto da
Antoni in Croce e da lui denunciato. Ma si tratta di una
preoccupazione sempre presente nel filosofo triestino.
Perciò l’approdo concettuale al giusnaturalismo eticogiuridico, e al conseguente liberalismo etico-politico,
rappresenta soltanto un tentativo di ricollocare il soggetto10, di conferirgli un radicamento stabile, di sottrarlo alla
precarietà della sua costituzione in terreni resi franosi
dalle “deduzioni” e dalle scissioni ammalianti degli esistenzialismi. Le derive politiche hanno radice nelle costituzioni ontologiche. Minate queste, quelle necessariamente seguono.
Detto ciò, non è certo detto a quale “fondazione”
rivolgere la propria inclinazione metafisica. Né è detta
la via regia per interpretare la “posizione-costituzione”
della realtà e della soggettività. Ma è detto, ed appare
evidente, che un problema del fondamento è ancora
presente. Come pure è detto, e in forma esplicita, che
la morfologia dell’io è parte rilevante nella costruzione
10
Non apro qui il tema del rapporto liberalismo etico-politico e
liberismo economico. Mi limito a rinviare alla polemica EinaudiCroce, di cui mi sono occupato altrove (cfr. F. Mattei, La dimensione
etica tra storicismo e giusnaturalismo. Studio su C. Antoni, Roma, Anicia, 19992, p. 163 e sgg.) e ricordo il lavoro di A. Touraine (Come liberarsi del liberismo, Milano, il Saggiatore, 2000) in cui l’A. critica
con radicalità gli eccessi del liberismo economico come ladro e distruttore di soggettività.
102
Liberalismo, neo-giusnaturalismo, eticità..
Il problema dell’individuo in Carlo Antoni
storico-politica della realtà. Ad essa è rivolta e da essa
è formata. Dissolta quella morfologia, è anche dissolto
lo scenario epocale che si è soliti chiamare modernità,
profondamente contrassegnata dalla signoria dell’Io e
dall’unitarietà delle sue manifestazioni.
Stupirà, forse, questa insistenza sulla soggettività.
E stupirà ancor più il riferimento a Gentile. Chi ha letto
qualche pagina del filosofo triestino, però, sa bene che il
nome di Gentile non ricorre quasi mai nei suoi scritti. E
per una necessità interna, quasi biografica, del crociano
Antoni. Impossibile tuttavia sottrarsi a questa ermeneutica su Gentile. Questi appare ad Antoni ancora profondamente legato alla “teologia hegeliana”. Il suo attualismo guadagna la soggettività per via deduttivo-trascendentale – nel senso indicato da Gentile ne La riforma
della dialettica hegeliana –, ma quella autoctisi ha in sé,
interno e necessitante, il germe del “reale annullamento”. Da questo sorgere della coscienza non si dà dunque vera libertà. E non si dà, conseguentemente, liberalismo etico-politico.
Se questa è la distanza da Gentile, e se ne comprendono le ragioni, un intervallo non dissimile Antoni interpone tra sé e il rispettatissimo Maestro Croce, quando si avvede che l’io crociano può essere fagocitato, e
proprio a causa del suo cominciamento, nei tentacoli
(politicamente) democratici, ma pur sempre (ontologicamente) inglobanti dello Spirito assoluto. E dunque,
salvare l’io vuol dire sostanzialmente salvare il suo “inizio”, far salva una radice che non avveleni sul nascere la
conseguente e consequenziale infiorescenza storico-politica.
Posta in questi termini, la questione assume una
inquietante attualità. Anzitutto, si tolgono separatezze
tali, tra teoria e prassi, che anche posizioni classiche
103
Francesco Mattei
non hanno disdegnato di praticare, riducendosi con ciò
ad analisi descrittive di costruzioni sostanzialmente
ideologiche. In secondo luogo, per dirla con Rovatti, si
prende atto che la “posta in gioco” è rappresentata dall’immagine e dalla consistenza della soggettività. In
terzo luogo, dal punto di vista storiografico, ma anche
più squisitamente teoretico, si finisce ancora una volta
con il dover fare i conti con l’attualismo gentiliano. Ed
a questo è doveroso guardare, pena il rischio di lasciare
in ombra uno dei nodi essenziali per comprendere questi
intrecci teorici e storico-pratici. Troppe sono infatti le
eredità manifeste, e talvolta riconosciute, e troppe le derivazioni carsiche confluite poi in movimenti dalla genealogia non sempre limpida.
L’allusione è al marxismo11. Ma è anche alla centralità dell’interpretazione attualistica. Questa sta come ultima declinazione di una signoria. Di quella signoria
dell’io che si autopone all’inizio della modernità e che
tutta l’attraversa. E quando questa sfuma, quella si dissolve. Così Natoli:
L’indugiare di Gentile entro i “termini” della soggettività molto
ci istruisce sul lento disfarsi del moderno o quanto meno di
quella modernità contrassegnata dalla signoria dell’“Io”12.
Il che significa, in sostanza, non andare troppo lontano dall’ultima posizione di Del Noce, quando questi
leggeva nell’attualismo gentiliano l’ultimo bagliore dell’immanentismo, un immanentismo «inteso nel senso
11
Per quanto riguarda il rapporto Gramsci-Gentile, rinvio a F.
Mattei, Sfibrata paideia, Roma, Anicia, 2009, p. 180 e sgg. Per il
“cominciamento teologico” in Gramsci, cfr. A. Broccoli, Il potere tra
dialettica e alienazione, Cosenza, Pellegrini, 1983, p. 370.
12
S. Natoli, Giovanni Gentile filosofo europeo, Torino, Bollati
Boringhieri, 1989, p. 11.
104
Liberalismo, neo-giusnaturalismo, eticità..
Il problema dell’individuo in Carlo Antoni
letterale del Deus manet in nobis» e «come filosofia negante insieme la trascendenza religiosa e il materialismo»13 (e dunque, necessitato a proporsi come riforma
religiosa e insieme politica).
È in questa linea di radicamento-dissoluzione del
soggetto che si aprono i dubbi di Antoni. E il già venerato Maestro Croce non può sfuggire allora alla sua
critica. E così scrive:
[...] in fondo l’equazione (individuo-egoismo) ricompare nello stesso pensiero crociano, là dove l’individuo è identificato
col momento vitale-economico. Era necessario, pertanto, spezzare l’equazione, così da porre a base di un nuovo giusnaturalismo il concetto dell’individuo come fonte di tutti i valori
universali e da sostituire al concetto del patto sociale [...]
questo universale concetto14.
Ecco dunque il legame che unisce il concetto di
individuo con il giusnaturalismo. Nell’individuo, Antoni vede la fonte dei diritti, intesi non in senso astratto
e intellettualistico, ma come luogo di nascita e di creazione di valori universali. E attorno a tale nodo teorico
prendono significato anche i concetti di giusnaturalismo e di storicismo, concetti che Antoni indaga prima
per via storiografica, poi con taglio più marcatamente
teoretico. E allora, la categoria etica apparirà centrale
in quell’universale concreto che è l’individuo, e lo costringerà ad andare oltre Croce.
Scriveva Antoni nel 1953, un anno dopo la morte
di Croce, in Storia di un fagiolo:
13
A. Del Noce, Giovanni Gentile. Per una interpretazione filosofica della storia contemporanea, Bologna, il Mulino, 1990, p. 10.
14
C. Antoni, La restaurazione del diritto di natura, Venezia,
Neri Pozza, 1959, pp. 9-10.
105
Francesco Mattei
Dell’infinita vita era una creatura singolare, unica, quale mai
prima si era prodotta e quale mai più si riprodurrà. Ed il suo
valore perciò era immenso, ché, la vita, cioè il valore, si manifesta soltanto così, singolarmente15.
E ancora:
Chiuse così anch’essa il suo breve ciclo, la sua apparizione
in questo mondo, che non fu vana, ma a suo modo anch’essa
importante: ché che cos’è poi il mondo se non un susseguirsi
innumerevole di queste apparizioni? Che cos’è la vita, se non
questo sforzo di essere, di produrre, di tramandarsi, soffrendo e
gioendo e compiendo l’immenso dovere di darsi al mondo?16.
La prosa è semplice, i temi rilevanti. Infatti, Antoni
si sofferma qui in modo nuovo sulla singolarità e sull’individuazione del valore e dell’universale. Ma è
proprio su questo concetto di individuo e sulla sua
struttura che si interrompe il consenso di Antoni nei
confronti di Croce. Nonostante i dovuti riconoscimenti
alla filosofia crociana («una celebrazione dell’individualità»), ne svela poi incongruenze e aporie, rinvenendo in
essa posizioni e ascendenze marcatamente hegeliane.
Così la filosofia crociana, nella sua interpretazione, finisce con il negare l’individualità e con il ridurla a mera vitalità. Scrive Antoni:
Ancora una volta l’esistenza individuale, come già nello schema hegeliano, non sembra degna di appartenere alla vera realtà.
E come già la filosofia di Hegel, anche quella di Croce rischia di apparire una teologia dello Spirito del mondo, dove
gli individui sono assorbiti dal tutto17.
15
Id., Gratitudine, Milano-Napoli, Ricciardi, 1959, p. 107.
Ibid., p. 108.
17
Id., Commento a Croce, cit., p. 100. Chioserà Sasso: «Nella
sua concezione della storia l’offendeva l’idea della provvidenza, della
logica necessaria delle cose che, schiacciando inesorabile le aspirazioni, i propositi, i “diritti” degli individui, assumeva addirittura il volto fo16
106
Liberalismo, neo-giusnaturalismo, eticità..
Il problema dell’individuo in Carlo Antoni
Ma questo provvidenzialismo crociano comportava
ai suoi occhi una svalutazione dell’individuo e della sua
libera creatività: un offuscamento inaccettabile della centralità della dimensione etica individuale. Non si era infatti lontano, qui, dall’immanentismo hegeliano e da
quello gentiliano. Un immanentismo che non faceva salva, per Antoni, la singolarità dell’individuo. Croce si limitava a dare autonomia all’individuo proprio sul piano
della vitalità, ma nella struttura unitaria dell’individuo
egli scindeva le tre categorie spirituali da quella economico-vitale, la sola a cui riconosceva autonomia reale.
Così Antoni:
A suo tempo Croce aveva sacrificato l’individuo alla Categoria,
ma ora è proprio l’individuo che mette a repentaglio la categoria, ché, riducendo la categoria della vitalità agli “individui
che si susseguono nel mondo”, chiusi ciascuno nella particolare cerchia dei propri aspetti, si fa di essa una pluralità di enti incomunicabili, radicalmente diversi18.
Ma si tratta di un sacrificio inaccettabile per Antoni. Perciò egli pensa di ristabilire l’unità di individuale e universale non già nel rapporto tra l’astratto individuo e le sue opere (che, in quanto espressione dello
spirito, sono legate alla Categoria e alla universalità), ma
nella concretezza dell’individuo. Un compito a cui l’universalità dell’opera crociana, l’antico Spirito oggettivo
hegeliano, non riesce a far fronte. Perciò essa gli appare “vuota e inerte”. E perciò va ripensata:
sco e sanguinario di una dea ispiratrice delle terribili tirannidi contemporanee. E da questo punto di vista Hegel diventava il profeta di
quanto di peggio il mondo moderno avesse prodotto nel secolo ventesimo» (L’illusione della dialettica. Profilo di C. Antoni, Roma, Edizioni
Ateneo, 1982, pp. 166-67).
18
Ibid., p. 107.
107
Francesco Mattei
La struttura dello spirito è un’infrangibile unità organica, di cui
le categorie sono articolazioni, che è sempre reale e concepibile
solamente come Io individuale. Le categorie fungono dentro
questa individualità e non fuori o al di sopra di essa, sicché categorie che appartengono soltanto allo Spirito assoluto e non
all’individuo, non si possono concepire19.
E ancora:
Nel pensiero crociano (…) la coscienza soggettiva è tollerata, in
maniera imprecisa, come strumento, oppure è degradata a mera
vitalità (...) è resa estranea alla realtà dei valori universali20.
Contro tale “volatilizzazione dell’individuo” Antoni prende posizione, modificando notevolmente il
pensiero del Maestro, e così scrive:
In realtà l’universale non è generico Spirito, non è una serie
di categorie, ma è l’Io. L’Io è il concetto medesimo, l’a priori, la
categoria universalissima, ma è, altresì, immediatamente coscienza ed affermazione di sé come individuo. È l’universale
concreto, determinato, cioè individuato, pur conservando la
propria formale universalità. Separare i due termini è un atto
d’astrazione che crea l’insolubile problema del rapporto tra immanenza e trascendenza poste come piani separati21.
Antoni nega una possibile “deduzione” dell’Io. L’Io
è immediato e universale. Non deriva da un ipotetico Io
trascendentale, che resterebbe astratto e mai troverebbe
realtà e concretezza. Nelle sue ultime pagine, è uno dei
temi più ricorrenti. E per un accenno al tema, egli
prende spunto da una nota di poche pagine apparsa su
«Pensiero», nel ‘57, e dedicata al collega Bariè, da poco scomparso.
19
Ibid., p. 109.
Id., Storicismo e antistoricismo, a cura di M. Biscione, Napoli, Morano, 1964, p. 142.
21
Ibid., pp. 142-43.
20
108
Liberalismo, neo-giusnaturalismo, eticità..
Il problema dell’individuo in Carlo Antoni
C’è in quella pagina un notevole spostamento di
prospettiva. E ritorna centrale, in lui, la funzione della
coscienza e la percezione immediata come valenza filosofica positiva, contro le deduzioni e le mediazioni della
filosofia hegeliana e crociana. Da qui, credo, quella
scelta decisa di neo-giusnaturalismo che avrebbe potuto farlo apparire, nel clima filosofico italiano, e ne era
cosciente22, un po’ anacronistico. La polemica contro
l’esistenzialismo e una certa declinazione della fenomenologia (di Heidegger, Camus e Sartre) aveva lasciato in lui segni di disagio e di disapprovazione fin
troppo evidenti:
L’io nella sua singolarità è un immediato, e soprattutto è
quanto di più soggettivo si possa immaginare: non può essere
“posto” come un oggetto. L’io, l’universalissimo, è anche l’individualissimo, e i due momenti sono entrambi, con pari immediatezza, nella coscienza, che solo in tal modo, in questa
unità di universale e individuale, è concreta. La separazione
dei due termini è intellettualistica e conduce, come in Fichte,
in Hegel, in Gentile, in Croce, alla metafisica di uno Spirito
puro, d’un Io trascendentale, d’uno Spirito del mondo, solo
soggetto, quindi alla soppressione degli individui, alla sop-
22
Id. La restaurazione…, cit., Premessa. In quel torno di tempo,
ancora caratterizzato da un diffuso neoidealismo con uscite verso il
marxismo o l’esistenzialismo dalle molte sfumature, si faceva largo,
nell’orizzonte della filosofia del diritto, una permanenza del positivismo giuridico o del giusnaturalismo. L’uno era stato visto, in tempi di
fascismo, come garanzia di diritti legati alle regole, e dunque come difesa dagli eccessi totalitari o autoritari del fascismo. L’altro, legato ad
una idea illuministica dei diritti di natura, tendeva a salvaguardare i diritti
individuali e collettivi dalle pieghe storiche che aveva assunto la fisionomia storico-giuridica durante il fascismo, e dunque delegittimare le
norme positive codificate durante il periodo autoritario. Per una discussione sul tema, cfr. N. Bobbio, Giusnaturalismo e positivismo giuridico,
Milano, Edizioni di Comunità, 1965; N. Bobbio, M. Bovero, Società e
Stato da Hobbes a Marx, Torino, Clut, 1973.
109
Francesco Mattei
pressione di quel nostro io singolo ed unico che sentiamo di
essere: la nostra esistenza23.
Non stupiscono, perciò, interpretazioni molto severe su queste filosofie fenomenologico-esistenzialiste
che avanzavano prepotentemente sulle ceneri della signoria dell’Io, e che prendevano il posto di un idealismo ormai esangue o di un marxismo che voleva farsene erede:
tutte uscite di sicurezza che non convincevano Antoni.
E le citazioni, in materia, potrebbero essere copiose.
Mi limito perciò ad un solo accenno ad Heidegger, a
cui dedicava il suo ultimo corso universitario del ‘58’59 e che così concludeva:
Può sorprendere la fortuna che ha incontrato siffatto neo-eleatismo. A mio avviso questa singolare fortuna è dovuta al mito,
con cui Heidegger ha dato una significazione metafisica al senso
di angoscia, che grava sulle coscienze contemporanee (...). Per
questo suo carattere d’interprete di stati d’animo Heidegger appartiene alla storia del nostro tempo, e ciò soltanto giustifica
il lungo studio, che abbiamo dedicato alla sua opera24.
23
Id., Storicismo e antistoricismo, cit., p. 227. Ma sulle aporie
di questa posizione, e sul dilemma identità-differenza, si potrà utilmente vedere Sasso (op. cit., pp. 178-185). E ancora, ben evidenziando la
difficoltà della conciliazione di particolare e universale nell’immediatezza: «Non si avvedeva (Antoni) che se la coincidenza è un’immediata identità, l’“attuarsi”, nell’io individuale, dell’“universale vita” dev’essere inteso come un originario ‘essersi attuato’; ché, in caso
contrario, il processo stesso dell’“attuazione” si porrebbe, fra io individuale e io universale, come elemento di non coincidenza, e quindi di
semplice identità, o, meglio, identificazione, ad infinitum dei due termini» (ibid., p. 180).
24
Id., L’esistenzialismo, a.a. 1958-59, Roma, La Sapienza,
1959, p. 270. L’esistenzialismo appare ad Antoni una «cattiva difesa
della individualità», che vede l’individuo come un «brandello psichico», una creatura «finita, precaria e debole, nata dal nulla, riempita
dal nulla, destinata al nulla». E così raccomanda: «Piantino il loro albero gli esistenzialisti e si redimeranno dall’angoscia o, per lo meno,
110
Liberalismo, neo-giusnaturalismo, eticità..
Il problema dell’individuo in Carlo Antoni
Ma pari fastidio egli esprime nei confronti di Sartre. Anche in lui il soggetto è ridotto, per dirla con
Croce, a pura vitalità, a deiezione, a destinazione per il
nulla, a nausea per un universale non raggiungibile25.
Ma questa riduzione radicale dell’individuo, questa
sopravvalutazione di una categoria sulle altre, espone il
soggetto a gravi rischi. Lo fa strumento devitalizzato e
impotente nelle mani delle grandi Potenze (la Nazione,
lo Stato, la Classe, il Partito26).
Ed è questo l’errore del nichilismo, dell’esistenzialismo, del volontarismo, che misconosce l’universalità
e la positività fondamentale dell’individuo umano: gli
chiede ciò che, in quella prospettiva, non può assolutamente dare27 e perde definitivamente il senso dell’umanesimo crociano28. L’io trascendentale, che è mocesseranno dal diffonderla intorno a sé» (Id., Il tempo e le idee, a cura
di M. Biscione, Napoli, E.S.I., 1967, p. 394).
25
«(...) sono allora apparse le grandi Potenze etiche, che non
hanno esitato a calpestarlo e a massacrarlo per i loro fini. In realtà sono comparsi i grandi Sacerdoti, interpreti spietati dei sacri decreti di
quelle Potenze: della Libertà, della Giustizia, dell’Umanità. Dopo di
che viene un graeculus, un Sartre ad esempio, a spiegarci che le vittime dei processi di Mosca meritavano la punizione perché non avevano saputo interpretare l’oggettività della storia: ripetendo la condanna
dei vinti, che oltre un secolo fa già formulava Hegel, ma con una teologia
della storia, che qui manca» (C. Antoni, La restaurazione…, cit., p. 94).
26
Cfr. Id., Il tempo e le idee, cit., p. 391.
27
«(...) hanno chiesto alla vitalità ciò che questa non può dare:
la verità dell’universale pensiero e una ragione morale di vivere. L’individuo è stato visto nella sua pura animalità (…). Il suo nulla era la
sua mancanza di universalità. L’errore è, anche qui, l’identificazione
dell’individuo con la sola ed esclusiva vitalità» (Id., La restaurazione…,
cit., p. 93).
28
«L’umanesimo crociano è questo senso dell’armonia, questa
capacità di comprensione e valutazione di tutte le forme della vita»
(Id., Commento a Croce, cit., p. 155). Al contrario, dice Antoni, l’esistenzialismo seguiva uno Hegel che aveva scisso essenza ed esistenza,
scissione fatta propria anche da Kierkegaard, che nel suo esistenziali-
111
Francesco Mattei
mento dell’universalità, è la percezione della coscienza
della propria identità con il Tutto, e non soltanto con le
altre autocoscienze, un Tutto che non è un radicale altro,
«ma che può essere penetrato, inteso, pensato». L’io è
perciò singolare e irrepetibile ecceità. E in questa concretezza assume significato l’universalità. Che non può
essere, per Antoni, “vuota astrattezza”:
La parola io non avrebbe senso senza questa esperienza o intuizione della propria assoluta individualità, che non è fatto psicologico o empirico, ma un dato a priori. L’io trascendentale sarebbe una vuota ed astratta universalità formale, impensabile, se
non fosse concretamente riempita da questa ecceità29.
È quanto coglie Calogero, che gli fu amico e collega, e che così scrive in Chiose all’estetica:
(...) nelle sue trattazioni di questi ultimi anni s’incontra sempre più spesso l’idea che la libera comunicazione tra gli individui sia il primo fondamento di ogni altra libertà e civiltà. Si
può quindi supporre che egli venisse sempre meglio scorgendo come quanto egli difendeva richiamandosi all’antico ideale
giusnaturalistico aveva la sua ultima radice appunto in quella
volontà di comunicare e d’intendere, mercé la quale ciascuno
di noi varca i confini di sé medesimo, e comprendendo gli altri ne instaura e difende il diritto30.
Tanto basta, credo, per dar conto dell’andatura che
andava prendendo ormai il pensiero di Antoni. Che si
incamminava oltre Croce e oltre le filosofie che si ansmo non era riuscito a superare l’esistenza individuale hegeliana (Cfr.
Id., Il tempo e le idee, cit., p. 392).
29
Id., Storicismo e antistoricismo, cit., p. 228.
30
G. Calogero, Premessa a C. Antoni, Chiose all’estetica, Roma, Opere nuove, 1960, p. 28. A conferma, scriveva Antoni: «L’Io,
come individuo isolato, come monade, non esiste, ma esiste come
centro attivo di relazioni determinate» (Id., Storicismo e antistoricismo, cit., p. 143).
112
Liberalismo, neo-giusnaturalismo, eticità..
Il problema dell’individuo in Carlo Antoni
davano imponendo. Ed è viva, in ciò, non soltanto una
preoccupazione teoretica o politica, ma anche una esigenza più squisitamente pedagogica, così espressa alla
fine del Commento a Croce:
Devo confessare che proprio nell’atto di professare questa
dottrina crociana della nostra irresponsabilità, ho avvertito la
tremenda responsabilità che mi assumevo verso le coscienze,
ingenue, che mi ascoltavano come un maestro31.
3. Istanza giusnaturalistica e prospettiva etica
Con queste premesse, la continuità Croce-Antoni
appare superata. Altro è l’individuo, altra la coscienza,
altro il giusnaturalismo. E non tanto per la dichiarata
avversione di Croce al giusnaturalismo e all’illuminismo, quanto piuttosto per i concetti su cui esso si
fonda. A questo tema Antoni ha dedicato pagine severe
in La restaurazione del diritto di natura, là dove tenta
un incontro tra la posizione storicistica e quella giusnaturalistica.
Tale esigenza discende dalla necessità di armonizzare il giudizio storico con gli altri concetti sopra evidenziati: individuo, libertà, responsabilità, coscienza, verità, storia. Anziché rivolgersi all’immanenza totale,
come fa lo storicismo crociano, Antoni tenta di armonizzare la progressiva scoperta della verità con l’antica
istanza giusnaturalistica. L’idealità giusnaturalistica –
l’antica ratio o natura – si dialettizza con la scoperta
31
C. Antoni, Commento a Croce, cit., p. 242. Ma maestro lo fu
a lungo Antoni, e intervenne anche in merito a temi più squisitamente
scolastici. Cfr. La facoltà degli spostati, Le facoltà della seconda laurea, Otto anni, Educazione unitaria, I dottori si moltiplicano: tutti in
Il tempo e le idee, cit.
113
Francesco Mattei
che l’uomo fa di sé nella sua storia etica. E il progresso
filosofico-religioso si traduce in ideali ed imperativi etici.
La critica allo storicismo hegeliano lo aveva spinto
ad accentuare il valore e la posizione dell’individuo.
L’attenzione all’individuo lo spinge a stabilire legami,
fuori dall’utilitarismo e dal contrattualismo, con norme
sovra-individuali, ma legate alla sua natura universale.
Perciò imputa le due grandi catastrofi della nazione tedesca alla sua polemica contro il diritto di natura. E la
stessa cultura italiana, da Machiavelli a Croce, necessita di una radicale revisione. Perciò tenta di trovare nello storicismo stesso la risposta all’esigenza intrinseca
nell’antico giusnaturalismo.
Di questo distingue due forme. Quello utilitaristico,
che per salvaguardare la libertà dei cittadini dall’arbitrio dello Stato ha dato origine al “contratto sociale”,
(ma che ha generato una nuova forma di totalitarismo e
di assolutismo, identificata con il nuovo Leviatano della “volontà generale”). Una seconda forma, invece, quella di Grozio, Althusius e Thomasius, tendeva a salvare
comunque la libertà, in un mondo in cui crollavano le
vecchie libertà derivate dai privilegi.
Pur con le medesime basi razionalistiche (l’uguaglianza della natura umana in tutti gli individui), essi si
differenziano nel concetto più specifico di natura umana: nella prima forma essa è intesa come egoista e selvaggia, e trova, nell’alienazione della liberta naturale
nella “volontà generale”, una nuova forma di sicurezza e
di libertà civile; la seconda, invece, si richiama all’«antica tradizione stoico-cristiana della scintilla divina
immanente nell’anima dell’individuo umano» e attribuisce all’individuo diritti inalienabili e una dignità morale a
cui non può abdicare. Nell’una si forma la persona giuridica, nell’altra quella etica. L’idea di diritto di natura
rappresenta allora, in questa tradizione, l’esigenza di un
114
Liberalismo, neo-giusnaturalismo, eticità..
Il problema dell’individuo in Carlo Antoni
universale ideale morale, il dover essere che mai è soddisfatto di fronte al reale. E da questa rivendicazione parte
il rifiuto della posizione di Hegel e di Rousseau, anche se
riconosce che, in essi, è già presente un tentativo di formazione di personalità morale e non meramente giuridica32.
Responsabile della perdita delle esigenze giusnaturalistiche è stato lo storicismo ottocentesco: enfatizzò la
concretezza storica degli “istituti” e trascurò la dimensione etica dell’individuo (in favore di quella giuridica).
Ma così, esso ha perso l’originalità dell’individuo davanti alla forza politica e lo ha lasciato in suo potere.
Così Antoni:
la dottrina del diritto di natura, proclama, contro il mero potere, contro la mera forza politica, l’esistenza di un valore o
principio, che è appunto l’eticità della natura umana ed essa esige che di questa si tenga conto come di un valore assoluto33.
Naturalmente, qui nascono le perplessità. E vi ho
accennato sopra, ricordando le pagine di Bobbio sulle
ambiguità della posizione storicistica e di quella giusnaturalistica. Antoni segue invece la sua linea di critica allo storicismo tedesco, relativistico, e tenta di salvare, forse troppo generosamente, quello crociano:
Lo storicismo crociano, proprio in quanto, a differenza di quello
relativistico tedesco, asserisce l’identità dello spirito e dei suoi
valori universali nella varietà delle opere, nella diversità degli
stili, delle tradizioni, dei costumi, è fondamentalmente giusnaturalistico. Ma lo è in senso storico e dinamico, in quanto ammette
la progressiva rivelazione e scoperta della ratio34.
32
Per quanto concerne il pensiero di Antoni su Rousseau, cfr. F.
Mattei, Il Rousseau di Carlo Antoni, in «Studi sulla Formazione»,
XVI (2013), 1, pp. 197-209.
33
Id., Il tempo e le idee, cit., p. 547.
34
Id., Storicismo e antistoricismo, cit., p. 160.
115
Francesco Mattei
E per concludere, voglio accennare alle ultime lezioni di Antoni. Nel corso universitario del ’56-’57 egli
legge, in modo singolare, le Lezioni sulla filosofia della
religione di Hegel, e vi torna ancora sopra in La religione di Hegel, pubblicato lo stesso anno su «Pensiero». Non è un corso estemporaneo, giacché gli ultimi
anni del suo insegnamento sono dedicati proprio al
commento di quelle Vorlesungen. E tenta, cosa piuttosto
insolita per l’interpretazione corrente, una lettura “personalistica”35 di quello stesso Hegel sempre considerato
padre del totalitarismo e dell’annullamento dell’individuo.
Il tono è molto personale. La polemica con Hegel
è attutita. Antoni sembra avvicinare il problema religioso con particolare cura e acribia, fino a rileggere i
ripensamenti hegeliani dopo i primi moti rivoluzionari
del 1830 parigino. Si ha l’impressione di una coscienza
più affinata e perplessa. In Hegel, egli dice, non è possibile separare il momento teologico da quello storicistico. La consacrazione della storia è possibile soltanto in
riferimento all’assoluto. E lo storicismo dialettico è
chiamato a pensare questa unione. La sua razionalità si
spiega e dispiega con la finale identificazione della storia
con l’assoluto. E se la filosofia del diritto ha contribuito a “finitizzare” la storia e la politica (e l’individuo che
ne partecipa), la filosofia della religione è chiamata a restituirgli la sua universalità, in quanto teoria non più
del cittadino o del suddito, ma dell’uomo. E così essa
reintegra l’uomo nella sua “personalità piena”.
Con un movimento mistico negativo, non ignoto alla
tradizione filosofica tedesca, Dio si annulla nell’Io, che
35
Dice Antoni: «Hegel dà qui un inatteso rilievo al concetto della personalità, di cui non c’è traccia nelle sue opere precedenti» (Il sistema di Hegel, p. 182).
116
Liberalismo, neo-giusnaturalismo, eticità..
Il problema dell’individuo in Carlo Antoni
si spoglia nella sua finitezza, per diventare pensiero
universale e concretezza dell’Assoluto. Perciò dice Antoni: «L’ultima e piena realtà di Dio è l’Io in quanto personalità»36. In esso Hegel raggiunge la vera realizzazione dell’universale concreto.
Qui il finito e l’infinito si incontrano e coincidono: ciò che è
nel tempo attinge il non temporale, l’assoluto. L’Io umano si
identifica con l’Io divino. Ma se si libera dalla sua umana finità, non perde la sua personalità, che è una cosa sola con
l’Assoluto. Qui Hegel conclude, si può dire, il travaglio di
tutta la sua vita risolvendo finalmente il problema dell’“alienazione” del soggetto di fronte al trascendente Oggetto, risolve il problema della libertà dell’uomo di fronte a Dio (...).
La storia ha un senso e carattere sacro, ma il culmine, l’atto
perfetto e supremo dell’assoluto nell’uomo, è la apoteosi sfolgorante dell’Io; in quanto personalità religiosa37.
Dio ha qui bisogno del mondo e con esso si riconcilia. Ma qui il mondo è la coscienza dell’uomo.
Conclusione aporetica? Potenza della dialettica?
Forse. Ma nonostante le critiche aperte e radicali alla
dialettica hegeliana, è difficile affermare che egli non
ne abbia subito il fascino38. Anche se, fino alla fine,
vedrà l’esperienza filosofico-religiosa legata alla tensione e all’ulteriorità. E dunque, contraria alla conclusione del movimento dialettico, anche nella ritrovata
identità dello Spirito nell’Io religioso.
Ciononostante, chiude le sue lezioni (e il suo Hegel)
con una venatura non eticistica, non totalitaria, non assorbente. Con un riconoscimento non usuale alle ultime
36
Id., Il sistema di Hegel, Roma, la Sapienza, a.a. 1956-57, pp.
193-194.
37
Id., Storicismo e antistoricismo, cit., p. 178.
38
Id., Considerazioni su Hegel e Marx, Napoli, Ricciardi, 1946,
pp. 1-20.
117
Francesco Mattei
pieghe hegeliane sull’eticità dello Stato e sulla personalità. La prima, l’eticità dello Stato,
deve provenire dalla religione della totale libertà dell’Io. L’individuo, quindi, deve ubbidire allo Stato, ma lo Stato deve avere
per suo principio etico-religioso la libertà. Uno Stato che non
obbedisca a questo principio, è un cattivo Stato, che ha una cattiva religione, cattive leggi, una cattiva costituzione39.
La seconda, la coscienza della personalità, «libera,
autonoma, sovrana nella sua assolutezza, deve risultare
superiore allo Stato»40.
Ma se così fosse, lo Hegel teorizzatore dello Stato
etico avrebbe fatto qui (definitivamente) il suo tempo.
Non so se per hegeliano pentimento, o per generosa ermeneutica antoniana.
39
40
118
Id., La religione di Hegel, cit., p. 196.
Ibidem.
Liberalismo, neo-giusnaturalismo, eticità..
Il problema dell’individuo in Carlo Antoni
Riferimenti bibliografici
Ricordo alcuni studi di Antoni. Per una bibliografia più ampia rinvio a F. Mattei, La dimensione etica tra storicismo e giusnaturalismo. Studio su C. Antoni, Roma, Anicia, 19992.
Il problema estetico, Casella, Napoli 1924.
Dallo storicismo alla sociologia, Firenze, Sansoni, 1940, 19732.
La lotta contro la ragione, Firenze, Sansoni, 1940.
Considerazioni su Hegel e Marx, Napoli, Ricciardi, 1946.
Lo storicismo da Hegel a Croce, a.a. 1948-49, Roma, 1949.
La filosofia di Hegel, a.a. 1954-55, Roma, 1955.
La teodicea di Hegel, a.a. 1955-56, Roma, 1956.
Il sistema di Hegel, a.a. 1956-57, Roma, 1957.
Lo storicismo, Torino-Roma, ERI, 1957.
L’esistenzialismo, a.a. 1958-59, Roma, 1959 (ora in L’esistenzialismo di M. Heidegger, Napoli, Guida, 1972).
La restaurazione del diritto di natura, Venezia, Neri Pozza, 1959.
Gratitudine, Milano-Napoli, Ricciardi, 1959.
Chiose all’estetica, Roma, Opere nuove, 1960 (con presentazionericordo di G. Calogero).
Storicismo e antistoricismo, Napoli, Morano, 1964 (a cura di M.
Biscione, saggi che vanno dal 1931 al 1957).
Il tempo e le idee, a cura di M. Biscione, Napoli, E.S.I., 1967 (interventi apparsi su «Il Mondo»).
Lezioni su Hegel. 1949-57, a cura di M. Biscione, Napoli, Bibliopolis, 1989.
Carteggio Croce-Antoni, a cura di M. Mustè, Bologna, il Mulino,
1996 (con Introduzione di G. Sasso).
119
Socrate né fu dispregiatore degli iddii patrij né
introduttore di nuovi.
Io mi sono spesse volte maravigliato per quali
ragioni gli accusatori di Socrate persuasero agli
Ateniesi lui essere alla città debitor della morte.
Perché l’accusa contro di lui era quasi in questi
termini concepita: Socrate offende la giustizia
perché non ha per Dei quelli che la città per
iddii riconosce, e nuovi altri numi introduce.
Offende ancor la giustizia viziando la gioventù.
Primieramente dunque che egli non riconoscesse per Dei quelli che la città come tali riconosceva, di quale argomento si sono serviti
mai? Perché chiaramente egli spesso in casa
sua, spesso ancora sopra i comuni altari della
città sacrificava, e apertamente si valeva della
divinazione.
[Senofonte, Dei Detti memorabili di Socrate,
Libro I, capo 1, trad. di Michel-Angelo Giacomelli pistoiese, Casa editrice M. Guigoni, 1876,
con note e variazioni di A. Verri].
Abstracts
Editoriale
The return of auctoritas
Comparisons on learning achievements carried out through international surveys address the need to overcome a narrow national
perspective in the interpretation of educational phenomena. To
know about educational policies in other countries and to compare
achievement levels allows a more informed decision making process. However, since twenty years, a gradual substitution of the
cultural and interpretive basis for education has been taking place,
increasingly subjected to criteria taken from the outside, and especially from the economy. The market is the new expression of the
auctoritas, and those who interpret its requirements earn a specific
sacredness.
Keywords: Comparative studies, achievement levels, auctoritas,
economy, OECD.
El retorno de la auctoritas
La comparación realizada a través de las investigaciones internacionales sobre los niveles de aprendizaje responde a la necesidad
de superar, en la interpretación de los fenómenos educativos, el
tamaño de los estrictamente nacionales. Conocer las decisiones
tomadas en otros sistemas educativos y comparar los niveles de los
resultados del aprendizaje son la base para tomar decisiones más
informadas. Desde hace veinte años, sin embargo, se ha generado
un proceso de sustitución gradual de los fundamentos culturales y
EDUCAZIONE. Giornale di pedagogia critica, II, 2 (2013), pp. 121-126.
ISSN 2280-7837 © 2013 Editoriale Anicia, Roma, Italia.
Abstracts
de la interpretación de la educación, cada vez más sujetos a criterios introducidos desde fuera, y en particular de la economía. El
mercado es la nueva expresión de la la auctoritas, y los que interpretan sus necesidades ganan una sacralidad específica.
Palabras clave: Estudios comparativos, niveles de aprendizaje,
auctoritas, economía, OCDE.
Luana Salvarani
Black Robes on the Frontier.
Patterns and roots of American Catholic schooling
The first century of American history after the Independence has
forged the structures and tenets of its educational culture, both
with a distinctive WASP flavour. Catholicism, striving for a role
in the cultural conquest of the Frontier, found some Jesuits were
the right people in the right place. The activity of Father John De
Smet and his fellows in the Indian Territories focused of rituals,
objects, eloquence and music, purposely avoiding the written word
(especially English language as linked to Reformation and urban
culture), and blending Native and Catholic-baroque gestures in a
new educational language.
Keywords: American Frontier, Jesuit education, Natives, John De
Smet S.J., Catholic schools.
Black Robes en la frontera.
Las raíces y los modelos de la educación católica americana
El primer siglo de la historia de Estados Unidos después de la independencia ha dado forma a las estructuras y los cimientos de la
cultura educacional de los EE.UU., el sabor característico WASP
(blanco anglosajón protestante). El catolicismo, en busca de un
papel en los logros culturales de la frontera, se dio cuenta de que
algunos jesuitas eran las personas adecuadas en el lugar adecuado.
La obra del Padre John De Smet y sus compañeros en tierras indígenas se centra en los rituales, objetos, elocuencia y la música,
evitando deliberadamente la palabra escrita (el idioma Inglés, como un símbolo de la Reforma y de la cultura urbana), y la fusión
del legado nativo y el barroco católico en el aprendizaje de un
nuevo idioma.
122
Abstracts
Palabras clave: Frontera americana, la educación jesuita, nativos,
John de Smet S.J., las escuelas católicas.
Emilio Lastrucci
Education and the division of labour in Émile Durkheim’s
Thought
This article aims at investigating the relationship between the theory of division of labor, and the theory of education in Durkheim’s
thought. An inquiry on Durkheim’s works dealing with these issues leads to emphasize both problematic elements of his thought
(in particular, the definition of “talent”) and other ones that deserve reconsideration in the light of the lively disputes among his
followers. This problematization of Durkheim’s categories is imperative especially in the light of certain principles that have
gained scientific importance among educational theorists during
the last decades.
Keywords: Émile Durkheim, division of labour, education, mechanical solidarity, organic solidarity.
La educación y la división del trabajo en Émile Durkheim
Este artículo tiene como objetivo investigar la relación entre la
teoría de la división del trabajo, y la teoría de la educación en el
pensamiento de Durkheim. Una investigación sobre la obra de
Durkheim se ocupan de estas cuestiones lleva a destacar dos elementos problemáticos de su pensamiento (en particular, la definición de “talento”) y otros que merecen una reconsideración a la luz
de las animadas controversias entre sus seguidores. Esta problematización de las categorías de Durkheim es imprescindible sobre todo a la luz de ciertos principios que han ganado importancia científica entre los teóricos de la educación en las últimas décadas.
Palabras clave: Émile Durkheim, la división del trabajo, la educación, solidaridad orgánica, solidaridad mecánica.
123
Abstracts
Maria Francesca D’Amante
The First Jesuits’ College Theatre: from Rethoric to Drama
Jesuit education in the 16th and 17th century focuses on rhetoric as
a cornerstone of Humanistic culture, and as practical ability, useful
in diplomatic missions, preaching and court activities. College
theatre is one of the most important playgrounds in which rhetorical competences are trained and refined, and, with all its spectacular and emotional implications, becomes a distinctive feature of
Jesuit pedagogy all along the history of the Order.
Keywords: Jesuit education, rhetoric, college theatre, Ratio Studiorum, Ignatian tradition.
Teatro Educativo de los primeros jesuitas: de la retórica a dramatización
La formación de los jesuitas, durante los siglos XVI y XVII se
centra en la retórica como una piedra angular de la cultura humanística, y sobre todo como una habilidad práctica, útil en las misiones diplomáticas, en la predicación y en diferentes momentos
de la vida de la Corte. El teatro en las escuelas fue uno de los más
grandes escenarios donde se practicaban y perfeccionaban las habilidades del habla, con todas sus implicaciones espectaculares y
emotivas, que se convertirían en una característica distintiva de la
pedagogía jesuítica a lo largo de la historia de la Orden.
Palabras clave: educación jesuita, la retórica, el teatro universitario, Ratio Studiorum, la tradición ignaciana.
Rocco Marcello Postiglione
Death, violence and sovereignty.
Educational hints from Carl Schmitt
Educational legitimation has a close link with the concept of legitimacy. The question is the State legitimation in educating (under
the category of “moral education”). Some other concepts (sovereignty, politics, enmity, war, violence) are seen through an analysis of Carl Schmitt thought. The essay suggests a first formalisation of such conceptual field in educational terms by discussing
124
Abstracts
some aspect of Schmitt’s political theology (esp. the ideas about
man and sin) and confronting it with the “absolutely educational”
vision of Gandhi’s Ahimsa.
Keywords: Sovereignty, enmity, legitimacy, educational legitimation, war, violence, sin.
La muerte, la violencia y la soberanía.
Consejos educativos de Carl Schmitt
Legitimación para la Educación tiene una estrecha relación con el
concepto de firmeza. La pregunta es la legitimación del Estado en
la educación (en la categoría de “educación moral”). Otros conceptos (soberanía, la política, la enemistad, la guerra, la violencia)
son vistos a través de un análisis sobra la teoría de Carl Schmitt. El
ensayo sugiere una primera formalización de dicho campo conceptual en términos educativos, discutiendo algunos aspectos de la
teología política de Schmitt (especialmente las ideas sobre el hombre y el pecado) y confrontarlo con la visión “absolutamente educativo” de la no violencia de Gandhi.
Palabras clave: la soberanía, la enemistad, la legitimidad, la educación legitimación, la guerra, la violencia, el pecado
Francesco Mattei
Freedom, Neo-natural law, ethics.
Carlo Antoni and the problem of individual
The role of C. Antoni on the stage of the Italian 20th century has
been the one of a Croce’s pupil, following his liberalism both in
philosophy and in politics. In the early fifties, the Trieste philosopher felt the need to take over his mentor’s positions. This is clearly signified in his reconsideration of the concept of individual, a
reinterpretation of Natural Law, a redefinition of ethics and of the
relationship individual-State-society, a somewhat “personalistic”
reading of the late hegelian lessons on religion. This is what we try
to depict here.
Keywords: Carlo Antoni, individual, Neo-natural law, liberalism,
ethics, personality.
125
Abstracts
El liberalismo, neo-naturalismo, la ética.
El problema del individuo en Carlo Antoni
El papel de C. Antoni in Italia en la etapa del siglo 20, como
alumno de Croce, pon a raíz de su liberalismo tanto en la filosofía
y en la política. A principios de los años cincuenta, el filósofo de
Trieste sintió la necesidad de hacerse cargo de las posiciones de su
mentor. Esto está claramente señalado en su reconsideración del
concepto de individuo, una reinterpretación de la Ley Natural, la
redefinición de la ética y de la relación individuo-Estado-sociedad,
una lectura un tanto “personalista” de las conferencias hegelianas
sobre la religión. Esto es lo que tratamos de describir aquí.
Palabras clave: Carlo Antoni, individual, neo-Iusnaturalismo, el
liberalismo, la ética, la personalidad.
126
Indice
Editoriale
1
Black Robes alla frontiera.
Radici e modelli del catholic schooling americano
Luana Salvarani
9
Educazione e divisione del lavoro in É. Durkheim
Emilio Lastrucci
31
Teatro educativo dei primi gesuiti:
dalla retorica alla drammatizzazione
Maria Francesca D’Amante
55
Morte, violenza e sovranità. Spunti paidetici
da Carl Schmitt
Rocco Marcello Postiglione
75
Liberalismo, neo-giusnaturalismo, eticità.
Il problema dell’individuo in Carlo Antoni
Francesco Mattei
97
Abstracts
121
127
Finito di stampare
nel mese di dicembre 2013
per conto di Editoriale Anicia
da Finsol S.r.l. - www.finsol.it