Il ritorno dell`auctoritas - Educazione. Giornale di pedagogia critica
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Il ritorno dell`auctoritas - Educazione. Giornale di pedagogia critica
Editoriale Il ritorno dell’auctoritas Il 3 dicembre l’Ocse (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) ha diffuso i risultati della periodica rilevazione sui livelli di competenza degli allievi di quindici anni, giunta alla sua quinta edizione. Si tratta delle rilevazioni note come Pisa (Programme for International Student Assessment), che rappresentano ormai il termine di riferimento per la comparazione degli apprendimenti che gli allievi conseguono nei diversi sistemi scolastici. In sé, la comparazione dei risultati ottenuti nei diversi sistemi scolastici risponde all’esigenza di superare, nell’interpretazione dei fenomeni educativi, le dimensioni strettamente nazionali. Conoscere le scelte effettuate altrove e comparare i livelli di apprendimento conseguiti sono alla base di processi decisionali più consapevoli di quelli che sarebbero consentiti da considerazioni tutte interne alle singole realtà. In altri fasi storiche dello sviluppo dei sistemi d’istruzione, l’esigenza comparativa era meno avvertita, o si limitava al confronto degli ordinamenti. L’educazione formale si rivolgeva, infatti, a strati limitati di popolazione, e i criteri d’inclusione costituivano un riflesso di concezioni sociali che nei singoli paesi erano radicati nell’evoluzione storica delle società nazionali. EDUCAZIONE. Giornale di pedagogia critica, II, 2 (2013), pp. 1-7. ISSN 2280-7837 © 2013 Editoriale Anicia, Roma, Italia. Editoriale Bisogna anche rilevare che, fin verso la metà del ventesimo secolo, le differenze tra le proposte educative dei paesi di cultura europea (quindi anche di quelli che si collegavano a essa in altri continenti) erano più contenute. Se si esclude il livello primario, che dappertutto perseguiva intenti di prima alfabetizzazione, alla fruizione di istruzione secondaria corrispondeva un profilo culturale nel quale non era difficile riconoscere elementi di un canone: basti pensare al ruolo esercitato dallo studio del latino, alla rilevanza riconosciuta allo studio delle lettere e delle arti, agli impianti teorici cui si collegava lo studio della natura. Il quadro ha incominciato a complicarsi una cinquantina d’anni fa. La crescita delle popolazioni scolarizzate appariva, e probabilmente era, l’aspetto più importante dell’evoluzione dei sistemi educativi. A tale crescita si collegavano altri importanti cambiamenti, che avrebbero inciso profondamente sulle condizioni di esistenza e sugli assetti della vita sociale: aumentava la speranza di vita, l’acquisizione di nuove conoscenze assumeva un ritmo sempre più intenso, le attività produttive e l’organizzazione del lavoro si orientavano in direzioni che sarebbe stato difficile immaginare anche pochi anni prima. Molti interpreti della realtà educativa si chiedevano se il processo di sviluppo non sarebbe stato ritardato dalla penuria delle conoscenze distribuite nella popolazione. Contemporaneamente, si affermavano orientamenti critici circa il carattere di discriminazione sociale riconoscibile nella distribuzione delle conoscenze acquisite tramite l’educazione formale. Tali orientamenti erano giustificati da argomentazioni a carattere sincronico: bambini e ragazzi appartenenti alle classi sociali più modeste fruivano di minori opportunità di istruzione. 2 Il ritorno dell’auctoritas Molti degli sviluppi successivi dei sistemi scolastici sono da porre in riferimento all’assunzione, per molti versi affrettata, di decisioni politiche immediatamente ricavate da analisi sociologiche. Ciò ha riguardato anche la revisione della proposta culturale nei diversi paesi: quella preesistente era identificata con una nozione elitaria dell’istruzione, alla quale bisognava opporne una ugualmente fruibile da tutta la popolazione. In quel contesto, spesso squassato da furie iconoclaste, un gruppo di studiosi dell’educazione di orientamento democratico (tra i quali B. S. Bloom, Tjeerd Plomp, Neville Postlethwaite, David Robitaille, Torsten Husén, cui si aggiunse, per l’Italia, Aldo Visalberghi) si propose di porre in comune le esperienze dei sistemi educativi dei rispettivi paesi e di esaminarne i problemi sulla base di comparazioni relative sia alle condizioni organizzative e agli impianti didattici, sia ai risultati di apprendimento rilevati su campioni di allievi. Nel 1967 fu fondata l’International Association for the Evaluation of Educational Achievement (Iea), che subito si impegnò nella prima indagine comparativa, effettuata nel 1970-71. Si trattava della ricerca Six Subjects (sei erano infatti gli ambiti presi in considerazione), che costituisce il termine a quo per gran parte della ricerca sui sistemi scolastici che si è sviluppata nei decenni successivi. L’eco suscitata dai risultati di quella prima indagine fu grande, ma da tali risultati non si trassero implicazioni adeguate. Spesso tutto si ridusse a una banale comparazione delle posizioni in graduatoria, senza cercare di approfondire, proprio a partire dai dati internazionali, i problemi dei singoli sistemi scolastici. È quanto avvenne in Italia. Per incominciare, si manifestò una debolezza inattesa proprio in un settore nel quale era diffusa l’opinione che la cultura educativa italiana fosse 3 Editoriale tra le più apprezzabili. Era diffusa, infatti, la convinzione che la solidità dell’impianto umanistico nella proposta d’istruzione dovesse corrispondere a risultati positivi nell’insieme degli apprendimenti linguistici. In altre parole, si confondeva l’impostazione umanistica degli studi con l’acquisizione di una capacità di comprensione della lettura che non era neanche presa in considerazione nell’attività delle scuole. I nostri allievi acquisivano una certa capacità di comprendere testi sui quali si sviluppavano specifiche forme di attività (per esempio, quelli letterari), ma incontravano serie difficoltà nella comprensione di testi di registro diverso. I dati della Six Subjects contenevano già molte delle indicazioni che sarebbero state poste in maggiore evidenza dalle rilevazioni successive, a cominciare dalle difficoltà negli apprendimenti scientifici e in quelli matematici. Sono diventate abituali le espressioni di sgomento e di preoccupazione dei responsabili del sistema scolastico e dell’opinione pubblica, che sono apparsi sensibili specialmente alle infelici posizioni che il nostro paese ha occupato nelle graduatorie internazionali. Ed è anche diventato abituale che le espressioni di disagio si ripetessero per qualche giorno e non dessero luogo a iniziative dalle quali ci si potesse attendere un cambiamento nella linea di governo della scuola. Il fatto è che prendere atto della posizione in graduatoria non richiede che si sviluppi una riflessione specifica (è un po’ come leggere l’ordine d’arrivo di una gara sportiva), mentre è assai meno immediato prendere atto delle implicazioni derivanti da altri segnali, che pure sono ben più interessanti, perché rivelatori non solo delle insufficienze del sistema scolastico, ma anche di quelle che investono nel complesso la cultura e la vita sociale del Paese. Sono proprio i segnali che avrebbero potuto costituire, se adeguatamente in4 Il ritorno dell’auctoritas terpretati, il punto di partenza per un radicale cambiamento nella politica scolastica. Il più interessante di questi segnali è rappresentato dalla dispersione interna dei risultati. Il riferimento non è tanto alle differenze regionali, che pure sono molto forti, ma che sarebbe difficile collegare a fattori di contesto, come i livelli socioeconomici delle famiglie degli allievi. Ben peggiori, perché rivelatrici della disgregazione del sistema d’istruzione, sono le differenze che si riscontrano tra le singole scuole. In termini statistici, è opportuno distinguere nella varianza complessiva dei risultati, quella entro le scuole da quella fra le scuole. Entro certi limiti, la varianza entro le scuole è da considerare la conseguenza delle differenze che intercorrono tra le caratteristiche degli allievi: certo, una buona didattica è quella che tende a ridurre le differenze di livello tra gli apprendimenti degli allievi, ma ciò ha senso soprattutto quando le variabili prese in considerazione riguardano aspetti di base dell’apprendimento, come il leggere, lo scrivere e il far di conto che sintetizzavano la funzione della scuola nella sua fase espansiva. Dovrebbe, invece, destare preoccupazione la varianza fra le scuole, perché sta a indicare che la qualità della proposta di apprendimento di cui si fruisce cambia in relazione alla scuola frequentata, e ciò non solo se si tratta di scuole che operano in regioni diverse, ma anche in aree limitrofe. In Italia, malgrado l’evidenza dei dati, nulla è stato fatto per contenere la varianza fra le scuole: tradotto in termini politici, ciò equivale ad affermare la sostanziale mancanza di equità del sistema educativo. In altri paesi i risultati delle indagini comparative sono stati presi molto seriamente e hanno indotto a revisioni, anche radicali, delle politiche scolastiche: basti considerare il caso della Germania. Riesce invece dif5 Editoriale ficile capire le ragioni dell’entusiasmo per le comparazioni che si dimostra in Italia, quando i risultati sono al più argomento per polemiche contingenti. Tanto meno si capisce un tale entusiasmo dopo che il diretto impegno nelle ricerche comparative da parte dell’Ocse ne ha sostanzialmente cambiato il carattere. I livelli d’istruzione (che sono indicati come competenze, e la questione non è, come vedremo, solo nominale) non sono più presi in considerazione per analisi rivolte prioritariamente a chiarire le relazioni che intercorrono tra le condizioni in cui operano le scuole e i risultati dell’apprendimento, ma per fornire indicazioni circa la congruità delle competenze possedute dagli allievi rispetto ai traguardi perseguiti dai sistemi economici. In altre parole, è in atto da una ventina d’anni un processo di progressiva sostituzione dei fondamenti culturali e interpretativi dell’educazione, riconducibili nei paesi di cultura europea a un canone che affonda le sue radici nel mondo classico ed ha progressivamente acquisito elementi nei due millenni dell’era cristiana, con criteri regolativi subalterni alle esigenze dei sistemi produttivi. In pratica, ciò equivale a respingere in secondo piano quanto è specifico delle singole culture nazionali e di aree contigue sovranazionali (le conoscenze) per accogliere come prioritarie le esigenze che si manifestano nel mercato globale (le competenze). Il mercato è la nuova espressione dell’auctoritas, e quanti ne interpretano le esigenze sono investiti da una specifica sacralità. Che ci si trovi di fronte ad una vera e propria mutazione dalle interpretazioni educative è confermato da quanto di legge nella premessa alla presentazione dei risultati dell’ultima rilevazione Pisa, firmata dal Segretario Generale dell’Organizzazione, Angel Gurría: 6 Il ritorno dell’auctoritas More and more countries are looking beyond their own borders for evidence of the most successful and efficient policies and practices. Indeed, in a global economy, success is no longer measured against national standards alone, but against the best-performing and most rapidly improving education systems. Over the past decade, the OECD Programme for International Student Assessment, PISA, has become the world’s premier yardstick for evaluating the quality, equity and efficiency of school systems. But the evidence base that PISA has produced goes well beyond statistical benchmarking. By identifying the characteristics of high-performing education systems PISA allows governments and educators to identify effective policies that they can then adapt to their local context. Se questo testo fosse decontestualizzato, e se fossero sostituite le parole che collocano il discorso nell’ambito dell’educazione, la premessa potrebbe applicarsi a un rapporto relativo a qualsiasi altro settore di attività con rilevanza economica. Quel che non lo rende un testo accettabile da un punto di visto educativo è l’esplicito riferimento a una logica interpretativa fondata sulla rapidità dei processi: l’educazione, e la cultura, ragionano in altro modo. fm bv 7 Ma non si accostava a tutti gli uomini in una stessa maniera, ma quegli che di sé avessero opinione d'essere valentuomini, e disprezzassero la disciplina, insegnava loro che le migliori nature hanno solamente bisogno d’istruzione, dimostrando che i cavalli più generosi, essendo animosi e violenti, se siano domati da piccoli, riuscire di benissimo uso ed ottimi; se poi non siano domati, riuscire sfrenati e pessimi; e que' cani che sono d'ottima natura e laboriosi e pronti ad assaltare le fiere, se siano bene educati, riuscire ottimi per la caccia e utilissimi; ma se non siano istruiti, diventare inutili e furiosi e disubbidientissimi. In somigliante modo gli uomini della migliore indole e di validissimo animo ed efficacissimo in quelle cose che a fare intraprendono, dopo essere istruiti ed avere appreso quel che far si conviene, divenire eccellenti e sommamente utili, essendoché fanno moltissimi beni e grandissimi; ma se siano senza educazione e senza dottrina, divenir pessimi e perniciosi… [Senofonte, Dei Detti memorabili di Socrate, Libro IV, capo 1, trad. di Michel-Angelo Giacomelli pistoiese, Casa editrice M. Guigoni, 1876, con note e variazioni di A. Verri]. Black Robes alla frontiera. Radici e modelli del catholic schooling americano Luana Salvarani Università di Parma Dipartimento A.L.E.F. Borgo Carissimi, 10 - 43121 Parma [email protected] Their language resembles Hebrew somewhat, and it is even asserted by some that the Indians of these regions came originally from Palestine… John Pabst S.J., from Maine, 1850 (Woodstock Letters, 17). «Fides ex auditu: faith enters by the ear». Così, citando Paolo, ripetono costantemente i missionari gesuiti nel Far West. E così riassume, cinquant’anni, dopo Bernard Feeney: «Faith comes from hearing, not from reading». È ciò che si trova scritto in The Catholic Sunday School (1907), insieme manuale e strumento apologetico di quell’istituzione educativa di base che, da parte metodista, toccava l’apice del successo, mentre il versante cattolico fronteggiava una pericolosa dissolvenza della propria identità e funzione sociale. Il ricorso all’antico tema della voce del maestro che guida, forma e converte, è più di un luogo comune retorico in questo contesto: è il cuore metodologico, lo strumento attraverso cui il modello educativo dei cattolici d’America legittimava e distingueva la propria azione presso quelle classi sociali svantaggiate e quelle periferie ur- EDUCAZIONE. Giornale di pedagogia critica, II, 2 (2013), pp. 9-29. ISSN 2280-7837 © 2013 Editoriale Anicia, Roma, Italia. Luana Salvarani bane che avevano sostituito, nell’immaginario, i selvaggi della Frontiera. La preminenza gesuitica nel cattolicesimo americano è un’evidenza storica. Dal 1784, cioè ancor prima che venisse redatta la Costituzione statunitense (1787)1, è un gesuita, John Carroll (l’ordine, soppresso, non aveva mai cessato di operare in America con la tacita approvazione papale) a essere nominato Superiore per tutte le missioni americane. Con il 1789 e la presidenza Washington, John Carroll assunse la guida della Diocesi di Baltimora, prima e più importante in America – il cui catechismo, il Baltimore Catechism, rimase quello ufficiale dei cattolici americani fino al Concilio Vaticano II. Non sorprende che il quartier generale della Chiesa americana e la prima grande istituzione educativa cattolica del Paese, la Georgetown University (Collegium Metropolitanum Ad Ripas Potomaci in Marylandia), fossero entrambi a guida gesuitica e situati nel Maryland, l’unico stato tradizionalmente cattolico, invariabilmente citato nei libri di storia cattolici dell’Ottocento americano come “autentica” origine dell’epopea nazionale2. Non sorprende neppure che la prima istituzione fondata da John Carroll fosse appunto un’università. La missione educativa dei Gesuiti, in Europa, si era infatti concentrata da tre secoli sulla formazione delle classi dirigenti, e non c’era ragione di dissipare questo patrimonio di esperienza. L’accusa rivolta al sistema formativo cattolico americano di essersi sempre occupato delle élites, tra1 Completata nel 1787, essa fu adottata dalla Convenzione costituzionale a Filadelfia. Entrò in vigore nel 1789. 2 J. Moreau, Rise of the (Catholic) American Nation: United Stated History and Parochial Schools, 1878-1925, in «American Studies», 38: 3 (1997), pp. 67-90. 10 Black Robes alla frontiera scurando le fasce più svantaggiate, è ricorrente e non priva di fondamento; come non lo è la linea di difesa che chiama in causa la forte presenza, nelle common schools statali “laiche”, della morale protestante cosiddetta lowest common denominator, cioè come insieme di valori civili alla base dell’identità americana. Meno efficace è la linea di difesa che evidenzia il ruolo di alcuni gruppi di suore e di frati nell’assistenza e nella alfabetizzazione dei poveri e degli afroamericani e nelle periferie urbane, dal momento che tale meritorio sforzo educativo venne (non tanto paradossalmente) riassorbito dalle common schools quando la sentenza Plessy vs. Ferguson (1896), della Corte Suprema, affermò la segregazione razziale nelle scuole e, di conseguenza, la necessità di istituire classi e scuole per neri, indiani o ispanici di diversa etnia; classi che estesero il “protestantesimo civico” anche a quei popoli fino ad allora riserva di caccia del catholic schooling di base. L’istruzione di base, che nelle aree rurali e di frontiera era (fino agli anni Ottanta dell’Ottocento) quasi esclusivo monopolio delle Sunday Schools e analoghe istituzioni confessionali, è stata finora studiata e descritta in casi singoli o, più in generale, individuandone i caratteri comuni tra le varie confessioni religiose in termini di organizzazione, penetrazione del territorio, sussistenza economica e rapporti con la legislazione nazionale. Ma se nel complesso è vero, come afferma Ramsey, inquadrando le metodologie delle missioni nel West e il loro repertorio narrativo, che the evangelical system developed by both factions depended heavily on what we might call Sunday School methods3 3 J. Ramsey, Bible in Western Indian Myths, in «The Journal of American Folklore», XC, 358 (1977), p. 444. 11 Luana Salvarani va tenuto presente che i Sunday School methods cattolici e protestanti erano radicalmente, profondamente diversi, negli obiettivi e nell’immaginario, al di là di alcune analogie “di sistema” legate a pure ragioni territoriali. Le Schools cattoliche, e in generale le esperienze educative di base di parte cattolica, vivono del richiamo (esplicito o non dichiarato, e, nei prontuari più semplici, forse inconscio) alle missioni gesuitiche nel West, come esperienza più vitale ed efficace del cattolicesimo americano del tempo. Il mito dei Black Robes, o Black Gowns, le vesti nere, risvegliava memorie epiche e cercava di tenere viva una tradizione educativa basata sull’oralità, la ritualità, la suggestione visiva e fonica e la teatralizzazione – col recupero diretto, in versione esclusivamente orale e più elementare, delle tecniche dei primi collegi gesuiti – e che affondava le radici nelle pratiche evangelizzatrici della Rocky Mountains Mission guidata da Father De Smet, S.J., negli anni Quaranta e Cinquanta dell’Ottocento. La Rocky Mountain Mission, in realtà l’insieme di diversi avamposti e missioni fissati da De Smet nei suoi viaggi negli attuali Oregon, Idaho, Montana e Wyoming, ci è nota per una ricca messe di corrispondenza, narrazioni e memoriali di De Smet stesso e dei suoi compagni di viaggio, raccolte e pubblicate “in tempo reale” dal loro autore, penna prolifica e immaginosa e infaticabile fundraiser, per essere vendute e finanziare così viaggi e missioni. Le memorie di De Smet furono da subito ottimi successi editoriali, e contribuirono a formare l’immaginario di innumerevoli missionari, maestri di frontiera e Sunday School teachers cattolici. Inutile precisare che i racconti tendono ad epicizzare gli incontri con gli indiani e ad accentuare la naturale ritualità di quegli incontri e di quelle esperien12 Black Robes alla frontiera ze, continuando logicamente, in versione “sciamanica” invece che “colta”, quella centralità dell’oratoria che già i primi Gesuiti avevano messo a punto nelle loro esperienze educative per l’élite europea. De Smet, tra una navigazione del Missouri e un attacco Sioux, è attento a tutto: all’abbigliamento (vero e proprio abito di scena), alle parole con cui interpreti e mediatori lo presentano ai capi tribù, a presentarsi in prima istanza – senza alcuna paturnia di carattere interculturale – con lunghe e incantatorie orazioni teologiche: Dressed in my cassock with a crucifix on my breast – a costume I always wear in the Indian country – it appeared to me that I was the subject of his particular enquiry. He asked the Canadian what kind of man I was. The Frenchman said I was a Chief, a Black-gown, the man who spoke to the Great Spirit4. «Speak, Black-Gown, I have done – every one is anxious to hear you». I spoke to them for two hours on salvation and end of man’s creation, and not one person stirred from his place the whole time of the instruction. As it was almost sunset, I recited the prayers that I had translated into their language a few days before5. Dopo il primo impatto e l’accettazione da parte degli Indiani di De Smet come messaggero e interprete privilegiato della volontà del Grande Spirito, non era difficile partire con un programma educativo – esclusivamente orale, grafico e musicale – che affiancava alla conoscenza dei racconti biblici, variamente intersecati 4 P. De Smet, Lettera del 4 febbraio 1841, in Letters and sketches: with a narrative of a year’s residence among the Indian Tribes of the Rocky Mountains, M. Eithian, Philadelphia, 1843; ristampa e annotata a cura di Reuben Gold Thwaites, in Early Western Travels 1748-1846, vol. XXIX, Arthur H. Clark Company, Cleveland, Ohio, 1906, p. 151. 5 De Smet, from Madison Forks, Lettera del 15 agosto 1842, in Letters and sketches…,cit., p. 363. 13 Luana Salvarani con le tradizioni mitiche pellirossa6, una storia e geografia d’Europa e d’America inevitabilmente romanocentrica, alcuni elementi della white man’s medicine (ma spesso i missionari si piegavano alla superiore conoscenza indiana in termini di erbe officinali e riti di guarigione) e, naturalmente, il canto liturgico. Presto De Smet e Father Blanchet vennero affiancati da personale gesuita versato in queste discipline: Mr. Mengarini, recently from Rome, specially selected by the Father General himself for this mission, on account of his age, his virtues, his great facility for languages and his knowledge of medicine and music7. Il meccanismo di inculturazione comprendeva tecniche raffinate come la composizione di canti sacri, fondendo stili e patterns delle due tradizioni musicali, e anche adattamenti più feriali come la traduzione in lingua Blackfoot del canto Tu Scendi dalle Stelle, inflitto da Father Rappagliosi agli indiani della St. Peter’s Mission nel Montana, per celebrare il Natale 18758. Non è difficile vedere, nel forte gradiente rituale ed emotivo di questi metodi, l’eredità dell’estetica gesuitica cinque-secentesca e della sua vocazione per il teatro. La corrispondenza di De Smet è particolarmente 6 Il repertorio di spunti e temi più completo è ancora quello di Stith Thompson, Sunday School Stories among Savages, in «Texas Review», 3 (1917), 109-116. 7 De Smet, From the banks of the Platte river, 2 giugno 1841; in Letters and Sketches, p. 193. 8 Gerald McKevitt, SJ, Northwest indian evangelization by European Jesuits, 1841-1909, in «The Catholic Historical Review», 91 (2005), p. 700 («Mengarini wrote a funeral dirge by joining Christian concepts about death to a traditional Flathead lamentation for the departed [...] As early as 1845, Mengarini trained a small band of twelve Indian boys whose instruments included a clarinet, flute, two accordions, a tambourine, piccolo, cymbals, and a base-drum»). 14 Black Robes alla frontiera eloquente sul suo interesse per le pratiche missionarie ed educative dei primi Gesuiti, sulle sue costanti richieste per ricevere testi-guida dall’Europa e, più avanti, dei suoi scontri con i superiori per la sua insistenza nel voler riproporre tra le Montagne Rocciose il modello delle reducciones del Paraguay9. Il fallimento di De Smet, in tal senso, non è tanto da ricondursi all’ostilità dell’Ordine, quanto al fatto che la passione del missionario non andava all’aspetto economico dell’esperienza, bensì a quello culturale, rituale ed estetico. Il livre de poche del nostro missionario alla Frontiera non è un rendiconto storico delle reducciones (e neppure la stessa Bibbia – mai menzionata come oggetto fisico, nemmeno una volta, nel vasto corpus epistolare e autobiografico di Black Robe) bensì una narrative, una descrizione affabulatoria e mitica come Il Christianesimo Felice nelle Missione dei Padri della Compagnia di Jesu nel Paraguai di Ludovico Antonio Muratori: Nothing appeared to us [De Smet e Father Nicolas Point] more beautiful than the Narrative of Muratori. We had made it our Vade Mecum10. Il Vade Mecum dell’erudito modenese non aveva, evidentemente, per i due avventurosi gesuiti uno scopo di guida pratica e di istruzione tecnica, di cui certo non sentivano di avere bisogno. Era piuttosto nutrimento e linfa, in chiave immaginosa e oleografica, di quel sogno dei popoli indiani come nuova Cristianità incon9 Per un resoconto biografico completo, cfr. Robert C. Carriker, Father Peter John de Smet: Jesuit in the West, University of Oklahoma Press, 1998. 10 De Smet, From Camp of the Big-Face, Lettera del 1 settembre 1841, in Letters and sketches, p. 252. 15 Luana Salvarani taminata, come uomini più vicini all’innocenza originaria (e magari capaci di rinnovare il mito della philosophia perennis con un’immaginaria emigrazione dalla Palestina), immersi nell’Eden di una natura generosa e possente. L’esperienza e l’istinto dell’Ordine per la ritualità organizzata (i gesuiti italiani seppero riproporre agli Indiani anche alcuni riti religiosi siciliani, a loro volta derivati da festività pagane o arabe), sapeva sfruttare sapientemente in senso scenico questo ambiente naturale, con pergole e cupole di rami, ghirlande e corone di fronde e fiori, situando gli altari su collinette o sullo sfondo di cascate, o anche utilizzando con intelligenza la direzione del sole o i colori del tramonto: molti dei risultati, oltre che in descrizione, ci pervengono attraverso i bei disegni tracciati da Father Nicolas Point, compagno di avventure di De Smet, sebbene, anche in questo caso, sia evidente in certi disegni l’amplificazione immaginosa11. Ben noto è il talento di De Smet nel fondere oggettistica devozionale indiana e cattolica, suggerendo l’analogia tra il wampum e il rosario, e introducendo l’uso di intrecciare wampum di perline con scritte dedicate alla Vergine Maria12. Disposizione visiva, ritmo e vocalità servivano a ritualizzare e teatralizzare anche le inesorabili ripetizioni che costituivano la gran parte dell’istruzione catechistica. 11 Scarsamente verosimile, ma affascinante, la messa rappresentata in uno di questi disegni (“Worship in the Desert”) davanti a una folla di indiani ordinatamente assemblati a doppio semicerchio, circondati con abeti disposti esattamente “a colonnato del Bernini”. 12 Alcuni esempi di questi manufatti sono fotografati nel catalogo della mostra sul tema, curato da Jacqueline Peterson e Laura Lynn Peers: Sacred Encounters: Father De Smet and the Indians of the Rocky Mountain West, University of Oklahoma Press, 1993. 16 Black Robes alla frontiera After a long instruction on the most important truths of religion, I collected around me all the little children, with the young boys and girls; I chose two from among the latter, to whom I taught the Hail Mary, assigning to each one his own particular part; then seven for the Our Father; ten others for the Commandments, and twelve for the Apostles’ Creed. This method, which was my first trial of it, succeeded admirably. I repeated to each one his part until he knew it perfectly; I then made him repeat it five or six times. These little Indians, forming a triangle, resampled a choir of Angels, and recited their prayers, to the great astonishment and satisfaction of the savages. They continued in this manner morning and night, until one of the chiefs learned all the prayers, which he then repeated in public13. Vent’anni dopo, Father Gregorio Mengarini ricorda così una gara da lui organizzata di domande e risposte sul catechismo, in cui venivano valorizzate le doti di un popolo che, non utilizzando la scrittura, possedeva grande orecchio e facilità nel ripetere un discorso udito: attenzione, memoria e prontezza di spirito venivano allenati assieme alla competitività non finalizzata alla sopravvivenza, e alla capacità di rispettare il proprio turno e adeguarsi alle regole di un gioco verbale condiviso. I taught the children catechism by a method commonly followed in Rome. Catholic doctrine is summarized in several hundred questions and answers. Both questions and answers are committed to memory, and a public contest is announced. On the appointed day, all the competitors, none of whom must be over thirteen years of age, arrange themselves in two lines in the church. The first proposes a question to be answered by his opponent, and so all along the line, each in turn answering or proposing a question. Whoever misses, loses his chance for the prizes. 13 De Smet, From Madison Forks, Lettera del 15 agosto 1842, Letters and sketches, p. 364. 17 Luana Salvarani A mistake may be made in five ways: first, by failing to answer (this, however, seldom happened); secondly, by giving a question already proposed; thirdly, if such a question were proposed, by failing to say, “It has been already given”; fourthly, by saying “It has been given”, if it had not been given; fifthly, by saying “There are no more questions”, if there were more; or by failing to say “There are no more”, when all had been given. Only one that has seen such contest can realize its interest. I have seen the Indian boys as pale as their little bonze faces could become, and perspiring profusely, even in the depth of winter; while all around were gathered the parents and relatives of the children waiting anxiously to see who would be the victor. This was the case especially in the grand contest, when the winner was made a kind of little chief among his playmates. Superiority in the Sunday-afternoon contests was rewarded by a present of arrows14. Il modello gesuitico, in questo lungo processo di ricollocazione delle istituzioni innescatosi a metà Ottocento, continuava a godere di un prestigio indiscusso per la propria efficacia pastorale ed educativa su quelle popolazioni che rimanevano più estranee alla mentalità mainstream americana. I metodisti, seppur concentrati su altri settori alla lunga più efficaci, come l’istruzione professionale, non rimasero indifferenti a questo insegnamento. Negli anni Settanta dell’Ottocento, troviamo John Heyl Vincent, uno dei più talentuosi ed energici promotori delle Sunday Schools metodiste, intento a imitare – in un seminario per insegnanti a Lake Chutauqua, New York – le fastose drammatizzazioni en plein air praticate dai Gesuiti della frontiera fin dalle prime colonie: 14 Father Gregorio Mengarini, «Rocky Mountains (a memoir)», Woodstock Letters vol. 18, p. 34. 18 Black Robes alla frontiera On the shores of the lake, which to him represented the Mediterranean, he caused to be built a topographical map of Palestine, laid out to precise scale, complete with a water-filled and tadpole-infested declivity called the Dead Sea. For good measure, a man named A. O. Van Lennep was engaged to walk among the hills of Palestine, as ‘an Eastern shepherd in full Oriental costume’15. Vero è che la messinscena del Vincent, persa l’austerità programmatica dei primi pionieri, è permeata di quella disinvoltura, quell’umorismo anglosassone che renderà possibile, cent’anni dopo, l’epocale Jesus Christ Superstar16; mentre non v’è traccia del penchant, ancora barocco, per il magniloquente e il patetico che caratterizzava le drammatizzazioni gesuitiche; ma l’osmosi tra i due modelli è innegabile. La contaminazione tra i metodi delle Schools cattoliche e protestanti era peraltro possibile soprattutto nel senso qui esemplificato – l’assimilazione di modelli cattolici da parte dell’istituzione politicamente più forte. Scriveva Vincent, mentre infuriava la polemica cattolica contro le public schools imbevute di lowestcommon-denominator methodism: «All truth is divine. We may regard the teachers of natural science and mathematics in our public schools and academies as so many ambassadors of God to the soul of the child». Il mainstream metodista andava costruendo quello che 15 C. Ferguson, Organizing to beat the Devil: Methodists and the Making of America, New York Doubleday, 1971, p. 319; cit. in Vincent P. Lannie, The teaching of values in public, Sunday and Catholic Schools: an historical perspective, in «Religious education», 70:2, 1975, p. 115-137. 16 «Prove to me that you're no fool | Walk across my swimming pool! » canterà Erode, nei couplets memorabili di Tim Rice. 19 Luana Salvarani verrà detto il melting pot culturale e religioso americano con la sua potente forza assimilatrice. Le istituzioni cattoliche non potevano far altro che comportarsi da fortino assediato, ripetendo quella che era stata la tecnica gesuitica delle missioni del West: isolare dall’influsso della cultura “nazionale”, perniciosa mescolanza di tradizioni e culture, in grado di intaccare la purezza edenica essenziale dei selvaggi: soprattutto attraverso il suo più potente infusore, la lingua inglese. Flight from all contaminating influence; not only from the corruption of the age, but from what the gospel calls the world. […] We shall confine them to the knowledge of their own language, erect schools among them, and teach them reading, writing, arithmetic and singing17. Questo programma essenziale per la St. Mary’s Mission nelle Montagne Rocciose, tracciato da De Smet in una lettera al Provinciale del 1842, è tanto più interessante dal momento che è una delle pochissime, forse l’unica, occorrenza dei verbi read e write in tutta la sua corrispondenza. De Smet include lettura e scrittura quasi in automatico, in conformità a quella Grammatica da cui si iniziava da secoli l’alfabetizzazione in Europa, ma di fatto non troviamo alcuna traccia di ciò nei documenti riguardanti la sua pratica educativa. Del resto, la ben precisa scelta di confinare le conoscenze linguistiche degli Indiani a quella della propria lingua nativa rendeva piuttosto inutile l’alfabetizzazione, dal momento che ogni rapporto degli Indiani tra le varie tribù e con il mondo americano bianco era basato sulla parola data oralmente e sull’invio di messaggeri. 17 20 Letters and sketches…, cit., p. 296. Black Robes alla frontiera Possiamo supporre che venissero alfabetizzati, da parte cattolica, esclusivamente gli indiani che frequentavano le scuole stanziali di missione, come quella di Wallamette, dove le metodiche gesuitiche riuscirono – seppur per pochi decenni – a vincere la concorrenza schiacciante della locale missione metodista e di quella presbiteriana di Walla Walla. Ma per la maggioranza del lavoro di frontiera non c’è traccia di literacy, e le scuole di dottrina cattoliche continuano a passarsi, decennio dopo decennio, il Symbolical Cathechism e la semplice Catholic Ladder, puramente visiva, con cui De Smet proponeva i propri contenuti ai Flatheads. Rinunciare all’inglese, proteggere e mantenere le lingue d’origine delle diverse popolazioni nella loro educazione religiosa e di base, e quando la comunicazione non fosse possibile – come con le tribù indiane della frontiera – ricorrere alle metodiche dei primi Gesuiti: grandi tirate oratorie, preghiere di gruppo, ripetere, cantare, drammatizzare. Erano ancora, nel 1908 e in un contesto urbano, le proposte del Rev. James A Burns, futuro presidente dell’Università di Notre Dame, secondo il quale il cuore dell’educazione cattolica non sta nei contenuti, ma nella sua “religious atmosphere”: [...] the admission of only such pupils as belong to the religious faith which the school endeavors to foster and propagate; the placing of religious pictures and objects of piety in conspicuous places on the school walls; the use of religious songs, as well as common oral prayers and devotions [...]18. Di questa suggestione psicologica fanno parte, chiaramente, anche le tecniche di proiezione interiore e di immedesimazione ereditate dagli Esercizi Spirituali 18 Vincent P. Lannie, The teaching of values, op. cit., p. 131. 21 Luana Salvarani gesuiti, e trasformate in tre secoli di pratica quotidiana nell’Ordine in una sorta di Metodo Stanislavskij universale, adatto in scena come sul pulpito, nell’affrontare una difficoltà come nell’indurre una conversione. È il colore emotivo – irrimediabilmente, qui, scuro e penitenziale – dell’istruzione, prevalentemente mnemonica, proposta dal Feeney in The Catholic Sunday School: [...] he asks the child to fancy itself in the scene described or depicted, not as a looker on but as an agent or participator, and to think of the scene itself as a reality [...]19 che poi si completa, memorizzati i contenuti e creato l’humus psicologico per l’orrore del peccato e il desiderio della salvezza, con un training pratico destinato a rafforzare il senso di appartenenza del giovane cattolico alla propria comunità, e a fornirgli gli strumenti per perpetuare, anche inconsciamente, quella religious atmosphere a cui faceva appello il reverendo Burns: The following are some examples of the religious and moral training that may be practised in the Sunday School: Decorum on entering and leaving church; how to take Holy Water; reverence in the presence of the Most Holy Eucharist; how to pray; how to hear Mass; how to receive the Sacraments [...]20. Solo in coda all’elenco troviamo la terna comune con le Schools protestanti: courtesy and kindness, obedience, self-control. È facile immaginare quale utilità 19 Rev. Bernard Feeney, The Catholic Sunday School: some suggestions on its aim, work, and management, with introduction by most Rev. John Ireland, Archbishop of Saint Paul, Herder, Saint Louis, 1907, p. 71. 20 Ibid., p. 4. 22 Black Robes alla frontiera trovasse il ragazzino impegnato lungo la settimana nel duro lavoro del ranch, al porto o in fabbrica, in un training come “how to take Holy Water”, e quale entusiasmo potesse esercitare questo tipo di formazione nelle loro famiglie; quando le Schools presbiteriane e metodiste ormai da cinquant’anni fornivano moral training finalizzato alla vita economica e formazione professionale della miglior qualità21. Quel tipo di competizione, forse, non era mai stato nelle intenzioni degli educatori cattolici. Lo scopo delle schools cattoliche rimaneva quello di sempre: identitario, non pratico; e sempre attraverso la potenza suggestiva del rito. Love of prayer is the surest test of an efficient Sunday School, sottolinea poco dopo Feeney, specificando che altri risultati (ben più spendibili nel mondo della concorrenza economica) come organization, discipline, order, sono necessari ma non cruciali. Non è difficile intuire come precisazioni di questo tipo siano introdotte soprattutto a scopo distintivo rispetto agli scopi “utilitari” dell’educazione protestante americana. Portato al di fuori del contesto esotico ed auratico del West, senza le acconciature e gli abbigliamenti fastosi e colorati degli Indiani, questo metodo era destinato, inevitabilmente, a perdere un poco del proprio fascino. Nel classico prontuario The Catholic Sunday School di Bernard Feeney si avverte la difficoltà nel mantenere quel rito e quella suggestione, persa anche 21 Presso Westport (ora incorporata in Kansas City) dove nel 1841 De Smet sbarcò dal vapore con cui aveva risalito il Missouri, era aperta dal 1829, la scuola metodista del rev. Johnson, trasformata nel 1839 in industrial school per i ragazzi indiani, attiva fino al 1862. La stessa Westport era stata fondata come avamposto mercantile, pochi anni prima l’arrivo di De Smet, John Calvin McCoy, “the father of Kansas City”, figlio del rev. Isaac, pastore battista. 23 Luana Salvarani la pluralità di lingue e d’intonazioni dell’esperienza eterolinguistica della Frontiera, riportata l’esperienza della lezione in un inglese d’uso piuttosto anonimo e nella mestizia ambientale delle parish schools urbane e di villaggio. Non è tutta colpa del Feeney, se il suo manuale non riesce a trasmettere un’oncia del contagioso entusiasmo pedagogico che emana dalla sua controparte metodista, The Sunday School Teacher del reverendo Hamill. La difficoltà è nell’essenza stessa dei metodi dello schooling cattolico americano, in un momento di transizione storica per cui era fatalmente impreparato. Rimangono le strutture, le modalità di recitazione e di intonazione sperimentate alla frontiera; ci sono tracce evidenti non solo delle metodologie di insegnamento gesuita della Grammatica, ma anche, in versione semplificata, dei congegni e schemi mentali dell’epoca della Scolastica. Lo sforzo per occidentalizzare e standardizzare uno schooling nato nel West conduce, inevitabilmente, a un’ossessione mnemonica. Leggere e preleggere, spiegare e ripetere, recitare, chiedere e rispondere, non già per disputare – si tratta di formazione elementare – ma per imprimere nella memoria verità di fede che non si desidera passino attraverso lo strumento potenzialmente critico della lettura (il Catechismo di Baltimora, ammonisce Feeney, non è uno strumento per lo studio individuale, ed è meglio non possederne una copia scritta): The object of the division of the teaching work into Review, Recitation, and Explanation, is this. By a threefold repetition of the lesson, it is expected that a lasting impression of the truth taught will be made on the soul of the child. Hence, the lesson explained on Sunday is memorized within the week, recited the following Sunday, and, a week afterwards, reviewed by the teacher. 24 Black Robes alla frontiera Review. [...] It is to be made by questioning the whole class (not individuals), and the questions are to be put in such a form as to call for brief answers22. Nei consigli per la Review (e in altre sezioni del prontuario dove ci si occupa della formazione per i ragazzi più grandi) spicca un’indicazione che chiarisce tutta la distanza dall’impostazione didattica delle Schools metodiste. Questioning the whole class, not individuals: è un principio che il Feeney ripete con insistenza lungo tutto il trattato, mentre Hamill insisteva affinché le domande dovessero essere sempre individuali, calibrate secondo le capacità di ciascuno e distribuite a rotazione su tutta la classe, ma insistendo particolarmente sugli allievi più timidi, remissivi o di scarso ingegno, perché non venissero sopraffatti dai più brillanti o propositivi, in grado di accaparrarsi tutte le energie formative del maestro. È facile concludere che la proposta metodista sviluppava maggiormente il senso dell’iniziativa e della responsabilità individuale, e che ci risulta più “moderna”, molto più vicina alle odierne esigenze di una didattica che si vuole sempre più individualizzata. Ma è più interessante chiedersi perché Feeney tenesse tanto alla risposta “in coro” di tutta la classe. Per distruggere l’istinto critico e la tentazione di essere “fuori dal coro” del gregge lui affidato? Forse, più semplicemente, per accentuare la suggestione fonica, il mantra acustico, la seduzione rituale della recitazione del dogma. C’è dietro l’idea, già sostenuta trecento anni prima dal gesuita Antonio Possevino con pericolosi slittamenti nella magia e nella cabala ebraica, che la Parola ha efficacia taumaturgica in quanto suono, che è incantesi22 The Catholic Sunday School, cit., pp. 2 e 171. 25 Luana Salvarani mo e parola magica, e che capirla è meno necessario dell’intonarla: esattamente come la intonavano i giovani indiani, quando recitavano o cantavano una preghiera in latino o in inglese. Recitation. [...] The lesson must be memorized perfectly by every child in the class. Whether it be understood fully, or only in part, or not al all, it must be memorized. Word-meanings have not only to be brought home to the child’s understanding; they have also to be stamped on its memory. This is done by repetition. Let the teacher be instructed never to tire of repetition23. Su queste basi, il problema dell’alfabetizzazione, temuto strumento di corruzione capitalistica e assieme sfida fondamentale per ogni istituzione cattolica che volesse preparare i propri aderenti alla vita civile (e all’inclusione in una società che spesso li teneva ai margini), era in qualche modo eluso e, paradossalmente, abbandonato all’iniziativa della concorrenza e poi, sempre più, delle common schools federali. È interessante vedere come, alla fine del secolo e nel primo Novecento, i cattolici propongano sempre più il modello misto: alfabetizzazione e istruzione professionale nelle scuole pubbliche, formazione religiosa nella Sunday School cattolica, sebbene questo modello esponga inevitabilmente il giovane agli influssi della morale protestante di base. Certo l’atto del Congresso con cui, nel 1896, venivano annullati tutti i trasferimenti di denaro alle scuole confessionali (che peraltro li recuperavano dai fondi per la colonizzazione delle aree “depresse”) accelerò la migrazione, da un lato, dei giovani verso le common schools e, dall’altro, la radicalizzazione delle 23 26 Ibid., pp. 172 e 64. Black Robes alla frontiera istituzioni cattoliche nei propri modelli, demandando ad altri la responsabilità dell’istruzione di base; fatta eccezione, naturalmente, per il percorso formativo degli appartenenti all’élite cattolica, che potevano contare su High Schools cattoliche, Colleges e Università gesuitiche ormai in tutte le grandi città degli States. Il volume del Feeney è introdotto da una solenne, appassionata prefazione del vescovo John Ireland, protagonista della colonizzazione tra Minnesota e Iowa (era agente di diverse compagnie ferroviarie per l’organizzazione dei pionieri e la fondazione di villaggi operai) e strenuo difensore dell’educazione cattolica per tutti gli abitanti della frontiera, indiani e pionieri bianchi e immigrati. La storia dei tentativi e dei drammatici fallimenti di Ireland24 è indicativa delle difficoltà di conciliazione tra lo stile cattolico e le esigenze economiche di un’America in espansione, che Ireland cercava di comporre, sul modello anglosassone. Ma è soprattutto la testimonianza di un’irriducibilità culturale che avrebbe segnato il destino del catholic schooling in America, altrettanto e forse più dei provvedimenti governativi con cui vennero regolati, in una controversia lunga due secoli, i rapporti tra scuola pubblica, istruzione professionale e iniziative educative familiari o di comunità nelle diverse realtà territoriali degli Stati Uniti. Certo è che l’esaurirsi progressivo, col sistema delle riserve, del lavoro di frontiera dei Gesuiti nel West e del loro rapporto con gli indiani, tolse alla formazione cattolica elementare una sorgente d’ispirazione che aiutava gli operatori a mettere a punto un 24 Cfr. James P. Shannon, Catholic Boarding Schools on the Western Frontier, “Minnesota History”, XXXV (September 1956), 133-39. 27 Luana Salvarani proprio stile educativo. Uno storico gesuita tra i più attenti all’esperienza del Northwest, McKevitt, riassume così questo passaggio: With the founding of Gonzaga College in 1887 and the starting of Seattle College four years later, the Rocky Mountain missionaries committed themselves irrevocably to the white man25. Anche al di fuori delle missioni della più remota frontiera, il compromesso con l’uomo bianco – con le sue strutture e con il cosmopolitismo urbano, con un sistema produttivo e con tempi di vita inestricabilmente connessi alla morale protestante del patriottismo e del lavoro – avrebbe plasmato e gradualmente assimilato l’identità delle scuole di base cattoliche nei metodi e modelli consolidati del mainstream. E la storia dell’educazione cattolica andò verso il suo destino, quella di ricongiungersi alla vocazione gesuita dello schooling d’élite, destinato a forgiare cultura, abilità e prospettive politiche delle classi dirigenti americane. Riferimenti bibliografici Carriker R.C., Father Peter John de Smet: Jesuit in the West, University of Oklahoma Press, 1998. De Smet P.-J., Letters and sketches: with a narrative of a year’s residence among the Indian Tribes of the Rocky Mountains, M. Eithian, Philadelphia 1843; ristampa annotata a c. di Reuben Gold Thwaites, in Early Western Travels 1748-1846, vol. XXIX, Arthur H Clark Company, Cleveland, Ohio, 1906. De Smet P.-J., Oregon Missions and Travels Over the Rocky Mountains in 1845-1846, Edward Dunigan, New York, 1847. Feeney B., The Catholic Sunday School: some suggestions on its aim, work, and management, with introduction by most Rev. 25 28 G. Mc Kevitt, op. cit., p. 710. Black Robes alla frontiera John Ireland, Archbishop of Saint Paul, Herder, Saint Louis, 1907. Laveille E., Le P. De Smet (1801-1873), Dessain, Liège, 1913. McKevitt G., S.J., Northwest indian evangelization by European Jesuits, 1841-1909, in «The Catholic Historical Review», XCI (2005), 688-713. Peterson J. - L.L., Peers, Sacred Encounters: Father De Smet and the Indians of the Rocky Mountain West, University of Oklahoma Press, 1993. Ramsey J., Bible in Western Indian Myths, in «The Journal of American Folklore», XC, 358 (1977), pp. 442-454. Salvarani L., Sunday School Literature, Roma, Anicia, 2012. Shannon, James P., Catholic Boarding Schools on the Western Frontier, in «Minnesota History», XXXV (September 1956), 13339. Thompson S., Sunday School Stories among Savages, in «Texas Review», III (1917), 109-116. Woodstock Letters, collezione digitale a cura della Saint Louis University (Missouri), http://cdm.slu.edu/cdm/landingpage/collection/woodstock. 29 Disputa di Socrate con Aristippo sopra i piaceri e la temperanza. Mi pareva che tali cose dicendo eccitasse i suoi famigliari a praticare l'astinenza nel desiderio di mangiare e di bere, e nell'appetito de' piaceri venerei e del sonno, e ad esercitare la tolleranza del freddo, del caldo e della fatica. Ed avendo notizia d'un certo che riguardo a queste cose si conteneva con poca temperanza, dimmi, Aristippo, gli diceva: Se di due giovanetti che tu prendessi a educare, ti bisognasse uno istruirne per essere buono a comandare, l'altro per non essere desideroso mai del comando in che maniera educheresti tu ambedue? Vuoi tu che consideriamo questo punto principiando dal vitto, come da' primi elementi? [Senofonte, Dei Detti memorabili di Socrate, Libro II, capo I, trad. di Michel-Angelo Giacomelli pistoiese, Casa editrice M. Guigoni, 1876, con note e variazioni di A. Verri]. Educazione e divisione del lavoro in Émile Durkheim Emilio Lastrucci Università della Basilicata Dipartimento di Scienze Umane Via Nazario Sauro, 85 - 85100 Potenza [email protected] 1. Alla luce dei grandi rivolgimenti e dei salti evolutivi che hanno contrassegnato le vicende storiche dell’intero XX secolo, la teoria della divisione sociale del lavoro, e più in particolare della relazione che intercorre fra quest’ultima e l’educazione sviluppata da Émile Durkheim, a centoventi anni esatti dalla sua elaborazione rivela ancora una notevole attualità e mantiene un’indiscutibile valenza esplicativa e interpretativa. Allorché, infatti, la si analizzi in maniera approfondita e scevra da pregiudizi e pre-comprensioni di qualunque natura, attraverso una disamina che prescinda dalle curvature ideologiche di cui è stata oggetto nel corso delle diverse stagioni della storia politica del Novecento, e che potenzialmente potrebbe ancora assumere, l’impostazione di Durkheim può risultare oggetto di una comprensione rinnovata e corroborata da alcune chiavi di lettura che consentono di riconsiderare alcune tesi su cui essa si fonda in forma parzialmente originale, mediante il confronto con alcuni principi che costituiscono portati concettuali-ideali degli sviluppi più maturi EDUCAZIONE. Giornale di pedagogia critica, II, 2 (2013), pp. 31-54. ISSN 2280-7837 © 2013 Editoriale Anicia, Roma, Italia. Emilio Lastrucci dell’organizzazione democratica della società. Tale lettura rivela la sua efficacia specialmente se la si inquadra nella prospettiva di quella visione dinamico-evolutiva della democrazia che interpreta la funzione del governo della cosa pubblica (tanto nella dimensione del government quanto in quella della governance) in termini di controllo e di indirizzo del movimento evolutivo tramite l’elaborazione di strategie atte a promuovere spinte che orientino tale movimento in direzione progressiva, ossia di accrescimento del benessere generale e di ridistribuzione più equa di questo1. Il tema della funzione esercitata dai sistemi educativi ai fini della divisione del lavoro (che avrebbe comportato lo sviluppo di un’indagine nel merito della formazione delle diverse competenze e figure professionali richieste dal mercato del lavoro) non viene in realtà specificamente trattato da Durkheim in forma sistematica ed estesa in nessun luogo della sua opera, pur costituendo un asse problematico attorno al quale la sua riflessione ha orbitato a più riprese e che presumibilmente egli avrebbe successivamente affrontato più direttamente se fosse vissuto più a lungo. Per met1 Tale lettura, che può concorrere ad arricchire l’analisi critica dell’ampia e complessa opera di Durkheim, non contrasta con il riconoscimento di alcuni indiscutibili limiti che la sua teoria rivela e che sono stati posti in risalto da alcuni dei suoi più acuti interpreti: a prescindere dalle note critiche di J. Piaget, che interpretò la pedagogia di Durkheim in termini di una visione marcatamente autoritaria dell’educazione, in particolare morale (1972 [1932], p. 279 e sgg.), nonché dalle controdeduzioni a queste di T. Parsons (1968 [1937], p. 417 e sgg.), rivela un carattere indubbiamente incisivo la polemica sviluppata da S. Lukes, il quale rimprovera a Durkheim di interpretare l’educazione quale azione esercitata dalla società intesa complessivamente, e quindi in termini astratti e generici, piuttosto che come attività istituzionale funzionale agli interessi di gruppi dominanti o egemoni all’interno di essa (1975, p. 131 e sgg.). 32 Educazione e divisione del lavoro in Émile Durkheim tere a fuoco la sua specifica proposta teorica, pertanto, occorre necessariamente ricostruirla attraverso una disamina che ripercorra quasi esaustivamente l’evoluzione del suo pensiero. Si tratta di un compito quanto mai complesso e impegnativo, oltre che esposto al rischio di possibili forzature interpretative, nella misura in cui una siffatta analisi deve inevitabilmente misurarsi con alcune ineludibili difficoltà. La prima di queste è costituita dal fatto che la riflessione condotta dal pensatore loreno è codificata in larga parte non solo e non tanto nelle sue opere di carattere più organico, bensì, come noto, anche in alcuni corpora di scritti lasciati in eredità ai suoi esegeti, perlopiù sotto forma di articoli e contributi di minore respiro, nonché, soprattutto, di appunti di corsi universitari e abbozzi di lavori che Durkheim si era ripromesso di sviluppare e sistematizzare, ma che sono rimasti incompiuti e perciò collazionati, organizzati e pubblicati postumi, in particolare mediante il lavoro di sistematizzazione compiuto dai suoi due più stretti collaboratori, il nipote Marcel Mauss e l’allievo Paul Fauconnet. In ultima analisi, si può affermare che la riflessione di Durkheim è costantemente animata da un’esigenza di sistematicità, o almeno tendenzialmente vi aspira; essa è, per diversi rispetti, orientata più da un esprit de système che dall’esprit de finesse, e nondimeno egli non è potuto giungere alla edificazione di un sistema di pensiero compiuto, organico e del tutto coerente. Ciò è dovuto in primo luogo alla sua scomparsa piuttosto prematura, ma altresì al fatto che Durkheim ha, nel corso del tempo, spostato più volte l’asse del suo interesse su questioni di natura alquanto eterogenea – perlomeno in relazione al retroterra speculativo e alla temperie culturale dai quali esso germinava – quantunque fra loro più o meno strettamente intrecciate o da lui 33 Emilio Lastrucci stesso ricollegate, ora abbandonando quasi del tutto sentieri in precedenza percorsi, ora riprendendo temi già sviluppati, ma orientandoli in direzioni nuove, sulla base di ulteriori originali intuizioni, e riconsiderando, in forma più o meno dichiarata, tanto le assunzioni di fondo quanto talune conclusioni cui era in precedenza pervenuto. Un’ulteriore difficoltà è legata al fatto che, in gran parte in conseguenza delle circostanze appena richiamate, il pensiero di Durkheim è stato piegato ad una varietà decisamente ampia di interpretazioni: talora attraverso letture tese a chiarire aspetti controversi o ancora reconditi del suo pensiero, talora per attingervi nuove suggestioni; più sovente, infine, con intenti marcatamente polemici. 2. L’analisi condotta da Durkheim in La division du travail social2 – che, principale dissertazione per il conseguimento del dottorato, discussa e pubblicata nel 1893, rappresenta la prima opera organica redatta dal pensatore loreno – prende le mosse dal problema relativo alle conseguenze prodotte dalla crescente frammentazione specialistica delle mansioni in tutti i settori e comparti dell’attività produttiva, compreso quello agricolo, nella fase di maggiore slancio propulsivo della seconda rivoluzione industriale, nonché, e soprattutto, da una specializzazione delle professioni, una ripartizione di ruoli e funzioni negli apparati politico-amministrativi e giudiziari, una ramificazione settoriale della ricerca e una connessa articolazione dei saperi e delle discipline sempre più accentuate in ragione dello sviluppo industriale. 2 É. Durkheim, La division du travail social: étude sur l’organisation des sociétés supérieures, Paris, Alcan, 1893. 34 Educazione e divisione del lavoro in Émile Durkheim Durkheim affronta in questo lavoro un tema che, com’è noto, era balzato all’attenzione dei più autorevoli economisti e pensatori politici dei secoli XVIII e XIX, da A. Smith a J. S. Mill, a K. Marx, nonché dei massimi esponenti del movimento di idee positivista, A. Comte e H. Spencer, i quali ultimi rappresentano gli interlocutori e talora anche i bersagli polemici più diretti di Durkheim. Quest’ultimo, tuttavia – soprattutto al fine di pervenire alla conclusione che gli sta maggiormente a cuore –, inquadra la questione in una cornice molto più generale, avvalendosi degli sviluppi teorici della filosofia biologica a lui più prossimi, in particolare della concezione organicista: Les spéculations récentes de la philosophie biologique ont achevé de nous faire voir dans la division du travail un fait d’une généralité que les économistes, qui en parlèrent pour la première fois, n’avaient pas pu soupçonner. On sait, en effet, depuis les travaux de Wolff, de von Bauer, de Milne-Edwards, que la loi de la division du travail s’applique aux organismes comme aux sociétés; on a même pu dire qu’un organisme occupe une place d’autant plus élevée dans l’échelle animale que les fonctions y sont plus spécialisées3. Tale premessa permette a Durkheim di giungere immediatamente a stabilire quel corollario di natura filosofica, oltre che fondante per la sociologia scientifica, che costituisce il cardine concettuale e teoretico-ideale attorno a cui ruota interamente la sua specifica impostazione. Un pareil fait ne peut évidemment pas se produire sans affecter profondément notre constitution morale4. 3 É. Durkheim, La division …, cit., vers. Num. par J.M. Tremblay, p. 49. 4 Ibidem. 35 Emilio Lastrucci Come ha chiaramente posto in evidenza Giddens5, per comprendere efficacemente la tesi di Durkheim sul fondamento morale della divisione del lavoro, occorre considerarla nella contrapposizione con quella che costituisce il suo principale bersaglio critico, vale a dire l’interpretazione in chiave utilitarista di Spencer, nonché alla luce della necessità di superare e sviluppare la visione comtiana della relazione fra divisione del lavoro, solidarietà e coesione sociale, che rappresentano i tre perni concettuali di tutta la riflessione sviluppata da Durkheim nel suo primo lavoro sistematico. La tesi di Spencer si fonda essenzialmente sull’idea che la solidarietà trovi fondamento nel perseguimento degli interessi di ciascun individuo attraverso il libero scambio. Secondo Durkheim, invece, lo scambio che ha luogo in qualunque forma di contrattazione deve necessariamente inquadrarsi in una cornice morale e dunque la solidarietà, che inerisce a tale cornice, non può costituire un effetto dello scambio medesimo6. Per Spencer, infatti, la “solidarietà industriale” presenta due caratteri fondanti: quello della spontaneità, che rende superfluo un apparato coercitivo atto a produrla e a mantenerla, e quello della libera iniziativa, che permette a ciascuno l’auto-sostentamento, l’intrapresa economica, lo scambio, l’associazione etc., a prescindere da un’azione direttiva della società. Ora, per Spencer, la forma generale delle transazioni fra gli individui è il contratto. Tale forma diviene predominante nel passaggio dal militarismo all’industrialismo e assume carattere pressoché universale nella società industriale più matura. 5 6 36 Durkheim, ed. it., p. 19. É. Durkheim, La division …, cit., p. 72. Educazione e divisione del lavoro in Émile Durkheim Contract proper arises only when the work and the payment are voluntarily exchanged; and while, on the one hand, this can happened only when the parties to an agreement are independent, on the other hand when they are independent it must happen7. Per Spencer, l’intera vita sociale, infatti, è regolata da processi spontanei e inconsapevoli, sotto la pressione immediata di bisogni, e non già in accordo con un piano meditato e concertato fra i membri della società. Tale visione, sottolinea Durkheim, si lega all’insostenibilità della concezione classica del contratto sociale. Aussi bien la conception du contrat social est-elle aujourd’hui bien difficile à défendre, car elle est sans rapport avec les faits. L’observateur ne la rencontre, pour ainsi dire, pas sur son chemin. Non seulement il n’y a pas de sociétés qui aient une telle origine, mais il n’en est pas dont la structure présente la moindre trace d’une organisation contractuelle. Ce n’est donc ni un fait acquis à l’histoire, ni une tendance qui se dégage du développement historique8. Durkheim riprende qui la distinzione operata da A. Fouillée fra contratto e compressione9 e interpreta di conseguenza il contratto come qualunque forma di accordo o transazione che non dipenda da condizioni di “compressione” sociale. A ce compte, il n’y a pas de société, ni dans le présent ni dans le passé, qui ne soit ou qui n’ait été contractuelle; car il n’en est pas qui puisse subsister par le seul effet de la compression10. 7 H. Spencer, Principles of Sociology, Williams & Norgate, 1874-5, vol. III, p. 512. 8 Ibid., p. 184. A. Fouillée, Science sociale, Paris, 1880, p. 8. 10 É. Durkheim, La division…, cit., p. 184. 9 37 Emilio Lastrucci Durkheim confuta perciò l’idea di Spencer che il tessuto delle relazioni sociali nelle quali si esprime la solidarietà sia di natura economica. La teoria della divisione del lavoro sviluppata da Durkheim si impernia invece sulla funzione morale rivestita da quest’ultima11. Per quanto riguarda la concezione di Comte, Durkheim prende le distanze dal suo maestro riguardo all’idea, che egli ritiene legata inevitabilmente ad una visione conservatrice (e perciò largamente condivisa dai pensatori politici di questa tendenza), secondo cui la solidarietà sociale è garantita sostanzialmente da un consensus universel, e perciò da un grado molto elevato di condivisione delle norme morali, venendo a mancare il quale la coesione sociale tende pericolosamente ad indebolirsi, producendo quella grave condizione di instabilità sociale definibile come anomia. La destination sociale du gouvernement me paraît surtout consister à contenir suffisamment et à prévenir autant que possible cette fatale disposition à la dispersion fondamentale des idées, des sentiments et des intérêts, résultat inévitable du principe même du développement humain, et qui, si elle pouvait suivre sans obstacle son cours naturel, finirait inévitablement par arrêter la progression sociale sous tous les rapports importants. Cette conception constitue à mes yeux la première base positive et rationnelle de la théorie élémentaire et abstraite du gouvernement proprement dit, envisagé dans sa plus noble et plus entière extension scientifique, c’est-àdire comme caractérisé en général par l’universelle réaction nécessaire, d’abord spontanée et ensuite régularisée, de l’ensemble sur les parties. Il est clair, en effet, que le seul moyen réel d’empêcher une telle dispersion consiste à ériger cette indispensable réaction en une nouvelle fonction spéciale, susceptible d’intervenir convenablement dans l’accomplissement 11 38 Ibid., p. 185. Educazione e divisione del lavoro in Émile Durkheim habituel de toutes les diverses fonctions de l’économie sociale, pour y rappeler sans cesse la pensée de l’ensemble et le sentiment de la solidarité commune12. Sia la visione di Spencer sia quella di Comte risultano, secondo Durkheim, valide unicamente se riferite ad una forma di organizzazione della società di livello più rudimentale, nella quale la divisione del lavoro prevede un grado molto modesto di differenziazione dei ruoli. In questo tipo di società, basato sull’articolazione in nuclei familiari, gruppi clanici e comunità tribali, la coesione sociale è fondata su una forma più primitiva di solidarietà, che Durkheim denota come meccanica. Nelle società industrializzate, dove si sviluppa una sempre più elevata differenziazione dei ruoli, la coesione sociale, basata sulla cooperazione e il libero scambio, è assicurata invece da una forma di solidarietà che Durkheim definisce organica13. Il metodo che Durkheim utilizza, al fine di esaminare le due diverse forme di moralità che garantiscono i due tipi distinti di solidarietà, è quello di analizzare l’evoluzione dell’ordinamento giuridico dalle sue forme più primordiali fino alla forma più avanzata che si è venuta sviluppando, attraverso vari stadi, nell’epoca moderna. Tale scelta metodologica riposa sul presupposto che indagare i fatti morali in quanto tali comporti talune difficoltà che possono essere eluse analizzando invece il sistema delle leggi, le quali rappresentano essenzialmente, in ogni epoca e contesto determinati, la formalizzazione delle più rilevanti norme etiche condivise. Poiché i codici sono organizzati in genere in modo da prevedere per ogni norma una sanzione connessa 12 A. Comte, Cours de philosophie positive, Paris, Bachelier, 1839, IV, pp. 430-431. 13 É. Durkheim, La division…,cit., L. I, cap. III. 39 Emilio Lastrucci e proporzionata alla gravità della sua violazione (ciò che discende dal carattere vincolante del principio morale sotteso alla norma giuridica), il migliore approccio ad una classificazione dei sistemi giuridici è, secondo Durkheim, quello che si basa sulla considerazione delle sanzioni previste in relazione alla trasgressione delle norme. Seguendo questa impostazione, egli perviene a definire una classificazione entro la quale si possono distinguere due tipi fondamentali di sanzioni, a cui corrispondono due forme essenzialmente distinte di diritto: quelle repressive e quelle restitutive. Le prime sono caratteristiche del diritto penale e consistono essenzialmente nell’infliggere una pena al trasgressore, come la limitazione della libertà per un periodo più o meno lungo o addirittura la morte. Le seconde sono invece legate prevalentemente al diritto civile e commerciale, e mirano a ristabilire lo stato di cose precedente la violazione. Si risolvono dunque con una qualche forma di riparazione, anziché con la pena, la quale assolve, secondo Durkheim, almeno originariamente, la funzione di pacificazione della coscienza morale collettiva che è stata offesa da colui che ha compiuto il reato. Durkheim non concorda infatti con l’interpretazione secondo cui l’irrogazione della pena svolga funzione di deterrente; essa origina piuttosto dalla condizione emotiva generata nella collettività dalla violazione di principi e valori radicati14. L’esistenza del diritto penale mostra dunque per Durkheim quella di una conscience collective, che perciò tenderà a risultare tanto più solida quanto più in una società il diritto repressivo prevalga su quello restituivo. Ciò avviene essenzialmente nelle società a solidarietà meccanica, nelle quali i principi morali fonda14 40 Ibid., L. I, cap. I, III. Educazione e divisione del lavoro in Émile Durkheim mentali sottesi al diritto penale hanno origine eminentemente religiosa, mentre nelle società a solidarietà organica essi si svincolano da tale originario legame e acquisiscono carattere laico15. Per conferire maggiore forza esplicativa a tale schema interpretativo, Durkheim utilizza diffusamente la metafora di natura biologico-evoluzionista. Seguendo tale approccio, egli stabilisce che le società più primitive, e quindi più semplici, corrispondono a quelle forme viventi nelle quali le cellule sono scarsamente specializzate e quindi differenziate, organizzandosi in aggregati. In questo tipo di società non sussistono legami di reciproca dipendenza fra i suoi membri: i legami fra le parti sono di natura meccanica piuttosto che organica, come avviene invece in un organismo vivente evoluto. Lo stadio immediatamente successivo è quello che corrisponde ad una società organizzata in segmenti, rappresentati dai gruppi di parentela allargati (clan). In queste due forme meno evolute di organizzazione sociale, la conscience collective domina la coscienza individuale e vige una forma primitiva di comunismo, in quanto non sussistono ancora le condizioni per suddividere la proprietà e garantire agli individui il possesso stabile di beni. In tale tipo di organizzazione, la coesione sociale assume la forma della solidarietà meccanica. La solidarietà organica si afferma su quella meccanica solamente nello stadio più evoluto, allorché il sistema produttivo si organizza in una forma che rende necessaria un’alta differenziazione specialistica, soprattutto attraverso l’industrializzazione: in questo tipo di società tutti gli individui sono legati da relazioni di interdipendenza, ma nel medesimo tempo 15 Ibid., L. I, cap. V, V. 41 Emilio Lastrucci la coscienza individuale si affranca gradualmente da quella collettiva16. Durkheim si interroga a questo punto sul meccanismo che spiega la tendenza all’aumento della complessità dell’organismo sociale attraverso la progressiva differenziazione delle occupazioni, in accordo con il principio che era già stato chiaramente enunciato da Comte: C’est … la répartition continue des différents travaux humains qui constitue principalement la solidarité sociale et qui devient la cause élémentaire de l’étendue et de la complication croissante de l’organisme social17. La spiegazione ricercata da Durkheim esclude un principio di natura teleologica, quale quello chiamato in causa dagli utilitaristi, secondo i quali la crescente differenziazione incrementa la condizione di felicità degli individui e, nello stesso tempo, massimizza la produttività. L’idea che l’espansione della differenziazione comporti un incremento della felicità è, secondo Durkheim, pienamente smentita sul piano empirico, in particolare dalla constatazione dell’aumento del tasso di suicidi nelle società a più elevato sviluppo industriale18. La spiegazione che egli avanza è legata invece ad un processo di natura morale, ossia al progressivo aumento di quella che egli definisce densità dinamica19. La division du travail progresse … d’autant plus qu’il y a plus d’individus qui sont suffisamment en contact pour pouvoir agir et réagir les uns sur les autres. Si nous convenons d’appeler densité dynamique ou morale ce rapprochement et le commerce actif qui en résulte, nous pourrons dire que les progrès de la division du travail 16 É. Durkheim, La division … L. I, cap. VI. A. Comte, Cours …, IV, p. 425. 18 É. Durkheim, La division …, L. II, cap. I, II. 19 Ibid., L. II, cap. II. 17 42 Educazione e divisione del lavoro in Émile Durkheim sont en raison directe de la densité morale ou dynamique de la société20. Ora, in La division du travail social Durkheim non tratta in forma esplicita la questione del rapporto fra educazione e divisione del lavoro. Nelle parti conclusive, nondimeno, egli sviluppa alcune riflessioni circa i problemi dell’uguaglianza e della giustizia sociale nella società industriale avanzata, alla luce dei meccanismi che regolano la divisione del lavoro e quindi, fondamentalmente, del principio della solidarietà organica. È anche in questo caso merito di Giddens aver posto in risalto come questa parte del pensiero di Durkheim sia stata quasi del tutto trascurata dai suoi commentatori, mentre si rivela come uno dei contributi più interessanti ed originali offerti dalla sua opera21. Una delle conclusioni del ragionamento di Durkheim è infatti costituita dall’affermazione che la solidarietà organica, per funzionare efficacemente, presuppone la rimozione delle forme di ingiustizia sociale dovute al censo, ossia alla trasmissione ereditaria della proprietà e dei privilegi aristocratici, e comunque acquisiti per nascita, che costituiscono quelle che egli indica come disuguaglianze esteriori. Essa presuppone invece, come necessarie, le disuguaglianze interne, ossia il fatto che i talenti e le capacità siano distribuite in misura sufficientemente disuguale da consentire un’articolazione adeguatamente specializzata delle professioni. Discutendo sulle forme di divisione del lavoro di carattere costrittivo, Durkheim evidenzia come questo tipo di organizzazione della società non permetta una vera solidarietà: 20 Ibid., L. II, p. 32. A. Giddens, Durkheim, trad. it., Bologna, Il Mulino, 1998, pp. 27-28. 21 43 Emilio Lastrucci Pour que la division du travail produise la solidarité, il ne suffit donc pas que chacun ait sa tâche, il faut encore que cette tâche lui convienne. (…) En effet, si l’institution des classes ou des castes donne parfois naissance à des tiraillements douloureux, au lieu de produire la solidarité, c’est que la distribution des fonctions sociales sur laquelle elle repose ne répond pas, ou plutôt ne répond plus à la distribution des talents naturels22. La solidarietà organica richiede dunque che si stabilisca un’armonia fra la differenziazione dei ruoli professionali e la distribuzione naturale delle attitudini, concetto nel quale Durkheim sembra chiaramente includere e quindi assimilare, ritenendoli evidentemente per loro natura congiunti, tanto l’elemento relativo alle capacità potenziali dell’individuo quanto quello connesso con la sua aspirazione ad un ruolo professionale che gli permetta di esercitarle. La solidarietà deve cioè stabilirsi en vertu de spontanéités purement internes, sans que rien vienne gêner les initiatives des individus. A cette condition, en effet, l’harmonie entre les natures individuelles et les fonctions sociales ne peut manquer de se produire, du moins dans la moyenne des cas. Car, si rien n’entrave ou ne favorise indûment les concurrents qui se disputent les tâches, il est inévitable que ceux-là seuls qui sont les plus aptes à chaque genre d’activité y parviennent. La seule cause qui détermine alors la manière dont le travail se divise est la diversité des capacités. Par la force des choses, le partage se fait donc dans le sens des aptitudes, puisqu’il n’y a pas de raison pour qu’il se fasse autrement. Ainsi se réalise de soi-même l’harmonie entre la constitution de chaque individu et sa condition23. La società giunta al pieno sviluppo della solidarietà organica implica perciò il sussistere di una sostan- 22 23 44 É. Durkheim, La division …, L. II-III, p. 120. Ibid., pp. 120-1. Educazione e divisione del lavoro in Émile Durkheim ziale giustizia sociale che permetta l’uguaglianza delle opportunità. La tâche des sociétés les plus avancées est donc, peut-on dire, une oeuvre de justice. (…) De même que l’idéal des sociétés inférieures était de créer ou de maintenir une vie commune aussi intense que possible, où l’individu vînt s’absorber, le nôtre est de mettre toujours plus d’équité dans nos rapports sociaux, afin d’assurer le libre déploiement de toutes les forces socialement utiles. (…) Il n’est pas de besoins mieux fondés que ces tendances, car elles sont une conséquence nécessaire des changements qui se sont faits dans la structure des sociétés. Parce que le type segmentaire s’efface et que le type organisé se développe, parce que la solidarité organique se substitue peu à peu à celle qui résulte des ressemblances, il est indispensable que les conditions extérieures se nivellent. L’harmonie des fonctions et, par suite l’existence, sont à ce prix24. 3. Neppure Giddens (che è sicuramente uno dei sociologi contemporanei che hanno indagato più approfonditamente ed estesamente l’opera di Durkheim quale fondatore della sociologia scientifica), tuttavia, coglie il nesso – da Durkheim appena adombrato – fra queste riflessioni conclusive del suo primo lavoro organico e quelle sviluppate in altre due componenti fondamentali della sua opera, vale a dire, quella pedagogica e quella politica. Per quel che riguarda la prima, già nelle pagine introduttive de La division Durkheim evidenzia come il fondamento morale della divisione del lavoro sia provato proprio dal mutamento degli ideali educativi fra l’epoca precedente e quella successiva allo sviluppo industriale, vale a dire dal passaggio fra la visione umanistica dell’uomo onnilaterale e le esigenze emergenti della specializzazione. 24 Ibid., p. 128 45 Emilio Lastrucci Sans doute, il semble bien que l’opinion penche de plus en plus à faire de la division du travail une règle impérative de conduite, à l’imposer comme un devoir. Ceux qui s’y dérobent ne sont pas, il est vrai, punis d’une peine précise, fixée par la loi, mais ils sont blâmés. Nous avons passé le temps où l’homme parfait nous paraissait être celui qui, sachant s’intéresser à tout sans s’attacher exclusivement à rien, capable de tout goûter et de tout comprendre, trouvait moyen de réunir et de condenser en lui ce qu’il y avait de plus exquis dans la civilisation. Aujourd’hui, cette culture générale, tant vantée jadis, ne nous fait plus l’effet que d’une discipline molle et relâchée25. E già in questo stesso luogo, subito dopo Durkheim pone in risalto, nel contempo, come l’educazione volta a formare le competenze specialistiche non debba rischiare di produrre una frammentazione eccessiva delle competenze – ciò che impedirebbe uno sviluppo armonico e completo delle personalità individuale – e vada perciò bilanciata da una formazione che miri a tale sviluppo e risulti pressoché identica per tutti. Richiamandosi in particolare alle critiche allo specialismo sviluppate da J.B. Say e rivolte palesemente ad Adam Smith, infatti, Durkheim sottolinea quanto triste possa apparire la condizione di chi debba limitare il proprio contributo al benessere sociale e l’espressione del proprio essere alla produzione della diciottesima parte di uno spillo, condizione che Say non considera limitata al solo lavoro manuale ripetitivo, tipico della 25 Ibidem, Introduction, pp. 49-50. Nella seconda edizione, del 1902, Durkheim aggiunse a questo passaggio una nota nella quale chiariva come esso fosse stato erroneamente interpretato come un rifiuto della cultura generale, mentre intendeva riferirsi esclusivamente all’ideale, ben identificato sul piano storico, dell’umanesimo, e la convinzione che la cultura generale vada invece promossa e sviluppata in misura equilibrata con quella specialistica risulta pienamente evidenziato da quanto sviluppato nelle pagine successive. 46 Educazione e divisione del lavoro in Émile Durkheim catena di montaggio, ma inerente altresì allo svolgimento di professioni liberali destinate a funzioni altamente specifiche26. La riflessione interrotta nelle conclusioni de La division, così come il riferimento alla funzione del sistema educativo, esplicitato ma non pienamente sviluppato nel suo primo lavoro, trovano una continuità e una trattazione più specifica nella voce Éducation redatta per il Noveau dictionnaire de pédagogie et d’instruction primaire curato da F. Buisson27, dove Durkheim definisce la funzione sociale dell’educazione. Il punto di partenza della riflessione condotta da Durkheim in questo scritto consiste nel riconoscimento della duplice funzione che i sistemi educativi devono assolvere in una determinata società: garantire un’istruzione differenziata in ragione dei diversi gruppi sociali distinti nei quali si articola la società medesima e, al contempo, la trasmissione di un sistema di valori e principi unitario e indifferenziato che deve essere condiviso indistintamente da tutti i membri della società, a prescindere dal ruolo sociale ricoperto da ciascuno. L’educazione, cioè, è per Durkheim ad un tempo unica e molteplice. Il est multiple. En effet, en un sens, on peut dire qu’il y a autant de sortes différentes d’éducation qu’il y a de milieux différents dans cette société. (...) Chaque profession, en effet, constitue un milieu sui generis qui réclame des aptitudes particulières et des connaissances spéciales, où règnent certaines idées, certains usages, de certaines manières de voir les choses; et comme l’enfant doit être préparé en vue de la fonction qu’il sera appelé à remplir, l’éducation, à partir d’un certain âge, 26 J.B. Say, Traité d’économie politique, Paris, 1803, I, cap. VIII; É. Durkheim, La division …, cit., p. 51. 27 Paris, Hachette, 1911, poi inserita nella raccolta curata da Fauconnet. 47 Emilio Lastrucci ne peut plus rester la même pour tous les sujets auxquels elle s’applique. C’est pourquoi nous la voyons, dans tous les pays civilisés, qui tend de plus en plus à se diversifier et à se spécialiser; et cette spécialisation devient tous les jours plus précoce. L’hétérogénéité qui se produit ainsi ne repose pas, comme celle dont nous constations tout à l’heure l’existence, sur d’injustes inégalités; mais elle n’est pas moindre28. Ma per quanto diversificati possano risultare gli indirizzi specializzati del sistema educativo, finalizzati a sviluppare talenti ed attitudini specifici per preparare ciascuno ad un ruolo professionale determinato, è comunque necessario, per Durkheim, che il medesimo sistema garantisca una base solida e consistente di formazione culturale e civile (che egli, in sintonia con Spencer, articola nei tre aspetti portanti dell’educazione fisica, intellettuale e morale) comune a tutti i cittadini. Mais, quelle que soit l’importance de ces éducations spéciales, elles ne sont pas toute l’éducation. On peut même dire qu’elles ne se suffisent pas à elles-mêmes; partout où on les observe, elles ne divergent les unes des autres qu’à partir d’un certain point en deçà duquel elles se confondent. Elles reposent toutes sur une base commune. Il n’y a pas de peuple où il n’existe un certain nombre d’idées, de sentiments et de pratiques que l’éducation doit inculquer à tous les enfants indistinctement, à quelque catégorie sociale qu’ils appartiennent29. Poiché ogni società, in ogni tempo esprime, secondo Durkheim, la necessità di conformare i suoi membri ad un proprio specifico ideale d’uomo, e l’educazione rappresenta l’istituzione mediante la quale le generazioni adulte esercitano un’azione su quelle non ancora pronte per la vita sociale, per realizzare tale scopo, nella 28 É. Durkheim, Éducation et sociologie, vers. num. par J.M. Tremblay, p. 8. 29 Ibid., pp. 8-9. 48 Educazione e divisione del lavoro in Émile Durkheim società a solidarietà organica tanto il fondamento unitario quanto le articolazioni specializzate del sistema educativo assumeranno una fisionomia funzionale alle esigenze di questo modello di società. Si la société est arrivée à ce degré de développement où les anciennes divisions en castes et en classes ne peuvent plus se maintenir, elle prescrira une éducation plus une à sa base. Si, au même moment, le travail est plus divisé, elle provoquera chez les enfants, sur un premier fonds d’idées et de sentiments communs, une plus riche diversité d’aptitudes professionnelles30. In questo passo, Durkheim istituisce perciò un collegamento evidente, quantunque non esplicito, con quanto sostenuto quasi un ventennio prima in La division du travail social. Qui, tuttavia, il termine aptitude sembra assumere una connotazione diversa da quella che aveva in quell’opera, dove veniva ad indicare, come si è visto, una disposizione o inclinazione costitutiva, e pertanto la forma di una condizione soggettiva naturale. In piena coerenza con quel principio di determinismo sociale che assume valore cardinale nella sua concezione, Durkheim riguarda qui anche le attitudini come un prodotto del formarsi dell’essere sociale piuttosto che quali datità intrinseche all’essere individuale (che le confinerebbe, quali oggetto di studio, alla psicologia piuttosto che alla scienza della società). Questo spostamento semantico-concettuale, che sollecita senza dubbio l’interesse ad analisi e riflessioni più approfondite, non modifica comunque nella sostanza lo svolgimento ulteriore del ragionamento sul tema specifico del quale ci stiamo occupando nel presente contributo. 30 Ibid., p. 9. 49 Emilio Lastrucci 4. Per comprendere appieno quale meccanismo debba idealmente regolare secondo Durkheim la divisione del lavoro nella società a solidarietà organica matura, occorre infine inquadrare sia la sua dottrina della divisione del lavoro sia la sua concezione dell’educazione quale strumento del processo di socializzazione all’interno della sua teoria politica. In tale luce appare chiaro come l’articolazione in gruppi sociali della società ideale delineata da Durkheim, che egli vede come una particolare e più avanzata forma di democrazia, non possa essere quella di una stratificazione in classi, bensì debba risultare il prodotto di una suddivisione in categorie di carattere, per dir così, orizzontale. Tali categorie sono definite in relazione ai diversi gruppi professionali, che trovano la loro forma organizzata nelle corporazioni. Queste rappresentano, secondo Durkheim, lo strumento atto ad assicurare la regolamentazione morale del sistema industriale, in concomitanza con la funzione esercitata dallo Stato, che attua il medesimo fine mediante il controllo sul piano dell’economia, nonché, peraltro, la gestione del sistema educativo e, per questa via, la tutela dei fondamenti etici della vita sociale e civile. Questo tema viene inizialmente sviluppato da Durkheim nel corso su «Saint-Simon e il socialismo» tenuto nel 1985-86 (e pubblicato postumo nel 1928) e poi ripreso nella Preface alla seconda edizione, del 1902, de La division (Quelques remarques sur les groupements professionnels), in quanto si trattava di «une idée, qui était restée dans la pénombre lors de la première édition, et qu’il nous paraît utile de dégager et de déterminer davantage, car elle éclairera certaines parties du présent travail et même de ceux que nous avons publiés depuis31». 31 50 É. Durkheim, La division …, 2a ed., 1902, p. 14. Educazione e divisione del lavoro in Émile Durkheim Durkheim è pienamente consapevole del fatto che la rivalutazione del ruolo che le corporazioni hanno esercitato storicamente, dalle polis al Medio Evo fino a prima della Rivoluzione Francese, può essere riguardato come un tentativo di involuzione conservatrice, essendo queste considerate tipicamente legate alla architettura sociale dell’ancien régime, ma tale idea si rivela fallace, per Durkheim, qualora si analizzi la funzione morale, piuttosto che quella economico-politica, che le corporazioni hanno assolto e potrebbero assolvere in prospettiva. Ce que nous voyons avant tout dans le groupe professionnel, c’est un pouvoir moral capable de contenir les égoïsmes individuels, d’entretenir dans le coeur des travailleurs un plus vif sentiment de leur solidarité commune, d’empêcher la loi du plus fort de s’appliquer aussi brutalement aux relations industrielles et commerciales32. Tale funzione morale può essere per il nostro Autore meglio compresa se si esaminano le profonde analogie che la corporazione e la famiglia rivelano quali istituzioni sociali. La famille ne doit … pas ses vertus à l’unité de descendance: c’est tout simplement un groupe d’individus qui se trouvent avoir été rapprochés les uns des autres, au sein de la société politique, par une communauté plus particulièrement étroite d’idées, de sentiments et d’intérêts. La consanguinité a pu faciliter cette concentration; car elle a naturellement pour effet d’incliner les consciences les unes vers les autres. Mais bien d’autres facteurs sont intervenus: le voisinage matériel, la solidarité des intérêts, le besoin de s’unir pour lutter contre un danger commun, ou simplement pour s’unir, ont été des causes autrement puissantes de rapprochement. Or, elles ne sont pas spéciales à la famille, mais elles se retrouvent, quoique sous 32 Ibid., p. 22. 51 Emilio Lastrucci d’autres formes, dans la corporation. Si donc le premier de ces groupes a joué un rôle si considérable dans l’histoire morale de l’humanité, pourquoi le second en serait-il incapable?33. In prospettiva, le corporazioni dovranno però assumere per Durkheim una fisionomia decisamente rinnovata rispetto a quella che presentavano nelle precedenti epoche storiche. Esse dovranno, da una parte, aprirsi all’orizzonte internazionale, sotto forma di associazioni di livello continentale o addirittura mondiale, poiché in tale direzione si va sviluppando la società industriale. Dall’altra, però, ogni corporazione, quale organizzazione unitaria, dovrà prevedere un’articolazione in organismi più settoriali, legati alle esigenze delle più specifiche realtà regionali e locali. Le corporazioni dovrebbero inoltre esercitare una vera e propria potestà legislativa e comunque decisionale nella regolamentazione e nel controllo dell’attività economica nei diversi settori e comparti ed in relazione alle diverse categorie professionali. Infatti, se tale prerogativa fosse affidata ai poteri centrali, sarebbe inevitabile che il controllo delle attività economiche e della vita individuale assumesse un carattere repressivo, mentre allo Stato spetta solo il compito di legiferare in merito alle norme generali che regolano il funzionamento del sistema economico-produttivo. Tale equilibrio fra le funzioni esercitate dalle due istituzioni portanti della società, lo Stato e le corporazioni, costituisce per Durkheim la garanzia fondamentale per il rispetto dei diritti e delle libertà individuali e collettive in una società democratica34. Il modello di sistema educativo delineato da Durkheim, quantunque la sua teoria vada opportunamente contestualizzata attraverso un preciso inquadramento 33 34 52 Ibid., p. 27. Ibidem, III. Cfr. inoltre Le socialisme…, cit., passim. Educazione e divisione del lavoro in Émile Durkheim nelle coordinate storico-culturali nelle quali trova sviluppo, in particolare in rapporto al processo di laicizzazione dello stato e del sistema dell’istruzione francesi nel periodo in questione (analisi che abbiamo qui, dato il respiro delimitato del presente contributo, appena abbozzato e che ci ripromettiamo di sviluppare più estesamente in un lavoro più ampio), prefigura senza dubbio, nei suoi principi portanti, la struttura che i sistemi educativi andranno consolidando nel contesto europeo comunitario esattamente un secolo più tardi. Tale modello prevede infatti un equilibrio ottimale fra una solida formazione culturale e intellettuale di base, uguale per tutti, ed una formazione specialistica sufficientemente perfezionata, attraverso l’opportuna differenziazione di canali formativi di pari dignità ed elevato prestigio, in modo da garantire a ogni cittadino la piena realizzazione di sé attraverso una attività professionale ben identificata e continuamente adeguata ed aggiornata in rapporto ai mutamenti del mercato del lavoro. Quest’ultima finalità, secondo il nostro Autore, non può essere assicurata in misura efficace unicamente dall’amministrazione pubblica. Richiede invece il concorso decisivo di libere entità associative che assumano il compito di promuovere la formazione di quegli elementi etico-deontologici che completano lo sviluppo della personalità di ogni cittadino/lavoratore. Oltre che, naturalmente, definire i profili di competenze continuamente mutevoli, e predisporre e gestire o co-gestire percorsi di formazione che garantiscano la massima qualificazione di ogni cittadino-lavoratore. 53 Emilio Lastrucci Riferimenti bibliografici Comte, A., Cours de philosophie positive, Paris, Bachelier, 1839. Durkheim, É., La division du travail social: étude sur l’organisation des sociétés supérieures, Paris, Alcan, 1893, 2a ed. 1902. Id., Éducation et sociologie, a cura di P. Fauconnet, Paris, 1922. Id., Le socialisme. Sa définition, ses débuts. La doctrine santsimonienne, Intr. de M. Mauss, Paris, Alcan, 1928. Fouillée, A., Science sociale, Paris, 1880. Giddens, A., Durkheim, London, Harper-Collins, 1978, trad. it., Bologna, Il Mulino, 1998. Lastrucci E., Formare il cittadino europeo, Roma, Anicia, 2012, cap. IV. Lukes, S., É. Durkheim: His Life and Work. A Historical and Critical Study, 2a ediz., London, Penguin Books, 1975. 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Uno fra i tanti strumenti pedagogici di cui dispone la Compagnia per plasmare l’allievo modello (vir catholicus dicendi peritus), fatto a immagine e somiglianza di Dio, e spazio educativo privilegiato in cui forgiare il buon gesuita. Il teatro gesuitico appare come un tramite visibile della disciplina corporis di tradizione cristiana che, in età moderna, esalta il controllo di anima e corpo. In questo senso, la pratica teatrale dei collegi riproduce una semiologia risalente all’ispirazione dell’Imitatio Christi e, più in generale, alla cultura della devotio moderna. E devozione, contemplazione, imitazione dei misteri di Cristo ne costituiscono i cardini, raccolti da Ignazio nei famosi Esercizi Spirituali. Questo articolo intende tracciare l’evoluzione dalla retorica alla teatralizzazione della parola avvenuta EDUCAZIONE. Giornale di pedagogia critica, II, 2 (2013), pp. 55-74. ISSN 2280-7837 © 2013 Editoriale Anicia, Roma, Italia. Maria Francesca D’Amante all’interno della pedagogia gesuitica, un movimento naturale che ha portato l’oratoria a farsi parola-azione. Come noto, il gesuita perfetto doveva essere in grado di coltivare ed esaltare le sue potenzialità comunicative. E per far ciò, era considerata indispensabile l’arte dell’eloquenza, un elemento peculiare del percorso formativo nelle scuole della Compagnia. Allo scopo, venivano stilate minuziose tecniche di disputatio ed era stabilito un modello di retorica metodica ed analitica ancorata all’antropologia e all’etica. Essa rappresentava una propedeutica allo sviluppo e all’uso di un discorso persuasivo capace di rispecchiare le intenzioni accentratrici dell’ordine e la volontà di formare uomini liberi, futuri protagonisti della vita politica. È così che, tra le necessità strategiche della formazione scolastica gesuitica presenti nella Ratio Studiorum, spicca l’importanza attribuita alla retorica quale strumento per raggiungere l’obiettivo principale della perfecta eloquentia1. La retorica, dice la Ratio, «nec utilitati solum servit, sed etiam ornatui indulget»2: giacché, oltre ad essere strumento di intelligenza e di abilità nelle dispute, essa presuppone ed esige un tipo di linguaggio ricercato ed elegante, fatto per una comunicazione aristocratica e persuasiva3. La parola che i maestri gesuiti volevano coltivare doveva perciò inserirsi in modo coerente nell’intero programma di militanza che essi andavano sviluppando, e per tale ragione pensarono ad una pedagogia della parola in grado di disciplinare il mezzo lin 1 Cfr. Ratio atque institutio studiorum Societatis Iesu, trad. e cura di A. Bianchi, Milano, Rizzoli, 2002, p. 112. 2 Ibidem. 3 Cfr. A. Battistini, «I manuali di retorica dei gesuiti», in G.P. Brizzi (a cura di), La “Ratio studiorum”. Modelli culturali e pratiche educative dei gesuiti in Italia tra Cinque e Seicento, Roma, Bulzoni, 1981, p. 78. 56 Teatro educativo dei primi gesuiti: dalla retorica alla drammatizzazione guistico e veicolare un preciso stile educativo. Con chiari valori etico-religiosi e con contenuti culturali di un particolare umanesimo4. Ad perfectam eloquentiam. Gli obiettivi didattici che i professori dovevano perseguire con il loro insegnamento erano la capacità dialettica, l’abilità oratoria, un pieno e sicuro possesso del medium linguistico5. Il perfetto allievo gesuita, sottoposto ad una rigorosa e capillare educazione retorica, doveva poter disporre delle più efficaci risorse argomentative del linguaggio e di un latino vivo e correttamente parlato. Nei seminaria nobilium l’allievo, oltre ad affrontare il duro tirocinio di grammatica, umanità e retorica, doveva prepararsi alla vita mondana6. Perciò vennero inserite attività parascolastiche e furono previste figure professionali aggiuntive (oltre ai professori in organico). Se la Ratio, nella sua asciutta formulazione, si limita a prescrivere la cornice precettistica in cui esperire ogni singola forma-azione, saranno le singole rationes, invece, a porre l’accento sull’importanza delle esercitazioni scolastiche tese a rafforzare gli insegnamenti impartiti all’interno dei corsi umanistici. Tra queste, un posto centrale veniva assegnato alla declamazione (la recita di collegio), che consisteva in un discorso retorico, eseguito in pubblico, di un brano o di un dialogo interpretato e trasformato in rappresentazione scenica. Nata come strumento di verifica della preparazione retorica degli studenti, essa venne poi inserita progressivamente, e a pieno ti 4 Cfr. P. Goujon, I tratti dell’umanesimo gesuitico, in «La Civiltà Cattolica», 2013, Quaderno 3909, pp. 238-249. 5 Cfr. A. Bianchi (a cura di), Ratio atque institutio studiorum Societatis Iesu, cit., pp. 42-43. 6 Per i seminaria nobilium, cfr. infra, n. 14. 57 Maria Francesca D’Amante tolo, nelle attività di Collegio come esercizio letterario carico di finalità oratorie. E, attraverso essa, si intendeva mettere in scena l’ideale dell’oratore antico, il famoso vir bonus dicendi peritus. L’insegnamento gesuitico era principalmente rivolto all’oralità, e fu proprio questa dimensione a dar vita ad una drammatizzazione pedagogica del temposcuola quotidiano. Perciò nella Ratio, ad esempio, l’obiettivo di una perfetta eloquenza fu perseguito anche organizzando le classi inferiori in due gruppi rivali (decurie) simulanti Romani e Cartaginesi. Nei corsi di umanità e retorica, gli studenti in ingresso padroneggiavano la lingua latina; la parlavano correttamente come una lingua viva, e la presenza delle esercitazioni orali indica la predilezione per la parola viva. Il che fa di questa scuola una scena di dialogo attivo e continuo in cui vengono allenati la memoria, la voce, il carattere, lo spirito, il gesto. La parola sta al centro dell’umanesimo gesuitico, e con essa viene perseguita una institutio oratoria basata su un ripetuto esercizio di dispute ed aemulatio classica. L’obiettivo era quello di insegnare ai futuri membri delle élites le regole severe di una elocutio che esaltava l’ornatus, l’inventio e la dispositio. L’offerta d’insegnamento si arricchiva dei più efficaci sussidi didattici e generava una dura palestra di esercitazioni, che curavano lo stylus e l’eruditio degli allievi. Questi dovevano imparare a disputare su qualsivoglia argomento partendo dallo studio e dall’apprendimento mnemonico dei classici latini e greci. Perciò nella Ratio si parla di diversi metodi utilizzati per questo fine: praecepta teorici fondati sull’imitatio; assimilazione mimesica del comportamento 58 Teatro educativo dei primi gesuiti: dalla retorica alla drammatizzazione verbale dell’autore; variatio del discorso in risposta alle condizioni specifiche della situazione dibattuta7. Tra le esercitazioni orali, era proprio la declamazione a consentire le migliori potenzialità drammatiche. E, quando i contenuti della recitazione iniziavano a dar spazio alla poesia e alla commedia antica, i confini della declamazione divenivano fluttuanti, fino a generare un movimento verso la teatralizzazione e seguendo la nota sequenza: disputatio-aemulatio-declamatio-ostentatio8. Il limite è segnato dal modo di recitare e dall’organizzazione del quadro di gioco. Le declamazioni venivano preparate per il Natale, per l’Epifania, per le feste dei Santi patroni e per l’Eucaristia9; e la declamazione confluì nell’arte scenica con molta naturalezza: un’evoluzione spontanea che portò gradualmente a parlare di declamationes scenicae. Così, anche se conservava in sé la sua singolarità, le differenze tra declamazione e teatro non emergevano tanto per una questione di natura, ma di grado. Infatti, come sostenevano i teorici dell’eloquenza, i padri N. Caussin, F. Lange e J. de Jouvancy, gesto e voce hanno in entrambi i casi una funzione simile e rispondono alle stesse esigenze di comunicazione10. Secondo questa concezione, il teatro non è che una transizione dalla disputa all’opera drammatica, e dove la dialettica è applicata alla letteratura. Così, declinando la retorica in drammaturgia, la pedagogia della parola dei gesuiti si serviva della forza del verbo per trasmettere i suoi valori. Dunque, un esercizio con funzioni educative e l’arte rappresentativa come strumento moralmente per 7 Cfr. G.P. Brizzi, La “Ratio studiorum”…, cit., pp. 80-82. Cfr. J.M. Valentin, Le théâtre des Jésuites dans les pays de langue allemande 1554-1680: salut des âmes et ordre des cités, Bern, P. Lang, 1978, p. 224. 9 Cfr. Ibid., p. 226. 10 Cfr. Ibid., p. 227. 8 59 Maria Francesca D’Amante suasivo. Qui la retorica e il teatro riflettono la disposizione naturale dell’uomo al linguaggio e al dialogo, ed entrambe condividono il principio aristotelico dell’uomo nato per la parola e per la parola in società11. La coerenza degli esercizi orali di collegio è tale che non vi è dualità di sistema né d’ispirazione, ma fusione di linguaggi, e le differenze riguardano le circostanze e i corollari tecnici. Così, declamazione e pièces nascono dalle stesse possibilità. Entrambe partecipano a riti di culto del verbo. Il teatro entrava nella scuola cristiana grazie a una paideia che, attraverso gli stessi obiettivi pedagogici, univa la religione, la retorica, la drammatizzazione. Secondo le Costituzioni, l’umanità dispone di tre sostegni essenziali: la teologia, la filosofia, la conoscenza letteraria. Questa poggia sulla grammatica, ma confluisce nella retorica; le arti e le scienze sono inconcepibili senza di essa, e nel sistema pedagogico gesuita la scelta delle esercitazioni è coronata dall’anno di retorica, madre di tutte le arti (nutrix omnium artium). La struttura culturale di questo sistema retorico era costituita dal modello di Quintiliano, la cui opera rappresentava una sintesi completa ed equilibrata della classicità. L’Institutio oratoria, le Partitiones oratoriae ciceroniane e la Rethorica ad Herennium costituivano i testi principali per la classe di retorica12. La retorica era uno strumento d’intelligenza e di abilità che richiedeva un linguaggio distinto ed elegante, fatto per una comunicazione aristocratica, persuasiva, eloquente. L’eloquenza veniva concepita come una 11 Cfr. M. Fumaroli, «Les jésuites et la pédagogie de la parole», in M. Chiabò, F. Doglio (a cura di), I Gesuiti e i primordi del teatro barocco in Europa, XVIII convegno internazionale - Centro Studi sul Teatro Medioevale e Rinascimentale, Roma, Torre d’Orfeo Editrice, 1995, p. 42. 12 Cfr. Ibid., p. 83. 60 Teatro educativo dei primi gesuiti: dalla retorica alla drammatizzazione disciplina dinamica che unisce gli uomini e li conduce insieme verso Dio, seguendo la traccia del verbo divino. La pratica retorica della Compagnia ha come oggetto primario il persuadere colui a cui ci si rivolge e il cui sviluppo si costruisce sulle prove (probationes). Con un movimento analogo, la pièce teatrale segue un percorso preciso: inizia con l’expositio, prosegue con la narratio, culmina nella confirmatio. In questo modo, grazie ad una struttura sillogistica, essa risulta simile ad una dimostrazione che fa apparire la giustezza o la falsità di un’opinione o di un comportamento legittimo13. Questo processo era funzionale al raggiungimento dell’obiettivo principale dei gesuiti: convertire l’altro e portarlo al loro punto di vista, ma attraverso un uso efficace del linguaggio. Dunque, per mezzo dell’energia di un discorso che esige una conoscenza approfondita delle passioni umane. Infatti l’oratore, ricorrendo a strumenti emozionali, raggiunge l’ethos e produce il pathos. Egli agisce davvero se fa riposare il suo lavoro sulle reazioni attese e codificate dal pubblico. È efficace se sa condurre, canalizzare, orientare l’altro attraverso l’arte delle passioni, la vera chiave di potere sugli spiriti, l’arma di una dolce ma reale e positiva tirannia. Le parole mostrano, illustrano, rinviano agli exempla. Il verbo, per esistere, deve incarnarsi. La capacità del retore è di conferire alle parole il potere di mettere sotto gli occhi del pubblico gli oggetti che stimolano l’attività intellettuale e di provocarne l’adesione. Il discorso diventa allora visibile. È un quadro per le orecchie. Le parole sono immagini e il loro assemblaggio una pittura parlante. Figurare, sostiene Jakob Masen, è donare una forma alla riproduzione grafica e al linguaggio. 13 Cfr. J.M. Valentin, Le théâtre des Jésuites…, cit. 61 Maria Francesca D’Amante Sulla base di questo stretto legame tra le varie forme di comunicazione umana è agevole pensare al rapporto tra retorica e teatro. In esso i gesuiti videro un potente mezzo per favorire nei collegi l’acquisizione delle qualità mondane che avrebbero rappresentato i tratti esteriori del loro prodotto educativo: abituarsi alla presenza di un uditorio; ricercare una forma adatta per esporre il pensiero di un autore; essere capaci di modulare la voce in modo opportuno; curare la gestualità14. Il teatro congiunge allora imago e verbum: attraverso una strategia comunicativa che, nel medesimo spazio-tempo, promuove ragione e immaginazione; agisce sulla memoria; la plasma e la incanala. Esso attiva nell’attore una meditazione interiore. Si incarna in una parola viva e attiva. Agisce sull’altro portando esempio. 2. Teatro ed eloquentia corporis Nei collegi dei gesuiti il teatro aveva, come finalità prioritaria, la formazione oratoria e il cambiamento interiore dei suoi attori, membri della medesima comunità cristiana e promotori di una parola in cui Cristo si è incarnato. Ed è il Verbo che persuade, combatte e agisce15. Il teatro doveva formare lo spirito degli studenti e modellarne l’atteggiamento. L’esercizio della rappresentazione serviva a migliorare la capacità oratoria e a coinvolgere le funzioni fisiche e psicologiche in un processo di continuo disciplinamento. In tal senso, esso funzionava come plasmatore di personalità: affi 14 Cfr. G.P. Brizzi, La formazione della classe dirigente nel Sei-Settecento. I ‘seminaria nobilium’ nell’Italia centro-settentrionale, Bologna, Il Mulino, 1976, p. 248. 15 Cfr. M. Fumaroli, op. cit., p. 48. 62 Teatro educativo dei primi gesuiti: dalla retorica alla drammatizzazione nava la sensibilità degli allievi, indirizzava il pensiero verso rotte ben delineate, favoriva l’interiorizzazione di valori e contenuti. Nell’ottobre del 1554, presso il Collegio Romano, gli atti solenni e pubblici per l’inaugurazione dell’anno accademico furono conclusi con un evento letterario: la declamazione, da parte dei migliori studenti di lettere, del poema De scientiarum honestate ac utilitate dialogus, dell’umanista Andrea des Freux. Può esser considerato, questo, il primo atto pubblico del Collegio, una prima che non rimase isolata16. L’anno successivo, infatti, dopo le solite dispute per l’inaugurazione dell’anno accademico, l’evento fu ripetuto. E ancora una volta con un dialogo del des Freux. S. Ignazio fece allora inviare il dialogo ad altri collegi della Compagnia e ordinò che si replicasse anche altrove quanto avveniva al Collegio Romano. Egli riteneva infatti che questi dialoghi rappresentassero un mezzo utile per illustrare il metodo pedagogico dei Gesuiti. E così, sempre nel 1555, per la festa degli Innocenti, venne rappresentato il dialogo in esametri De modo renascendi in Christo17 (sempre del des Freux). Furono questi i primordi del teatro gesuitico nel Collegio Romano. E così le declamazioni, insieme alle rappresentazioni di dialoghi, vennero inserite nel curricolo formativo dell’anno di umanità e di retorica. Non era tanto l’erudizione che contava, quanto piuttosto la 16 Cfr. R. García Villoslada, Storia del Collegio Romano, Roma, Pontificia Università Gregoriana, 1954, pp. 21-31. 17 Cfr. M. Fois, «La retorica nella pedagogia ignaziana» in M. Chiabò, F. Doglio (a cura di), I Gesuiti e i primordi del teatro barocco in Europa, cit., pp. 58-59. Sul teatro nei collegi dei gesuiti a Roma, cfr. C. Casalini, L. Salvarani, Roma 1566. I collegi gesuiti alle origini del teatro barocco, in «Educazione. Giornale di pedagogia critica», II (2013), n. 1, pp. 29-51. 63 Maria Francesca D’Amante preparazione alla vita privata e sociale, ragion per cui le forme di espressione, come l’arte di comunicare in società, dovevano essere insegnate prima e più di ogni altra cosa. Nel quadro di questa visione pedagogica, appare chiara la scelta di usare come strumento didattico ed educativo il teatro, onde perseguire la maturazione umana, intellettuale e religiosa degli studenti. Così voleva, del resto, la pedagogia ignaziana: “far fructo nele anime”18. La scena di forma-azione si fa momento fondamentale nella pedagogia della Compagnia a partire dal 1564, quando Diego de Ledesma, nel suo scritto De Ratione et Ordine Collegii Romani19, detta le prime norme per la rappresentazione scenica nel Collegio Romano. Questo evento inaugura una pratica che si affermerà poi in tutti i collegi gesuiti, e il teatro sarà adottato come strumento trasversale (e insieme centrale) del percorso educativo e morale dello studente. Per capire a fondo con quali dinamiche la realtà della drammatizzazione aderisse sensibilmente all’universo pedagogico generato dall’Ordine, sarà utile allargare brevemente la riflessione al contesto storico-artistico dell’epoca di riferimento, e accennare perciò alla dimensione socio-culturale di quei tempi, nutriti da molteplici tentativi di ri-nascita dei valori, delle certezze, del mondo. Nel lacerante contesto post-tridentino, venne profilandosi un orientamento culturale che muoveva le forze intellettuali e politiche al rinvenimento di una rinvigorita cultura cristiana. Priorità assoluta, per la Chiesa, era quella di riconquistare e consolidare il millenario 18 Cfr. M. Fois, L’insegnamento delle lettere al Collegio Romano, AHP, 29 (1991), pp. 58-60. 19 D. de Ledesma, De Ratione et Ordine Studiorum Collegii Romani in M.P.S.I., a cura di L. Lukacs, II, Roma, Institutum Historicum Societatis Iesu, 1974. 64 Teatro educativo dei primi gesuiti: dalla retorica alla drammatizzazione ruolo di egemonia del cattolicesimo romano. E così, il potenziamento delle istituzioni ecclesiastiche fu posto al centro degli interessi del Concilio di Trento, nel tentativo di porre un argine alla lacerazione seguita alla Professio fidei. La Compagnia di Gesù sposò gli obiettivi tridentini e tradusse la sua adesione come opera di evangelizzazione tramite l’educazione e la formazione di veri e propri milites Christi. Col tempo, però, l’atteggiamento di pura resistenza alla Riforma si affievolì, e si modificò il percorso di formazione proposto nei collegi. L’obiettivo divenne allora quello di preparare l’allievo a saper vivere nel mondo. Perciò si offrì un insegnamento alto nelle discipline che lo avrebbero reso socialmente idoneo alla vita mondana. «Nel teatro di collegio tardocinquecentesco, in particolare, – scrive L. Salvarani – si riflette la fase più innovativa e sperimentale della pedagogia gesuita, che si trovava a concorrere con la cultura delle corti europee e a proporre alternative in gran parte affidate alla libera iniziativa, all’estro e alla sottigliezza dei singoli docenti e rettori, molto prima che lo sforzo normalizzante di Claudio Acquaviva traghettasse il tutto verso lo spirito di sistema della Ratio studiorum. Di questa fase sperimentale, il momento della scrittura, dell’elaborazione e della messinscena teatrale è quello che più riesce ad elaborare un linguaggio proprio, ricco di conseguenze sulla messa a punto della grande scena barocca […] ma soprattutto capace di imporsi come lessico intellettuale della classe dirigente europea del tempo»20. 20 L. Salvarani, Venegas e gli altri. Il teatro nella prassi pedagogica gesuita del Cinquecento, in «Educazione. Giornale di pedagogia critica», I (2012), n. 1, Roma, Anicia, p. 53. 65 Maria Francesca D’Amante Tra le attività parascolastiche, il teatro era ritenuto un vettore privilegiato e di quasi diretta espressione e relazione col mondo. Esso è immagine, verbo, parola proferita. E di ciò i gesuiti si resero presto conto. Il logocentrismo della pedagogia gesuitica si sposava perfettamente con questo medium artistico. Il teatro divenne un tramite visibile della disciplina corporis cristiana: la pratica teatrale attivava nell’attore dilettante l’interiorizzazione psicologica del personaggio e una meditazione interiore; si incarnava in una parola viva e attiva che agiva sull’altro e portava il suo esempio. I maestri gesuiti avevano individuato nel teatro una “scuola di virtù”21, uno spazio reale e non virtuale in cui realizzare una messa in scena edificante e virtuosa. Vedevano in esso una funzione etica che aveva come obiettivo principale quello di far avvicinare il ragazzo, tramite l’emulazione, a precisi stati d’animo e a condizioni umane di santi o di uomini umili e fedeli. La retorica, puro strumento d’incanto verbale, correva libera alla ricerca dell’imitazione, di un’immaginazione sfrenata e tradotta rigorosamente in lingua latina ad usum exercitationis, giacché il teatro era anzitutto momento didattico che si serviva di un pubblico vero e proprio solo in funzione dei suoi obiettivi formativi. L’attività teatrale di carattere formativo nei collegi gesuiti, per quanto rappresentasse un momento di incontro tra scuola e società, consisteva in esercitazioni di tipo didattico ed apologetico. Erano svolte dagli alunni 21 Prendo in prestito la locuzione da G. Zanlonghi, cfr. Id., Il teatro nella pedagogia gesuitica: una “scuola di virtù”, in I Gesuiti e la Ratio Studiorum, a cura di M. Hinz, R. Righi, D. Zardin, Roma, Bulzoni, 2004, pp. 159-190. La studiosa segue una pista di ricerca diversa da quella che si è deciso di percorrere in queste pagine, giacché si concentra sulla dimensione contenutistica del teatro di collegio e analizza le opere e i testi usati per le drammatizzazioni in collegio. 66 Teatro educativo dei primi gesuiti: dalla retorica alla drammatizzazione e tendevano a coinvolgere lo spettatore in una relazione edificante. Esso costituiva un momento importante di crescita per il ragazzo. La pratica teatrale corrispondeva alla messa in scena e alla celebrazione pubblica dello stesso sistema scolastico. La rappresentazione teatrale assumeva tutta l’importanza del saggio, con la funzione di valutare il lavoro finale degli studenti: non sulla base dell’approvazione e del diletto del pubblico, ma sulla dimostrazione dell’apprendimento delle abilità sceniche dell’allievo. La natura pedagogica del teatro di collegio pone dunque al centro il processo di apprendimento, così che il processo interiore dell’allievo-attore precede l’impatto sullo spettatore e dà vita alla esigenza tipicamente gesuitica di codificare una specifica actio scenica. Di qui il fiorire di una abbondante trattatistica gesuitica intorno alla perfetta formazione dell’attore22. Ed emerge chiaramente, in tali trattati, la finalità del teatro educativo: plasmare la figura del perfetto oratore cristiano efficace nel divulgare la cultura cristiana post-tridentina. Allo scopo, offrirà un contributo rilevante un ricco programma di matrice umanistica, inteso a preparare il futuro portavoce di Dio. Che sarà comunicatore provetto e ben attrezzato nell’affrontare la vita sociale. È l’umanesimo di formazione23, basato sull’azione prioritaria della parola: verborum cognitio prior, rerum cognitio potior. Al centro del programma umanistico è sempre la retorica, l’arte della persuasione e del convincimento, la capacità di far sposare all’ascoltatore quel tipo di lo 22 Cfr. B. Filippi, Il teatro dei Gesuiti a Roma nel XVII secolo, in «Teatro e storia», IX (1994), p. 94. 23 Efficace, in proposito, l’esposizione di F. de Dainville in Id., La naissance de l’humanisme moderne, Paris, Beauchesne, 1940. 67 Maria Francesca D’Amante gica proposta, come dice Charmot,24 l’arte di far credere a una logica. Queste sottili abilità presupponevano un meticoloso studio dell’universo umano, delle emozioni e delle dinamiche psicologiche. Qui si scorge la puntuale aderenza della retorica al teatro, e viceversa. Il buon oratore s’incarna nel bravo attore, purché egli sia capace di emulare una condizione umana esemplare attraverso l’uso magistrale delle tecniche psico-fisiche proprie della recitazione. E così, la classe di retorica veniva trasformata in un luogo scenico in cui mettere in gioco le pratiche dell’arte della comunicazione e del convincimento. Il proiettarsi verso un interlocutore e l’immedesimarsi in un altro sé richiedevano un lavoro su se stessi molto tecnico: basato sull’autocontrollo dell’anima e del corpo, sull’educazione della gestualità, su una forma quasi ascetica di elevazione spirituale, in osservanza del modello offerto dagli Esercizi di Ignazio. Un teatro che prepari all’azione della Grazia, «scartando ciò che l’ostacola e stimolando le proprie forze spirituali»25 e che abbia tutte le caratteristiche degli esercizi spirituali, presuppone uno stato dell’anima analogo a quello di chi compie un’esperienza di devozione. In proposito, Charmot definisce l’arte del teatro come l’art du sentir26, visto che una buona emulazione può essere esperita soltanto se l’attore è in grado di accostarsi al mondo interiore del soggetto rappresentato. Ne assorbe allora sensorialmente gli stati d’a 24 Cfr. P. Charmot, La pédagogie des jésuites, Paris, Aux Edition Spes, 1943, p. 276. 25 Questo è uno degli obbiettivi perseguiti da Sant’Ignazio attraverso i suoi esercizi: preparare e disporre l’anima a togliere da sé tutte le affezioni disordinate e, in seguito, trovare la volontà divina nell’organizzazione della propria vita: I. di Loyola, Esercizi spirituali, Roma, Città Nuova, 2013, p. 64. 26 Cfr. P. Charmot, op. cit., p. 267. 68 Teatro educativo dei primi gesuiti: dalla retorica alla drammatizzazione nimo e li elabora razionalmente e spiritualmente in un risultato visibile. Così arriva all’altro e comunica un significato ben preciso. L’obiettivo era chiaro: ottenere il consensus gentium per mezzo dell’uso retorico di una ricca fenomenologia teatrale. Grazie all’illusione scenica, la vita si formalizzava in spettacolo, fino ad arrivare ad un limite impercettibile tra arte e realtà, passato e presente, pubblico e privato. La prima rappresentazione venne allestita nel collegio di Coimbra,27 in occasione della cerimonia di consegna dei premi agli alunni migliori. Tale manifestazione coincideva con il termine dell’anno scolastico, e da allora, per disposizione del padre Perpinyà, un simile evento si sarebbe ripetuto ogni anno. Così lo spettacolo messo in scena dagli studenti avrebbe dato dimostrazione pubblica dei risultati da loro raggiunti28. Da esercitazione scolastica a carattere didattico, e dunque da possibilità per gli allievi di mettere in mostra i precetti di retorica studiati a strumento di formazione sociale per l’intera comunità, il teatro gesuitico travalicò i limiti di uno spettacolo teso solo a diffondere idee. Il teatro dei Gesuiti fu molto attento ai bisogni pedagogici degli allievi, come pure alle sollecitazioni morali, politiche, religiose e spirituali degli adulti. Dunque, un teatro per educare e per istruire. Ma anche un teatro per sedurre. L’obiettivo primario era infatti quello d’incanalare l’umanità verso Dio, verso il Bene. E, grazie ad esso, i gesuiti poterono intessere in modo ancora più vivo e fruttuoso i rapporti con la società laica. 27 Per la storia del collegio di Coimbra, cfr. C. Casalini, Aristotele a Coimbra. Il Cursus Conimbricensis e l’educazione nel Collegium Artium, Roma, Anicia, 2012. 28 P. Perpiniano, Opere, Roma, vol. IV, p. 161. 69 Maria Francesca D’Amante Intorno al 1560, molte delle esperienze teatrali e drammaturgiche dei collegi della Compagnia tendono a confluire all’interno del Collegio Romano, in una sorta di officina teatrale e drammaturgica che dava spazio alla nascita e alla formalizzazione di un dramma sacro. Nuovo nella concezione retorica, ma anche nelle tecniche coreografiche e di messa in scena. Fu il Collegio Romano ad istituzionalizzare la pratica educativa legata al teatro. Nel 1564 venne allestito uno spettacolo solenne con la recita di un dramma sacro che aveva come argomento il culto divino. L’approvazione di questa nuova attività da parte delle autorità ecclesiastiche, che controllavano l’organizzazione interna ai collegi e l’offerta formativa, conobbe un graduale percorso d’inserimento e una lunga fase d’incubazione. Legata, questa, ad un iniziale scetticismo nei confronti del teatro, potenzialmente pericoloso e dunque da proteggere da eventuali contaminazioni di carattere profano. Nel Collegio Romano si raccomandò inizialmente di allestire opere sceniche solo raramente e mai nelle chiese; di adottare solo la lingua latina; di sottoporre i testi al parere del Padre provinciale e di mantenere separato l’allestimento teatrale dalle pratiche liturgiche, non usando oggetti sacri29. La primitiva diffidenza nei confronti del teatro quale strumento educativo venne dunque ben presto superata, e la continua proliferazione dei collegi sarà accompagnata anche dalla nascita di spazi interni dedicati alle rappresentazioni drammatiche. Si dava inizio così ad una solida tradizione, e la Ratio Studiorum (1599) riconoscerà la continuità della pratica pedagogica e dei giochi drammatici. La regione disciplinare del teatro si 29 70 Cfr. P. Charmot, op. cit., pp. 258-260. Teatro educativo dei primi gesuiti: dalla retorica alla drammatizzazione farà allora spazio all’interno dell’intera realtà pedagogica della Controriforma: le rappresentazioni saranno allestite in luoghi deputati esclusivamente ad esse e si seguirà un preciso calendario (ricorrenze sacre e festività come il Carnevale e l’Epifania). Roma venne a rappresentare la culla del teatro gesuitico. Qui venivano stilati metodi, teorie e forme teatrali esportati poi dall’Ordine in Francia, Germania e Spagna, dove il teatro gesuitico era già molto diffuso30. Il primo periodo fu quello delle rappresentazioni di semplici fabulae eruditae, un momento in cui la principale intenzione era quella di creare un legame tra sacralità e tragedia classica. L’orientamento del dibattito post-tridentino sull’eloquenza fu segnato invece dall’attività dell’umanista francese Muret, che proponeva la retorica e la disciplina del modus oratorius classico come uno dei più sicuri principi della riconciliazione tra erudizione sacra e profana, tra umanesimo e ortodossia romana. Ma sarà il Collegio Romano ad ereditare il pensiero di Muret e a svilupparlo fu un suo allievo, Francesco Benci, che, dal 1586 al 1589, vi insegnò retorica31. Dal 1592 al 1602 veniva incaricato come insegnante di retorica un allievo del Benci, Bernardino Stefonio, definito anche l’ideatore della tragedia cristiana, che nella sua produzione drammaturgica realizzò una perfetta sintesi tra tradizione classica profana e fonti cristiane: il Crispus e la Flavia, opere ambientate nella Roma tardo-medievale, rimarranno emblemi del repertorio drammatico dei gesuiti. 30 Cfr. G. Gnerghi, Il teatro gesuitico ne’ suoi primordi a Roma, Roma, Officina Poligrafica, 1907, p. 8. 31 Cfr. C. Casalini, L. Salvarani, Roma 1566. I collegi gesuiti alle origini del teatro barocco, cit., p. 32 e sgg. 71 Maria Francesca D’Amante Nel progetto di formazione alla retorica si perseguiva l’unitarietà della persona, e dunque una visione olistica in cui intelletto e passione, ragione ed emozione interagissero secondo la visione dell’uomo ispirata all’antropologia filosofica aristotelica. La retorica è strettamente legata all’imago quale medium conoscitivo fra il pensiero e la realtà, grazie alla sua funzione speculare rispetto alla realtà in cui trovano espressione la mente e la parola. Il verbum mentis umano può incarnarsi nuovamente in un id quo sensibile. Dunque, il legame tra immagine e retorica si trova nell’atto creatore che questa compie quando crea una parola eloquente agendo sulla componente sensibile dell’id quo, una parola visiva che fa leva sui processi analogici ed immaginativi32. La conoscenza umana cerca di adeguarsi alla realtà e di aderire il più possibile alla res attraverso il verbum. È qui che la retorica dimostra il suo essere uno strumento moralmente ambiguo, in quanto può connettere la ragione sia alla verità che alla menzogna. Il teatro gesuitico nasce per esaltare i valori e la forza di un’istituzione pedagogica che voleva formare l’oratore cristiano e cerca di applicare, nella formazione dell’attore, la stessa disciplina che accompagna e corregge l’esercitante che segue con rigore e fiducia un percorso per avvicinarsi a Dio e al bene con autocontrollo, disciplina e devozione. Gli albori del teatro al Collegio Romano dimostrano chiaramente il legame tra gli Esercizi Spirituali e la prima concezione scenico-spettacolare del teatro di collegio. Ignazio ha voluto fare dell’immagine (o “vista” interiore) un’ortodossia, e con gli Esercizi Spirituali ha inventato un linguaggio 32 Cfr. G. Zanlonghi, Teatri di formazione. Actio, parola e immagine nella scena gesuitica, Milano, Vita e pensiero, 2002, pp. 204-205. 72 Teatro educativo dei primi gesuiti: dalla retorica alla drammatizzazione capace di permeare totalmente l’immaginario dell’esercitante, al fine di piegarlo e di indirizzarlo al bene, in un’articolata e moderna imitazione di Cristo. Perciò la retorica di Ignazio è una riserva di immagini, un’immagine che non è una visione, bensì una veduta, come dice Barthes33. Gli Esercizi sono in nuce, perciò, ciò che verrà poi espresso con il teatro. Contengono elementi che si traducono in espressione teatrale, e fra di essi il primo è la compositio loci, dove l’immaginazione dell’esercitante viene invitata a rappresentarsi i luoghi nella Terra Santa34, quasi fosse una struttura scenografica. Si può facilmente notare, allora, come già nel lessico ignaziano il movimento del logos sia connesso all’occhio, ad una parola visiva che a sua volta stimola la stessa visione. Tutto ciò che l’esercitante deve fare è legato alla sua potenza fantastica, alla capacità di ricrearsi luoghi e persone, dando loro un’immagine. Perciò le parole di Ignazio organizzano lo spazio con precisione, con attenzione ai singoli elementi, ai dettagli. Proprio come avverrà, per lungo e indimenticato tempo, nei teatri di tutti i collegi gesuiti35. Riferimenti bibliografici Barthes, R., Sade, Fourier, Loyola, Torino, Einaudi, 1977. Bianchi, A., (a cura di), Ratio atque institutio studiorum Societatis Iesu, Milano, Rizzoli, 2002. 33 Cfr. R. Barthes, Sade, Fourier, Loyola, Torino, Einaudi, 1977, pp. 40-44. 34 Cfr. H. Pfeiffer, «La radice spirituale dell’attività teatrale della Compagnia di Gesù negli Esercizi Spirituali di Sant’Ignazio», in M. Chiabò, F. Doglio (a cura di), op. cit., pp. 31-32. 35 D. Quarta, «Drammaturgia gesuita nel Collegio Romano: dalla tragedia di soggetto biblico al dramma martirologico (15601644)», in M. Chiabò, F. Doglio (a cura di), op. cit., p. 122. 73 Maria Francesca D’Amante Brizzi, G.P., La formazione della classe dirigente nel Sei-Settecento. I ‘seminaria nobilium’ nell’Italia centro-settentrionale, Bologna, Il Mulino, 1976. Casalini, C., - L., Salvarani, Roma 1566. I collegi gesuiti alle origini del teatro barocco, in «Educazione. Giornale di pedagogia critica», II (2013), n. 1, pp. 29-51. Casalini, C., Aristotele a Coimbra, Roma, Anicia, 2012. Charmot, P., La pédagogie des jésuites, Paris, Edition Spes, 1943. Chiabò, M., - F., Doglio (a cura di), Convegno di studi: I Gesuiti e i primordi del teatro barocco in Europa, Roma, 26-29 ottobre 1994, Anagni, 30 ottobre 1994, Viterbo, Centro studi sul teatro medioevale e rinascimentale, 1995. de Dainville, F., La naissance de l’humanisme moderne, Paris, Beauchesne, 1940. de Ledesma, D., De Ratione et Ordine Studiorum Collegii Romani in M.P.S.I., a cura di, L., Lukacs, II, Roma, Institutum Historicum Societatis Iesu, 1974. 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Quel potere, per almeno due secoli, si è svolto entro un quadro dominato, non senza contrasti, dagli stati-nazione, che sembrano rappresentare, oggi, uno schema, se non superato, in profonda crisi. Da questa crisi la nostra domanda: lo stato educa? Inquadrata sommariamente la situazione odierna, e il destino del fenomeno statuale, ci limiteremo ad un primo, aporetico inventario di concetti ad esso sistematicamente legati: una costellazione su cui il discutere pedagogico non poggia volentieri lo sguardo e che, proprio per questo, richiede una specifica formalizzazione paidetica. Il concetto di Stato si colloca nel giuridico e nel politico. Non può competerci una sua compiuta carat1 Ci riferiamo qui, come generale punto di partenza, a F. Mattei, Sapere pedagogico e legittimazione educativa, Roma, Anicia, 1998. EDUCAZIONE. Giornale di pedagogia critica, II, 2 (2013), pp. 75-96. ISSN 2280-7837 © 2013 Editoriale Anicia, Roma, Italia. Rocco Marcello Postiglione terizzazione nella situazione odierna, che sfugge al sociologo, al giurista, al filosofo della politica e, a fortiori, al pedagogista. Ci limiteremo quindi ad acquisirne alcune marche formali, distintive oltre che decisive alla luce di una categoria paidetica, l’educazione morale2: quel versante rivolto al morale, all’etico e al politico, che osserva i costumi, le virtù, i principi e i valori posti alla base del nostro agire, e perciò meritevoli di riproposta educativa. Sotto questa categoria, senza ignorarne i nessi inestricabili con le altre, si colloca il problema della legittimazione, e quello dello Stato. Più volte, nel dibattito colto europeo, si è sentito porre in questione il concetto di Stato. Sono antiche le ipotesi sulla sua fine, auspicata o aborrita. Ma il vaticinio s’è fatto più frequente dopo la caduta del Muro di Berlino. La crisi esplode con la globalizzazione e il parallelo emergere dei particolarismi che, per reazione, vengono da essa determinati. Già dopo la Seconda guerra mondiale, la dissoluzione dello jus publicum europaeum, cornice giuridica entro la quale la pratica statuale sorge e si afferma, si è risolta in una logica spaziale neo-imperiale, che contempla da un lato la guerra totale, dall’altro la guerra partigiana, asimmetrica. Il nemico diviene nemico assoluto, oppure criminale. Dopo l’effimera “fine della storia” Stars and 2 Secondo la dizione di Durkheim. L’impostazione categoriale è desunta da J. Gatty, Finalità dell’educazione. Educazione e libertà, trad. e cura di F. Mattei, Roma, Anicia, 20002. Sviluppi, aggiunte e modifiche sono proposti nei nostri: La formazione professionale. Appunti teorici su dispositivi didattici pratiche sociali e politiche formative, Roma, Anicia, 2011, pp. 15-30 e Differenze di paideia. Culture lingue migrazioni, Roma, Anicia, 2012, pp. 19-32. Qui il lettore trova un’analisi più completa della situazione. 76 Morte, violenza e sovranità. Spunti paidetici da Carl Schmitt Stripes, la seconda ondata di globalizzazione3 si fonda su un regime universale di libero scambio, in cui l’ordine segue i frastagliati contorni di nuove aggregazioni imperiali che concentrano la forza autentica e soverchiante4. Lo stato subisce una notevole alterazione, perduto il monopolio del giuridico che si era arrogata, ma risulta sempre più necessario, nella sua esclusiva capacità di redistribuzione e di esercizio legittimo della violenza. Sempre più Stati sorgono5 e si affermano sulla scena internazionale, sempre più forze sovraordinate rispetto agli stati-nazione sopravvissuti o neonati assumono forme, oltre che funzioni, tipicamente statuali. Mentre l’Europa, culla della statualità classica, perde centralità, deve affrontare la più imponente trasformazione demografica dal medioevo a oggi. Nel suo insieme, certamente, ma ancor più nei singoli stati che la compongono: i discendenti di coloro che li abitavano nel 1950 saranno un secolo dopo minoranza (in alcuni luoghi neppure relativa). È l’effetto di una biopolitica desiderata, contestata e irrinunciabile: sostituzione di una popolazione insufficiente, se limitata alle generazioni autoctone, con gli immigrati, senza il cui apporto alla natalità il declino demografico sarebbe catastrofico. Una società di vecchi si trasforma in una società di immigrati. 3 Che può, convenzionalmente, essere collocata nel 2001, anno d’ingresso della Cina nell’Organizzazione Mondiale del Commercio. 4 Cfr. P. Khanna, I tre imperi. Nuovi equilibri globali nel XXI secolo, Roma, Fazi, 2009. 5 Scrive Schmitt, nel 1971: «Mentre stato e sovranità vengono ideologicamente accantonati come anacronismi, nella prassi politica mondiale appaiono a dozzine nuovi Stati sovrani, che si combattono a vicenda, benché siano membri dell’organizzazione della pace mondiale». C. Schmitt, Le categorie del ‘politico’, Bologna, il Mulino, 1972, p. 21. Non ha potuto vedere l’esplosione di sovranità statali successiva al crollo dell’Impero sovietico. E i conseguenti massacri. 77 Rocco Marcello Postiglione Questa demografia erode l’importanza del principio nazionale. Del resto, le aggregazioni neo-imperiali si addensano attorno a unità politiche che travalicano il nesso tra Stato e nazione, conservandone poco più che vestigia formali – come già le super-potenze dell’ordine bipolare. Non cade, dunque, lo Stato. Perde rilevanza geopolitica il principio nazionale – che esplode ma viene marginalizzato – e si rompe il nesso stato-nazione o, meglio, il blocco storico, nei suoi contenuti concreti e nelle sue molteplici casistiche, che in quel nesso si riconosceva. L’inesorabile scioglimento di quel blocco altera radicalmente i termini concettuali del problema della legittimazione educativa e i quadri istituzionali dell’istruzione di massa. Ciò soprattutto riguardo all’educazione morale, finora garantita – ma anche neutralizzata! – da quel medesimo blocco. L’educazione (morale) è potuta tipicamente consistere nella nazionalizzazione delle masse, attuata a partire da un nucleo forte e pervasivo di uniformità etno-linguistiche (ed eventualmente religiose), con quegli innesti democratici ed egalitari che hanno reso l’insieme consolante, se non gradevole. Le logiche evolutive dell’istruzione pubblica sarebbero incomprensibili fuori da questo scenario. Ma l’obsolescenza di quelle istituzioni e di quei principi si ascrive anche all’insorgere di una società civile globalizzata: mercati, flussi di simboli e scambi sociali di tipo nuovo, forme antiche e nuove di dizione del numinoso, movimentismi contestativi o partecipativi. Un ciclo indefinitamente ricorrente di produzione intrattenimento e consumo che scandisce il vivere quotidiano e trasforma l’aggregarsi e atteggiarsi del potere, il fluire del denaro, l’organizzarsi del lavoro, il manifestarsi dell’immaginario, l’emergere dei bisogni, l’affermarsi dei diritti e il protendersi dei desideri. 78 Morte, violenza e sovranità. Spunti paidetici da Carl Schmitt Sembra dunque d’assistere a un rovesciamento della dialettica hegeliana: famiglia e stato, opponendosi, culminano nella società civile – globalizzata6. Che ne è dell’educazione morale quando cade il nesso stato-nazione come l’abbiamo conosciuto? Quali forze si scatenano? Quali nuove sintesi costruire? Non è questo il luogo per articolare la risposta a questi quesiti. La nostra questione è antecedente: oggi lo stato educa? E, più in generale, qualunque forma assuma: può educare? È dunque in questione il concetto di Stato, nelle sue caratterizzazioni distintive. La prima, essenziale: la sovranità. «Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione»7. È la formulazione, celeberrima, di Carl Schmitt. Giurista, politologo, filosofo e teologo del diritto. Teorico giuridico della prima fase del regime nazista. Quel pensiero profondo, lucido e controverso si fa indispensabile per la chiarezza con la quale ha posto questioni cruciali e irrisolte della storia novecentesca e per la risolutiva concettualizzazione di una problematica fondamentale. «L’eccezione è ciò che non è riconducibile; essa si sottrae all’ipotesi generale, ma nello stesso tempo rende palese in assoluta purezza un elemento formale specificamente giuridico: la decisione»8. Qualcosa che esula dal solco consueto nel quale poniamo il giuridico: la legalità, per cui «chi esercita il potere e il dominio agisce “sulla base di una legge” oppure “in nome di una legge”»9. La legge, ovviamente, è definita 6 Esito intravvisto già nel 1908 da Franz Oppenheimer. C. Schmitt, Le categorie del ‘politico’, Bologna, il Mulino, 1972, p. 35. 8 Ibid., p. 39. 9 Ibid., p. 212. 7 79 Rocco Marcello Postiglione da un’assemblea legislativa eletta, distinta dal potere esecutivo. La legge non basta. Lo Stato, qualunque Stato, sussiste se vi è sovranità; dunque, in virtù di una «decisione». Nella sua forma assoluta il caso d’eccezione si verifica solo allorché si deve creare la situazione nella quale possano avere efficacia norme giuridiche. Ogni norma generale richiede una strutturazione normale dei rapporti di vita, sui quali essa di fatto deve trovare applicazione e che essa sottomette alla propria regolamentazione normativa. La norma ha bisogno di una situazione media omogenea. Questa normalità di fatto non è semplicemente un «presupposto esterno» che il giurista può ignorare; essa riguarda invece direttamente la sua efficacia immanente10. «Creare la situazione nella quale possano avere efficacia norme giuridiche». La decisione «crea» la normalità. Concetto, per definizione, di immediata pertinenza paidetica. Quella normalità è costume, è mos e habitus, è Sitte. Siamo dunque, evidentemente, al centro della nostra problematica. La normalità è il senso dell’istituzione e dell’ordinamento, concetti giuridici altrettanto fondamentali di quelli di legge e norma11. Tutto questo è l’ordito concreto su cui si dipana il tessuto dell’educazione morale: il «senso», dell’istituzione, della decisione, dell’ordinamento, della norma nel loro diretto rilievo etico, ergo educativo. Non esiste nessuna norma che sia applicabile a un caos. Prima deve essere stabilito l’ordine: solo allora ha un senso l’ordinamento giuridico. Bisogna creare una situazione normale, e sovrano è colui che decide in modo definitivo se questo stato di normalità regna davvero. Ogni diritto è «diritto ap10 Ibid., p. 39. Concetti la cui rilevanza e articolazione non possiamo che sfiorare grazie a P. Grossi, Prima lezione di diritto, Roma-Bari, Laterza, 2003. 11 80 Morte, violenza e sovranità. Spunti paidetici da Carl Schmitt plicabile ad una situazione». Il sovrano crea e garantisce la situazione come un tutto nella sua totalità. Egli ha il monopolio della decisione ultima. In ciò sta l’essenza della sovranità statale, che quindi propriamente non dev’essere definita giuridicamente come monopolio della sanzione o del potere, ma come monopolio della decisione. […] Il caso d’eccezione rende palese nel modo più chiaro l’essenza dell’autorità statale. Qui la decisione si distingue dalla norma giuridica, e (per formulare un paradosso) l’autorità dimostra di non aver bisogno di diritto per creare diritto12. Sulla congerie infinita, reticolarmente diffusa e pervasiva dei poteri, vien da dire, si erge la normalità come rilievo, aggregazione, linea strategica, ipostatizzazione di forze di spinta e blocchi di resistenza, catalizzazione di multiple prensioni e appigli scivolosi o sicuri, effetto essi stessi della relazionalità intrinseca del gioco azione-reazione: su questa dÚnamij originaria, e aristotelica e nietzscheana, si colloca la consuetudine, l’istituzione, l’ordinamento. Qui, soprattutto, si erge der Machtswille della decisione fondamentale – e definitiva –, in grado di determinare la normalità e di segnare l’eccezione. Ma qui, con specifica piegatura rispetto a Nietzsche, der Machtswille si fonda sull’autorità, che scaturisce dalla protezione13. Su tale fondamento poggia il «monopolio della decisione ultima» e, di conseguenza, l’effettivo svolgersi normale delle cose, l’attuale verificarsi della situazione consueta e regolare. Non potere o sanzione – che rimandano a orizzonti più ampi dello statale, e persino del giuridico14 – 12 Ibid., pp. 39-40. Cfr. C. Schmitt, Dialogo sul potere, Milano, Adelphi, 2012. 14 Qui ancora P. Grossi, op. cit., soccorre nel ribadire con Santi Romano e Hauriou e, tra gli altri, lo stesso Schmitt, il carattere mai esclusivamente statale, a dispetto d’ogni apparenza e pretesa, del diritto e dell’ordinamento giuridico. 13 81 Rocco Marcello Postiglione ma decisione: ultima, precipuamente statale. Questo è la sovranità, questo è lo Stato. Il concetto di Stato presuppone quello di ‘politico’. Per il linguaggio odierno, Stato è lo Status politico di un popolo organizzato su un territorio chiuso. […] In base al suo significato etimologico e alla sua vicenda storica, lo Stato è una situazione, definita in modo particolare, di un popolo, è anzi la situazione che fa da criterio nel caso decisivo, e costituisce perciò lo status esclusivo, di fronte ai molti possibili status individuali e collettivi15. Lo Stato, dunque, è un oggetto giuridico e sociale preciso, cui compete la sovranità, la decisione ultima, la distinzione tra normalità ed eccezione: è l’oggetto politico: La specifica distinzione politica alla quale è possibile ricondurre le azioni e i motivi politici, è la distinzione di amico (Freund) e nemico (Feind). Essa offre una definizione concettuale, cioè un criterio, non una definizione esaustiva o una spiegazione del contenuto16. La pagina è celebre: definizione fulminante, copernicana, del politico. Una categoria metafisica, che fonda il discorso scientifico, all’intersezione tra teoria del diritto, sociologia e scienza della politica. Categoria fondamentale come tutte quelle che caratterizzano l’umano, e che dispone dicotomicamente gli oggetti con un discrimine netto, così come bello-brutto, buono-cattivo, verofalso. E qui Schmitt può richiamarsi all’auctoritas – non veritas! – del Leviathan, che facit legem. Ma come in tutte le scienze che, kantianamente17, definiamo metafisiche, si istituisce un dominio scienti15 C. Schmitt, op. cit., p. 101. Ibid., p. 108. 17 E foucaultianamente. 16 82 Morte, violenza e sovranità. Spunti paidetici da Carl Schmitt fico pagando un necessario scotto filosofico o, per meglio dire, teologico. E qui cadiamo negli abissi esistenziali della condizione umana. Si deve postulare «il dogma teologico fondamentale della peccaminosità del mondo e degli uomini». Non solo fallibilità, che ammettiamo senza patemi, soprattutto in un orizzonte libertario e liberista. Qui il sottinteso logicamente necessario è proprio la peccaminosità. La caduta, la colpa, in senso assolutamente concreto e immediato – non in quello fantasmatico in cui si è ravvisato il ripetersi inconscio di relazioni infantili. Dogma che «conduce – nella misura in cui la teologia non si sia ancora dissolta nella morale meramente normativa o nella pedagogia e il dogma in mera disciplina –, esattamente come la distinzione di amico e nemico, ad una divisione degli uomini, ad un “distacco” e rende impossibile l’ottimismo indifferenziato proprio di un concetto universale di uomo»18. Lo Stato, e il politico, che contraddicono un «concetto universale di uomo» nel quale si ripercuote il mito della sua infinita educabilità, l’idea di una redenzione spontaneamente scaturita dal rapporto – privo di «distacco», appunto – con un Dio salvatore o una natura salvifica. Dove non può non vedersi la profonda e decisiva opposizione, quasi esplicita, rispetto all’universo rousseauiano, o l’inquietante disprezzo incluso nell’espressione sulla teologia «dissolta nella pedagogia il dogma in mera disciplina». Educazione impossibile? Non è questo il punto. Si sta qui ribadendo una irriducibile distinzione categoriale, e si mostra com’essa smascheri presupposizioni troppo unilaterali e acritiche. Ché del resto al pedagogista non ingenuo nemmeno sfugge, dell’Emilio, l’effetto epistemologico dell’accentuazione ottimistica. Certo, 18 Ibid., p. 149. 83 Rocco Marcello Postiglione la costruzione dello jus publicum europaeum è un’assunzione dell’ostilità come chiave di volta della civitas hominum, «praedestinata […] aeternum supplicium subire cum diabolo»19, del peccato, appunto, come diab£llein, gettare in discordia, e calunniare. Il punto teologico da cui si disegna lo spazio comune, entro il quale l’ostilità è già di per sé normata e, perciò, matrice anch’essa di civilizzazione, è questa accezione di peccato. E c’è da chiedersi se l’educazione morale, inclusa nel concetto d’autorità cui porta questo sistema di pensiero20, non sia esercitata tipicamente (necessariamente?) in una tonalità di terrore e paura – e quindi sottomissione21. Ma dobbiamo procedere ancora nell’analisi. Amico e nemico sono faglie mobili, la cui caratterizzazione, provvisoria ma decisiva, è lo Stato. Se la decisione istituisce la normalità, e la faglia che la determina, «il ‘politico’ può trarre la sua forza dai più diversi settori della vita umana, da contrapposizioni religiose, economiche, morali o di altro tipo», vi sarà incluso il nemico religioso, di classe, di etnia. Il criterio del politico sta nel fatto puramente formale che si ingeneri la di19 A. Augustinus Hipponensis, De civitate Dei contra paganos libri XXII, XV, 1. 20 Dello jus publicum europaeum, prima di tutto. E di Schmitt. 21 È facile qui mostrare come l’atto teorico di avvalersi della cupidigia per generare ordine norme e regola, in modo da distribuire secondo logica a tutti coloro che agiscano razionalmente secondo interesse, sia, per antonomasia, fondazione morale: un modo di attenuare concretamente il peccato riconducendo (non spontaneamente! Ma naturalmente) i vizi al più innocuo tra essi. Onde il perfezionamento progressivo che deriva dall’immediato riconoscimento dell’errore che solo un’intelligenza diffusa (scil. il mercato) può determinare. Da cui: «gli interessi! Educare con, per, dagli interessi!» recitano gli involontari (inconsci? ignari? ignoranti?) ripetitori dell’economico. E allora: che mestiere faceva Adam Smith? Da quale confessione veniva? 84 Morte, violenza e sovranità. Spunti paidetici da Carl Schmitt stinzione amico-nemico. Il politico, infatti, «non indica un settore concreto particolare ma solo il grado di intensità di un’associazione o di una dissociazione di uomini»22. La faglia che può determinare l’ostilità nasce dall’intensità del congiungimento, sul quale si fonda: fino a determinare la definizione esistenziale del nemico. I concetti di peccato, di discordia, di diabol» comportano l’ostilità, che è lotta, ed è violenza. Da criterio di giudizio funge sempre solo la possibilità di questo caso decisivo, della lotta reale, e la decisione se questo caso sussista oppure no. […] Solo nella lotta reale si manifesta la conseguenza estrema del raggruppamento politico di amico e nemico. È da questa possibilità estrema che la vita dell’uomo acquista la sua tensione specificamente politica23. Siamo al punto. La violenza, la sua limitazione e la sua istituzionalizzazione nello Stato: questo è il politico. Ma siamo qui a un’altra perpendicolare linea distintiva, quella che separa polizia e politica (o guerra), penale e pubblico. Distinzione, come abbiamo visto, che tende a sfumare nel momento in cui scompare dalla scena lo jus publicum europaeum. E siamo perciò riportati a una tematica che, già sappiamo, trascende quella dello Stato, del politico e della sovranità. Relazioni tra l’etico – e il paidetico dell’educazione morale – e il politico, che giungono a toccare le questioni della costrizione, della pena, dell’eccezione come crimine o illecito. La legge, il principio, la norma, la violenza, la virtù: siamo su margini e su estremi dell’educativo e dell’etico, su cui la dizione paidetica, e persino quella filosofica – dalle loro plaghe “democratiche” e politicamente corrette –, si poggiano con diffidenza, disgusto o 22 23 C. Schmitt, op. cit., p. 121. Ibid., p. 118. 85 Rocco Marcello Postiglione repulsione. Costrette o entusiaste, non riescono che a cantare la salmodia del “valore”24 – o della “valutazione”25 – ridotta al sentimento sentimentale dell’emozione iterativamente esibita e della sua dizione meramente fonetica26. Ogni risposta alla nostra domanda iniziale poggia su una formalizzazione della dialettica tra vita e morte che, con la violenza, s’instaura nella società, nelle istituzioni, nel diritto: la possibilità di togliere la vita, di assegnare la morte, nel senso di obbligo al pericolo, e all’omicidio, o di condanna. La violenza, nella sua inquietante e traumatica pervasività, nel suo baluginare dietro ogni atto relazionale umano, in quanto carnale e sociale: il potere, di cui l’educazione, il diritto e lo stato sono precipue e specifiche manifestazioni. Qui sta tutta la questione della legittimità, e il fondamento ultimo della sovranità. La normalità, la situazione, l’autorità, che determinano decisivamente (ed è il primato della decisione, il “decisionismo” schmittiano) l’unità, l’identità dello stato: «L’unità politica, tutte le volte che esiste, è l’unità decisiva e “sovrana” nel senso che la decisione sul caso decisivo, anche se questo è il caso d’eccezione, per necessità logica deve spettare sempre ad essa»27. 24 Che perdita nel passaggio da ¥xion a “valore”! Ne va della dignitas di una civiltà. 25 Che e quanto reputiamo indispensabile e necessaria la valutazione non contraddice né minimamente sposta, anzi motiva, il concetto che ne abbiamo: banausico meccanismo, tanto più necessario quanto più tecnicamente raffinato. Necessario come la morte. Sulla necessità della valutazione, sul suo nesso con la categoria dell’istruzione e con la doctrina, e con la morte, ci permettiamo di rinviare ai luoghi citati in nota 3. 26 Una volta si sarebbe detto: interiezione: inter-iacio, getto in mezzo. 27 C. Schmitt, op. cit., p. 122. 86 Morte, violenza e sovranità. Spunti paidetici da Carl Schmitt Il caso d’eccezione è sempre legato alla minaccia esistenziale: violenza, ostilità, sopraffazione, persino sfruttamento. Come la morte, parti e limiti della nostra esistenza, inclusi – proprio come limiti, come il limite – nel nostro essere. Nelle varie declinazioni categoriali, limiti del morale, del giuridico, del paidetico. Quali che siano i principi, virtù e valori ai quali intenda ispirarsi, quale che sia la forma, l’immagine, la visione antropologica di cui è presuntiva o desiderata attuazione, l’educazione non li rimuove, non li cancella, al massimo li attenua, o li trascende: l’educazione, rispetto ad essi, non può essere la salvezza; né riesce a definirsi escludendoli dal novero delle possibilità del suo stesso attuarsi. Il male c’è, e si muore. L’educazione torni a essere esercizio del possibile, accanto alla politica. Qui non guasta, nella sua feconda ma non superabile equivocità, il richiamo di Schmitt: Solo una filosofia della vita concreta non può ritrarsi davanti all’eccezione e al caso estremo, anzi deve interessarsi ad esso al più alto grado. Per essa l’eccezione può essere più importante della regola, e non in base ad una ironia romantica per il paradosso, ma con tutta la serietà di un punto di vista che va più a fondo delle palesi generalizzazioni e di ciò che comunemente si ripete. L’eccezione è più interessante del caso normale. Quest’ultimo non prova nulla, l’eccezione prova tutto; non solo essa conferma la regola: la regola stessa vive solo dell’eccezione. Nell’eccezione la forza della vita reale rompe la crosta di una meccanica irrigidita nella ripetizione28. Parole nette, forti, perciò stesso inquietanti. Forse squadernano un orizzonte direttamente pertinente al paidetico (categorizzato come educazione morale, ma non solo). Che cosa sono il formare, l’educare, persino 28 Ibid., p. 41. 87 Rocco Marcello Postiglione l’istruire29 se non passaggi dall’eccezione, necessaria e sempre nuova, alla normalità? E l’istituzione di normalità – e massime, e strutture – nuove? L’articolazione della dialettica, entro la socialità, di vita e morte, e la dizione di essa tra fatto, dovuto e voluto: non vale nascondersi nei necessari tecnicismi del processo e dell’atto paidetico. Per la sua trattazione scientifica30 è necessaria «una filosofia concreta della vita», che affronti, di quella dialettica, il versante negativo, «cattivo»31. Si riformula qui la nostra domanda: lo Stato educa? Può lo Stato, che dà la morte, che – solo – esercita la violenza, educare? Ma di converso: può lo Stato che, nel suo potere di dare la morte, si determina come decisivo depositario del principio del diritto e del giusto, non educare? In questo dilemma precipita la questione del rapporto tra educazione morale e Stato. 29 Rimandiamo qui, nuovamente, alla proposta di categorizzazione citata in nota 3. Formazione – Bildung, paide…a – l’orizzonte complessivo, l’immaginazione totalizzante del paidetico. Educare sta, ancora, per educazione morale. 30 «Come si può comprendere teoricamente tutto ciò [nuove forme di guerra totale, guerra partigiana, guerra economica ecc.] se si elimina dalla conoscenza scientifica la realtà per cui esiste ostilità fra gli uomini»? C. Schmitt, op. cit., p. 96. 31 «Tradotto nel linguaggio primitivo di quell’ingenua antropologia politica che lavora con la distinzione fra “cattivo” e “buono”, questo “restare aperto” […], con la sua aderenza alla realtà e ai fatti, disposta ad ogni rischio, e colla sua relazione positiva col pericolo e con tutto ciò che è pericoloso, dovrebbe avvicinarsi più al “cattivo” che al “buono”». Ibid., p. 144-145. Dove il «pericolo» rimanda alla responsabilità, e quindi alla legittimazione, ma soprattutto a quella dialettica tra vita e morte che la socialità, ogni socialità, mette in scena. Come obliare od occultare, come spesso avviene nella chiacchiera pedagogica, il versante «cattivo», non accettabile, ipocritamente rimosso o sguaiatamente – ma falsamente – esibito di quella dialettica? 88 Morte, violenza e sovranità. Spunti paidetici da Carl Schmitt Alcune glosse rispetto alla questione centrale. La riprova della forza e della validità delle concettualizzazioni di Schmitt ruota attorno al concetto di guerra, come si è andato evolvendo e modificando nella situazione neo-imperiale nella quale siamo piombati. La guerra è una profonda civilizzazione della violenza: una istituzionalizzazione dovuta alla distribuzione originaria, all’organizzazione fondamentale dello spazio i cui margini, le cui crisi non possono che risolversi attraverso quel mezzo cruento ma controllato. Il nemico non è un criminale, e la stessa conquista vive di regole, per quanto squilibrate a favore del perdente. La coscrizione obbligatoria dell’esercito rivoluzionario francese mette profondamente in crisi quel modello, generando un crescendo di violenza che culminerà nella distruzione, con la Prima guerra mondiale e con i successivi armistizi, dello jus publicum europaeum. Quel che ne prende il posto è un ordine fondato sull’ostilità assoluta, sulla criminalizzazione del nemico. Note le analisi di Schmitt. Dopo la confusione di guerra e pace e delle superficiali «neutralizzazioni»32 del diritto internazionale wilsoniano, «la cosiddetta guerra totale supera la distinzione fra combattenti e non combattenti e, accanto alla guerra militare, ne conosce anche una non militare (guerra economica, di propaganda e così via) sempre come sbocco dell’ostilità»33. L’incedere della tecnicizzazione del mondo, lo strutturarsi dello stesso diritto secondo uno schema tecnicoeconomico determina un potenziarsi e complicarsi della bellicosità: «il superamento del dato puramente militare comporta non soltanto un ampliamento quantitativo, ma anche un rafforzamento qualitativo; esso non signi32 33 Della distinzione amico-nemico. C. Schmitt, op. cit., p. 201. 89 Rocco Marcello Postiglione fica perciò un’attenuazione, bensì un’intensificazione dell’ostilità. Con la semplice possibilità di un simile aumento di intensità, anche i concetti di amico e nemico tornano da sé nuovamente politici»34, a dispetto di ogni velleità di neutralizzazione. Del resto, i principi wilsoniani della Società delle Nazioni erano già stati logicamente svolti: «in un globo terrestre definitivamente pacificato […] vi potrebbero forse essere contrapposizioni e contrasti molto interessanti […], ma sicuramente non vi sarebbe nessuna contrapposizione sulla base della quale si possa richiedere a degli uomini il sacrificio della propria vita e si possano autorizzare uomini a versare il sangue e ad uccidere altri uomini»35. Chiaro qui il paradosso. Lo sviluppo storico mostrerà i segni di una progressiva unificazione economica e tecnica del mondo, che Schmitt non vide dispiegarsi ma di cui poté intuire, alla luce della prima globalizzazione, i contorni: «È però facile chiedersi a quali uomini toccherebbe il terribile potere che è legato ad una centralizzazione economica e tecnica estesa a tutto il mondo»36. La pacificazione e l’estrema neutralizzazione è esclusa. Il partigiano e il nemico assoluto continuano a restare le figure dell’ostilità nel XXI secolo. Violenza, dunque, violenza assoluta come esito dell’esaurirsi d’un ordine di civiltà: questa la spengleriana aporia di Schmitt. Può apparire troppo compromessa con il suo ruolo di teorico giuridico della prima fase del regime hitleriano, e con la necessità apologetica che l’ha poi sempre accompagnato, per persuadere. Ma liquidarla per questo sarebbe perdita gravissima. 34 Ibidem. Ibid., p. 118. 36 Ibid., p. 143. 35 90 Morte, violenza e sovranità. Spunti paidetici da Carl Schmitt La memoria delle atrocità non ci permette di cancellare un altro quesito: esiste anche una sola possibilità, nell’orizzonte storico, di esistenza senza l’ostilità? Quella possibilità esiste: la non-violenza. Dobbiamo quindi sottoporre, anche solo schematicamente, la tematica della violenza e dell’ostilità alla riprova di un pensiero radicalmente alieno, e opposto, a quello del grande giuspubblicista tedesco: quello dell’uomo che più di ogni altro, con la sua vita, il suo pensiero, le sue opere e la sua iniziativa politica ha inteso rimuovere l’ostilità dal novero delle possibilità umane: Gandhi. Di formazione anglosassone, esperto di diritto, di profonda e aperta religiosità, si è posto direttamente il problema della guerra totale, e lo ha portato a formulazioni particolarmente nette proprio in relazione alla tragedia nazista. È nota la posizione del Mahatma circa la reazione da opporre a quella ferina violenza. Voi volete eliminare il nazismo. Ma non riuscirete mai a eliminarlo adottando i suoi stessi metodi. I vostri soldati stanno compiendo la stessa opera di distruzione che compiono i tedeschi. […] Voi dovrete divenire più crudeli dei nazisti. Nessuna causa, per quanto giusta, può giustificare il massacro indiscriminato cui oggi stiamo assistendo37. Dresda, Hiroshima, Nagasaki. La critica gandhiana investe, direttamente, le radici stesse del giuridico, fino alla critica radicale della democrazia: La democrazia, finché è sostenuta dalla violenza, non può fare l’interesse dei deboli o proteggerli. La mia concezione della democrazia è che sotto di essa il più debole deve avere le 37 M. K. Gandhi, Teoria e pratica della non violenza, Torino, Einaudi, 1973.p. 248. 91 Rocco Marcello Postiglione stesse possibilità del più forte. Questo può avvenire soltanto attraverso la non-violenza. Grandi proprietà possono essere mantenute soltanto con la violenza, velata o aperta. La democrazia occidentale, nelle sue attuali caratteristiche, è una forma diluita di nazismo o di fascismo. Al più è un paravento per mascherare le tendenze naziste e fasciste dell’imperialismo38. Sembra di ascoltare le tante parole di cortei o “teorici” pacifisti nostrani. Un frasario ricorrente, stabile, la cui ripetizione attraversa le generazioni. Abbiamo visto come il giurista lo liquidi, con pochi tocchi di penna, nelle sue formulazioni tecniche e filosofiche. Qui, in realtà, non è così facile. La concretezza della dizione è estrema. Siamo davvero in un altro mondo39. L’impianto teorico della ahimsa ha un immediato correlato morale e giuridico, dove la distanza fra l’uno e l’altro, consapevolmente, viene erosa e ridotta. L’azione giuridica e politica è direttamente morale. E forza, potere, di un’intensità inaudita ma non-violenta e innocente. La persuasione ne è il portato. Siamo nel paidetico. Anzi, siamo a una riduzione dell’etico, del giuridico e del politico nei quadri di un paidetico. La non-violenza nella sua dimensione dinamica significa sofferenza cosciente. Essa non significa docile sottomissione alla volontà del malvagio, ma significa l’impiego di tutte le forze dell’anima contro la volontà del tiranno40. L’obiettivo è la trasformazione del suo cuore. La forza di questo pensiero sta in una diversa teologia del peccato, per molti versi estranea alla tradizione cristiana nonostante la sua evidente fonte evangelica. 38 39 Ibid., p. 140. Di cui, ça va sans dire, non ignoriamo i degni esponenti ita- liani. 40 92 Ibid., p. 20. Morte, violenza e sovranità. Spunti paidetici da Carl Schmitt Ho praticato la non violenza in ogni campo della vita, da quello privato, a quello istituzionale, a quello economico, a quello politico. Non conosco un solo caso in cui essa abbia fallito. I suoi apparenti fallimenti sono da attribuire unicamente alle mie imperfezioni. Non pretendo di essere perfetto. Ma pretendo di essere un appassionato ricercatore della Verità, la quale non è altro che un sinonimo di Dio41. Vi è qui un totale, diffuso e meticoloso esercizio di perfezionamento spirituale e morale che si riversa, non paia superfluo ribadirlo, in un’assoluta tensione educativa, la cui posta in gioco è una salvezza già terrena, socratica in certe movenze42: agire secondo virtù, nella ricerca della verità, come bene irrinunciabile, terreno, assoluto, indipendente da ogni escatologia. Diviene centrale una categoria religiosa, qui non cristiana43 per quanto, ancora, sincreticamente mutuata dal vangelo: quella di santità, che prende esplicitamente il posto della categoria del politico di Schmitt, assorbendola e trasformandola in un assoluto educativo, dove non c’è sovranità, non c’è Stato. Eppure, il dilemma rimane: che cosa fa chi non è santo? «Credo che nel caso in cui l’unica scelta possibile fosse quella tra la codardia e la violenza, io consiglierei la violenza»44. Non è superfluo, per chiudere, ricordare le parole di un altro grande giurista, piemontese, anch’egli del tutto alieno all’orizzonte decisionista di Schmitt. Il tema qui è la norma, ogni norma. Il cambiamento delle 41 Ibid., p. 250. E, naturalmente, a dispetto di un orizzonte semantico e filosofico del tutto alieno rispetto all’Atene del V secolo a. C. 43 O, direbbe qualcuno, ancor più profondamente cristiana. 44 M. K. Gandhi, op. cit., p. 18. 42 93 Rocco Marcello Postiglione leggi. Le rivoluzioni. Il tema resta lo Stato, ma tocca ogni altra forma di sanzione sociale: «In morale le rivoluzioni sono più violente». Ed è proprio per la sua collocazione in questo orizzonte più vasto – statuale, prestatuale o non statuale – che la riflessione diviene per noi pregnante. L’atto creativo di morale nasce da un’ispirazione gratuita, improvvisa e sorprendente come l’impulso a creare in arte: fenomeni simili alla rivelazione. Il prodotto, inoltre, è un generatore di sentimenti. Ora si capisce perché ogni novità autentica in morale abbia effetti sconvolgenti e il suo rivelatore sia di solito tolto di mezzo: un modo radicale di difendere il gruppo da un comportamento socialmente nocivo e per di più contagioso, perché costituisce un esempio. […] Ora la partita è aperta, e le sorti della storia futura dipendono da un conflitto di potenza, degli strumenti di dissuasione persecutoria e dell’idea o del sentimento perseguitati, se i custodi della società li fanno dileguare o distruggono i loro portatori, come avviene con gli albigesi e tre secoli dopo con gli anabbattisti45. Sconvolgimenti ben noti, su cui si esercita l’entusiasmo morale, anche di massa. Ancora più attraente, e destabilizzante, se consiste in un ritorno alle origini: Ripercorrere a ritroso la via che dalle folate intuitive ha portato al sistema, dalla rivelazione emotiva al calcolo, dalla discesa dello Spirito alla pressione sociale organizzata significa, né più né meno, mandare in frantumi la società, la quale di solito coglie a prima vista i segni premonitori del pericolo. Questo spiega la feroce repressione di una setta mansueta come quella degli anabattisti e la solidarietà spontanea, in questa operazione, di cattolici e protestanti, per il resto impegnati a scannarsi. Gente mite ma fautrice di un eroismo evangelico che, in tempi di forte sensibilità emotiva, costituisce un’insidia mortale per chiese e Stati. Predicano la soppressione delle gerar45 F. Cordero, Gli osservanti. Fenomenologia delle norme, Torino, Aragno, 2008, p. 131. 94 Morte, violenza e sovranità. Spunti paidetici da Carl Schmitt chie e l’astensione dalla violenza, incluso quel minimo di violenza esercitata legalmente, senza il quale non riusciamo a vivere in comune, a meno di essere santi, e così colpiscono al cuore la società, che si difende massacrandoli46. «Quel minimo di violenza necessaria», nota Cordero, «senza il quale non riusciamo a vivere in comune, a meno di essere santi». Ora, vien da chiosare, se «l’obbedienza non è più una virtù», se non possiamo credere di «potercene far scudo né davanti agli uomini né davanti a Dio», «bisogna che ci sentiamo ognuno l’unico responsabile di tutto». Anche della violenza, anche della sovranità – e dei suoi arcana imperii47. Sovranità, ostilità, guerra, violenza. Peccato, imperfezione, fallibilità, santità. Socialità, potere, forza, morte. È quanto riusciamo a porre in questo primo inventario di concetti, attorno a quello di Stato. Hic Rhodus, hic salta. Alla domanda: lo stato educa? non abbiamo ancora risposta. Altri scavi necessitano. Altre costruzioni: bisognerà immaginare l’architettura secondo la quale, come pietre da sgrezzare, possano collocarsi questi concetti. Siamo già in grado, però, di ripararci dai miasmi di troppo opportunistico irenismo. «La pietra scartata dai costruttori…»48. 46 Ibid., pp. 131-132. Problema che, nel pensiero di Schmitt, rimanda ai concetti di autorità, rappresentazione (Repräsentation, ma quanto richiama qui das Bild!): la cui trattazione, movendo dall'interpretazione della formula hobbesiana «auctoritas facit legem, non veritas», merita riflessione e approfondimento. 48 Salmo 117, 22; Marco, 12, 10 et passim. 47 95 Rocco Marcello Postiglione Riferimenti bibliografici Aurelius Augustinus Hipponensis, De civitate Dei contra paganos libri XXII, Roma, www.augustinus.it. Cordero, F., Gli osservanti. Fenomenologia delle norme, Torino, Aragno, 2008. Foucault, M., La volontà di sapere, Milano, Feltrinelli, 1978. Gandhi, M. 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Id., Dialogo sul potere, Milano, Adelphi, 2012. 96 Liberalismo, neo-giusnaturalismo, eticità. Il problema dell’individuo in Carlo Antoni Francesco Mattei Università degli Studi Roma Tre Department of Education Via Manin, 53 - 00185 Roma [email protected] Parva mei mihi sint cordi monimenta sodalis, at populus tumido gaudeat Antimacho. Catullo, Carme XCV 1. Sul soggetto: Croce, Gentile, Antoni Il dibattito sulla postmodernità ha investito in modo prepotente, nelle sue provocazioni di fondo, la figura del soggetto e la sua antica e consolidata configurazione. Al soggetto, all’io, all’individuo, alla persona – lemmi differenti ma usati spesso con significato vagamente sinonimico – sono state via via attribuite caratteristiche fisse, determinate, determinanti, un tempo metafisiche. E tali connotazioni hanno fatto del soggetto, nel canone cartesiano e post-cartesiano, il centro del discorso e della realtà sociale, religiosa, metafisica (almeno nella determinazione heideggeriana dell’Essere come Dasein, come esser-ci del Sein che si “limita”, si oggettiva e si svela). Così il soggetto, sia esso subjectum o puro , si è sempre ritrovato ad esistere, a pensare e ad essere pensato, come sospeso ed appeso all’ e al j. E via via, laicizzato il suo rapporto con l’Essere e con (un) Dio, ha vissuto su di sé maEDUCAZIONE. Giornale di pedagogia critica, II, 2 (2013), pp. 97-119. ISSN 2280-7837 © 2013 Editoriale Anicia, Roma, Italia. Francesco Mattei scheramenti e smascheramenti, volta a volta legati a concezioni filosofiche, giuridiche, religiose, politiche, sociali. Si è insomma di fronte ad antropologie mutanti. E mutando, esse hanno mutato anche il volto dell’io. Talvolta innalzandolo alle altezze inebrianti e terribili dell’Io puro (fichtiano), talaltra riducendolo ad un fascio psichico che trova nella mente o nel super-io il luogo della provvisoria sua koinè e di una fragile (in)consistenza1. Non è mancato chi ha parlato, ed è certo posizione originale, di «persona come metafora»2, guardando alla persona come ad «un modo di dire», ad un trpos, ad «un concetto che non rimanda né a una sostanza, né a un principium firmissimum (sia questo un absolutum reale, o un’assoluta “idea”)»3. Ma non è mancato nemmeno chi ha vincolato la persona ad una profonda radice teologico-metafisica: sulla scia di Aristotele o di Tommaso, di Boezio o di Riccardo di S. Vittore, che quella radice hanno pensato nei lunghi secoli della 1 Cfr. Vattimo e l’abusato ma non stantio «pensiero debole», in cui si desostanzializza l’essere e con levitas lo si dice. Ma su ciò, mi sono già soffermato. Segnalo soltanto, per un suo valore ricostruttivo, G. Vattimo con G. Paterlini (Non essere Dio. Un’autobiografia a quattro mani, Reggio Emilia, Aliberti, 2006), dove questo décalage dell’essere e del pensare è testimoniato con efficacia. 2 Cfr. M. Manno, La persona come metafora. Itinerari di una metafisica personalistica, Brescia, La Scuola, 1998. 3 Id., «Presupposti teorici del “Personalismo critico”», in G. Flores d’Arcais (a cura di), Pedagogie personalistiche e/o pedagogia della persona, Brescia, La Scuola, 1994, pp. 255-256. E continua: «L’io è persona quando, e soltanto quando, riesca a rideterminare come sua mondanità concreta una capacità di “eccedenza” (o “trascendenza”, o “nonintera-deducibilità”, o “di-più”)» (ibidem). Per altre declinazioni sulla persona, cfr. F. Cambi (a cura di), Soggetto come persona, Roma, Carocci, 2007, e soprattutto, dello stesso Cambi, «Oltre i personalismi» (ibid., pp. 37-47). 98 Liberalismo, neo-giusnaturalismo, eticità.. Il problema dell’individuo in Carlo Antoni tradizione occidentale4. Venne poi il personalismo di conio francese, nelle versioni di Mounier e di Maritain. E quella tradizione conobbe, forse fuori stagione, un’altra fioritura (ora in stato di silente ridimensionamento od oblio, perché il pensiero teologico-metafisico aveva assunto altre lontane declinazioni). Dunque, reso alla tradizione ciò che è della tradizione, evidenziate le polisemie semantiche ed ermeneutiche della persona, dove va a collocarsi Antoni? In quale scia ritrova il tema dell’individuo e della sua libertà costitutiva? La risposta è semplice. Essa è presente fin dall’inizio nella sua sequela (non inerte) di Croce e nella sua antitesi con Gentile. Ma i due maestri del neoidealismo hanno un comune antenato, lo Hegel che radica lo spirito soggettivo nel j universale, nella ragione che dispiega la sua libertà nella storia, là dove essa si costituisce come spirito assoluto. Antoni, invece, come scrive Sasso, pensa in termini di « buona». Lavora ad una antropologia non «alienata» (o almeno, non radicalmente deietta). Perciò batte le strade di un neogiusnaturalismo non vanamente nostalgico. Dice dunque Antoni, ripercorrendo le tappe genetiche della storiografia crociana: «Più che mai allora, sotto la suggestione del Marx, il Croce avvertiva il fascino della filosofia romantica della politica, in dispregio a qualsiasi ideologia umanitaria e ad ogni forma di giu- 4 Rinvio, per necessaria brevitas, a F. Mattei, «La radice e il frutto. Sulla filosofia dell’educazione di M. Manno», in Id. (a cura di), Itinerari filosofici in pedagogia. Dialogando con M. Manno, Roma, Anicia, 2009, p. 145 e sgg. 99 Francesco Mattei snaturalismo democratico»5. Ma non tralascia (come avrebbe potuto?) di sottolineare l’influenza di Gentile sul filosofo napoletano6, proprio in virtù di quella identificazione di essere e divenire, ragione e storia, eterno e contingente che costituisce l’anima profonda dell’attualismo gentiliano. Ed è, questa, anima hegeliana, derivante dall’«atteggiamento teologico» di Hegel, un atteggiamento che induce tanto Hegel che Gentile a ridurre «la realtà a storia». Un tentativo audace e generoso. Un risultato non ben riuscito, a parere di Antoni, giacché alla radice sta, minacciosa ed instabile, la deduzione dell’io, la sua assoluta autodeterminazione. Così Antoni si tiene alla larga dalle grandi “deduzioni”. Che minerebbero l’io nel suo fondamento, dato che, instabile tra l’ideale eterno e il continuo venire all’esistenza, il soggetto non troverebbe mai la radice della sua concretezza. La coscienza si muoverebbe nello spazio della astratta indeterminazione. Perciò scrive: Per quanto intendesse l’atto come divenire storico, in quanto lo scorgeva proporsi incessantemente compiti e problemi storicamente concreti, il Gentile non ammetteva che questo “proporsi” fosse contemplazione, bensì senz’altro lo definiva come creazione ed azione. Lo svolgimento era, cioè, inteso da lui come piena ed assoluta “autoctisi”, autodeterminazione dell’io, nella quale ogni momento era un’affermazione dell’io in una 5 C. Antoni, Studi sulla teoria e la storia della storiografia, in AA. VV., Cinquant’anni di vita intellettuale italiana, 1896-1946, a cura di C. Antoni e R. Mattioli, Napoli, E.S.I., 1950, p. 65 (c.m.). 6 Così Antoni: «Si deve al Gentile l’enunciazione d’un principio, che è divenuto di capitale importanza in Croce: quello dell’identità di storia e filosofia». E ancora: «Ma la grande efficacia esercitata dal Gentile nella formazione del pensiero crociano è consistita nell’asserzione instancabile di quell’unità dialettica dello spirito, che la teoria della distinzione delle forme dello spirito, quale si andava sviluppando nel pensiero del Croce, sembrava compromettere» (Ibid., p. 68). 100 Liberalismo, neo-giusnaturalismo, eticità.. Il problema dell’individuo in Carlo Antoni nuova forma e però un reale annullamento dell’io nella forma in cui era prima determinato7. La conclusione è d’obbligo: lo spirito è storia, perché svolgimento dialettico; ma non è storia, perché atto eterno. E da questa antinomia, sempre incombente, Gentile non poteva uscire che in nome dell’assoluto, sempre in nome della dizione aurorale: la «sola vera storia è l’eterna»8. 2. Sul fondamento: Hegel-Gentile-Croce Fin qui Gentile. Ma Croce, nonostante le infinite polemiche e le estenuanti “distinzioni”, non si allontana troppo, sul punto, dal più giovane amico di Castelvetrano: un identico radicamento hegeliano li accomuna. Perciò Antoni scrive: E come già la filosofia di Hegel, anche quella di Croce rischia di apparire una teologia dello Spirito del mondo, dove gli individui sono assorbiti dal tutto9. Dunque, tanto in Croce quanto in Gentile, a ragione della comune radice fichtiana ed hegeliana, l’individuo rischia il naufragio, la scomposizione interna della sua unità. E conseguentemente, il disprezzo di «ogni ideologia umanitaria e di ogni forma di giusnaturalismo democratico». Questa la curvatura politica, il destino di una soggettività mal piantata. Ma tutto ciò inerisce alla ristrutturazione concettuale, prima che storico-sociale, del principio o del cominciamento del soggetto nella co7 Ibid., p. 67. Ibidem. 9 Id., Commento a Croce, Venezia, Neri Pozza, 1955, p. 100 (c.m.). 8 101 Francesco Mattei stituzione della sua identità: il destino politico, ma anche quello sociale, non possono che seguire la natura del cominciamento del soggetto. Si dice “cominciamento”, e il pensiero va alla logica hegeliana, ma è al “fondamento” che si fa riferimento. E se l’uno è l’assolutamente indeterminato – unbestimmtes Sein –, il puro essere vuoto – leeres Sein –, l’altro è ciò che si dà come principium inconcussum veritatis). E qui ha origine il “dispregio” per l’individuo intravisto da Antoni in Croce e da lui denunciato. Ma si tratta di una preoccupazione sempre presente nel filosofo triestino. Perciò l’approdo concettuale al giusnaturalismo eticogiuridico, e al conseguente liberalismo etico-politico, rappresenta soltanto un tentativo di ricollocare il soggetto10, di conferirgli un radicamento stabile, di sottrarlo alla precarietà della sua costituzione in terreni resi franosi dalle “deduzioni” e dalle scissioni ammalianti degli esistenzialismi. Le derive politiche hanno radice nelle costituzioni ontologiche. Minate queste, quelle necessariamente seguono. Detto ciò, non è certo detto a quale “fondazione” rivolgere la propria inclinazione metafisica. Né è detta la via regia per interpretare la “posizione-costituzione” della realtà e della soggettività. Ma è detto, ed appare evidente, che un problema del fondamento è ancora presente. Come pure è detto, e in forma esplicita, che la morfologia dell’io è parte rilevante nella costruzione 10 Non apro qui il tema del rapporto liberalismo etico-politico e liberismo economico. Mi limito a rinviare alla polemica EinaudiCroce, di cui mi sono occupato altrove (cfr. F. Mattei, La dimensione etica tra storicismo e giusnaturalismo. Studio su C. Antoni, Roma, Anicia, 19992, p. 163 e sgg.) e ricordo il lavoro di A. Touraine (Come liberarsi del liberismo, Milano, il Saggiatore, 2000) in cui l’A. critica con radicalità gli eccessi del liberismo economico come ladro e distruttore di soggettività. 102 Liberalismo, neo-giusnaturalismo, eticità.. Il problema dell’individuo in Carlo Antoni storico-politica della realtà. Ad essa è rivolta e da essa è formata. Dissolta quella morfologia, è anche dissolto lo scenario epocale che si è soliti chiamare modernità, profondamente contrassegnata dalla signoria dell’Io e dall’unitarietà delle sue manifestazioni. Stupirà, forse, questa insistenza sulla soggettività. E stupirà ancor più il riferimento a Gentile. Chi ha letto qualche pagina del filosofo triestino, però, sa bene che il nome di Gentile non ricorre quasi mai nei suoi scritti. E per una necessità interna, quasi biografica, del crociano Antoni. Impossibile tuttavia sottrarsi a questa ermeneutica su Gentile. Questi appare ad Antoni ancora profondamente legato alla “teologia hegeliana”. Il suo attualismo guadagna la soggettività per via deduttivo-trascendentale – nel senso indicato da Gentile ne La riforma della dialettica hegeliana –, ma quella autoctisi ha in sé, interno e necessitante, il germe del “reale annullamento”. Da questo sorgere della coscienza non si dà dunque vera libertà. E non si dà, conseguentemente, liberalismo etico-politico. Se questa è la distanza da Gentile, e se ne comprendono le ragioni, un intervallo non dissimile Antoni interpone tra sé e il rispettatissimo Maestro Croce, quando si avvede che l’io crociano può essere fagocitato, e proprio a causa del suo cominciamento, nei tentacoli (politicamente) democratici, ma pur sempre (ontologicamente) inglobanti dello Spirito assoluto. E dunque, salvare l’io vuol dire sostanzialmente salvare il suo “inizio”, far salva una radice che non avveleni sul nascere la conseguente e consequenziale infiorescenza storico-politica. Posta in questi termini, la questione assume una inquietante attualità. Anzitutto, si tolgono separatezze tali, tra teoria e prassi, che anche posizioni classiche 103 Francesco Mattei non hanno disdegnato di praticare, riducendosi con ciò ad analisi descrittive di costruzioni sostanzialmente ideologiche. In secondo luogo, per dirla con Rovatti, si prende atto che la “posta in gioco” è rappresentata dall’immagine e dalla consistenza della soggettività. In terzo luogo, dal punto di vista storiografico, ma anche più squisitamente teoretico, si finisce ancora una volta con il dover fare i conti con l’attualismo gentiliano. Ed a questo è doveroso guardare, pena il rischio di lasciare in ombra uno dei nodi essenziali per comprendere questi intrecci teorici e storico-pratici. Troppe sono infatti le eredità manifeste, e talvolta riconosciute, e troppe le derivazioni carsiche confluite poi in movimenti dalla genealogia non sempre limpida. L’allusione è al marxismo11. Ma è anche alla centralità dell’interpretazione attualistica. Questa sta come ultima declinazione di una signoria. Di quella signoria dell’io che si autopone all’inizio della modernità e che tutta l’attraversa. E quando questa sfuma, quella si dissolve. Così Natoli: L’indugiare di Gentile entro i “termini” della soggettività molto ci istruisce sul lento disfarsi del moderno o quanto meno di quella modernità contrassegnata dalla signoria dell’“Io”12. Il che significa, in sostanza, non andare troppo lontano dall’ultima posizione di Del Noce, quando questi leggeva nell’attualismo gentiliano l’ultimo bagliore dell’immanentismo, un immanentismo «inteso nel senso 11 Per quanto riguarda il rapporto Gramsci-Gentile, rinvio a F. Mattei, Sfibrata paideia, Roma, Anicia, 2009, p. 180 e sgg. Per il “cominciamento teologico” in Gramsci, cfr. A. Broccoli, Il potere tra dialettica e alienazione, Cosenza, Pellegrini, 1983, p. 370. 12 S. Natoli, Giovanni Gentile filosofo europeo, Torino, Bollati Boringhieri, 1989, p. 11. 104 Liberalismo, neo-giusnaturalismo, eticità.. Il problema dell’individuo in Carlo Antoni letterale del Deus manet in nobis» e «come filosofia negante insieme la trascendenza religiosa e il materialismo»13 (e dunque, necessitato a proporsi come riforma religiosa e insieme politica). È in questa linea di radicamento-dissoluzione del soggetto che si aprono i dubbi di Antoni. E il già venerato Maestro Croce non può sfuggire allora alla sua critica. E così scrive: [...] in fondo l’equazione (individuo-egoismo) ricompare nello stesso pensiero crociano, là dove l’individuo è identificato col momento vitale-economico. Era necessario, pertanto, spezzare l’equazione, così da porre a base di un nuovo giusnaturalismo il concetto dell’individuo come fonte di tutti i valori universali e da sostituire al concetto del patto sociale [...] questo universale concetto14. Ecco dunque il legame che unisce il concetto di individuo con il giusnaturalismo. Nell’individuo, Antoni vede la fonte dei diritti, intesi non in senso astratto e intellettualistico, ma come luogo di nascita e di creazione di valori universali. E attorno a tale nodo teorico prendono significato anche i concetti di giusnaturalismo e di storicismo, concetti che Antoni indaga prima per via storiografica, poi con taglio più marcatamente teoretico. E allora, la categoria etica apparirà centrale in quell’universale concreto che è l’individuo, e lo costringerà ad andare oltre Croce. Scriveva Antoni nel 1953, un anno dopo la morte di Croce, in Storia di un fagiolo: 13 A. Del Noce, Giovanni Gentile. Per una interpretazione filosofica della storia contemporanea, Bologna, il Mulino, 1990, p. 10. 14 C. Antoni, La restaurazione del diritto di natura, Venezia, Neri Pozza, 1959, pp. 9-10. 105 Francesco Mattei Dell’infinita vita era una creatura singolare, unica, quale mai prima si era prodotta e quale mai più si riprodurrà. Ed il suo valore perciò era immenso, ché, la vita, cioè il valore, si manifesta soltanto così, singolarmente15. E ancora: Chiuse così anch’essa il suo breve ciclo, la sua apparizione in questo mondo, che non fu vana, ma a suo modo anch’essa importante: ché che cos’è poi il mondo se non un susseguirsi innumerevole di queste apparizioni? Che cos’è la vita, se non questo sforzo di essere, di produrre, di tramandarsi, soffrendo e gioendo e compiendo l’immenso dovere di darsi al mondo?16. La prosa è semplice, i temi rilevanti. Infatti, Antoni si sofferma qui in modo nuovo sulla singolarità e sull’individuazione del valore e dell’universale. Ma è proprio su questo concetto di individuo e sulla sua struttura che si interrompe il consenso di Antoni nei confronti di Croce. Nonostante i dovuti riconoscimenti alla filosofia crociana («una celebrazione dell’individualità»), ne svela poi incongruenze e aporie, rinvenendo in essa posizioni e ascendenze marcatamente hegeliane. Così la filosofia crociana, nella sua interpretazione, finisce con il negare l’individualità e con il ridurla a mera vitalità. Scrive Antoni: Ancora una volta l’esistenza individuale, come già nello schema hegeliano, non sembra degna di appartenere alla vera realtà. E come già la filosofia di Hegel, anche quella di Croce rischia di apparire una teologia dello Spirito del mondo, dove gli individui sono assorbiti dal tutto17. 15 Id., Gratitudine, Milano-Napoli, Ricciardi, 1959, p. 107. Ibid., p. 108. 17 Id., Commento a Croce, cit., p. 100. Chioserà Sasso: «Nella sua concezione della storia l’offendeva l’idea della provvidenza, della logica necessaria delle cose che, schiacciando inesorabile le aspirazioni, i propositi, i “diritti” degli individui, assumeva addirittura il volto fo16 106 Liberalismo, neo-giusnaturalismo, eticità.. Il problema dell’individuo in Carlo Antoni Ma questo provvidenzialismo crociano comportava ai suoi occhi una svalutazione dell’individuo e della sua libera creatività: un offuscamento inaccettabile della centralità della dimensione etica individuale. Non si era infatti lontano, qui, dall’immanentismo hegeliano e da quello gentiliano. Un immanentismo che non faceva salva, per Antoni, la singolarità dell’individuo. Croce si limitava a dare autonomia all’individuo proprio sul piano della vitalità, ma nella struttura unitaria dell’individuo egli scindeva le tre categorie spirituali da quella economico-vitale, la sola a cui riconosceva autonomia reale. Così Antoni: A suo tempo Croce aveva sacrificato l’individuo alla Categoria, ma ora è proprio l’individuo che mette a repentaglio la categoria, ché, riducendo la categoria della vitalità agli “individui che si susseguono nel mondo”, chiusi ciascuno nella particolare cerchia dei propri aspetti, si fa di essa una pluralità di enti incomunicabili, radicalmente diversi18. Ma si tratta di un sacrificio inaccettabile per Antoni. Perciò egli pensa di ristabilire l’unità di individuale e universale non già nel rapporto tra l’astratto individuo e le sue opere (che, in quanto espressione dello spirito, sono legate alla Categoria e alla universalità), ma nella concretezza dell’individuo. Un compito a cui l’universalità dell’opera crociana, l’antico Spirito oggettivo hegeliano, non riesce a far fronte. Perciò essa gli appare “vuota e inerte”. E perciò va ripensata: sco e sanguinario di una dea ispiratrice delle terribili tirannidi contemporanee. E da questo punto di vista Hegel diventava il profeta di quanto di peggio il mondo moderno avesse prodotto nel secolo ventesimo» (L’illusione della dialettica. Profilo di C. Antoni, Roma, Edizioni Ateneo, 1982, pp. 166-67). 18 Ibid., p. 107. 107 Francesco Mattei La struttura dello spirito è un’infrangibile unità organica, di cui le categorie sono articolazioni, che è sempre reale e concepibile solamente come Io individuale. Le categorie fungono dentro questa individualità e non fuori o al di sopra di essa, sicché categorie che appartengono soltanto allo Spirito assoluto e non all’individuo, non si possono concepire19. E ancora: Nel pensiero crociano (…) la coscienza soggettiva è tollerata, in maniera imprecisa, come strumento, oppure è degradata a mera vitalità (...) è resa estranea alla realtà dei valori universali20. Contro tale “volatilizzazione dell’individuo” Antoni prende posizione, modificando notevolmente il pensiero del Maestro, e così scrive: In realtà l’universale non è generico Spirito, non è una serie di categorie, ma è l’Io. L’Io è il concetto medesimo, l’a priori, la categoria universalissima, ma è, altresì, immediatamente coscienza ed affermazione di sé come individuo. È l’universale concreto, determinato, cioè individuato, pur conservando la propria formale universalità. Separare i due termini è un atto d’astrazione che crea l’insolubile problema del rapporto tra immanenza e trascendenza poste come piani separati21. Antoni nega una possibile “deduzione” dell’Io. L’Io è immediato e universale. Non deriva da un ipotetico Io trascendentale, che resterebbe astratto e mai troverebbe realtà e concretezza. Nelle sue ultime pagine, è uno dei temi più ricorrenti. E per un accenno al tema, egli prende spunto da una nota di poche pagine apparsa su «Pensiero», nel ‘57, e dedicata al collega Bariè, da poco scomparso. 19 Ibid., p. 109. Id., Storicismo e antistoricismo, a cura di M. Biscione, Napoli, Morano, 1964, p. 142. 21 Ibid., pp. 142-43. 20 108 Liberalismo, neo-giusnaturalismo, eticità.. Il problema dell’individuo in Carlo Antoni C’è in quella pagina un notevole spostamento di prospettiva. E ritorna centrale, in lui, la funzione della coscienza e la percezione immediata come valenza filosofica positiva, contro le deduzioni e le mediazioni della filosofia hegeliana e crociana. Da qui, credo, quella scelta decisa di neo-giusnaturalismo che avrebbe potuto farlo apparire, nel clima filosofico italiano, e ne era cosciente22, un po’ anacronistico. La polemica contro l’esistenzialismo e una certa declinazione della fenomenologia (di Heidegger, Camus e Sartre) aveva lasciato in lui segni di disagio e di disapprovazione fin troppo evidenti: L’io nella sua singolarità è un immediato, e soprattutto è quanto di più soggettivo si possa immaginare: non può essere “posto” come un oggetto. L’io, l’universalissimo, è anche l’individualissimo, e i due momenti sono entrambi, con pari immediatezza, nella coscienza, che solo in tal modo, in questa unità di universale e individuale, è concreta. La separazione dei due termini è intellettualistica e conduce, come in Fichte, in Hegel, in Gentile, in Croce, alla metafisica di uno Spirito puro, d’un Io trascendentale, d’uno Spirito del mondo, solo soggetto, quindi alla soppressione degli individui, alla sop- 22 Id. La restaurazione…, cit., Premessa. In quel torno di tempo, ancora caratterizzato da un diffuso neoidealismo con uscite verso il marxismo o l’esistenzialismo dalle molte sfumature, si faceva largo, nell’orizzonte della filosofia del diritto, una permanenza del positivismo giuridico o del giusnaturalismo. L’uno era stato visto, in tempi di fascismo, come garanzia di diritti legati alle regole, e dunque come difesa dagli eccessi totalitari o autoritari del fascismo. L’altro, legato ad una idea illuministica dei diritti di natura, tendeva a salvaguardare i diritti individuali e collettivi dalle pieghe storiche che aveva assunto la fisionomia storico-giuridica durante il fascismo, e dunque delegittimare le norme positive codificate durante il periodo autoritario. Per una discussione sul tema, cfr. N. Bobbio, Giusnaturalismo e positivismo giuridico, Milano, Edizioni di Comunità, 1965; N. Bobbio, M. Bovero, Società e Stato da Hobbes a Marx, Torino, Clut, 1973. 109 Francesco Mattei pressione di quel nostro io singolo ed unico che sentiamo di essere: la nostra esistenza23. Non stupiscono, perciò, interpretazioni molto severe su queste filosofie fenomenologico-esistenzialiste che avanzavano prepotentemente sulle ceneri della signoria dell’Io, e che prendevano il posto di un idealismo ormai esangue o di un marxismo che voleva farsene erede: tutte uscite di sicurezza che non convincevano Antoni. E le citazioni, in materia, potrebbero essere copiose. Mi limito perciò ad un solo accenno ad Heidegger, a cui dedicava il suo ultimo corso universitario del ‘58’59 e che così concludeva: Può sorprendere la fortuna che ha incontrato siffatto neo-eleatismo. A mio avviso questa singolare fortuna è dovuta al mito, con cui Heidegger ha dato una significazione metafisica al senso di angoscia, che grava sulle coscienze contemporanee (...). Per questo suo carattere d’interprete di stati d’animo Heidegger appartiene alla storia del nostro tempo, e ciò soltanto giustifica il lungo studio, che abbiamo dedicato alla sua opera24. 23 Id., Storicismo e antistoricismo, cit., p. 227. Ma sulle aporie di questa posizione, e sul dilemma identità-differenza, si potrà utilmente vedere Sasso (op. cit., pp. 178-185). E ancora, ben evidenziando la difficoltà della conciliazione di particolare e universale nell’immediatezza: «Non si avvedeva (Antoni) che se la coincidenza è un’immediata identità, l’“attuarsi”, nell’io individuale, dell’“universale vita” dev’essere inteso come un originario ‘essersi attuato’; ché, in caso contrario, il processo stesso dell’“attuazione” si porrebbe, fra io individuale e io universale, come elemento di non coincidenza, e quindi di semplice identità, o, meglio, identificazione, ad infinitum dei due termini» (ibid., p. 180). 24 Id., L’esistenzialismo, a.a. 1958-59, Roma, La Sapienza, 1959, p. 270. L’esistenzialismo appare ad Antoni una «cattiva difesa della individualità», che vede l’individuo come un «brandello psichico», una creatura «finita, precaria e debole, nata dal nulla, riempita dal nulla, destinata al nulla». E così raccomanda: «Piantino il loro albero gli esistenzialisti e si redimeranno dall’angoscia o, per lo meno, 110 Liberalismo, neo-giusnaturalismo, eticità.. Il problema dell’individuo in Carlo Antoni Ma pari fastidio egli esprime nei confronti di Sartre. Anche in lui il soggetto è ridotto, per dirla con Croce, a pura vitalità, a deiezione, a destinazione per il nulla, a nausea per un universale non raggiungibile25. Ma questa riduzione radicale dell’individuo, questa sopravvalutazione di una categoria sulle altre, espone il soggetto a gravi rischi. Lo fa strumento devitalizzato e impotente nelle mani delle grandi Potenze (la Nazione, lo Stato, la Classe, il Partito26). Ed è questo l’errore del nichilismo, dell’esistenzialismo, del volontarismo, che misconosce l’universalità e la positività fondamentale dell’individuo umano: gli chiede ciò che, in quella prospettiva, non può assolutamente dare27 e perde definitivamente il senso dell’umanesimo crociano28. L’io trascendentale, che è mocesseranno dal diffonderla intorno a sé» (Id., Il tempo e le idee, a cura di M. Biscione, Napoli, E.S.I., 1967, p. 394). 25 «(...) sono allora apparse le grandi Potenze etiche, che non hanno esitato a calpestarlo e a massacrarlo per i loro fini. In realtà sono comparsi i grandi Sacerdoti, interpreti spietati dei sacri decreti di quelle Potenze: della Libertà, della Giustizia, dell’Umanità. Dopo di che viene un graeculus, un Sartre ad esempio, a spiegarci che le vittime dei processi di Mosca meritavano la punizione perché non avevano saputo interpretare l’oggettività della storia: ripetendo la condanna dei vinti, che oltre un secolo fa già formulava Hegel, ma con una teologia della storia, che qui manca» (C. Antoni, La restaurazione…, cit., p. 94). 26 Cfr. Id., Il tempo e le idee, cit., p. 391. 27 «(...) hanno chiesto alla vitalità ciò che questa non può dare: la verità dell’universale pensiero e una ragione morale di vivere. L’individuo è stato visto nella sua pura animalità (…). Il suo nulla era la sua mancanza di universalità. L’errore è, anche qui, l’identificazione dell’individuo con la sola ed esclusiva vitalità» (Id., La restaurazione…, cit., p. 93). 28 «L’umanesimo crociano è questo senso dell’armonia, questa capacità di comprensione e valutazione di tutte le forme della vita» (Id., Commento a Croce, cit., p. 155). Al contrario, dice Antoni, l’esistenzialismo seguiva uno Hegel che aveva scisso essenza ed esistenza, scissione fatta propria anche da Kierkegaard, che nel suo esistenziali- 111 Francesco Mattei mento dell’universalità, è la percezione della coscienza della propria identità con il Tutto, e non soltanto con le altre autocoscienze, un Tutto che non è un radicale altro, «ma che può essere penetrato, inteso, pensato». L’io è perciò singolare e irrepetibile ecceità. E in questa concretezza assume significato l’universalità. Che non può essere, per Antoni, “vuota astrattezza”: La parola io non avrebbe senso senza questa esperienza o intuizione della propria assoluta individualità, che non è fatto psicologico o empirico, ma un dato a priori. L’io trascendentale sarebbe una vuota ed astratta universalità formale, impensabile, se non fosse concretamente riempita da questa ecceità29. È quanto coglie Calogero, che gli fu amico e collega, e che così scrive in Chiose all’estetica: (...) nelle sue trattazioni di questi ultimi anni s’incontra sempre più spesso l’idea che la libera comunicazione tra gli individui sia il primo fondamento di ogni altra libertà e civiltà. Si può quindi supporre che egli venisse sempre meglio scorgendo come quanto egli difendeva richiamandosi all’antico ideale giusnaturalistico aveva la sua ultima radice appunto in quella volontà di comunicare e d’intendere, mercé la quale ciascuno di noi varca i confini di sé medesimo, e comprendendo gli altri ne instaura e difende il diritto30. Tanto basta, credo, per dar conto dell’andatura che andava prendendo ormai il pensiero di Antoni. Che si incamminava oltre Croce e oltre le filosofie che si ansmo non era riuscito a superare l’esistenza individuale hegeliana (Cfr. Id., Il tempo e le idee, cit., p. 392). 29 Id., Storicismo e antistoricismo, cit., p. 228. 30 G. Calogero, Premessa a C. Antoni, Chiose all’estetica, Roma, Opere nuove, 1960, p. 28. A conferma, scriveva Antoni: «L’Io, come individuo isolato, come monade, non esiste, ma esiste come centro attivo di relazioni determinate» (Id., Storicismo e antistoricismo, cit., p. 143). 112 Liberalismo, neo-giusnaturalismo, eticità.. Il problema dell’individuo in Carlo Antoni davano imponendo. Ed è viva, in ciò, non soltanto una preoccupazione teoretica o politica, ma anche una esigenza più squisitamente pedagogica, così espressa alla fine del Commento a Croce: Devo confessare che proprio nell’atto di professare questa dottrina crociana della nostra irresponsabilità, ho avvertito la tremenda responsabilità che mi assumevo verso le coscienze, ingenue, che mi ascoltavano come un maestro31. 3. Istanza giusnaturalistica e prospettiva etica Con queste premesse, la continuità Croce-Antoni appare superata. Altro è l’individuo, altra la coscienza, altro il giusnaturalismo. E non tanto per la dichiarata avversione di Croce al giusnaturalismo e all’illuminismo, quanto piuttosto per i concetti su cui esso si fonda. A questo tema Antoni ha dedicato pagine severe in La restaurazione del diritto di natura, là dove tenta un incontro tra la posizione storicistica e quella giusnaturalistica. Tale esigenza discende dalla necessità di armonizzare il giudizio storico con gli altri concetti sopra evidenziati: individuo, libertà, responsabilità, coscienza, verità, storia. Anziché rivolgersi all’immanenza totale, come fa lo storicismo crociano, Antoni tenta di armonizzare la progressiva scoperta della verità con l’antica istanza giusnaturalistica. L’idealità giusnaturalistica – l’antica ratio o natura – si dialettizza con la scoperta 31 C. Antoni, Commento a Croce, cit., p. 242. Ma maestro lo fu a lungo Antoni, e intervenne anche in merito a temi più squisitamente scolastici. Cfr. La facoltà degli spostati, Le facoltà della seconda laurea, Otto anni, Educazione unitaria, I dottori si moltiplicano: tutti in Il tempo e le idee, cit. 113 Francesco Mattei che l’uomo fa di sé nella sua storia etica. E il progresso filosofico-religioso si traduce in ideali ed imperativi etici. La critica allo storicismo hegeliano lo aveva spinto ad accentuare il valore e la posizione dell’individuo. L’attenzione all’individuo lo spinge a stabilire legami, fuori dall’utilitarismo e dal contrattualismo, con norme sovra-individuali, ma legate alla sua natura universale. Perciò imputa le due grandi catastrofi della nazione tedesca alla sua polemica contro il diritto di natura. E la stessa cultura italiana, da Machiavelli a Croce, necessita di una radicale revisione. Perciò tenta di trovare nello storicismo stesso la risposta all’esigenza intrinseca nell’antico giusnaturalismo. Di questo distingue due forme. Quello utilitaristico, che per salvaguardare la libertà dei cittadini dall’arbitrio dello Stato ha dato origine al “contratto sociale”, (ma che ha generato una nuova forma di totalitarismo e di assolutismo, identificata con il nuovo Leviatano della “volontà generale”). Una seconda forma, invece, quella di Grozio, Althusius e Thomasius, tendeva a salvare comunque la libertà, in un mondo in cui crollavano le vecchie libertà derivate dai privilegi. Pur con le medesime basi razionalistiche (l’uguaglianza della natura umana in tutti gli individui), essi si differenziano nel concetto più specifico di natura umana: nella prima forma essa è intesa come egoista e selvaggia, e trova, nell’alienazione della liberta naturale nella “volontà generale”, una nuova forma di sicurezza e di libertà civile; la seconda, invece, si richiama all’«antica tradizione stoico-cristiana della scintilla divina immanente nell’anima dell’individuo umano» e attribuisce all’individuo diritti inalienabili e una dignità morale a cui non può abdicare. Nell’una si forma la persona giuridica, nell’altra quella etica. L’idea di diritto di natura rappresenta allora, in questa tradizione, l’esigenza di un 114 Liberalismo, neo-giusnaturalismo, eticità.. Il problema dell’individuo in Carlo Antoni universale ideale morale, il dover essere che mai è soddisfatto di fronte al reale. E da questa rivendicazione parte il rifiuto della posizione di Hegel e di Rousseau, anche se riconosce che, in essi, è già presente un tentativo di formazione di personalità morale e non meramente giuridica32. Responsabile della perdita delle esigenze giusnaturalistiche è stato lo storicismo ottocentesco: enfatizzò la concretezza storica degli “istituti” e trascurò la dimensione etica dell’individuo (in favore di quella giuridica). Ma così, esso ha perso l’originalità dell’individuo davanti alla forza politica e lo ha lasciato in suo potere. Così Antoni: la dottrina del diritto di natura, proclama, contro il mero potere, contro la mera forza politica, l’esistenza di un valore o principio, che è appunto l’eticità della natura umana ed essa esige che di questa si tenga conto come di un valore assoluto33. Naturalmente, qui nascono le perplessità. E vi ho accennato sopra, ricordando le pagine di Bobbio sulle ambiguità della posizione storicistica e di quella giusnaturalistica. Antoni segue invece la sua linea di critica allo storicismo tedesco, relativistico, e tenta di salvare, forse troppo generosamente, quello crociano: Lo storicismo crociano, proprio in quanto, a differenza di quello relativistico tedesco, asserisce l’identità dello spirito e dei suoi valori universali nella varietà delle opere, nella diversità degli stili, delle tradizioni, dei costumi, è fondamentalmente giusnaturalistico. Ma lo è in senso storico e dinamico, in quanto ammette la progressiva rivelazione e scoperta della ratio34. 32 Per quanto concerne il pensiero di Antoni su Rousseau, cfr. F. Mattei, Il Rousseau di Carlo Antoni, in «Studi sulla Formazione», XVI (2013), 1, pp. 197-209. 33 Id., Il tempo e le idee, cit., p. 547. 34 Id., Storicismo e antistoricismo, cit., p. 160. 115 Francesco Mattei E per concludere, voglio accennare alle ultime lezioni di Antoni. Nel corso universitario del ’56-’57 egli legge, in modo singolare, le Lezioni sulla filosofia della religione di Hegel, e vi torna ancora sopra in La religione di Hegel, pubblicato lo stesso anno su «Pensiero». Non è un corso estemporaneo, giacché gli ultimi anni del suo insegnamento sono dedicati proprio al commento di quelle Vorlesungen. E tenta, cosa piuttosto insolita per l’interpretazione corrente, una lettura “personalistica”35 di quello stesso Hegel sempre considerato padre del totalitarismo e dell’annullamento dell’individuo. Il tono è molto personale. La polemica con Hegel è attutita. Antoni sembra avvicinare il problema religioso con particolare cura e acribia, fino a rileggere i ripensamenti hegeliani dopo i primi moti rivoluzionari del 1830 parigino. Si ha l’impressione di una coscienza più affinata e perplessa. In Hegel, egli dice, non è possibile separare il momento teologico da quello storicistico. La consacrazione della storia è possibile soltanto in riferimento all’assoluto. E lo storicismo dialettico è chiamato a pensare questa unione. La sua razionalità si spiega e dispiega con la finale identificazione della storia con l’assoluto. E se la filosofia del diritto ha contribuito a “finitizzare” la storia e la politica (e l’individuo che ne partecipa), la filosofia della religione è chiamata a restituirgli la sua universalità, in quanto teoria non più del cittadino o del suddito, ma dell’uomo. E così essa reintegra l’uomo nella sua “personalità piena”. Con un movimento mistico negativo, non ignoto alla tradizione filosofica tedesca, Dio si annulla nell’Io, che 35 Dice Antoni: «Hegel dà qui un inatteso rilievo al concetto della personalità, di cui non c’è traccia nelle sue opere precedenti» (Il sistema di Hegel, p. 182). 116 Liberalismo, neo-giusnaturalismo, eticità.. Il problema dell’individuo in Carlo Antoni si spoglia nella sua finitezza, per diventare pensiero universale e concretezza dell’Assoluto. Perciò dice Antoni: «L’ultima e piena realtà di Dio è l’Io in quanto personalità»36. In esso Hegel raggiunge la vera realizzazione dell’universale concreto. Qui il finito e l’infinito si incontrano e coincidono: ciò che è nel tempo attinge il non temporale, l’assoluto. L’Io umano si identifica con l’Io divino. Ma se si libera dalla sua umana finità, non perde la sua personalità, che è una cosa sola con l’Assoluto. Qui Hegel conclude, si può dire, il travaglio di tutta la sua vita risolvendo finalmente il problema dell’“alienazione” del soggetto di fronte al trascendente Oggetto, risolve il problema della libertà dell’uomo di fronte a Dio (...). La storia ha un senso e carattere sacro, ma il culmine, l’atto perfetto e supremo dell’assoluto nell’uomo, è la apoteosi sfolgorante dell’Io; in quanto personalità religiosa37. Dio ha qui bisogno del mondo e con esso si riconcilia. Ma qui il mondo è la coscienza dell’uomo. Conclusione aporetica? Potenza della dialettica? Forse. Ma nonostante le critiche aperte e radicali alla dialettica hegeliana, è difficile affermare che egli non ne abbia subito il fascino38. Anche se, fino alla fine, vedrà l’esperienza filosofico-religiosa legata alla tensione e all’ulteriorità. E dunque, contraria alla conclusione del movimento dialettico, anche nella ritrovata identità dello Spirito nell’Io religioso. Ciononostante, chiude le sue lezioni (e il suo Hegel) con una venatura non eticistica, non totalitaria, non assorbente. Con un riconoscimento non usuale alle ultime 36 Id., Il sistema di Hegel, Roma, la Sapienza, a.a. 1956-57, pp. 193-194. 37 Id., Storicismo e antistoricismo, cit., p. 178. 38 Id., Considerazioni su Hegel e Marx, Napoli, Ricciardi, 1946, pp. 1-20. 117 Francesco Mattei pieghe hegeliane sull’eticità dello Stato e sulla personalità. La prima, l’eticità dello Stato, deve provenire dalla religione della totale libertà dell’Io. L’individuo, quindi, deve ubbidire allo Stato, ma lo Stato deve avere per suo principio etico-religioso la libertà. Uno Stato che non obbedisca a questo principio, è un cattivo Stato, che ha una cattiva religione, cattive leggi, una cattiva costituzione39. La seconda, la coscienza della personalità, «libera, autonoma, sovrana nella sua assolutezza, deve risultare superiore allo Stato»40. Ma se così fosse, lo Hegel teorizzatore dello Stato etico avrebbe fatto qui (definitivamente) il suo tempo. Non so se per hegeliano pentimento, o per generosa ermeneutica antoniana. 39 40 118 Id., La religione di Hegel, cit., p. 196. Ibidem. Liberalismo, neo-giusnaturalismo, eticità.. Il problema dell’individuo in Carlo Antoni Riferimenti bibliografici Ricordo alcuni studi di Antoni. Per una bibliografia più ampia rinvio a F. Mattei, La dimensione etica tra storicismo e giusnaturalismo. Studio su C. Antoni, Roma, Anicia, 19992. Il problema estetico, Casella, Napoli 1924. Dallo storicismo alla sociologia, Firenze, Sansoni, 1940, 19732. La lotta contro la ragione, Firenze, Sansoni, 1940. Considerazioni su Hegel e Marx, Napoli, Ricciardi, 1946. Lo storicismo da Hegel a Croce, a.a. 1948-49, Roma, 1949. La filosofia di Hegel, a.a. 1954-55, Roma, 1955. La teodicea di Hegel, a.a. 1955-56, Roma, 1956. Il sistema di Hegel, a.a. 1956-57, Roma, 1957. Lo storicismo, Torino-Roma, ERI, 1957. L’esistenzialismo, a.a. 1958-59, Roma, 1959 (ora in L’esistenzialismo di M. Heidegger, Napoli, Guida, 1972). La restaurazione del diritto di natura, Venezia, Neri Pozza, 1959. Gratitudine, Milano-Napoli, Ricciardi, 1959. Chiose all’estetica, Roma, Opere nuove, 1960 (con presentazionericordo di G. Calogero). Storicismo e antistoricismo, Napoli, Morano, 1964 (a cura di M. Biscione, saggi che vanno dal 1931 al 1957). Il tempo e le idee, a cura di M. Biscione, Napoli, E.S.I., 1967 (interventi apparsi su «Il Mondo»). Lezioni su Hegel. 1949-57, a cura di M. Biscione, Napoli, Bibliopolis, 1989. Carteggio Croce-Antoni, a cura di M. Mustè, Bologna, il Mulino, 1996 (con Introduzione di G. Sasso). 119 Socrate né fu dispregiatore degli iddii patrij né introduttore di nuovi. Io mi sono spesse volte maravigliato per quali ragioni gli accusatori di Socrate persuasero agli Ateniesi lui essere alla città debitor della morte. Perché l’accusa contro di lui era quasi in questi termini concepita: Socrate offende la giustizia perché non ha per Dei quelli che la città per iddii riconosce, e nuovi altri numi introduce. Offende ancor la giustizia viziando la gioventù. Primieramente dunque che egli non riconoscesse per Dei quelli che la città come tali riconosceva, di quale argomento si sono serviti mai? Perché chiaramente egli spesso in casa sua, spesso ancora sopra i comuni altari della città sacrificava, e apertamente si valeva della divinazione. [Senofonte, Dei Detti memorabili di Socrate, Libro I, capo 1, trad. di Michel-Angelo Giacomelli pistoiese, Casa editrice M. Guigoni, 1876, con note e variazioni di A. Verri]. Abstracts Editoriale The return of auctoritas Comparisons on learning achievements carried out through international surveys address the need to overcome a narrow national perspective in the interpretation of educational phenomena. To know about educational policies in other countries and to compare achievement levels allows a more informed decision making process. However, since twenty years, a gradual substitution of the cultural and interpretive basis for education has been taking place, increasingly subjected to criteria taken from the outside, and especially from the economy. The market is the new expression of the auctoritas, and those who interpret its requirements earn a specific sacredness. Keywords: Comparative studies, achievement levels, auctoritas, economy, OECD. El retorno de la auctoritas La comparación realizada a través de las investigaciones internacionales sobre los niveles de aprendizaje responde a la necesidad de superar, en la interpretación de los fenómenos educativos, el tamaño de los estrictamente nacionales. Conocer las decisiones tomadas en otros sistemas educativos y comparar los niveles de los resultados del aprendizaje son la base para tomar decisiones más informadas. Desde hace veinte años, sin embargo, se ha generado un proceso de sustitución gradual de los fundamentos culturales y EDUCAZIONE. Giornale di pedagogia critica, II, 2 (2013), pp. 121-126. ISSN 2280-7837 © 2013 Editoriale Anicia, Roma, Italia. Abstracts de la interpretación de la educación, cada vez más sujetos a criterios introducidos desde fuera, y en particular de la economía. El mercado es la nueva expresión de la la auctoritas, y los que interpretan sus necesidades ganan una sacralidad específica. Palabras clave: Estudios comparativos, niveles de aprendizaje, auctoritas, economía, OCDE. Luana Salvarani Black Robes on the Frontier. Patterns and roots of American Catholic schooling The first century of American history after the Independence has forged the structures and tenets of its educational culture, both with a distinctive WASP flavour. Catholicism, striving for a role in the cultural conquest of the Frontier, found some Jesuits were the right people in the right place. The activity of Father John De Smet and his fellows in the Indian Territories focused of rituals, objects, eloquence and music, purposely avoiding the written word (especially English language as linked to Reformation and urban culture), and blending Native and Catholic-baroque gestures in a new educational language. Keywords: American Frontier, Jesuit education, Natives, John De Smet S.J., Catholic schools. Black Robes en la frontera. Las raíces y los modelos de la educación católica americana El primer siglo de la historia de Estados Unidos después de la independencia ha dado forma a las estructuras y los cimientos de la cultura educacional de los EE.UU., el sabor característico WASP (blanco anglosajón protestante). El catolicismo, en busca de un papel en los logros culturales de la frontera, se dio cuenta de que algunos jesuitas eran las personas adecuadas en el lugar adecuado. La obra del Padre John De Smet y sus compañeros en tierras indígenas se centra en los rituales, objetos, elocuencia y la música, evitando deliberadamente la palabra escrita (el idioma Inglés, como un símbolo de la Reforma y de la cultura urbana), y la fusión del legado nativo y el barroco católico en el aprendizaje de un nuevo idioma. 122 Abstracts Palabras clave: Frontera americana, la educación jesuita, nativos, John de Smet S.J., las escuelas católicas. Emilio Lastrucci Education and the division of labour in Émile Durkheim’s Thought This article aims at investigating the relationship between the theory of division of labor, and the theory of education in Durkheim’s thought. An inquiry on Durkheim’s works dealing with these issues leads to emphasize both problematic elements of his thought (in particular, the definition of “talent”) and other ones that deserve reconsideration in the light of the lively disputes among his followers. This problematization of Durkheim’s categories is imperative especially in the light of certain principles that have gained scientific importance among educational theorists during the last decades. Keywords: Émile Durkheim, division of labour, education, mechanical solidarity, organic solidarity. La educación y la división del trabajo en Émile Durkheim Este artículo tiene como objetivo investigar la relación entre la teoría de la división del trabajo, y la teoría de la educación en el pensamiento de Durkheim. Una investigación sobre la obra de Durkheim se ocupan de estas cuestiones lleva a destacar dos elementos problemáticos de su pensamiento (en particular, la definición de “talento”) y otros que merecen una reconsideración a la luz de las animadas controversias entre sus seguidores. Esta problematización de las categorías de Durkheim es imprescindible sobre todo a la luz de ciertos principios que han ganado importancia científica entre los teóricos de la educación en las últimas décadas. Palabras clave: Émile Durkheim, la división del trabajo, la educación, solidaridad orgánica, solidaridad mecánica. 123 Abstracts Maria Francesca D’Amante The First Jesuits’ College Theatre: from Rethoric to Drama Jesuit education in the 16th and 17th century focuses on rhetoric as a cornerstone of Humanistic culture, and as practical ability, useful in diplomatic missions, preaching and court activities. College theatre is one of the most important playgrounds in which rhetorical competences are trained and refined, and, with all its spectacular and emotional implications, becomes a distinctive feature of Jesuit pedagogy all along the history of the Order. Keywords: Jesuit education, rhetoric, college theatre, Ratio Studiorum, Ignatian tradition. Teatro Educativo de los primeros jesuitas: de la retórica a dramatización La formación de los jesuitas, durante los siglos XVI y XVII se centra en la retórica como una piedra angular de la cultura humanística, y sobre todo como una habilidad práctica, útil en las misiones diplomáticas, en la predicación y en diferentes momentos de la vida de la Corte. El teatro en las escuelas fue uno de los más grandes escenarios donde se practicaban y perfeccionaban las habilidades del habla, con todas sus implicaciones espectaculares y emotivas, que se convertirían en una característica distintiva de la pedagogía jesuítica a lo largo de la historia de la Orden. Palabras clave: educación jesuita, la retórica, el teatro universitario, Ratio Studiorum, la tradición ignaciana. Rocco Marcello Postiglione Death, violence and sovereignty. Educational hints from Carl Schmitt Educational legitimation has a close link with the concept of legitimacy. The question is the State legitimation in educating (under the category of “moral education”). Some other concepts (sovereignty, politics, enmity, war, violence) are seen through an analysis of Carl Schmitt thought. The essay suggests a first formalisation of such conceptual field in educational terms by discussing 124 Abstracts some aspect of Schmitt’s political theology (esp. the ideas about man and sin) and confronting it with the “absolutely educational” vision of Gandhi’s Ahimsa. Keywords: Sovereignty, enmity, legitimacy, educational legitimation, war, violence, sin. La muerte, la violencia y la soberanía. Consejos educativos de Carl Schmitt Legitimación para la Educación tiene una estrecha relación con el concepto de firmeza. La pregunta es la legitimación del Estado en la educación (en la categoría de “educación moral”). Otros conceptos (soberanía, la política, la enemistad, la guerra, la violencia) son vistos a través de un análisis sobra la teoría de Carl Schmitt. El ensayo sugiere una primera formalización de dicho campo conceptual en términos educativos, discutiendo algunos aspectos de la teología política de Schmitt (especialmente las ideas sobre el hombre y el pecado) y confrontarlo con la visión “absolutamente educativo” de la no violencia de Gandhi. Palabras clave: la soberanía, la enemistad, la legitimidad, la educación legitimación, la guerra, la violencia, el pecado Francesco Mattei Freedom, Neo-natural law, ethics. Carlo Antoni and the problem of individual The role of C. Antoni on the stage of the Italian 20th century has been the one of a Croce’s pupil, following his liberalism both in philosophy and in politics. In the early fifties, the Trieste philosopher felt the need to take over his mentor’s positions. This is clearly signified in his reconsideration of the concept of individual, a reinterpretation of Natural Law, a redefinition of ethics and of the relationship individual-State-society, a somewhat “personalistic” reading of the late hegelian lessons on religion. This is what we try to depict here. Keywords: Carlo Antoni, individual, Neo-natural law, liberalism, ethics, personality. 125 Abstracts El liberalismo, neo-naturalismo, la ética. El problema del individuo en Carlo Antoni El papel de C. Antoni in Italia en la etapa del siglo 20, como alumno de Croce, pon a raíz de su liberalismo tanto en la filosofía y en la política. A principios de los años cincuenta, el filósofo de Trieste sintió la necesidad de hacerse cargo de las posiciones de su mentor. Esto está claramente señalado en su reconsideración del concepto de individuo, una reinterpretación de la Ley Natural, la redefinición de la ética y de la relación individuo-Estado-sociedad, una lectura un tanto “personalista” de las conferencias hegelianas sobre la religión. Esto es lo que tratamos de describir aquí. Palabras clave: Carlo Antoni, individual, neo-Iusnaturalismo, el liberalismo, la ética, la personalidad. 126 Indice Editoriale 1 Black Robes alla frontiera. Radici e modelli del catholic schooling americano Luana Salvarani 9 Educazione e divisione del lavoro in É. Durkheim Emilio Lastrucci 31 Teatro educativo dei primi gesuiti: dalla retorica alla drammatizzazione Maria Francesca D’Amante 55 Morte, violenza e sovranità. Spunti paidetici da Carl Schmitt Rocco Marcello Postiglione 75 Liberalismo, neo-giusnaturalismo, eticità. Il problema dell’individuo in Carlo Antoni Francesco Mattei 97 Abstracts 121 127 Finito di stampare nel mese di dicembre 2013 per conto di Editoriale Anicia da Finsol S.r.l. - www.finsol.it